Notiziario CDP, gennaio-aprile 2021Le radici del glicine
Il testo è una cronologia degli eventi circoscritta all’area di Milano e zone limitrofe, a partire dall’11 aprile 1975 quando il Comitato di Quartiere Magenta occupa lo stabile in via Correggio 18, ex area industriale Mellin fino al 15 maggio 1984 quando, «Alle 6.30 del mattino i punk e tutti gli occupanti vengono svegliati dalla polizia in assetto antisommossa che entra direttamente negli appartamenti con i mitra spianati: è lo sgombero di via Correggio 18». Il centro della pubblicazione è formato dalle testimonianze di quanti, sopravvissuti agli eventi, hanno rivisitato individualmente e, talora collettivamente, ciò che quella esperienza significò allora, e significa oggi, molti anni dopo. Corpo centrale del libro sono le testimonianze di ventisei persone, di ogni provenienza sociale, italiani e stranieri che convissero e operarono, pur nella differenza delle motivazioni e dei filoni di ricerca personali. Quale il contesto e la posta in gioco? La “vicenda di Correggio” inizia con l’occupazione di un’area di migliaia di metri quadrati di proprietà degli eredi Mantovani che, come altri padroni, avevano spostato lo stabilimento della Mellin fuori Milano. Soggetto trainante dell’occupazione fu il Comitato di Quartiere Magenta, « il prodotto dell’incontro (sovente più immaginario che reale) fra la volontà militante di gruppi studenteschi o post-studenteschi e […] gente del quartiere […] Si può affermare che con l’occupazione di Correggio si conclude un ciclo di lotte sulla casa, e non solo, che vede, per grandi schieramenti contrapposti; da una parte le grosse immobiliari, impegnate a liquidare il modello di Milano, città operaia e dall’altra il movimento delle occupazioni delle case» marciante sulla logica di ripopolamento dei quartieri da parte di strati popolari, ostili alla mobilità territoriale.
l.bCikuta Magazine, 2 novembre 2018, Le radici del glicine di Massimo Pirotta
“Storia di una casa occupata” recita il sottotitolo e di questo si tratta.
La vita dell’occupazione di Via Correggio 18 a Milano, iniziata nel 1975 e conclusasi, tramite uno sgombero, nel 1984.
Confesso che mi sono avvicinato a questo testo per una mia curiosità personale riguardante documentazione sul Virus (spazio antagonista dedicato alla musica punk ospitato all’interno dello stabile di Via Correggio 18) e, come spesso accade, ho scoperto tutt’altro.
Il “Virus” infatti entra soltanto di contorno a questa narrazione che ha il merito principale di guidarti ed immergerti nel quotidiano di un’esperienza di autogestione ed occupazione con pochi pari in Italia.
La particolarità di Via Correggio risiedeva soprattutto negli spazi a disposizione visto che l’occupazione comprendeva l’area della ex fabbrica “Mellin” di proprietà della famiglia Mantovani. Questi spazi ampi e variegati nel mezzo dello schematismo etico-produttivo della Milano rampante, offrirono possibilità espressive non comuni come la nascita, a diretto contatto delle abitazioni, del “Vidicon” prima e del “Virus” dopo, due luoghi divenuti storici per la diffusione della controcultura e della musica antagonista.
Il libro vola via leggero attraverso 26 testimonianze e ricordi degli occupanti più o meno storici dello stabile che mettono sul piatto il loro vissuto in un intreccio continuo di persone, avvenimenti, luoghi ed aneddoti. Una vera e propria guida emozionale attraverso l’immaginario antagonista.
Seguendo questa linea interpretativa è giusto omaggiare l’inserimento nel testo dell’articolo della rivista “Primo Maggio” del 1984 con la sua analisi socio-politica dell’occupazione.
Ampio risalto viene dato alla bibliografia (veramente molto dettagliata) ed ad una agenda cronologica degli avvenimenti storici e culturali della Milano dell’epoca. Immancabile, a chiusura dell’edizione, un curioso inserto fotografico.
Poi c’è il glicine!
Glicine come metafora di resistenza e fiducia nel futuro, con le sue radici che, periodicamente, permettono il ri-fiorire di un’idea meravigliosa.
MigLa vita dell’occupazione di Via Correggio 18 a Milano, iniziata nel 1975 e conclusasi, tramite uno sgombero, nel 1984.
Confesso che mi sono avvicinato a questo testo per una mia curiosità personale riguardante documentazione sul Virus (spazio antagonista dedicato alla musica punk ospitato all’interno dello stabile di Via Correggio 18) e, come spesso accade, ho scoperto tutt’altro.
Il “Virus” infatti entra soltanto di contorno a questa narrazione che ha il merito principale di guidarti ed immergerti nel quotidiano di un’esperienza di autogestione ed occupazione con pochi pari in Italia.
La particolarità di Via Correggio risiedeva soprattutto negli spazi a disposizione visto che l’occupazione comprendeva l’area della ex fabbrica “Mellin” di proprietà della famiglia Mantovani. Questi spazi ampi e variegati nel mezzo dello schematismo etico-produttivo della Milano rampante, offrirono possibilità espressive non comuni come la nascita, a diretto contatto delle abitazioni, del “Vidicon” prima e del “Virus” dopo, due luoghi divenuti storici per la diffusione della controcultura e della musica antagonista.
Il libro vola via leggero attraverso 26 testimonianze e ricordi degli occupanti più o meno storici dello stabile che mettono sul piatto il loro vissuto in un intreccio continuo di persone, avvenimenti, luoghi ed aneddoti. Una vera e propria guida emozionale attraverso l’immaginario antagonista.
Seguendo questa linea interpretativa è giusto omaggiare l’inserimento nel testo dell’articolo della rivista “Primo Maggio” del 1984 con la sua analisi socio-politica dell’occupazione.
