millepagine.blog.rai.it, 1 febbraio 2013Il signore del futuro
La scomparsa di Antonio Caronia priva la scena intellettuale del nostro paese di una delle sue figure più originali. Egli è stato ricordato ieri da Nando Vitale e Benedetto Vecchi sul “manifesto”. Entrambi ne hanno lodato le doti di teorico della fantascienza – citando le numerosi analisi critiche, dai libri di James Ballard a quelli di William Gibson.
Per molti lettori il suo nome è associato a quello del Cyberpunk; una corrente culturale maturata a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, e che tagliava radicalmente i ponti col passato. Caronia ne fu testimone, attraverso la stesura di numerosi saggi; ma nutrì anche scetticismo, mettendo in guardia quanti vedevano nel suo impatto tecnologico una definitiva svolta sociale.
Tra i libri importanti realizzati dallo studioso nel corso della sua vicenda: merita di essere menzionato Philip K. Dick. La macchina della paronia scritto insieme a Domenico Gallo. Non solo perché rende omaggio ad un grande voce letteraria; ma perché nella chiarezza dell’impianto narrativo, pure applicato ad un argomento complesso come l’universo simbolico dell’autore di Blade Runner, mostra tutto il talento di cui può disporre solo un grande critico.
di Vittorio CastelnuovoPer molti lettori il suo nome è associato a quello del Cyberpunk; una corrente culturale maturata a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, e che tagliava radicalmente i ponti col passato. Caronia ne fu testimone, attraverso la stesura di numerosi saggi; ma nutrì anche scetticismo, mettendo in guardia quanti vedevano nel suo impatto tecnologico una definitiva svolta sociale.
Tra i libri importanti realizzati dallo studioso nel corso della sua vicenda: merita di essere menzionato Philip K. Dick. La macchina della paronia scritto insieme a Domenico Gallo. Non solo perché rende omaggio ad un grande voce letteraria; ma perché nella chiarezza dell’impianto narrativo, pure applicato ad un argomento complesso come l’universo simbolico dell’autore di Blade Runner, mostra tutto il talento di cui può disporre solo un grande critico.
il manifesto, 1 marzo 2012Philip K. Dick. Un filosofo in veste di romanziere
A trent’anni dalla morte dello scrittore americano, è arrivato il momento di riconoscere a Dick il ruolo che gli spetta: quello di un pensatore capace di innervare i suoi congegni narrativi in una ricerca sulle vicende teoriche del mondo e del soggetto.Il 2 marzo 1982, in un ospedale dell’Orange County, California, moriva Philip K. Dick. In quel momento Dick non era ancora diventato un autore «di culto» (tranne, forse, per certi aspetti, in Francia): era dunque conosciuto solo fra i lettori di fantascienza, genere a cui si era dedicato (volente o nolente - all’inizio della sua carriera più nolente che volente) per tutta la sua vita. Ma in questo frattempo la sua fama è cresciuta, anche fuori dagli angusti confini del genere, e Dick è oggi considerato come uno dei più importanti scrittori del secondo Novecento.
Paesaggi concettuali
Con la pubblicazione del sesto e ultimo volume delle Selected Letters, uscito negli Usa nel 2010 (tutto l’epistolario è ancora inedito in Italia), e con l’uscita nel novembre 2011 di una seconda e più corposa antologia (quasi 1000 pagine) dalla Exegesis, il fluviale diario notturno tenuto da Dick negli ultimi otto anni della sua vita a partire dai misteriosi eventi del febbraio-marzo 1974, tutta la sua opera è sostanzialmente pubblicata. Anche in Italia, con la pubblicazione in questi giorni per Fanucci dell’unico romanzo mainstream ancora inedito, Humpty Dumpty in Oakland (Lo stravagante mondo di Mr Fergesson, traduzione di Maurizio Nati, a cura di Carlo Pagetti), l’intera opera narrativa (salvo errore) risulta edita, e in gran parte disponibile.
Anche la bibliografia critica è molto cresciuta. L’ultimo volume di questa bibliografia, da poco uscito negli Usa, è di un autore italiano (speriamo di vederlo presto pubblicato anche nel nostro paese), ed è proprio da questo libro che vogliamo prendere le mosse per ricordare in questo anniversario l’autore californiano. Umberto Rossi è il miglior studioso di Dick nel nostro paese, e sta rapidamente diventando uno dei più autorevoli a livello internazionale. In The Twisted Worlds of Philip K. Dick. A Reading of Twenty Ontologically Uncertain Novels (McFarland and Company; dovreste trovarlo agevolmente su qualunque bookshop online), Rossi propone una lettura di venti romanzi dickiani all’insegna di una categoria che merita di essere sviluppata, forse anche al di là delle intenzioni di chi la propone: quella della «incertezza ontologica».
Dico questo perché mi sembra giunto il momento, a trent’anni dalla morte, di tentare un salto di qualità nella lettura di Dick. E di riconoscere a questo autore frenetico e polimorfo, irrequieto eppure già «classico», la qualifica che gli spetta: quella di un narratore-filosofo, capace di innervare i suoi dispositivi narrativi (sia quando sono smaglianti sia quando zoppicano - e gli capitò non di rado) in un vero paesaggio concettuale, in una ricerca sulle vicende teoriche del reale e dell’immaginario, del mondo e del soggetto, che meritano a pieno titolo il nome di «filosofia». Una filosofia sui generis, questo va da sé, non certo un sistema filosofico originale bello ordinato con le sue categorie e sottocategorie bene intrecciate tra loro, e le deduzioni logicamente corrette e controllate. Questo non è mai stato,né poteva essere, Phil Dick.
Una smisurata curiosità
Ma Dick è stato capace di una ricerca filosofica, di una vera e bruciante interrogazione sull’avventura umana, di una critica corrosiva e radicale delle categorie con le quali l’uomo definisce la realtà del mondo, la sua propria realtà come «soggetto», e la verità dell’uno e dell’altro. E questo senza alcuno studio sistematico della filosofia, di nessuna filosofia (né di quella occidentale né di quelle orientali), ma semmai con una pletora di letture affastellate, spesso disordinate, a volte superficiali. Ma gli bastarono quelle, congiunte all’intensità della sua interrogazione su se stesso, alla sua smisurata curiosità sul mondo, alla sua incredibile (spesso ingenua) apertura all’altro, per produrre uno dei corpus più originali di «narrativa filosofica», un corpus che (a suo modo) non sfigura accanto a quello di Robert Musil né di Albert Camus.
