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Teatro di Oklahoma
labottegadelbarbieri.org, 15 giugno 2022Anarres (intesa come libreria) si dà una rivista: Batigrafie, Sorvoli e Metamorfosi
Il teatro di Oklahoma è la neonata rivista, dal titolo kafkiano, partorita da una giovane libreria, anch’essa dal nome impegnativo, quanto utopicamente ambiguo, di Anarres. Situata in un quartiere di Milano (soggetto all’ennesima aggressione speculativa) denominato Nolo, Anarres si incunea fra gli interstizi del vorace affarismo meneghino come libreria bistrot, luogo di incontri e saperi scambisti; ora con questa nuova avventura (con l’apporto editoriale di Agenzia X) va in viaggio a proporsi nei vari centri sociali e feste alternative del nostro provato Paese.
L’editoriale comincia con il classico «c’era una volta» che, al contrario di quel che comunemente si crede, non designa una volta sola quanto piuttosto una volta per tutte. Volta in cui c’era un «male armato e frastagliato gruppo di relazioni e individui – in una città qualunque dell’occidente capitalista – che scoprì nella parola comunità una modalità di resistenza al presente e una particolare maniera di stare all’interno delle lotte del proprio tempo». Quella è una volta che si ripete in luoghi e tempi diversi ma proprio nel ripetersi crea quella differenza che la fa unica e ricca di nuove potenzialità. È la storia dell’eterna lotta dell’esistere che senza il conflitto, l’aspra opposizione all’ordine esistente, sarebbe destinata infine a estinguersi, a cessare, appunto, di esistere.
Nella sua corposità di quasi 180 pagine Il teatro di Oklahoma si suddivide in tre sezioni: Batigrafie, Sorvoli e Metamorfosi.
La rivista «segue (o rincorre) fili diversi. Un blog che nasce a gennaio 2020, dalla volontà di un pugno di individui tra loro legati in varie forme e modi da passate esperienze collettive, che si portano dietro la consapevolezza della gran differenza tra incarnare il desiderio di una nuova comunità e l’arroganza di credersene l’immediatezza». La sfida di questa nuova rivista si apre vagliando in profondità il tema più discusso di questi ultimi anni: l’approssimarsi di una più che probabile fine del mondo e le probabilità di poterla ancora scongiurare. Tema ormai frustro dal sapore sempre più scaramantico se non fosse che qui, giustamente, non si cerca di rispondere alla domanda del cosa fare ma a interrogare la domanda stessa. «Interessa qui provare a ripensare la domanda che guida e sottende le riflessioni e le pratiche, più o meno sovversive, più o meno conservatrici, in qualsiasi modo confuse, riguardanti il presente (la catastrofe) (…)Che cosa? non è è una domanda neutra. Che cosa? implica un modello, porta sempre il riferimento di una struttura concettuale».
Sono Batigrafie, tentativi di sondare le profondità marine dove il terreno si ripropone di nuovo come superficie. Andare in profondità quindi per arrivare alla superficie delle cose, alla loro effettiva realtà dove gli eventi si succedono nella loro concretezza di – appunto – eventi reali che incidono nel nostro quotidiano tentativo di esistere. È un viaggiare che al posto del cosa fare? richiede un come? «che ha a che vedere più con esercizi di etica che con manifesti di critica (che in qualche modo richiede identità e punti fermi)». Esercizi quindi, non una nuova etica ma l’umiltà necessaria «per imparare ad abitare nel mondo piuttosto che possedere una casa dove abitare». Su queste basi non programmatiche ma piuttosto nomadi e quindi capaci di trovare, di volta in volta, le vie di fuga necessarie per rifiutare «ogni possibile ontologia di vittoria» la rivista apre ai vari temi delle emergenze con cui dobbiamo fare i conti, nell’auspicio di non cadere nella tentazione di doverle superare vincendole, ma di come? conviverci. Cioè ancora occuparci del presente e non di un consolatorio quanto ipotetico futuro sempre a venire. Troviamo quindi la pandemia, emblema di «una società sempre più malata, ma sempre più potente» in questa efficacissima immagine presa da Guy Debord (Il pianeta malato, 1971) e di conseguenza la ferita del TAV. «Se la valle è ovunque», per poi proseguire con gli arresti e le estradizioni di quel pugno di “reduci incanutiti” da decenni riparati oltralpe. E ancora il carcere col suo «deserto semantico»: quali parole abbiamo ancora per dirne l’orrore… E molto, molto altro ancora; ma insomma cercatela, sfogliatela, compratela o, se proprio non vi sono rimasti che gli occhi per piangere, rubatela. Ne vale la pena anche fosse solo per rileggere un grande Franco Fortini e la sua «Milano, città scomparsa?». Dimentico tantissime altre cose ma non posso non segnalare la grafica raffinatissima e le splendide illustrazioni. Buona lettura!