Ampio risalto viene dato alla bibliografia (veramente molto dettagliata) ed ad una agenda cronologica degli avvenimenti storici e culturali della Milano dell’epoca. Immancabile, a chiusura dell’edizione, un curioso inserto fotografico.
Poi c’è il glicine!
Glicine come metafora di resistenza e fiducia nel futuro, con le sue radici che, periodicamente, permettono il ri-fiorire di un’idea meravigliosa.
Radio onda d’urto, 11 ottobre 2018 Le radici del glicine. Intervista a Massimo Pirotta
Intervista a Massimo Pirotta curatore del volume Le radici del glicine. Storia di una casa occupata
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www.affaritaliani.it, 18 settembre 2018 Le radici del glicine. Storia di una casa occupata
Via Correggio 18. Milano. Via Correggio, una lunga strada che unisce i quartieri alti vicini alla Fiera, alla periferia acquattata lungo la circonvallazione esterna. Un caseggiato, una ex fabbrica, che dal 1975 al 1984 viene occupato. Adesso un libro Le radici del glicine, a cura di Massimo Pirotta, ripercorre la storia della piccola comunità che lo ha abitato, e insieme a quella storia lascia intravvedere la storia, forse sgangherata, approssimativa, esuberante, fatta di punk, hippies, anarchici, ma anche famiglie operaie, ex partigiani, emarginati, tutti stretti attorno all’ideale di una vita comunitaria, senza regole o pregiudizi, fatta di solidarietà e generosità.
Il tempo, come si dice, la spazzerà via. E insieme spazzerà via le idee e gli incerti scopi di allora, quando gruppi musicali come gli Area (e il loro funambolico impresario, Gennaro Sassi) o teatrali come il Living, si mescolavano alla gente, cercando a tentoni vie alternative alla, non di rado imbalsamata, ufficialità borghese.
Una storia parallela ma lontana da quella, violenta e votata allo scontro, dei gruppi extraparlamentari e terroristici che, perso ogni legame con il popolo, inseguivano le deliranti astrazioni della palingenesi sociale e politica. Il libro, che negli apparati presenta una ricca bibliografia e numerose foto, è una collezione di ritratti (Mimì, Stefano, Marco, Milena, la famiglia Romeo…) che hanno il sapore, e a tratti anche la malinconia, di certe vecchie fotografie religiosamente tenute nel cassetto e strette con l’elastico. Ma non è solo la nostalgia per il tempo passato, per la giovinezza perduta, quanto lo sforzo di ricreare «quell’atmosfera allegra che nasceva dall’incontro di tantissimi giovani provenienti da esperienze completamente diverse e che lì, magari sotto l’ombra di due glicini in fiore, trovavano dei punti di contatto». E il glicine, la grande terrazza dei pasti e delle discussioni infinite, sono al centro della rievocazione, rivendicati come si rivendica una bandiera, una speranza o anche solo la magia di una stagione: «Il tavolo era situato sotto l’incrocio dei due glicini. Chi ha mangiato con noi su quel terrazzo non potrà mai dimenticare la bellezza della primavera con l’intreccio dei colori dei petali bianchi e viola che a volte se c’era un po’ di vento ti cadevano nel piatto».
Tutti i protagonisti di quella esperienza si presentano o vengono presentati in modo spontaneo e diretto: «Mio padre faceva il salumiere in un paesino della Brianza e aveva un’osteria e tabaccheria», «Bruno era un abituale frequentatore di via Correggio 18. Nato a Codigoro nel Polesine, era stato partigiano e una volta finita la guerra anche sindaco del suo paese», «Papà operaio, mamma casalinga, sorella impiegata, io segretaria d’azienda», «Sono nato a Lissone nella terra della balena bianca democristiana, cattolica e brianzola», «Sono nata a Marsala. A 14 anni, ancora minorenne, me ne sono andata di casa», «Sono nato nel 1956, figlio di una strana coppia. Mio padre, originario di Volterra, era un nobile decaduto, spiantato, senza una lira in tasca e rovinato dalla guerra», «Provengo da una famiglia di piccoli proprietari agricoli, da adolescente volevo farmi prete» ecc.
Le radici del glicine, bellissimo titolo, è uno sguardo sulla superficie increspata di una storia frettolosamente archiviata o relegata negli scantinati dove si mettono i rifiuti o le bizzarrie della società. Ma lo sgombero di quella casa il 15 maggio del 1984, se ripristina la legalità e soddisfa la voglia mai sopita dei borghesi di avere tutto a posto, tendine alle finestre comprese, lascia un po’ di amarezza in chi, nel dissolversi di quelle utopie impulsive e ingenue, vede le premesse del nostro mondo, spesso gretto, chiuso negli interessi individuali, ostile a ogni forma di condivisione e mai disposto all’avventura e alla lotta.
Bruno NacciIl tempo, come si dice, la spazzerà via. E insieme spazzerà via le idee e gli incerti scopi di allora, quando gruppi musicali come gli Area (e il loro funambolico impresario, Gennaro Sassi) o teatrali come il Living, si mescolavano alla gente, cercando a tentoni vie alternative alla, non di rado imbalsamata, ufficialità borghese.
Una storia parallela ma lontana da quella, violenta e votata allo scontro, dei gruppi extraparlamentari e terroristici che, perso ogni legame con il popolo, inseguivano le deliranti astrazioni della palingenesi sociale e politica. Il libro, che negli apparati presenta una ricca bibliografia e numerose foto, è una collezione di ritratti (Mimì, Stefano, Marco, Milena, la famiglia Romeo…) che hanno il sapore, e a tratti anche la malinconia, di certe vecchie fotografie religiosamente tenute nel cassetto e strette con l’elastico. Ma non è solo la nostalgia per il tempo passato, per la giovinezza perduta, quanto lo sforzo di ricreare «quell’atmosfera allegra che nasceva dall’incontro di tantissimi giovani provenienti da esperienze completamente diverse e che lì, magari sotto l’ombra di due glicini in fiore, trovavano dei punti di contatto». E il glicine, la grande terrazza dei pasti e delle discussioni infinite, sono al centro della rievocazione, rivendicati come si rivendica una bandiera, una speranza o anche solo la magia di una stagione: «Il tavolo era situato sotto l’incrocio dei due glicini. Chi ha mangiato con noi su quel terrazzo non potrà mai dimenticare la bellezza della primavera con l’intreccio dei colori dei petali bianchi e viola che a volte se c’era un po’ di vento ti cadevano nel piatto».