Voglio precisare che di quanto scritto sopra nulla va in alcun modo attribuito a Umberto Rossi, il quale anzi, consapevole del terreno minato che ha aperto, mette le mani avanti sin dalle prime pagine, e precisa, da buon studioso di letteratura comparata, di volersi «limitare agli strumenti dell’analisi letteraria, con un approccio eclettico che attinge a fonti diverse, senza però mai dimenticare che anche una forma di narrazione ibrida come il romanzo, nato dalla fusione tra il dialogo teatrale e la narrazione in prosa nell’Inghilterra del XVIII secolo (...), dopo tutto non mira ad altro che a raccontare una storia - e non è certo questo lo scopo principale della filosofia».
Quest’ultima affermazione è forse discutibile, ma ciò non impedisce al lavoro di Rossi di presentare una grande quantità di spunti filosofici, per quanto l’autore stia sempre bene attento a non infrangere mai il patto che ha stipulato col lettore, e cioè la sua autolimitazione al terreno della letteratura comparata. Tuttavia mi conforta il fatto che, nella stessa pagina sopra citata, Rossi dichiari: «L’autore non vuole suggerire che un’analisi filosofica delle opere di Dick sia impossibile o inaccettabile; a patto che sia portata avanti da filosofi (accademici o no, poco importa), essa rappresenta un lavoro degno di essere tentato, e potrebbe anche produrre risultati teorici non di poco conto». Concordo. E quindi, da filosofo non accademico (più sinceramente, devo precisare, dilettante), mi auguro che questa ricerca venga tentata. Quello che si può fare in questa sede, mi pare, è solo accennare ad alcune delle direzioni che essa può prendere.
La prima precauzione da osservare, a livello di metodo, è ovviamente quella di non prendere per oro colato tutto quanto Dick scrive sulla propria «filosofia». Proprio perché anch’egli era solo un filosofo dilettante, spesso entusiasta - e non poche volte ingenuo - per le scoperte che andava facendo nel corso delle sue riflessioni, ci sono nella sua opera strafalcioni ed equivoci madornali. Un solo esempio, fra i tanti, è la superficiale identificazione di una «essenza» del reale («le nude ossa del mondo», come dice nell’Exegesis) con la sospensione del tempo cronologico (che si sarebbe fermato nel 70 e avrebbe ripreso a scorrere solo nel 1974), e la riproposizione di un dualismo sincronia/diacronia identificati rispettivamente con il Logos e il Parakletos (lo Spirito santo). Spesso non è nelle formulazioni esplicite che va cercata la «filosofia» di Philip Dick, ma nei presupposti impliciti, o in qualche osservazione laterale dei suoi personaggi, come questa pertinente definizione di «realtà» data dal Dio bambino Emmanuel in Divina invasione: «Bisogna sospettare di ogni realtà troppo compiacente. Quando le cose diventano ciò che noi vorremmo, lì c’è frode. È quello che vedo qui. Il tuo mondo ti accontenta, e in questo si svela per ciò che è. Il mio mondo invece è testardo. Non cederà. Ma un mondo recalcitrante e implacabile è un mondo reale». Un lavoro che sarebbe molto utile, quindi (e che io, con Domenico Gallo, ho solo iniziato nel nostro volume La macchina della paranoia, X book 2006), è quello di passare in rassegna tutti i momenti in cui Dick affronta esplicitamente temi filosofici, confrontarli se possibile con i passi analoghi dell’Exegesis (opera ben più densa al riguardo delle opere narrative), e operare una prima classificazione e confronto fra i temi «espliciti» e quelli impliciti.
Il secondo passo sarebbe quello di identificare gli assi portanti (se si possono individuare) della «filosofia» dickiana. E qui, per esempio, leggere - o rileggere - le intenzioni espresse da Dick confrontate con le realizzazioni. Ora, non voglio contraddirmi subito sconfessando quanto ho appena detto. Non voglio, cioè, anticipare alcuna conclusione di una ricerca che (ripeto) è ancora largamente da fare. Ma mi sarà consentito di dichiarare almeno un’impressione, e che cioè, a volte, ciò che Dick dichiara esplicitamente vada preso più sul serio di quanto sinora tutti noi non abbiamo fatto. Mi riferisco alla sua dichiarazione sulle due domande fondamentali che stanno alla base di tutta la sua narrativa, di tutta la sua ricerca: «che cosa è reale?» e «che cosa è umano?» (Come costruire un universo che non cada a pezzi, 1978).
Interrogativi sull’umano
Questa dichiarazione, con l’accostamento dei due temi, è stata citata e ripetuta talmente tante volte da diventare (credo) quasi un luogo comune, un patrimonio condiviso di ogni lettore «forte» di Dick. Essa comporterebbe, a rigore, l’idea che nella narrativa di Dick coesistano due dominanti, una ontologica e una epistemologica, una sul mondo e una sull’uomo (o meglio sul soggetto). E tuttavia (posso sbagliare, certo), mi pare che gran parte della ricerca letteraria, concettuale, interpretativa, sulla narrativa di Dick, si sia concentrata prevalentemente sull’aspetto ontologico. Montagne di pagine sono state scritte sulla concezione dickiana della realtà, sul tempo percettivo e il tempo ortogonale, sugli universi paralleli, sulla concezione della tecnica, sulla visione della storia. Forse questo deriva dall’ipotesi (che forse è un pregiudizio, e forse andrebbe più attentamente verificata) che, mentre la dominante della narrativa modernista era la questione del soggetto, nella narrativa postmodernista (in cui Dick viene di solito arruolato) la preoccupazione dominante sia la realtà, cioè l’ontologia.