NOTICINA DELLA “BOTTEGA”
Un bentornato a Giuliano e un grande-grande abbraccio (lui sa perchè). Poi il benvenuto a questo «Teatro di Oklahoma» che consideriamo, prima ancora di averlo materialmente incontrato, un cugino. Se non siete kafkiani (dovreste diventarlo però) vi spieghiamo il riferimento del titolo. Alla fine del romanzo America – opera giovanile di Franz Kafka, rimase incompiuta e fu pubblicato postuma – il protagonista vede su un manifesto che il teatro di Oklahoma è alla ricerca di collaboratori e promette di assumere chiunque si presenti. Come finirà non lo sa Karl-Franz… fiiiiguriamoci noi. Però è bello sapere che ti cercano.
di Giuliano Spagnul
Viceitaly, giugno 2022Teatro di Oklahoma
È una rivista densa, dentro i sono pezzi che vanno dall'analisi politica e sociale fino alla narrativa, molto diversi tra loro per stile e approccio. A tenere il tutto unito e a renderla una pubblicazione preziosa è un'analisi della realtà che non siamo abituati a sentire. Che si tratti di carcere, gentrificazione, crisi ambientale o gestione del Covid, lo si fa da un punto di vista che nei media mainstream non trova mai spazio, scaturendo riflessioni nuove. Non ne esci con risposte o soluzioni, ma con qualche domanda in più. E non è poco.
Guidi Flavia
www.leparoleelecose.it, maggio 2022Chi se ne va
[È uscito per Agenzia X Il primo numero di Teatro di Oklahoma, rivista di letteratura e inattualità attiva come blog dal 2020. Pubblichiamo in anteprima Chi se ne va, terza parte di Maledetto il suo momento, racconto lungo sul tema dell’abitare. I testi, per scelta, sono anonimi].

Un quartiere di periferia coinvolto in un processo di rigenerazione, un agente immobiliare alle prese con una feroce compravendita di case, due giovani e facoltosi coniugi romani alla ricerca di nuovi investimenti, un anonimo trio di occupanti costretto a fare i conti con il nuovo valore degli appartamenti. Tre racconti di recupero, raccolti tra i rimasugli che i bar alla sera consegnano alla strada, che provano a immortalare la misera e apparente ineluttabile violenza con cui cambia Milano. Tre racconti che parlano di case, di chi vende, di compra e di chi abita. Tre istantanee scolorite di un certo momento – quel maledetto – e un finale che lascia alla mischia qualcosa di meno che una via d’uscita ma qualcosa di più che una patetica morale.

Chi se ne va
– Un caffè –. Macina i chicchi, imposta la macchina, prepara il piattino, il cucchiaino, la macchina sbuffa, la tazzina è piena. – Il caffè è pronto, signora –. – Due caffè –. Macina i chicchi, imposta la macchina, prepara i piattini, i cucchiaini, la macchina sbuffa di nuovo, le tazzine sono piene. – Il caffè è pronto, signori –. Un gesto meccanico, è la macchina l’artista, io imposto solo i parametri richiesti, perché le macchine non hanno le orecchie, non la nostra macchina del caffè, per ora. Un gesto meccanico, ti svuota la testa, con le facce già viste parte poi la solita domanda, tutto bene? E che vuoi che ti rispondano, bene ovviamente. E invece no, a volte qualcuno comincia a parlare – parole lasciate in omaggio nella tazzina, spezzate dal caffè che si avvicina alla bocca – parole che la porta consuma sbattendo, interrotte da un altro avventore che chiede un espresso. E così tra i vapori della macchina che continua a sbuffare, tra i rumori da avantreno della lavatazze che gira senza sosta – di quel reperto che mi trovo in dotazione – lì su quel bancone pieno di granelli di zucchero che la disattenzione abbandona, un intreccio di storie spezzate costruisce un castello di carte che aspira a toccare il cielo e che poi ogni sera se nessuno le conserva cascano per un flebile soffio, l’ultimo sbuffo della macchina che completa il suo lavaggio quotidiano. E così a volte nella composizione variopinta di grugni, sorrisi e facce di cemento qualche volto viene a salvarsi nella mia memoria e alcune storie finiscono per rovinarmi la notte.