Tutti i protagonisti di quella esperienza si presentano o vengono presentati in modo spontaneo e diretto: «Mio padre faceva il salumiere in un paesino della Brianza e aveva un’osteria e tabaccheria», «Bruno era un abituale frequentatore di via Correggio 18. Nato a Codigoro nel Polesine, era stato partigiano e una volta finita la guerra anche sindaco del suo paese», «Papà operaio, mamma casalinga, sorella impiegata, io segretaria d’azienda», «Sono nato a Lissone nella terra della balena bianca democristiana, cattolica e brianzola», «Sono nata a Marsala. A 14 anni, ancora minorenne, me ne sono andata di casa», «Sono nato nel 1956, figlio di una strana coppia. Mio padre, originario di Volterra, era un nobile decaduto, spiantato, senza una lira in tasca e rovinato dalla guerra», «Provengo da una famiglia di piccoli proprietari agricoli, da adolescente volevo farmi prete» ecc.
Le radici del glicine, bellissimo titolo, è uno sguardo sulla superficie increspata di una storia frettolosamente archiviata o relegata negli scantinati dove si mettono i rifiuti o le bizzarrie della società. Ma lo sgombero di quella casa il 15 maggio del 1984, se ripristina la legalità e soddisfa la voglia mai sopita dei borghesi di avere tutto a posto, tendine alle finestre comprese, lascia un po’ di amarezza in chi, nel dissolversi di quelle utopie impulsive e ingenue, vede le premesse del nostro mondo, spesso gretto, chiuso negli interessi individuali, ostile a ogni forma di condivisione e mai disposto all’avventura e alla lotta.
Blow Up, luglio-agosto 2018 Le radici del glicine
Un altro tassello della microstoria (che poi tanto micro, a ben vedere non è) del magmatico e variegato movimento italiano che quattro decenni or sono cominciava la sua fase di precipitosa discesa, si aggiunge grazie alla ricostruzione di Massimo Pirotta delle vicende della casa occupata di via Correggio 18, Milano. L'autore sceglie di dedicare gran parte del volume alle testimonianze di chi quell'occupazione la visse pienamente, eccettuati i protagonisti che nel frattempo sono transitati verso le celesti praterie, ben presenti comunque nelle memorie di chi racconta. La storia ha inizio nell'aprile 1975, negli stessi giorni nei quali sgherri di regime senza divisa (come nel caso dell'assassinio di Claudio Varalli) o in divisa (quelli che ammazzarono Giannino Zibecchi) imperversavano in città. Ma quella degli occupanti degli ex stabilimenti Mellin non fu una vicenda di militanza a tutto tondo, bensì un incrocio effervescente e in buona parte disordinato, tra anime diverse: fricchettoni, anarchici, comunisti, femministe, proletari meridionali con problemi abitativi, quasi un concentrato dell'eterogeneità che contraddistinse quell'epoca, ben più ricca delle ottuse e faziose ricostruzioni giornalistiche sempre corredate dall'etichetta del piombo. Onnipresente, anche se non centrale nella narrazione, l'effetto lunare della comparsa dei giovanissimi punk, visti prima con diffidenza e poi con simpatia, forse anche moderato entusiasmo, giunti a condurre un cambio generazionale, di forma e di sostanza. Di lì verrà fuori il Virus, quando fuori non imperversavano più fascisti e polizia, ma paninari e socialisti. Dalla padella alla brace.
di Giuseppe AielloA-Rivista anarchica, marzo 2018 Milano, anni ‘70 e ’80. Mitica l’occupazione di via Correggio 18
Il libro Le radici del glicine di Massimo Pirotta (Agenzia X, Milano 2017, pp. 286, euro 15,00) nasce per la richiesta da parte di molte persone giovani di ridare voce ai primi anni dell’occupazione di via Correggio 18 a Milano, tra il 1975 e i primi anni ’80 (l‘esperienza si concluderà nel 1984), perché non ancora raccontati e rischiavano l’oblio. Un’abitazione e uno stabile “comunardo” in cui si sono susseguite almeno tre generazioni di occupanti. Giovani e meno giovani, militanti della sinistra rivoluzionaria, famiglie proletarie. Poi, la breve ma alquanto significativa parentesi degli spazi del Vidicon, particolarmente dedita ai nuovi fermenti socioculturali dell’epoca ed infine l’approdo, magnificamente raccontato in Costretti a sanguinare di Marco Philopat (sempre Agenzia X), degli anarco-punx. Anni in cui questo luogo diviene una tappa obbligata per il circuito di “punkanimazioni” autogestite. Musicali e non solo.
Nella prefazione, lo storico Nicola Del Corno scrive: “Si dice che via Correggio 18 fu un’utopia, io direi piuttosto che fu un’eutopia: utopia significa infatti ‘non luogo’ eutopia ‘buon luogo’. La casa del glicine fu concretamente un ‘buon luogo’: un luogo di libertà creativa e di esplorazione che è giusto ricordare ancora con un libro come questo”. Mentre nella intro Dall’eskimo al chiodo, scritta a quattro mani da Marco Philopat e da Massimo Pirotta si va alla ricerca di nuovi input onirici e visionari in cui il “provate a immaginare...” diventa la linea guida. “Un concentrato di libertari, famiglie di senza tetto, anarchici, hippie, comunisti, femministe, cattolici del dissenso, operai riottosi, ragazzi di strada ed ex-partigiani.” Che convivono, praticano l’arte degli incontri, si confrontano giornalmente, fanno della tolleranza la loro arma migliore.