Ora, non voglio affermare che la seconda domanda di Dick («che cosa è umano?») non abbia ottenuto un’attenzione ampia: forse la mole di pagine scritte su questo argomento è equivalente (se non addirittura superiore) a quella scritta sulla questione della realtà. Ma mi pare che la domanda sull’uomo sia stata letta spesso (forse prioritariamente) come un interrogativo sui criteri di distinzione fra uomo e androide, sul confine tra naturale e artificiale, e sia stata quasi sempre scollegata dall’altra, quella sulla realtà. O, se devo esprimermi ancora più sinceramente, che l’aspetto filosofico della domanda sull’uomo non abbia ricevuto la stessa attenzione dell’aspetto filosofico dell’altra domanda, quella sulla realtà. L’osservazione vale anche come autocritica, perché mi pare di essere caduto anch’io in un equivoco del genere (se scorro La macchina della paranoia, non mi pare di trovare più di una timida affermazione, fatta una sola volta, che per capire meglio l’ontologia di Dick si debba esplorare più a fondo l’epistemologia dei suoi personaggi).
La verità di Foucault
Se devo essere sincero sino in fondo, rimpiango di non avere inserito nel «Lessico dickiano» della nostra enciclopedia due voci che invece adesso inserirei senza esitazione: «soggetto» e «verità». Anche questa riflessione mi è stata ispirata da una osservazione, folgorante, letta nel libro di Rossi: «Nella narrativa di Dick, la verità non è uno stato di cose, non è qualcosa di stabile e fissato una volta per tutte: la verità è un evento». Quando l’ho letta, sono sobbalzato sulla sedia. Non so se Rossi sia consapevole di avere usato, alla lettera, la definizione della verità che Foucault ha dato più volte nei suoi ultimi corsi al Collège de France, quelli sul governo di sé e sul coraggio della verità.
Non credo ci sia alcuna possibilità che Dick abbia mai letto Foucault, molte delle cui opere erano pure disponibili, in Usa e in versione inglese, negli ultimi anni di vita dei due (Foucault morì due anni dopo Dick, essendo nato due anni prima). Ma adesso, d’un colpo, mi pare che molti dei personaggi dickiani siano immersi in quei processi di soggettivazione, in quei mutevoli rapporti di dominazione e di resistenza (insomma, di potere) che il filosofo francese descrisse e analizzò in tutti i suoi lavori. Adesso mi pare, per chi volesse affrontare il tema in questi termini, che si apra un terreno di ricerca molto promettente sui rapporti fra ontologia ed epistemologia in Dick.
di Antonio CaroniaPaesaggi concettuali
Con la pubblicazione del sesto e ultimo volume delle Selected Letters, uscito negli Usa nel 2010 (tutto l’epistolario è ancora inedito in Italia), e con l’uscita nel novembre 2011 di una seconda e più corposa antologia (quasi 1000 pagine) dalla Exegesis, il fluviale diario notturno tenuto da Dick negli ultimi otto anni della sua vita a partire dai misteriosi eventi del febbraio-marzo 1974, tutta la sua opera è sostanzialmente pubblicata. Anche in Italia, con la pubblicazione in questi giorni per Fanucci dell’unico romanzo mainstream ancora inedito, Humpty Dumpty in Oakland (Lo stravagante mondo di Mr Fergesson, traduzione di Maurizio Nati, a cura di Carlo Pagetti), l’intera opera narrativa (salvo errore) risulta edita, e in gran parte disponibile.
Anche la bibliografia critica è molto cresciuta. L’ultimo volume di questa bibliografia, da poco uscito negli Usa, è di un autore italiano (speriamo di vederlo presto pubblicato anche nel nostro paese), ed è proprio da questo libro che vogliamo prendere le mosse per ricordare in questo anniversario l’autore californiano. Umberto Rossi è il miglior studioso di Dick nel nostro paese, e sta rapidamente diventando uno dei più autorevoli a livello internazionale. In The Twisted Worlds of Philip K. Dick. A Reading of Twenty Ontologically Uncertain Novels (McFarland and Company; dovreste trovarlo agevolmente su qualunque bookshop online), Rossi propone una lettura di venti romanzi dickiani all’insegna di una categoria che merita di essere sviluppata, forse anche al di là delle intenzioni di chi la propone: quella della «incertezza ontologica».
Dico questo perché mi sembra giunto il momento, a trent’anni dalla morte, di tentare un salto di qualità nella lettura di Dick. E di riconoscere a questo autore frenetico e polimorfo, irrequieto eppure già «classico», la qualifica che gli spetta: quella di un narratore-filosofo, capace di innervare i suoi dispositivi narrativi (sia quando sono smaglianti sia quando zoppicano - e gli capitò non di rado) in un vero paesaggio concettuale, in una ricerca sulle vicende teoriche del reale e dell’immaginario, del mondo e del soggetto, che meritano a pieno titolo il nome di «filosofia». Una filosofia sui generis, questo va da sé, non certo un sistema filosofico originale bello ordinato con le sue categorie e sottocategorie bene intrecciate tra loro, e le deduzioni logicamente corrette e controllate. Questo non è mai stato,né poteva essere, Phil Dick.
Una smisurata curiosità
Ma Dick è stato capace di una ricerca filosofica, di una vera e bruciante interrogazione sull’avventura umana, di una critica corrosiva e radicale delle categorie con le quali l’uomo definisce la realtà del mondo, la sua propria realtà come «soggetto», e la verità dell’uno e dell’altro. E questo senza alcuno studio sistematico della filosofia, di nessuna filosofia (né di quella occidentale né di quelle orientali), ma semmai con una pletora di letture affastellate, spesso disordinate, a volte superficiali. Ma gli bastarono quelle, congiunte all’intensità della sua interrogazione su se stesso, alla sua smisurata curiosità sul mondo, alla sua incredibile (spesso ingenua) apertura all’altro, per produrre uno dei corpus più originali di «narrativa filosofica», un corpus che (a suo modo) non sfigura accanto a quello di Robert Musil né di Albert Camus.