Tra gli avventori pomeridiani, quelli di poche chiacchiere, che l’ultimo caffè lo bevono per cercare tepore prima di rientrare a casa passano spesso anche Ibrahim e Arafat, due ragazzi sulla quarantina. Libici entrambi, di dove una volta me l’hanno anche detto, Buerat, vicino a Tripoli – che poi sarebbe il distretto di Sirte, che così vicino a Tripoli non è, ma per uno che non conosce la Libia forse come approssimazione va bene. Un piccolo villaggio sul mare, uno di quei posti dove al sollevarsi dei venti la sabbia ed il sale marino si legano, invecchiando i volti secchi e la pelle scoperta dei pescatori che scagliano il pesce prima di tornarsene a casa. Un vento che increspa le mani affusolate di giovani ragazze tese in fitte contrattazioni al mercato per qualche pugno di spezie. I tagli sui piedi dei bambini che corrono verso il mare, e che poi scappano indietro, in cerca delle madri, spaventati dalle urla del vento.
Una delle poche volte in cui abbiamo parlato mi avevano raccontato che stavano aspettando di tornarsene a casa. Basta stare qui in Italia, è troppo dura, non ne vale la pena. Allora avevamo vent’anni. Il ragionamento non faceva una piega. Anni addietro con un motoscafo i due giovani fratelli – così si rappresentavano, quasi a dire, c’è un motivo se siamo sempre insieme, una questione di sangue, sicuramente non di somiglianza, e non ho mai capito se erano fratelli davvero o semplici hujia come in arabo si chiamano anche gli amici – diremo dunque che sono fratelli perché per noi italiani, soprattutto a fronte dei nuovi decreti che ormai ci hanno sconvolto la vita e la percezione della stessa, con i fratelli puoi stare, anche a cena, con gli amici invece non è detto, la differenza è chiara. I decreti parlano chiaro obbligando le relazioni in un’eccesiva chiarezza che non concede ambiguità. Dunque, riprendiamo, anni addietro con un motoscafo i due giovani fratelli erano sbarcati sulla costa ionica dalle parti di Locri. A Buerat a furia di scappare con i piedi scalzi dagli ululati del vento che giungevano dal mare i due erano cresciuti e, nella piatta distesa d’acqua, che aveva sempre rappresentato il netto confine oltre cui solo i sogni potevano avventurarsi, avevano intravisto la strada per nutrire una piccola ambizione. Un’ambizione modesta, un desiderio ordinario, riuscire a garantire alla famiglia qualcosa di meglio. Uno o due piani in più alla casa dei genitori, magari una casetta di argilla e mattoni dove vedere crescere altri bambini. Perché non due casette, una per uno; o addirittura una nuova collezione di reti per la pesca a sostituire le ormai sgualcite attrezzature dei loro vecchi. E poi qualche stoffa, di quelle impreziosite dai ricami che al mercato attiravano sempre l’attenzione di loro madre. Ma diciamo che la casa era la loro prima preoccupazione. In un assembramento di capanne non lontano da lì, il cugino di un loro coetaneo con cui ai tempi frequentavano la scuola della moschea, era tornato dalla Spagna e si era rifatto una bella casa spaziosa per sé e la famiglia, un altro era tornato dalla Francia e anche lui aveva fatto ricostruire la casa. Si faceva così, si lasciava la propria terra con lo stomaco in subbuglio per concedersi un giorno qualcosa di meglio. Una casa.
Erano dunque partiti, senza riserve, con zaini stracolmi di molti magari, un po’ di ambizioni e soprattutto ciò che gli avrebbe garantito la soddisfazione del loro primo viaggio. A Buerat, qualche mese prima della partenza, aveva cominciato ad alzarsi un sacco di polvere, una carovana di pick-up – gli stessi che qualche anno dopo verranno trovati tutti bucherellati dai proiettili di kalashnikov ai bordi delle strade – una carovana proveniente da un altipiano nell’interno meridionale del paese, stava girando tra i villaggi della costa in cerca di ambiziosi volontari. Cercavano giovani che a coppie fossero pronti a partire per l’Italia. Dalla zona costiera di Sirte alle coste meridionali della penisola. Chiedevano un viaggio, un po’ di circospezione, soprattutto coraggio. Garantivano parte del pagamento al momento della consegna, dunque in Italia e garantivano un modo per tornare, un appuntamento per venirsene indietro a lavoro concluso e ritirare il resto della somma. Riempivano gli zaini di pacchi sigillati alla buona con degli scotch da lavoro, davano degli indirizzi e dei numeri di telefono da contattare una volta sbarcati. Mettevano a disposizione piccoli motoscafi e fornivano alcune avvertenze e la possibilità di un secondo ingaggio sia in Italia che in Libia una volta tornati. Ibrahim e Arafat erano dunque partiti così, senza riserve, con zaini stracolmi di molti magari, un po’ di ambizione e decine di chili di fumo che appesantivano il piccolo motoscafo già titubante di fronte all’impresa mediterranea.