E così la casa occupata, con ampi spazi e situata in un ex-area industriale dismessa (in precedenza c’era la Mellin, una ditta che produceva alimenti per l’infanzia), diviene un punto di equilibrio tra nomadismi (l’incessante va e vieni), pratiche stanziali, punti di vista magari inizialmente divergenti ma alla fine convergenti (un ruolo rilevante lo gioca l’assemblea settimanali del giovedì).
Il libro scivola via leggero ed intrigante, grazie soprattutto alle 26 testimonianze degli occupanti della prima ora. La vita quotidiana dentro e fuori la casa, i diversi contesti che si alternano e mutano velocemente. Sono storie singolari, al singolare che diventato collettive, dall’impronta fortemente proletaria, delle microstorie che assemblate insieme si fanno macrostoria. All’interno, c’è anche un articolo recuperato dalla rivista “Primo Maggio” del 1984, intitolato Correggio’s Graffiti scritto da Cosimo Scarinzi e Fabio Treu, che offre una graffiante analisi politico-sociale degli anni dell’occupazione.
Nel libro nulla è censurato e, tramite una scrittura orale, tutto è raccontato senza remore. A seguire, ci sono la cronologia degli avvenimenti più importanti nella Milano e nella provincia di quel periodo (le altre occupazioni, le lotte nei luoghi di lavoro, le autoriduzioni ai concerti, gli appuntamenti culturali, le manifestazioni di protesta per il diritto alla casa, la lotta contro il nucleare, ecc.) che è corredata da una selezione di dischi e film che hanno la metropoli milanese come elemento comune. Quindi, un inserto fotografico in bianco e nero di 38 pagine ed infine una bibliografia atta a soddisfare altre curiosità per chi vuole immergersi in quegli anni e saperne ancora di più.
A 40 anni di distanza, quei vissuti, tornano attuali. Il sapore non è quello nostalgico ma quello animato in egual misura da fisicità e spiritualità. A suo modo, una “favola reale” in cui vengono ricordate persone scomparse ma il cui ricordo è ancora vivo e messo “bene a fuoco”, il transitare e convivere di centinaia di persone in periodi più o meno lunghi della loro vita. Nessuna “nazionalità” e diverse attività a cui hanno partecipato migliala di persone. Pagine che vogliono essere una testimonianza per chi non c’era, non tanto con l’intento di farne una austera pretesa storica ma piuttosto la scommessa di fare emergere l’anima di quella vita in comune. Mettendo al centro le diverse sfumature affinché siano di nuovo stimolo per positivi e magari inediti cambiamenti contro-culturali, socio-politici ed economici.
Vitalità, il vero senso, il nocciolo dell’intera vicenda. Con tutti i colori dei glicini interni alla casa e che sono stati una sorta di “manifesto programmatico” di quella occupazione.
di Marco MussiNella prefazione, lo storico Nicola Del Corno scrive: “Si dice che via Correggio 18 fu un’utopia, io direi piuttosto che fu un’eutopia: utopia significa infatti ‘non luogo’ eutopia ‘buon luogo’. La casa del glicine fu concretamente un ‘buon luogo’: un luogo di libertà creativa e di esplorazione che è giusto ricordare ancora con un libro come questo”. Mentre nella intro Dall’eskimo al chiodo, scritta a quattro mani da Marco Philopat e da Massimo Pirotta si va alla ricerca di nuovi input onirici e visionari in cui il “provate a immaginare...” diventa la linea guida. “Un concentrato di libertari, famiglie di senza tetto, anarchici, hippie, comunisti, femministe, cattolici del dissenso, operai riottosi, ragazzi di strada ed ex-partigiani.” Che convivono, praticano l’arte degli incontri, si confrontano giornalmente, fanno della tolleranza la loro arma migliore.
E così la casa occupata, con ampi spazi e situata in un ex-area industriale dismessa (in precedenza c’era la Mellin, una ditta che produceva alimenti per l’infanzia), diviene un punto di equilibrio tra nomadismi (l’incessante va e vieni), pratiche stanziali, punti di vista magari inizialmente divergenti ma alla fine convergenti (un ruolo rilevante lo gioca l’assemblea settimanali del giovedì).
Il libro scivola via leggero ed intrigante, grazie soprattutto alle 26 testimonianze degli occupanti della prima ora. La vita quotidiana dentro e fuori la casa, i diversi contesti che si alternano e mutano velocemente. Sono storie singolari, al singolare che diventato collettive, dall’impronta fortemente proletaria, delle microstorie che assemblate insieme si fanno macrostoria. All’interno, c’è anche un articolo recuperato dalla rivista “Primo Maggio” del 1984, intitolato Correggio’s Graffiti scritto da Cosimo Scarinzi e Fabio Treu, che offre una graffiante analisi politico-sociale degli anni dell’occupazione.
Nel libro nulla è censurato e, tramite una scrittura orale, tutto è raccontato senza remore. A seguire, ci sono la cronologia degli avvenimenti più importanti nella Milano e nella provincia di quel periodo (le altre occupazioni, le lotte nei luoghi di lavoro, le autoriduzioni ai concerti, gli appuntamenti culturali, le manifestazioni di protesta per il diritto alla casa, la lotta contro il nucleare, ecc.) che è corredata da una selezione di dischi e film che hanno la metropoli milanese come elemento comune. Quindi, un inserto fotografico in bianco e nero di 38 pagine ed infine una bibliografia atta a soddisfare altre curiosità per chi vuole immergersi in quegli anni e saperne ancora di più.