Voglio precisare che di quanto scritto sopra nulla va in alcun modo attribuito a Umberto Rossi, il quale anzi, consapevole del terreno minato che ha aperto, mette le mani avanti sin dalle prime pagine, e precisa, da buon studioso di letteratura comparata, di volersi «limitare agli strumenti dell’analisi letteraria, con un approccio eclettico che attinge a fonti diverse, senza però mai dimenticare che anche una forma di narrazione ibrida come il romanzo, nato dalla fusione tra il dialogo teatrale e la narrazione in prosa nell’Inghilterra del XVIII secolo (...), dopo tutto non mira ad altro che a raccontare una storia - e non è certo questo lo scopo principale della filosofia».
Quest’ultima affermazione è forse discutibile, ma ciò non impedisce al lavoro di Rossi di presentare una grande quantità di spunti filosofici, per quanto l’autore stia sempre bene attento a non infrangere mai il patto che ha stipulato col lettore, e cioè la sua autolimitazione al terreno della letteratura comparata. Tuttavia mi conforta il fatto che, nella stessa pagina sopra citata, Rossi dichiari: «L’autore non vuole suggerire che un’analisi filosofica delle opere di Dick sia impossibile o inaccettabile; a patto che sia portata avanti da filosofi (accademici o no, poco importa), essa rappresenta un lavoro degno di essere tentato, e potrebbe anche produrre risultati teorici non di poco conto». Concordo. E quindi, da filosofo non accademico (più sinceramente, devo precisare, dilettante), mi auguro che questa ricerca venga tentata. Quello che si può fare in questa sede, mi pare, è solo accennare ad alcune delle direzioni che essa può prendere.
La prima precauzione da osservare, a livello di metodo, è ovviamente quella di non prendere per oro colato tutto quanto Dick scrive sulla propria «filosofia». Proprio perché anch’egli era solo un filosofo dilettante, spesso entusiasta - e non poche volte ingenuo - per le scoperte che andava facendo nel corso delle sue riflessioni, ci sono nella sua opera strafalcioni ed equivoci madornali. Un solo esempio, fra i tanti, è la superficiale identificazione di una «essenza» del reale («le nude ossa del mondo», come dice nell’Exegesis) con la sospensione del tempo cronologico (che si sarebbe fermato nel 70 e avrebbe ripreso a scorrere solo nel 1974), e la riproposizione di un dualismo sincronia/diacronia identificati rispettivamente con il Logos e il Parakletos (lo Spirito santo). Spesso non è nelle formulazioni esplicite che va cercata la «filosofia» di Philip Dick, ma nei presupposti impliciti, o in qualche osservazione laterale dei suoi personaggi, come questa pertinente definizione di «realtà» data dal Dio bambino Emmanuel in Divina invasione: «Bisogna sospettare di ogni realtà troppo compiacente. Quando le cose diventano ciò che noi vorremmo, lì c’è frode. È quello che vedo qui. Il tuo mondo ti accontenta, e in questo si svela per ciò che è. Il mio mondo invece è testardo. Non cederà. Ma un mondo recalcitrante e implacabile è un mondo reale». Un lavoro che sarebbe molto utile, quindi (e che io, con Domenico Gallo, ho solo iniziato nel nostro volume La macchina della paranoia, X book 2006), è quello di passare in rassegna tutti i momenti in cui Dick affronta esplicitamente temi filosofici, confrontarli se possibile con i passi analoghi dell’Exegesis (opera ben più densa al riguardo delle opere narrative), e operare una prima classificazione e confronto fra i temi «espliciti» e quelli impliciti.
Il secondo passo sarebbe quello di identificare gli assi portanti (se si possono individuare) della «filosofia» dickiana. E qui, per esempio, leggere - o rileggere - le intenzioni espresse da Dick confrontate con le realizzazioni. Ora, non voglio contraddirmi subito sconfessando quanto ho appena detto. Non voglio, cioè, anticipare alcuna conclusione di una ricerca che (ripeto) è ancora largamente da fare. Ma mi sarà consentito di dichiarare almeno un’impressione, e che cioè, a volte, ciò che Dick dichiara esplicitamente vada preso più sul serio di quanto sinora tutti noi non abbiamo fatto. Mi riferisco alla sua dichiarazione sulle due domande fondamentali che stanno alla base di tutta la sua narrativa, di tutta la sua ricerca: «che cosa è reale?» e «che cosa è umano?» (Come costruire un universo che non cada a pezzi, 1978).
Interrogativi sull’umano
Questa dichiarazione, con l’accostamento dei due temi, è stata citata e ripetuta talmente tante volte da diventare (credo) quasi un luogo comune, un patrimonio condiviso di ogni lettore «forte» di Dick. Essa comporterebbe, a rigore, l’idea che nella narrativa di Dick coesistano due dominanti, una ontologica e una epistemologica, una sul mondo e una sull’uomo (o meglio sul soggetto). E tuttavia (posso sbagliare, certo), mi pare che gran parte della ricerca letteraria, concettuale, interpretativa, sulla narrativa di Dick, si sia concentrata prevalentemente sull’aspetto ontologico. Montagne di pagine sono state scritte sulla concezione dickiana della realtà, sul tempo percettivo e il tempo ortogonale, sugli universi paralleli, sulla concezione della tecnica, sulla visione della storia. Forse questo deriva dall’ipotesi (che forse è un pregiudizio, e forse andrebbe più attentamente verificata) che, mentre la dominante della narrativa modernista era la questione del soggetto, nella narrativa postmodernista (in cui Dick viene di solito arruolato) la preoccupazione dominante sia la realtà, cioè l’ontologia.