Una volta sbarcati sulla Locride – in uno sbarco che a pensarlo oggi sembrerebbe impossibile, ma prima i controlli sulle coste meridionali erano minori, prima ci passava il fumo, l’economia, ora ci passano esseri umani ed i controlli sono spietati – una volta sbarcati e presi i contatti necessari per disfarsi degli zaini e ricevuta una prima parte del compenso, i due fratelli si erano incamminati verso Milano dove di lì a un mese avrebbero atteso l’appuntamento per tornarsene a casa, questa volta via terra.
All’appuntamento però non si era presentato nessuno, o loro avevano sbagliato luogo, o forse giorno, o forse semplicemente non erano venuti a prenderli, i biglietti con le indicazioni erano andati stracciati durante la traversata che era stata tranquilla ma un po’ d’acqua l’avevano imbarcata e aveva bagnato gli zaini e rovinato le carte. Le indicazioni le ricordavano però a memoria, le ripetevano ogni mattina a voce alta, sbriciando dal mezzanino dove avevano trovato riparo. Milano, Stazione di Bisceglie, martedì 14 Luglio, ore 8. Ma a Milano Bisceglie, quella mattina del 14 luglio, nessuno era venuto a cercarli.
Sono vent’anni che i due fratelli vivono in Italia, a Milano. Non vivono più a Bisceglie. Ormai hanno anche imparato la lingua. Adesso vivono in via del Cemento, al civico 18, qualche palazzo prima dell’angolo con via Padova. Dopo qualche anno passato per strada e dunque tra un dormitorio e l’altro, tra brande di tela blu in camerate sovraffollate, a girovagare per la città rasenti al muro e cercando un contatto per tornare a casa, i due fratelli avevano incontrato altri fratelli, compaesani, più grandi. Era finita che gli avevano offerto dei lavoretti e una casa dove stare. I lavoretti erano i soliti, a volte qualche giornata a caricare e scaricare furgoni, altre volte un po’ del solito fumo all’italiana di quello che a guardarlo potrebbe anche andare bene, ma poi quando brucia fa venire la nausea. La casa era in via del Cemento al civico 18, in una periferia densamente abitata, tanti stranieri, ci si confondeva. Confondersi d’altra parte era meglio, ai documenti non avevano mai pensato e nella loro condizione risultava difficile ottenerli; già fermati una volta senza carte la firma di un giudice ne attestava la presenza non autorizzata sul suolo italiano. Poi l’avvocato, il ricorso, lui diceva che lo faceva per loro, che era un loro diritto, che non avevano commesso crimini accertati. Non che avessero capito veramente qualcosa, non capivano se l’avvocato ci credesse davvero, erano però usciti dalla caserma con un foglio in cui un’altra firma autorizzava la permanenza sul suolo italiano fino al termine del processo. Questo processo poi non era mai cominciato e con questa carta ambigua che li vedeva in attesa di giudizio potevano rimanere a Milano ma non potevano chiedere i documenti. L’avvocato non l’avevano più visto. Chissà, poi magari il processo l’avevano fatto davvero. Insomma, meglio continuare a confondersi che presentarsi ingenuamente alla polizia. Così pensavano. Erano giovani, mi avevano detto.
Qualche anno dopo, quel famoso fratello per cui lavoravano e a cui pagavano l’affitto era stato arrestato. Traffico di stupefacenti. Altri amici gli avevano fatto vedere una foto che prendeva un po’ troppo spazio sulla prima pagina di un giornale. Il magazzino, anche se l’avevano visto una sola volta, lo riconoscevano. Su un tavolo di fronte a una coppia di carabinieri pasciuti c’erano hashish, cannabis, anche delle buste piene di talco che Ibrahim e Arafat non avevano mai visto, sarà forse che per liberarsi le mani che si tenevano a vicenda sulle spalle i carabinieri le avessero momentaneamente appoggiate sul tavolo? E poi il titolo diceva anche, arrestato trafficante a capo di organizzazione di racket delle case. Scoprirono così che stavano pagando l’affitto in una casa occupata e che in verità molti nel palazzo occupavano, anche il ragazzo al piano di sopra, Hicham, un altro hujia, lui però tunisino, anche lui abitava lì da anni, anche lui prima pagava l’affitto, l’affitto in una casa occupata. Gli aveva spiegato che succedeva così in Italia, che alla fine uno ci arriva con i sogni e spera di mischiarsi agli italiani ed avere un po’ di benessere, un lavoro e poi invece ti ritrovi da solo, per strada, nessuno ti lascia qualcosa, solo i fratelli, che in verità ne approfittano e suoi tuoi sogni mangiano. Poi magari ti mischi anche agli italiani e ti accorgi che quelli con cui puoi mischiarti non stanno così bene come avevi immaginato e che tutti pur di avere una casa dove vivere sono disposti a fare grandi sacrifici, con coraggio a prendersi il rischio di sfondare una porta, e mentre si riscaldano le ossa anche i muri prendono aria e le muffe si ritirano scoperte dal sole che ora può liberamente penetrare dalle persiane aperte.