A 40 anni di distanza, quei vissuti, tornano attuali. Il sapore non è quello nostalgico ma quello animato in egual misura da fisicità e spiritualità. A suo modo, una “favola reale” in cui vengono ricordate persone scomparse ma il cui ricordo è ancora vivo e messo “bene a fuoco”, il transitare e convivere di centinaia di persone in periodi più o meno lunghi della loro vita. Nessuna “nazionalità” e diverse attività a cui hanno partecipato migliala di persone. Pagine che vogliono essere una testimonianza per chi non c’era, non tanto con l’intento di farne una austera pretesa storica ma piuttosto la scommessa di fare emergere l’anima di quella vita in comune. Mettendo al centro le diverse sfumature affinché siano di nuovo stimolo per positivi e magari inediti cambiamenti contro-culturali, socio-politici ed economici.
Vitalità, il vero senso, il nocciolo dell’intera vicenda. Con tutti i colori dei glicini interni alla casa e che sono stati una sorta di “manifesto programmatico” di quella occupazione.
www.puntoradio.fm, 23 febbraio 2018 Le radici del glicine. Storia di una casa occupata
Ascolta qui l’intervista a Massimo Pirotta a cura di Luca Doni redattore di Punto Radio FM
di Luca Doniwww.mescalina.it, 4 febbraio 2018 Le radici del glicine. Storia di una casa occupata
C’era una volta… una grandissima e bellissima pianta di glicine che si ergeva fino al terzo piano di una palazzina dove c’era un grande terrazzo a cui il glicine regalava ombra e profumo. La palazzina era posta all’interno di una enorme area a Milano, in Via Correggio 18, dove sorgevano la fabbrica e gli uffici ormai dismessi di una ditta che produceva alimenti per l’infanzia. Dopo anni di solitudine finalmente lo spazio riprese vita il giorno 11 aprile 1975, quando tutto il fabbricato venne occupato su iniziativa del Comitato di quartiere Magenta: Il grande portone venne dipinto di azzurro e veniva lasciato aperto, dagli uffici vennero ricavati appartamenti per chi non aveva una abitazione, vennero a vivere persone dalle più diverse estrazioni sociali, c’era chi lavorava in ospedale, chi era scappato dall’oppressione famigliare, e poi disoccupati, studenti e operai, cattolici di sinistra e marxisti, anarchici e clochard, con una presenza femminile molto forte e costante, nei capannoni dismessi si tenevano varie attività, si facevano musica, feste, spettacoli teatrali, venne creato il Vidicon (ci passarono tra gli altri, il Living Theatre, Nico, Basquiat), si studiava, venne aperta anche una falegnameria, c’era la capacità e voglia di approfondire le conoscenze e le cose.
In quel periodo Milano era teatro di grandi manifestazioni, spesso caricate dalla polizia, pochi giorni dopo l’occupazione (il 16 Aprile) ci fu l’assassinio di Claudio Varalli, seguito dall’uccisione di Giannino Zibecchi e Via Correggio 18 era il grande punto di riferimento per le battaglie che si tenevano in quegli anni. Insomma si era formato un luogo dove si creava e si condivideva, si vivevano nuove esperienze in un clima di grande collaborazione e tolleranza, un luogo in cui principi rivoluzionari venivano messi in pratica, ma un luogo dove vigevano sempre il confronto, la voglia di discutere e approfondire ma anche un luogo dove nascevano amori, utopie e bambini. Tutte le attività e l’occupazione era regolata da una assemblea settimanale dove si discuteva di tutto e si decideva tutto collettivamente e c’era una cassa comune dove ognuno metteva quello che poteva e c’era sempre un piatto di pasta per tutti sul tavolo sotto il grande glicine.
Nei primi anni 80 cominciarono ad affacciarsi sotto il glicine degli strani personaggi con i capelli tutti colorati e dalle forme più strane. Erano i primi punk, all’inizio guardati con sospetto ma poi accettati dalla maggior parte degli occupanti di Via Correggio. Il gruppo dei punk e della loro parte più politicizzata a sinistra, i punx, fecero così di Via Correggio il loro luogo d’incontro e nei capannoni della fabbrica fondarono lo storico VIRUS, locale dove tenevano i loro concerti.
Tutte le storie però hanno una fine e la fine arriva alle 6.30 del 15 Maggio 1984 quando la polizia in assetto antisommossa entra con i mitra spianati negli appartamenti e effettua lo sgombero ponendo fine al sogno e alle utopie di Via Correggio 18.
Questa storia viene raccontata nel libro Le radici del glicine dove Massimo Pirotta, giornalista e cofondatore del Bloom di Mezzago, ha ascoltato le testimonianze di 26 persone, in parte occupanti dello stabile e in parte frequentatori dell’area della ex Mellin, le ha messe in ordine e ci ha offerto una narrazione a più voci e diversi punti di vista su quanto accadeva all’ombra dei due glicini, lasciando galleggiare l’emotività e la personalità dei testimoni. Così grazie alle testimonianze di Mimì, Stefano, Rita Marco, Milena, Jez, Angelino, Joe Cocker (chiamato così per una somiglianza estremamente vaga con il cantante inglese) si fa un tuffo in un periodo denso di lotte e di conquiste che hanno cambiato il volto dell’Italia (il divorzio, l’aborto, il voto ai diciottenni), periodo in cui si era ancora capaci di sognare e in cui si poteva anche cambiare spesso lavoro. Grazie ai racconti vengono ricordati anche personaggi che hanno lasciato una grossa impronta in Via Correggio ma che non sono più tra noi, per esempio il partigiano Bruno Casini, stalinista convinto ma sempre aperto al dialogo e alla lotta (nonostante l’età) e Adele Pisciotta della Federazione anarchica, e anche quelli che non sono sopravvissuto all’ondata di eroina arrivata all’improvviso a devastare persone e famiglie. Completano il libro una preziosa cronologia degli avvenimenti accaduti a Milano in quegli anni, dal primo all’ultimo giorno dell’occupazione, comprese le uscite discografiche e cinematografiche, una ricca bibliografia e tantissime foto che documentano quel periodo così effervescente e così intenso.