Ora, non voglio affermare che la seconda domanda di Dick («che cosa è umano?») non abbia ottenuto un’attenzione ampia: forse la mole di pagine scritte su questo argomento è equivalente (se non addirittura superiore) a quella scritta sulla questione della realtà. Ma mi pare che la domanda sull’uomo sia stata letta spesso (forse prioritariamente) come un interrogativo sui criteri di distinzione fra uomo e androide, sul confine tra naturale e artificiale, e sia stata quasi sempre scollegata dall’altra, quella sulla realtà. O, se devo esprimermi ancora più sinceramente, che l’aspetto filosofico della domanda sull’uomo non abbia ricevuto la stessa attenzione dell’aspetto filosofico dell’altra domanda, quella sulla realtà. L’osservazione vale anche come autocritica, perché mi pare di essere caduto anch’io in un equivoco del genere (se scorro La macchina della paranoia, non mi pare di trovare più di una timida affermazione, fatta una sola volta, che per capire meglio l’ontologia di Dick si debba esplorare più a fondo l’epistemologia dei suoi personaggi).
La verità di Foucault
Se devo essere sincero sino in fondo, rimpiango di non avere inserito nel «Lessico dickiano» della nostra enciclopedia due voci che invece adesso inserirei senza esitazione: «soggetto» e «verità». Anche questa riflessione mi è stata ispirata da una osservazione, folgorante, letta nel libro di Rossi: «Nella narrativa di Dick, la verità non è uno stato di cose, non è qualcosa di stabile e fissato una volta per tutte: la verità è un evento». Quando l’ho letta, sono sobbalzato sulla sedia. Non so se Rossi sia consapevole di avere usato, alla lettera, la definizione della verità che Foucault ha dato più volte nei suoi ultimi corsi al Collège de France, quelli sul governo di sé e sul coraggio della verità.
Non credo ci sia alcuna possibilità che Dick abbia mai letto Foucault, molte delle cui opere erano pure disponibili, in Usa e in versione inglese, negli ultimi anni di vita dei due (Foucault morì due anni dopo Dick, essendo nato due anni prima). Ma adesso, d’un colpo, mi pare che molti dei personaggi dickiani siano immersi in quei processi di soggettivazione, in quei mutevoli rapporti di dominazione e di resistenza (insomma, di potere) che il filosofo francese descrisse e analizzò in tutti i suoi lavori. Adesso mi pare, per chi volesse affrontare il tema in questi termini, che si apra un terreno di ricerca molto promettente sui rapporti fra ontologia ed epistemologia in Dick.
l'Unità, sabato 11 novembre 2006Dagli androidi a Dio i segreti di Philip Dick
La macchina della paranoia è una “enciclopedia dickiana”. Si tratta della più completa e approfondita opera informativa e critica uscita in Italia sull’autore americano di fantascienza, morto nel 1982 e diventato rapidamente un autore di culto, anche per la trasposizione cinematografica di alcune sue opere (da Blade Runner al più recente A Scanner Darkly di Richard Linklater). La macchina della paranoia comprende “Philip K. Dick. I giorni e le opere”, un ampio saggio biografico che lega la vita e le opere dell’autore al contesto storico e culturale in cui visse; “Lessico dickiano”, una raccolta di 42 saggi sui temi caratteristici della sua opera; e una ampia schedatura di tutti i romanzi e i principali racconti di Dick a cura di Claudio Asciuti e Umberto Rossi. Pubblichiamo in questa pagina l’introduzione al volume (vedi l’estratto).“Forse, siamo noi umani – teneri e buoni d’aspetto, con i nostri occhi pensierosi – le vere macchine. E quelle costruzioni oggettuali, gli oggetti naturali che ci circondano – in particolare, i macchinari elettronici da noi costruiti, i trasmettitori e le stazioni di ritrasmissione a microonde, i satelliti – potrebbero essere il travestimento di realtà viventi, nella misura in cui possono far parte più pienamente e in modo a noi oscuro della Mente ultima.” (da L’andoide Ambramo Lincoln)“Io credo che noi siamo come i personaggi del mio romanzo Ubik: siamo in una condizione di semivita. Non siamo morti, ma neppure vivi, bensì tenuti in una cella frigorifera, in attesa di essere scongelati.” (da Uomo, androide, macchina)
“Dio è morto” disse Nick. “Hanno trovato il suo cadavere nel 2019. Galleggiava nello spazio, nei pressi di Alfa.”
“Hanno trovato i resti di un organismo migliaia di volte più progredito di noi” disse Charley. “Ed era evidente che poteva creare mondi abitabili e popolarli di organismi viventi derivati da lui stesso. Ma questo non dimostra che fosse Dio.”
“Io credo che lo fosse.” (da I nostri amici di Frolix 8)
“Era un globo sospeso nella stanza, con cinquantamila occhi, un milione di occhi... miliardi: un occhio per ciascuna cosa vivente, mentre attendeva che ciascuna cosa cadesse, per poi lanciarsi su di essa, immobile e frantumata al suolo. Per questo motivo aveva creato le cose, e Chien lo sapeva; capiva.” (da La fede dei nostri padri)
di Antonio Caronia“Dio è morto” disse Nick. “Hanno trovato il suo cadavere nel 2019. Galleggiava nello spazio, nei pressi di Alfa.”
“Hanno trovato i resti di un organismo migliaia di volte più progredito di noi” disse Charley. “Ed era evidente che poteva creare mondi abitabili e popolarli di organismi viventi derivati da lui stesso. Ma questo non dimostra che fosse Dio.”