Avevano dunque seguito il consiglio di Hicham, rimanere in casa, nonostante tutto, e non pagare più l’affitto, tanto più che quello che glie lo chiedeva ora era dentro. Era una questione importante, dove si sarebbero sbattuti altrimenti, così senza documenti, senza un lavoro regolare. Quella casa che ora, dunque, sembrava non essere di nessuno era casa loro.
Solitamente quando si appoggiano al bancone chiedendo due caffè Ibrahim e Arafat stanno rientrando a casa. Non sono di molte parole, osservo le loro mani callose giocare con la bustina di zucchero, occhi lividi ed inespressivi incantati dalla granella che si scioglie nella miscela calda. Poi rollano una sigaretta, bevono il caffè, allora alzano la testa, è quello il momento in cui a volte scambiamo due parole, alzano la testa per salutare e con la bionda accesa tornano verso casa. L’ennesima giornata passata all’ortomercato a caricare e scaricare casse di frutta. La mattina dovevano essere davanti ai cancelli prima delle 6.00, approfittare del via vai dei camion per intrufolarsi nelle reti recise. Una volta dentro si mettevano a disposizione sia per scaricare la merce in arrivo sia per ricaricarla sui furgoni diretti a far mercato. Un lavoraccio, tutto in nero e pagato pochissimo. Un lavoraccio e per di più incerto. Nell’ultimo periodo erano aumentate le persone che si accalcavano alle reti per raccogliere qualche spicciolo e capitava di non riuscire a lavorare. Per questo i due fratelli anticipavano l’alba per attraversare Milano e quando verso le 16.00 arrivavano davanti alla porta di casa, tiravano gli ultimi avanzi di tabacco, guardavano il cielo e ringraziavano di avere un tetto sotto cui risposarsi. Non era proprio la casa che avevano desiderato, così, occupata, ma ormai avevano capito che se vuoi una casa, ci devi stare, te ne devi prendere cura, e la casa si prende cura di te, e se hai una casa va bene, perché senza casa tutto diventa fastidiosamente più difficile.
Certo, il tetto ce l’avevano, però lo spazio era abbastanza angusto. Soprattutto da quando Hicham occupava il divano. Non che l’occupazione fosse un problema, in quel palazzo, appunto, nessuno era regolare, era solo una questione di spazio. Se in due, le quattro spalle dovevano muoversi con accortezza per non urtarsi, ora in tre ci si muoveva meno fluidamente. Quando il primo veniva in cucina, il secondo si muoveva verso il cesso appena liberato dal terzo in uscita, sembrava di assistere alle prove libere di qualche gara di automobili quando i piloti viaggiano a scatti per scaldare le gomme, poi farle riposare con una brusca frenata ed infine ripartire a cannone. Era quasi un mese che Hicham viveva da loro, prima abitava al terzo piano. Aveva ricevuto alcune visite da parte di persone in giacca e cravatta che volevano vedere la casa presentandosi come i nuovi proprietari, poi una mattina, sul finir di gennaio, un blu lampeggiante aveva invaso la via e nel giro di qualche ora si era trovato per strada. Aveva provato a non aprire la porta alle ingiunzioni di sgombero degli agenti in borghese e a convincere il fabbro tunisino a non aprire la porta in nome di qualche solidarietà religiosa. Ma di fronte ai fogli firmati e controfirmati da polizia, tribunale e proprietà, di fronte al plotone che aspettava di sotto per intervenire, neanche la forza di Allah riuscì a fermare quanto oramai era stati deciso dalla giustizia terrena. A fine gennaio, su un marciapiede gelato, Hicham guardava le sue cose ammonticchiarsi vicino all’uscio del civico 18. Di cose ne aveva tante, non che sapesse esattamente cosa farsene; stese allora il materasso a terra e intuendo che da un brutto sogno ci si può svegliare solo se si sta già dormendo si rannicchiò tra una coperta e l’altra poggiando la schiena al muro umido e scrostato della palazzina, si accese una sigaretta e mentre la consistenza del fumo nell’aria appannava la giornata nascente quattro mani guantate lo sollevarono da terra. – Andiamo in caserma, un semplice controllo, dai alzati, le cose te le portano in deposito –. Aveva più senso opporre resistenza? – Lasciatemi almeno finire la sigaretta, ora arrivo, ce la faccio anche da solo –. Solito viaggio in caserma, solita firma del giudice, ed un nuovo foglio in mano che sanciva la sua espulsione, era poi tornato verso casa, questa volta si era fermato al secondo piano di fronte alla porta a due battenti sul cui campanello c’era un nastro adesivo di carta con una scritta a penna in uno stampatello sgangherato che indicava i suoi inquilini. Ibrahim e Arafat.