Sono passati solo 33 anni dallo sgombero ma sembra siano passati anni luce dalle ambizioni di allora. Si lottava per una nuova umanità mentre oggi al tempo dei Social e delle App prevalgono la superficialità, l’aggressività ed il rancore.
Chissà cosa penserà il glicine (in realtà erano due ma erano talmente intrecciati da formare un unico tronco)?
di Elena BertoniIn quel periodo Milano era teatro di grandi manifestazioni, spesso caricate dalla polizia, pochi giorni dopo l’occupazione (il 16 Aprile) ci fu l’assassinio di Claudio Varalli, seguito dall’uccisione di Giannino Zibecchi e Via Correggio 18 era il grande punto di riferimento per le battaglie che si tenevano in quegli anni. Insomma si era formato un luogo dove si creava e si condivideva, si vivevano nuove esperienze in un clima di grande collaborazione e tolleranza, un luogo in cui principi rivoluzionari venivano messi in pratica, ma un luogo dove vigevano sempre il confronto, la voglia di discutere e approfondire ma anche un luogo dove nascevano amori, utopie e bambini. Tutte le attività e l’occupazione era regolata da una assemblea settimanale dove si discuteva di tutto e si decideva tutto collettivamente e c’era una cassa comune dove ognuno metteva quello che poteva e c’era sempre un piatto di pasta per tutti sul tavolo sotto il grande glicine.
Nei primi anni 80 cominciarono ad affacciarsi sotto il glicine degli strani personaggi con i capelli tutti colorati e dalle forme più strane. Erano i primi punk, all’inizio guardati con sospetto ma poi accettati dalla maggior parte degli occupanti di Via Correggio. Il gruppo dei punk e della loro parte più politicizzata a sinistra, i punx, fecero così di Via Correggio il loro luogo d’incontro e nei capannoni della fabbrica fondarono lo storico VIRUS, locale dove tenevano i loro concerti.
Tutte le storie però hanno una fine e la fine arriva alle 6.30 del 15 Maggio 1984 quando la polizia in assetto antisommossa entra con i mitra spianati negli appartamenti e effettua lo sgombero ponendo fine al sogno e alle utopie di Via Correggio 18.
Questa storia viene raccontata nel libro Le radici del glicine dove Massimo Pirotta, giornalista e cofondatore del Bloom di Mezzago, ha ascoltato le testimonianze di 26 persone, in parte occupanti dello stabile e in parte frequentatori dell’area della ex Mellin, le ha messe in ordine e ci ha offerto una narrazione a più voci e diversi punti di vista su quanto accadeva all’ombra dei due glicini, lasciando galleggiare l’emotività e la personalità dei testimoni. Così grazie alle testimonianze di Mimì, Stefano, Rita Marco, Milena, Jez, Angelino, Joe Cocker (chiamato così per una somiglianza estremamente vaga con il cantante inglese) si fa un tuffo in un periodo denso di lotte e di conquiste che hanno cambiato il volto dell’Italia (il divorzio, l’aborto, il voto ai diciottenni), periodo in cui si era ancora capaci di sognare e in cui si poteva anche cambiare spesso lavoro. Grazie ai racconti vengono ricordati anche personaggi che hanno lasciato una grossa impronta in Via Correggio ma che non sono più tra noi, per esempio il partigiano Bruno Casini, stalinista convinto ma sempre aperto al dialogo e alla lotta (nonostante l’età) e Adele Pisciotta della Federazione anarchica, e anche quelli che non sono sopravvissuto all’ondata di eroina arrivata all’improvviso a devastare persone e famiglie. Completano il libro una preziosa cronologia degli avvenimenti accaduti a Milano in quegli anni, dal primo all’ultimo giorno dell’occupazione, comprese le uscite discografiche e cinematografiche, una ricca bibliografia e tantissime foto che documentano quel periodo così effervescente e così intenso.
Sono passati solo 33 anni dallo sgombero ma sembra siano passati anni luce dalle ambizioni di allora. Si lottava per una nuova umanità mentre oggi al tempo dei Social e delle App prevalgono la superficialità, l’aggressività ed il rancore.
Chissà cosa penserà il glicine (in realtà erano due ma erano talmente intrecciati da formare un unico tronco)?
www.rivistailcantastorie.it, dicembre 2018 Le radici del glicine
Il libro racconta, attraverso le testimonianze dirette di 26 persone, la storia, durata dal 1975 al 1984, dell’occupazione di uno spazio industriale dismesso a Milano.
L’area è quella della ex fabbrica di prodotti per l’infanzia Mellin in via Correggio 18.
Chi racconta sono gli occupanti dello stabile, trasformato in parte in appartamenti per chi non aveva casa, e i frequentatori più o meno abituali degli altri spazi della ex fabbrica. Narrazione quindi a più voci, con punti di vista diversi, ma spesso convergenti, incrociati, trasversali, il tutto all’ombra di due glicini che arrivavano sino ai piani.
Via Correggio 18 era un luogo aperto a mille incontri, una sorta di albergo per girovaghi internazionali e punto di riferimento per le battaglie sociali di quegli anni, frequentato da individui non allineati, che avevano come arma vincente il confronto, il rispetto dell’altro e il desiderio di conoscersi nel profondo.