“Io credo che lo fosse.” (da I nostri amici di Frolix 8)
“Era un globo sospeso nella stanza, con cinquantamila occhi, un milione di occhi... miliardi: un occhio per ciascuna cosa vivente, mentre attendeva che ciascuna cosa cadesse, per poi lanciarsi su di essa, immobile e frantumata al suolo. Per questo motivo aveva creato le cose, e Chien lo sapeva; capiva.” (da La fede dei nostri padri)
Corriere della Sera, 30 dicembre 2006I dubbi metafisici del celebre autore di fantascienza. Non solo robot, Philip Dick era anche teologo
Due importanti eventi editoriali ridisegnano il profilo critico di Philip Dick, proiettandone definitivamente l'opera oltre i confini del genere fantascientifico per associarla alle avanguardie letterarie americane. Il primo è l'uscita - con molto ritardo sulle attese degli appassionati - di Trasmigrazioni. I mondi di Philip Dick, una delle più ampie rassegne di studi critici sullo scrittore che sia mai stata pubblicata. Il volume (introdotto da Carlo Pagetti e curato da Massimo De Angelis e Umberto Rossi) raccoglie, assieme a contributi più recenti, gli interventi di un convegno internazionale tenuto sei anni fa all'Università di Macerata, e si articola in tre sezioni dedicate, rispettivamente, all'analisi dell'universo narrativo di Dick, a studi monografici su singole opere e alle trasposizioni cinematografiche di alcune di esse. Fra i contributi più notevoli quello del critico strutturalista Fredric Jameson, che propone un quadro sinottico dell'opera di Dick a partire da alcuni temi narrativi, e quello di Gabriele Frasca, autore di un excursus sulle radici paoline del pensiero teologico dello scrittore, mentre Darko Suvin analizza l'intreccio fra biografia, storia e politica nell'ultimo Dick. Per quanto stimolante, l'intervento di Suvin ha il difetto di riproporre una lettura “ideologica” che contrappone il primo Dick, critico radicale del potere politico ed economico nell'America della guerra fredda, all'ultimo Dick, tormentato da dubbi metafisici e religiosi, rimproverando lo scrittore di non avere attinto piena consapevolezza della valenza politica delle sue stesse intuizioni, il che lo avrebbe indotto a oscillare eternamente fra il ribellismo individualista dell'uomo comune schiacciato dal potere, e la ricerca di salvezza attraverso un'ingenua religiosità in stile New Age. Approccio ideologico che appare viceversa superato nella notevole “enciclopedia dickiana” firmata da Antonio Caronia e Domenico Gallo. In poco meno di quattrocento pagine i due autori (con contributi di Umberto Rossi, Claudio Asciuti e Gianni Canova) hanno raccolto una biografia, un lessico di circa quaranta lemmi e le schede critiche di tutti i romanzi, nonché dei maggiori racconti. Un lavoro davvero monumentale, caratterizzato da una fitta (e utilissima) rete di “link” che consentono di costruire percorsi critici orizzontali fra le varie voci. Malgrado - ma forse sarebbe meglio dire in virtù di - questa “labirinticità”, che sarebbe piaciuta moltissimo allo scrittore, sia chi ha letto con attenzione e passione tutti i romanzi di Dick, sia chi li ha visitati più o meno occasionalmente, ha l'opportunità di vederne sotto una luce nuova l'intera opera, e di riconoscere la sostanziale unità di un progetto letterario che ha cavalcato gli stilemi e il repertorio tematico del genere fantascientifico per lanciare un messaggio “sovversivo” che affonda le radici in una americanissima ambiguità ideologica, fatta di risentimento nei confronti dei “poteri forti” (politici ed economici), nostalgie individualiste dell'american dream e rivelazioni apocalittiche di una fede “fai da te”. I libri: Trasmigrazioni. I mondi di Philip Dick, a cura di Valerio Massimo De Angelis e Umberto Rossi, Le Monnier; Antonio Caronia, Domenico Gallo, Philip Dick, la macchina della paranoia, Agenzia X.
di Carlo Formentila Repubblica, 26 gennaio 2007Cavoli a merenda
Quando qualche membro del fandom (è il variegato mondo degli appassionati di fantascienza) si trova a doversi difendere dalle pesanti ironie di noi fantascettici e, alle strette, è costretto a citare almeno un vero importante scrittore di fantascienza, uno in grado di giocarsela con gli assi della letteratura moderna, di solito cala il jolly Philip K. Dick, va sul sicuro e porta a casa la mano. Dick, ormai lo abbiamo capito tutti, anche noi più rigidini, non è solo un grande scrittore di fantascienza ma è un grande scrittore e basta. A convincerci è riuscito, grazie a un lavoro ai fianchi (nel mio caso) trentennale, un gruppo di intellettuali e studiosi che hanno marcato con le loro esperienze una delle derive culturalmente più originali e significative dell’estrema sinistra postsettantasettina, quella cresciuta intorno al collettivo e alla rivista Un’ambigua utopia (confidenzialmente, UAU). La colonna genovese del gruppo, già in origine fra le più vivaci e rigorose, ha mantenuto alto, nel corso dei decenni, il livello del dibattito culturale e politico a forza di interventi, traduzioni, curatele, articoli, incentrati sullo studio e l’analisi dei rapporti tra la società contemporanea e il suo immaginario tecnico-scientifico. Oggi i due militanti UAU più irriducibili, tonici, dotti e divertiti come sempre, Antonio Caronia e Domenico Gallo (con l’eterna complicità di Claudio Asciuti e Umberto Rossi) consegnano alla nostra pigrizia un’opera-mondo che non credo abbia uguali per vastità e profondità, Philip K. Dick. La macchina della paranoia. Enciclopedia dickiana (X book). La mappa che tracciano permette di orizzontarsi con sicurezza all’interno di un universo complesso come quello scaturito dalla creatività di uno scrittore da sempre amato da milioni di lettori e, almeno a partire dal successo cinematografico di Blade Runner ispirato al dickiano Ma gli androidi sognano pecore elettriche? , rispettato dalla critica dentro e fuori il mondo della sf. Un saggio denso e scorrevole come la prosa di Dick e avvincente come le sue trame, che dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, come questo autore, imbevuto della (contro)cultura californiana degli anni Cinquanta e Sessanta e insieme in sintonia con il dibattito filosofico classico (Hume, Kant, Bergson, Berkeley...), abbia raggiunto vertici eccelsi di raffinatezza intellettuale e letteraria utilizzando le convenzioni più ovvie della narrativa popolare. E nobilitato con la sua opera l’intero genere della fantascienza.
di Stefano TettamantiLa Stampa, 12 gennaio 2007Philip K. Dick
Qualcuno afferma fosse affetto da scrittura compulsiva. Qualcuno afferma anche fosse in grado di scrivere cinquanta cartelle al giorno. D'altronde, sottolineano, con la quantità di anfetamine che ingeriva, soffriva di gravi problemi del sonno. Qualcuno afferma, ancora oggi, che trattasi di un autore sopravvalutato e che la sua opera rifletta un gusto portato in auge dai chiassosi fasti di Hollywood.