Era già un mese, dunque, che Hicham abitava da loro, ci si arrangiava. Dopo lo sgombero della casa al terzo piano era toccato ad altre due, una al primo ed una al quinto. Cominciava a girare voce che una grossa immobiliare stesse comprando l’intera palazzina all’asta per poi rivenderne gli appartamenti. Sembrava stessero venendo da tutta Italia a comprare lì.
Un giorno, di ritorno dal bar, spenta la cicca sotto la suola, mentre infilavano le chiavi nella toppa sentirono voci a loro sconosciute scendere dal terzo piano, un ragazzo in giacca e cravatta con alcune cartellette sottomano ed una coppia tutta in tiro. Prima di rientrare in casa gli lanciarono sguardi gelidi, come l’aria di Milano che li aveva accompagnati durante la giornata di lavoro. E poi una voce, che scendendo ripeteva – Felice Cristina non preoccupatevi, questi prima o poi li buttiamo fuori tutti.
Era già qualche tempo che gli agenti immobiliari dell’agenzia Casecase allenavano le gambe su e giù per la scala del palazzo, in molti avevano risposto agli annunci sovrapposti che oscuravano il piccolo atrio di ingresso. Vendesi monolocale di tendenza, vendesi grazioso bilocale, occasione: bilocale tutto da personalizzare. Le richieste di visionare gli immobili arrivavano addirittura da fuori città. Gli agenti immobiliari lavoravano le case che erano già state riscattate dall’asta in cui molti appartamenti versavano. Praticamente qualcuno le aveva comprate e dopo aver vinto l’ingiunzione di sgombero della casa la poteva ora rivendere ad un ricavo comunque rosicchiato dall’agenzia a cui veniva affidata la commissione di compravendita. Per fortuna della nostra perplessa compagnia la casa in cui vivevano non era ancora stata comprata da nessuno e galleggiava nell’etere dell’“improprio”, la banca aveva in qualche modo ceduto la proprietà della casa in cambio del suo riscatto, nessuno ancora l’aveva comprata e dunque chi vi abitava sembrava nella posizione più legittima a sentirsi proprietario di ciò che custodiva e da cui veniva custodito.
Ora c’era anche Hicham e dopo un mese – tempo necessario affinché le forme del divano si confacessero alle fattezze del suo ospite – anche lui ormai poteva ambire alla legittimità di una certa proprietà sulla casa. Fu così che una tarda mattinata, mentre solo in casa guardava il telegiornale fumando nervosamente, si oppose a quella che gli parve una violenza nei confronti del suo giaciglio.
C’era qualcuno che con insistenza bussava alla porta, era una bussata nervosa, diceva – dai apri, so che sei lì dentro. Ma che modo. Le leve a bloccare la porta accompagnavano il rimbombo sul legno, un ticchettare metallico che rendeva più che fastidioso il trattamento che la povera porta stava ricevendo. Tre uomini. Il più alto vestito casual con una sciarpa che gli copriva in parte il viso occupava lo spazio dello spioncino, dal basso apparivano altre due facce, identiche, entrambi con un lungo cappotto che ne accentuava la bassa statura. I tre – anche se a uno sguardo più attento erano i due gemelli a rivelare maggior ostinazione – volevano parlare con qualcuno. Volevano parlare di case, ripetevano che erano lì per offrire un’occasione. – Ci apri? Dai, vogliamo parlarti.