A far funzionare l’occupazione e le varie attività, fu anche aperta una falegnameria, era una assemblea settimanale dove tutto era discusso e deciso collettivamente. Ma via Correggio 18 è ricordata perché nei primi anni ’80 diventò il luogo di incontro dei punx, la versione più politicizzata a sinistra del movimento punk. Il capannone per i concerti e gli spettacoli venne chiamato “Virus” e con questo nome è conosciuto e ricordato a Milano. Il libro realizzato da Massimo Pirrotta ricostruisce gli anni che precedettero l’arrivo di questa nuova generazione di giovani, così diversi da quelli del ’68 e del ’77. La narrazione vuole colmare un piccolo vuoto di memoria, dove in una dimensione confusionaria sbocciavano amori e utopie, nascevano bimbi e si sognava un mondo migliore. Particolarmente interessante, per contestualizzare la storia di via Correggio 18 e del “Virus”, è la cronologia degli avvenimenti più importanti di quei nove anni di occupazione, fatti volutamente limitati a Milano e dintorni, ricavati spulciando le varie pubblicazioni dell’epoca. Vi è una ricca bibliografia e un prezioso inserto fotografico che documenta alcuni dei passaggi più importanti raccontati dai testimoni.
Un tuffo appassionato nel recente passato milanese crocevia di sogni, utopie, epigono di espressività non solo musicali, ma di vita vissuta.
L’area è quella della ex fabbrica di prodotti per l’infanzia Mellin in via Correggio 18.
Chi racconta sono gli occupanti dello stabile, trasformato in parte in appartamenti per chi non aveva casa, e i frequentatori più o meno abituali degli altri spazi della ex fabbrica. Narrazione quindi a più voci, con punti di vista diversi, ma spesso convergenti, incrociati, trasversali, il tutto all’ombra di due glicini che arrivavano sino ai piani.
Via Correggio 18 era un luogo aperto a mille incontri, una sorta di albergo per girovaghi internazionali e punto di riferimento per le battaglie sociali di quegli anni, frequentato da individui non allineati, che avevano come arma vincente il confronto, il rispetto dell’altro e il desiderio di conoscersi nel profondo.
A far funzionare l’occupazione e le varie attività, fu anche aperta una falegnameria, era una assemblea settimanale dove tutto era discusso e deciso collettivamente. Ma via Correggio 18 è ricordata perché nei primi anni ’80 diventò il luogo di incontro dei punx, la versione più politicizzata a sinistra del movimento punk. Il capannone per i concerti e gli spettacoli venne chiamato “Virus” e con questo nome è conosciuto e ricordato a Milano. Il libro realizzato da Massimo Pirrotta ricostruisce gli anni che precedettero l’arrivo di questa nuova generazione di giovani, così diversi da quelli del ’68 e del ’77. La narrazione vuole colmare un piccolo vuoto di memoria, dove in una dimensione confusionaria sbocciavano amori e utopie, nascevano bimbi e si sognava un mondo migliore. Particolarmente interessante, per contestualizzare la storia di via Correggio 18 e del “Virus”, è la cronologia degli avvenimenti più importanti di quei nove anni di occupazione, fatti volutamente limitati a Milano e dintorni, ricavati spulciando le varie pubblicazioni dell’epoca. Vi è una ricca bibliografia e un prezioso inserto fotografico che documenta alcuni dei passaggi più importanti raccontati dai testimoni.
Un tuffo appassionato nel recente passato milanese crocevia di sogni, utopie, epigono di espressività non solo musicali, ma di vita vissuta.
www.umanitanova.org, 18 dicembre 2017 Storia di una casa occupata: via Correggio 18 a Milano
La casa occupata di via Correggio 18 a Milano (1975-1984) ha costituito un momento importante nel panorama di lotte cittadino, aperta e tollerante, e proprio per questo caratterizzata da una impronta decisamente libertaria. Dopo il libro di Marco Philopat, Costretti a sanguinare. Il romanzo del punk italiano 1977-1984 (uscito nel 1996), che ricostruiva in modo romanzesco le vicende del Virus, ospitato in un’ala dell’edificio occupato, ora è la volta di Massimo Pirotta, Le radici del glicine. Storia di una casa occupata, Milano, Agenzia X, 2017, Euro 15,00.
Alla redazione dell’opera hanno collaborato lo stesso Philopat, Paoletta “Nevrosi”, Marco Mussi e Viviana Nicolazzo.
Particolarmente efficace la scelta di pubblicare la raccolta delle testimonianze degli stessi occupanti e di chi è stato vicino all’occupazione, soluzione che consente di ricostruire la storia di quegli anni avventurosi attraverso un caleidoscopio di percezioni individuali diverse. Ci auguriamo di vedere uscire opere simili anche per altre importanti esperienze di lotta del periodo.
Come diceva Gaetano Salvemini ad Armando Borghi: “se gli anarchici non se ne occupano, la storia la faranno i loro nemici” e, come l’esperienza insegna, il modo più facile di riscrivere il passato da parte dei vincitori del momento consiste nella rimozione. Ieri la vulgata stalinista cancellava completamente l’apporto anarchico alla lotta antifascista e resistenziale, trasformando in “comunisti” i militanti libertari. Oggi il neoliberismo imperante cerca di rimuovere ogni memoria delle lotte passate. Ma è proprio il ricordo del passato che permette di costruire il futuro.
L’area di via Correggio 18, proprietà delle industrie Mellin, venne occupata per iniziativa del Comitato di quartiere Magenta, “un gruppo aperto e composito; vi partecipavano, oltre che militanti della sinistra extraparlamentare, cattolici di sinistra, giovani abitanti della zona senza precisa collocazione politica e qualche aderente ai partiti progressisti” (p. 28), cui si aggiunse “una componente più libertaria e hippie, eravamo attratti più dalle controculture che dalla politica militante” (p. 54).