Philip K. Dick è considerato, dopo un difficilissimo sdoganamento, uno dei massimi autori del dopoguerra. E l'epitaffio, nel suo caso tristemente tardivo, non si limita alla narrativa di fantascienza americana. La sua opera è un bisturi sottile che incide il corpo della società statunitense in una impietosa autopsia rivelatrice di una diffusa cancrena pronta a diffondersi nell'evoluta fratellanza occidentale. L'immensa mole di racconti sono il miracolo dei pani e dei pesci per la ghiotta macchina cinematografica, infedeli adattamenti in pellicola come Atto di forza, Minority Report, Impostor, per citare solo i più atroci, ci ricordano che alcuni autori non vorrebbero vedere la piena realizzazione della propria opera.
Philip K. Dick, padre della fantascienza moderna, del cyberpunk, in Italia annovera profondi conoscitori come Sergio Cofferati, ma più di tutti Antonio Caronia che con Domenico Gallo ha da poco firmato il volume Philip K. Dick. La macchina della paranoia. Enciclopedia dickiana edito da Agenzia X. L'enciclopedia dickiana è una mappa generale dei concetti e dei temi che attraversano, e ricorrono, nell'opera dell'autore. Suddiviso in quattro voci, dagli alieni agli universi paralleli, che compongono un ampio quadro di interpretazioni e riflessioni, proponendo nuove e inedite letture critiche. Il volume comprende un'accurata ricostruzione delle vicende biografiche dell'autore, una sinossi completa e ragionata di tutti romanzi, dei racconti e saggi più significativi, un'esaustiva bibliografìa primaria e secondaria.
di Alessandra C.Philip K. Dick è considerato, dopo un difficilissimo sdoganamento, uno dei massimi autori del dopoguerra. E l'epitaffio, nel suo caso tristemente tardivo, non si limita alla narrativa di fantascienza americana. La sua opera è un bisturi sottile che incide il corpo della società statunitense in una impietosa autopsia rivelatrice di una diffusa cancrena pronta a diffondersi nell'evoluta fratellanza occidentale. L'immensa mole di racconti sono il miracolo dei pani e dei pesci per la ghiotta macchina cinematografica, infedeli adattamenti in pellicola come Atto di forza, Minority Report, Impostor, per citare solo i più atroci, ci ricordano che alcuni autori non vorrebbero vedere la piena realizzazione della propria opera.
Philip K. Dick, padre della fantascienza moderna, del cyberpunk, in Italia annovera profondi conoscitori come Sergio Cofferati, ma più di tutti Antonio Caronia che con Domenico Gallo ha da poco firmato il volume Philip K. Dick. La macchina della paranoia. Enciclopedia dickiana edito da Agenzia X. L'enciclopedia dickiana è una mappa generale dei concetti e dei temi che attraversano, e ricorrono, nell'opera dell'autore. Suddiviso in quattro voci, dagli alieni agli universi paralleli, che compongono un ampio quadro di interpretazioni e riflessioni, proponendo nuove e inedite letture critiche. Il volume comprende un'accurata ricostruzione delle vicende biografiche dell'autore, una sinossi completa e ragionata di tutti romanzi, dei racconti e saggi più significativi, un'esaustiva bibliografìa primaria e secondaria.
quadernisf.altervista.org, n. 7, gennaio 2007Enciclopedia dickiana
La stessa esigenza – dare un nome all’insensatezza e al disordine del mondo attraverso la ricerca di un senso e di un ordine – che Caronia e Gallo attribuiscono a Dick sembra muovere i due autori di questo ricco saggio nel tentativo – necessario e riuscito – di dare ordine e senso alla produzione letteraria di Dick, che può apparire – specialmente ai più giovani – troppo intricata e delirante per essere esplorata con successo.
Fosse anche solo per la ricerca dei suoi romanzi, pubblicati in passato da vari editori, con titoli che sono cambiati più volte, in maniera più o meno sistematica, con il solo Fanucci a cercare di recente di impostare una ristampa organica e ragionata delle opere del grande visionario.
Ma, al di là di questa dimensione più “editoriale”, la vera mission che Caronia e Gallo si sono caricati sulle spalle è stata costruire una mappatura – e qui va loro riconosciuto un grande merito – per forza di cose ipertestuale e labirintica di tutte le tematiche dello scrittore e delle declinazioni che quelle a lui più care (secondo noi, almeno la confusione fra realtà e illusione, le sostanze psicotrope, l’identità, i viaggi nel tempo) hanno avuto nella sua opera.
Questo libro ha fra l’altro il merito non secondario di permettere alla science fiction di riappropriarsi di un autore che – come molti altri del genere, e come il genere stesso – è stato di recente “ris-coperto”, con un tentativo, anche goffo, sicuramente tardivo da parte delle accademie, di impadronirsi di una materia che dopo essere stata a lungo disprezzata, rischia di essere non riconosciuta nella sua specificità ma ridotta a icona inoffensiva.
Intendiamoci, non perché un settore della narrativa di genere possa avere di per sé particolari qualità “eversive”, ma perché alcuni autori e alcune opere senz’altro hanno la capacità di mettere in guardia prevedendo le derive più inquietanti che il futuro potrebbe prendere.
La capacità di Dick di prevedere le caratteristiche del futuro che stiamo vivendo appare – se si guarda oltre le soluzioni che trova – sorprendente, se pensiamo alle derive del Sé in questo cambio di millennio, alla mescolanza fra immaginario e reale che il virtuale e le altre tecnologie della comunicazione rendono possibile: lo scrittore americano non poteva forse immaginare gli sviluppi che l’informatica avrebbe avuto, ma sostituendo al virtuale le sostanze psicotrope, gli “artigli temporali” le scorciatoie fra gli universi, che immagina, riconosciamo negli effetti e nei conflitti che queste tecnologie producono la stessa dimensione che ritroviamo nelle incertezze e nei disagi delle identità attuali. Dimostrando sicuramente una capacità visionaria che è il nucleo forte della science fiction migliore. In questo pari soltanto a Ballard – che però ha il vantaggio di scrivere del suo stesso presente.