L’ultima volta che aveva parlato con qualcuno di case, prima di trasferirsi al civico 18 – quando sulla zona non erano accesi i riflettori ma gli agenti immobiliari già cominciavano con un fare aggressivo e baldanzoso a piantonare i proprietari – nessuno gli aveva chiesto di aprirgli a quel modo, almeno questo. Si era trovato le persone direttamente in casa, così mi aveva raccontato scocciato mentre gli servivo il caffè. A quanto pare la proprietaria – con l’intenzione di vendere la casa dove Hicham pagava un affitto piuttosto magro – aveva lasciato le chiavi all’agenzia per visionare l’appartamento. Gli agenti di solito lo avvisavano per tempo, prendevano un appuntamento di modo che la casa fosse vuota al momento della visita, per questo l’agenzia aveva le chiavi. Quella volta invece si erano permessi di entrare senza preavviso e Hicham fu svegliato dall’acuto di una ragazza che quasi spaventata richiamava un uomo sulla quarantina in giacca e camicia verde – dai Marco andiamo via – e poi – scusi, scusi – richiudendosi casa alle spalle, mentre l’agente cercava di convincerla a terminare il giro della casa, che tanto Hicham, ormai, era desto. Che poi, giro, salotto con ingresso, disimpegno da dove si aprivano una camera ed un bagno lungo e stretto. Diciamocelo, a monolocale di tendenza corrispondeva una stanza di 20 metri quadrati senza finestre in un vecchio palazzo di ringhiera, a grazioso bilocale una camera da letto con spazio solo per un materasso, bilocale tutto da personalizzare invece stava per una casa rovinata da ristrutturare. Di belle case in via del Cemento non ce n’erano mai state, erano vecchie case strutturate per le esigenze familiari del dopoguerra. Eppure, vivere in quel quartiere con il brand alla newyorkese era un’esperienza talmente appagante – e luccicante, sulle bacheche dei social – che rendeva desiderabili anche case fatiscenti. Un fenomeno che aveva generato una tale bolla di interesse che in molti provavano a guadagnare da un motore a pieni giri. Dalla gentrificazione.
Ma quella mattina Hicham, di fronte a tale insistere, aveva deciso a non aprirgli. – No mi spiace, ti giuro, questa casa non è mia non posso aprire –. Certo che non è tua, lo sappiamo, voi da qua dovrete uscire in un modo o nell’altro. Noi vogliamo farvi una proposta. 300 euro per uscire domani, ti aspettiamo di sotto.
E lo avevano davvero aspettato. Hicham pensava fosse uno scherzo, 300 euro. Cosa se ne facevano di cento euro a testa. E poi? Ma a questi cosa importava se in quella casa ci vivevano, non era mica loro, e loro non erano mica della polizia. E loro invece lo aspettavano di sotto. Se li ritrovò davanti appena sceso, stava andando al tabacchi quando i due gemelli gli si pararono in fronte. – Allora, ve ne andate domani? – Dai, lasciami, e dove andiamo poi –. Tanto ve ne andrete lo stesso –. Va bhe, dai lasciatemi, ci pensiamo noi –. E invece ci pensiamo noi, se non ve ne andate entro stasera state attenti ad uscire di casa, intervenne il terzo, quello coperto dalla solita sciarpa –. Scocciato e forse impaurito Hicham accelerò il passo e fu allora che una mano su una spalla, poi un’altra addosso e le voci che si alzavano attirarono l’attenzione di due ragazzi, che brandendo le birre ormai vuote cominciarono a inveire nei confronti dei tre dirigendosi verso quel parapiglia.
Alla vista dei due ragazzi dal passo deciso, abbigliati da spille su un nero completo, il terzo tirò per un braccio i due gemelli, – dai andiamo. E con te ci rivediamo –, sibilarono i tre prima di allontanarsi.
Fu così che Hicham, una volta stato al tabacchi, si allungò fino a via della Mora – che con la via del Cemento faceva angolo dal lato opposto a quello della via Padova – per bere un caffè. Dopo il mio solito rituale meccanico che avrebbe portato la crema nella tazzina mi porse un foglio stropicciato che i due ragazzi gli avevano dato prima di stappare un altro giro di birre e continuare per la loro strada. Recitava – basta sfratti – e poi sotto – sei sotto sfratto? Non sei solo. Sportello per la casa tutti i giovedì alle 18.00 in via dei Sifoni. Difendiamoci insieme. Comunismo subito.
Voleva capire di più e mi chiese di spiegargli cosa volesse dire comunismo subito e in generale il senso dell’invito.
Ora, l’invito era chiaramente quello di auto organizzarsi per difendersi dagli sfratti. Eppure mi lasciava senz’altro indeciso il senso delle ultime due parole. Comunismo subito. Io di comunismo ne conoscevo almeno tre. C’era il comunismo storico, quello delle rivoluzioni, quello della Russia, della Cina, del Vietnam ma anche dell’Albania e di Cuba, e già vi sarebbero un sacco di differenze ma almeno lì si può dire che il comunismo in qualche modo è iniziato, poi non si capisce bene quando e dove sia finito. Poi c’è il comunismo dei partiti, tipo quello italiano o francese, paesi dove il comunismo non c’è mai stato, è sempre stato solo un’idea e a forza di non raggiungerla si è smesso di pensarla e ora questi partiti neanche più esistono. E poi c’è il comunismo dei centri sociali, il comunismo subito, un comunismo un po’ in piccola scala, a prova di dance-floor, insieme ma poi? E poi c’è il comunismo magico. Me ne parlò una volta un amico, davanti a una birra. Gli chiesi se bastasse chiudere gli occhi e dopo l’attesa di un paio di grandi respiri il mondo nuovo sarebbe apparso con una genealogia già così profonda da perdere nel mito la possibilità di essere compresa. Mi disse che no, che era più l’idea di un filamento invisibile che dipana laddove un cuore lo accoglie senza coscienza, una rete di filamenti ed intenzioni pronti a rianimare il mondo. Come uno sciopero spezzato in cui si creano legami che non conoscono sconfitta. Come lo sforzo di un umile baco che porta con sé un destino caduco. Eppure ogni volta può essere quella giusta, e allora lo sarà per sempre, il serpente che si morde la coda. Ciò che a lungo andare non potrà che farsi riconoscere, trovare le parole per essere espresso. Ma questa forse era la risposta che cercavo io, ad altre domande, non forse quella che interessava al mio interlocutore che nel frattempo aveva finito il caffè e sgranando sul bancone lo zucchero rimasto nella bustina aspettava una risposta. Gli dissi allora che il senso dell’invito era chiaramente quello di auto organizzarsi per difendersi dagli sfratti e che se lui si sentiva minacciato e aveva bisogno di aiuto poteva andare a parlare con loro. Loro volevano aiutare. Rispose che ci sarebbe andato con Ibrahim e Arafat, la casa d’altronde era anche loro.
Furono così giorni di trambusto, Hicham, Ibrahim e Arafat ormai in trio si muovevano coordinati per le strade del quartiere, erano accompagnati da ragazze e ragazzi, a volte si fermavano a parlare al bar, anche loro parlavano di case. Ma di case da difendere, di case da svegliare, così dicevano. Cominciarono a lasciare i loro slogan su tutta la via, parole di talco su muri pastello. Distribuivano promesse su avanzi di carta, punti esclamativi in formato da taschino che, si sa mai, prima o poi un’utilità ce la puoi trovare; discorsi usa e getta, lo si vedeva dagli occhi, ma un buono pretesto per cercare contatto, per essere da tedio a chi non voleva prendere parte.
Quella mattina caliginosa la via era sbarrata, un isolato di polizia partecipava al mal bianco pronto a svegliare il quartiere. Preferivo non aprire subito il bar, non volevo diventare il centro operativo della borghese in comando. Tornai alla macchina, e chiusi gli occhi. Chi se ne va? Era forse il giorno in cui lo spirito del mondo per mezzo di una manigolda brigata avrebbe rimarcato il nuovo indirizzo della storia? Chi se ne va?
Sicuramente i tre ragazzi arabi saranno mandati via, anche chi li difende, prima o poi. Così pensavo freddamente realista.
E se invece se ne fossero andati i romani, i gemelli, l’agenzia e con loro la polizia?
Fu allora che mi ridestai, infastidito da qualcosa nella tasca posteriore del pantalone. Suonava il telefono, era Michele, il proprietario della casa in cui vivevo – mi avvisa che ha trovato un compratore, che attraverso agenzia Casecase è finalmente riuscito a farsi il gruzzolo che sperava. Che quindi in un mese deve liberare tutto, in pratica io dovrò portare via le mie poche cose e lui vende la casa e ci guadagna un po’. E ci guadagna un po’ anche Marco, l’agente delle case, che continua a girare per il quartiere ripetendo sempre la sua solita cantilena. È arrivato il mio momento, è arrivato il mio momento, è arrivato il mio momento.
Decisi allora di richiudere gli occhi, di cercare quelle filamenta di un mondo diverso. C’era però la tasca anteriore del pantalone che continuava a infastidirmi. Vi ritrovai frammenti di carta, di qualcosa che da giorni conservavo a mia insaputa. Difendiamoci insieme, verrà il nostro momento, recitava il primo brandello che non mi si scompose tra le mani. Il problema alla fine non era solo mio, non era solo di Ibrahim e Arafat e di Hicham, questa volta il momento poteva essere il nostro. Poteva essere il momento, o forse solo un momento, di quelli né bianchi, né neri, ma di quelli che alla fine, la notte, ti concedono il sonno. Certo, finché fosse rimasto il momento dei prepotenti, dell’agenzia Casecase e di tutti coloro che approfittavano delle debolezze altrui per fare dei guadagni, quel nostro momento rimaneva lontano. Scesi allora dalla macchina e mi buttai nella mischia.

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