Il volume è quindi ricchissimo perché è sistematico, quasi maniacalmente (un altro omaggio a Dick?), e si avvale di una sontuosa schiera di collaboratori dei due autori principali, fra cui Sergio Brancato, Linda De Feo, Carlo Formenti, Gino Frezza, Carlo Pagetti, giusto per citarne qualcuno.
Fondamentali le due bibliografie, e la sezione delle schede delle opere di Dick(utilissima per i più giovani), in cui vengono ricordati fra l’altro i vari titoli con cui sono stati pubblicati in successione alcuni suoi romanzi in Italia, come Gli androidi sognano pecore elettriche? , Tempo fuori sesto e Un oscuro scrutare, ad esempio, e di quali altre opere (a volte senza esplicitarlo) sono stati fonte di ispirazione.
di a.f.Fosse anche solo per la ricerca dei suoi romanzi, pubblicati in passato da vari editori, con titoli che sono cambiati più volte, in maniera più o meno sistematica, con il solo Fanucci a cercare di recente di impostare una ristampa organica e ragionata delle opere del grande visionario.
Ma, al di là di questa dimensione più “editoriale”, la vera mission che Caronia e Gallo si sono caricati sulle spalle è stata costruire una mappatura – e qui va loro riconosciuto un grande merito – per forza di cose ipertestuale e labirintica di tutte le tematiche dello scrittore e delle declinazioni che quelle a lui più care (secondo noi, almeno la confusione fra realtà e illusione, le sostanze psicotrope, l’identità, i viaggi nel tempo) hanno avuto nella sua opera.
Questo libro ha fra l’altro il merito non secondario di permettere alla science fiction di riappropriarsi di un autore che – come molti altri del genere, e come il genere stesso – è stato di recente “ris-coperto”, con un tentativo, anche goffo, sicuramente tardivo da parte delle accademie, di impadronirsi di una materia che dopo essere stata a lungo disprezzata, rischia di essere non riconosciuta nella sua specificità ma ridotta a icona inoffensiva.
Intendiamoci, non perché un settore della narrativa di genere possa avere di per sé particolari qualità “eversive”, ma perché alcuni autori e alcune opere senz’altro hanno la capacità di mettere in guardia prevedendo le derive più inquietanti che il futuro potrebbe prendere.
La capacità di Dick di prevedere le caratteristiche del futuro che stiamo vivendo appare – se si guarda oltre le soluzioni che trova – sorprendente, se pensiamo alle derive del Sé in questo cambio di millennio, alla mescolanza fra immaginario e reale che il virtuale e le altre tecnologie della comunicazione rendono possibile: lo scrittore americano non poteva forse immaginare gli sviluppi che l’informatica avrebbe avuto, ma sostituendo al virtuale le sostanze psicotrope, gli “artigli temporali” le scorciatoie fra gli universi, che immagina, riconosciamo negli effetti e nei conflitti che queste tecnologie producono la stessa dimensione che ritroviamo nelle incertezze e nei disagi delle identità attuali. Dimostrando sicuramente una capacità visionaria che è il nucleo forte della science fiction migliore. In questo pari soltanto a Ballard – che però ha il vantaggio di scrivere del suo stesso presente.
Il volume è quindi ricchissimo perché è sistematico, quasi maniacalmente (un altro omaggio a Dick?), e si avvale di una sontuosa schiera di collaboratori dei due autori principali, fra cui Sergio Brancato, Linda De Feo, Carlo Formenti, Gino Frezza, Carlo Pagetti, giusto per citarne qualcuno.
Fondamentali le due bibliografie, e la sezione delle schede delle opere di Dick(utilissima per i più giovani), in cui vengono ricordati fra l’altro i vari titoli con cui sono stati pubblicati in successione alcuni suoi romanzi in Italia, come Gli androidi sognano pecore elettriche? , Tempo fuori sesto e Un oscuro scrutare, ad esempio, e di quali altre opere (a volte senza esplicitarlo) sono stati fonte di ispirazione.
www.dr-stupid.it, 6 dicembre 2006La macchina della paranoia
Philip K. Dick. La macchina della paranoia. Enciclopedia dickiana, edito per i tipi della neonata Xbook, è un opera monstre che mette a fattore comune la passione intellettuale dei due autori, Antonio Caronia e Domenico Gallo, e sfida anche il lettore dickiano smaliziato (quale si considera il sottoscritto da molti anni) a orientarsi in un labirinto basato sulla vita e i romanzi di Dick. Delle tre sezioni - la biografia, il lessico, le schede dei romanzi - il lessico, a cura di Antonio, è il cuore ipertestuale del libro, concepito come un wiki enciclopedico da leggere e da consultare (sarebbe veramente bello averlo prima o poi anche online). Nel lessico le stravaganze filosofiche sixties si saldano al pessimismo ontologico e al dilettantismo teologico dell’ultimo Dick, ma, soprattutto, gli elementi sincronici dell’opera danno dignità a quel nucleo di intenzionalità che ha sorretto e ispirato l’autore californiano come artista per oltre 30 anni.
La discontinuità degli esiti letterari non deve trarre in inganno. Nel caso di Dick, del resto, è pari soltanto alla varietà dei percorsi critici che ha saputo ispirare. Caronia li passa in rassegna a turno e li “pesa”, spesso, ma non sempre, li scarta. Alleggerita dal peso della sua leggenda letteraria, spesso fraintesa e inzuppata di maledettismo antipsichiatrico, astratta dal successo cinematografico post mortem, l’opera di Dick rivela così traccie inattese del Novecento pensiero, Mc Luhan e Claude Lévi-Strauss in testa.
Il valore aggiunto dal libro nasce anche da queste investigazioni, oltre che dalla sua straordinaria densità. Nel complesso, il libro è uno strumento raffinato e molto completo, una mappa per chi si avventura per la prima volta nel mondo di Dick, una nuova dimensione del multiverso dickiano per chi già lo frequenta.
di Fabio Malagnini