L’occupazione avvenne l’11 aprile 1975, in quei giorni Milano era caratterizzata da continue azioni di lotta e da grandiose manifestazioni di piazza, spesso caricate dalla polizia. Nel giro di pochi giorni si susseguirono l’assassinio fascista a colpi di pistola dello studente del Movimento Studentesco Claudio Varalli (16 aprile), l’uccisione di Giannino Zibecchi, militante dei Comitati antifascisti, travolto da una camionetta dei carabinieri durante la carica contro un corteo (17 aprile), l’accoltellamento mortale del lavoratore-studente Alberto Brasili, reo di vestire “come uno di sinistra”, da parte dei fascisti (25 maggio) (p. 204-205).
Il libro ricostruisce, attraverso la memoria dei protagonisti, la storia di quei nove anni di occupazione (che sarebbe veramente impossibile cercare di riassumere qui in poche righe). Tra i frequentatori della casa ricordiamo qui solo il mitico partigiano comunista Bruno Casini, inveterato stalinista, ma aperto al dialogo e sempre pronto alla lotta (nonostante l’età), e la compagna della FAI Adele Pisciotta, prematuramente scomparsa. Tra le realtà ospitate ricordiamo, oltre al Virus, il Coordinamento di lotta per la casa, il Comitato di lotta precari e disoccupati (che pubblicava “Wobbly. Foglio di lotta del precariato sociale”), ma anche qui l’elenco sarebbe infinito… progressivamente l’impronta libertaria dell’occupazione andò accentuandosi sempre più, con un atteggiamento aperto e non dogmatico nei confronti di tutte le posizioni antagoniste e rivoluzionarie.
Anche dopo lo sgombero (avvenuto il 15 maggio 1984), la lotta degli ex occupanti non si arrestò, con una serie di azioni clamorose, documentate fedelmente da UN.
di Mauro De AgostiniAlla redazione dell’opera hanno collaborato lo stesso Philopat, Paoletta “Nevrosi”, Marco Mussi e Viviana Nicolazzo.
Particolarmente efficace la scelta di pubblicare la raccolta delle testimonianze degli stessi occupanti e di chi è stato vicino all’occupazione, soluzione che consente di ricostruire la storia di quegli anni avventurosi attraverso un caleidoscopio di percezioni individuali diverse. Ci auguriamo di vedere uscire opere simili anche per altre importanti esperienze di lotta del periodo.
Come diceva Gaetano Salvemini ad Armando Borghi: “se gli anarchici non se ne occupano, la storia la faranno i loro nemici” e, come l’esperienza insegna, il modo più facile di riscrivere il passato da parte dei vincitori del momento consiste nella rimozione. Ieri la vulgata stalinista cancellava completamente l’apporto anarchico alla lotta antifascista e resistenziale, trasformando in “comunisti” i militanti libertari. Oggi il neoliberismo imperante cerca di rimuovere ogni memoria delle lotte passate. Ma è proprio il ricordo del passato che permette di costruire il futuro.
L’area di via Correggio 18, proprietà delle industrie Mellin, venne occupata per iniziativa del Comitato di quartiere Magenta, “un gruppo aperto e composito; vi partecipavano, oltre che militanti della sinistra extraparlamentare, cattolici di sinistra, giovani abitanti della zona senza precisa collocazione politica e qualche aderente ai partiti progressisti” (p. 28), cui si aggiunse “una componente più libertaria e hippie, eravamo attratti più dalle controculture che dalla politica militante” (p. 54).
L’occupazione avvenne l’11 aprile 1975, in quei giorni Milano era caratterizzata da continue azioni di lotta e da grandiose manifestazioni di piazza, spesso caricate dalla polizia. Nel giro di pochi giorni si susseguirono l’assassinio fascista a colpi di pistola dello studente del Movimento Studentesco Claudio Varalli (16 aprile), l’uccisione di Giannino Zibecchi, militante dei Comitati antifascisti, travolto da una camionetta dei carabinieri durante la carica contro un corteo (17 aprile), l’accoltellamento mortale del lavoratore-studente Alberto Brasili, reo di vestire “come uno di sinistra”, da parte dei fascisti (25 maggio) (p. 204-205).
Il libro ricostruisce, attraverso la memoria dei protagonisti, la storia di quei nove anni di occupazione (che sarebbe veramente impossibile cercare di riassumere qui in poche righe). Tra i frequentatori della casa ricordiamo qui solo il mitico partigiano comunista Bruno Casini, inveterato stalinista, ma aperto al dialogo e sempre pronto alla lotta (nonostante l’età), e la compagna della FAI Adele Pisciotta, prematuramente scomparsa. Tra le realtà ospitate ricordiamo, oltre al Virus, il Coordinamento di lotta per la casa, il Comitato di lotta precari e disoccupati (che pubblicava “Wobbly. Foglio di lotta del precariato sociale”), ma anche qui l’elenco sarebbe infinito… progressivamente l’impronta libertaria dell’occupazione andò accentuandosi sempre più, con un atteggiamento aperto e non dogmatico nei confronti di tutte le posizioni antagoniste e rivoluzionarie.
Anche dopo lo sgombero (avvenuto il 15 maggio 1984), la lotta degli ex occupanti non si arrestò, con una serie di azioni clamorose, documentate fedelmente da UN.
www.vorrei.org, 13 dicembre 2017, Il mondo in via Correggio
Le radici del glicine di Massimo Pirotta. Le testimonianze dell'occupazione della ex Mellin a Milano dal 1975 al 1984, dalle lotte per la casa al Virus dei punx
In via Correggio 18 ho messo piede la prima volta nella primavera del 1998, quando entrai a far parte di una delle più grandi agenzie di pubblicità allora attive in Italia: lì era la sua sede. In realtà io allora non sapevo nulla. Non sapevo che quella — oltre che di Pasquale Barbella con cui feci il colloquio — fosse anche l’agenzia di Gavino Sanna, a lungo il più noto pubblicitario italiano. Non sapevo cosa fosse esattamente un art director, anche se sarebbe stata la mia professione per gli anni a venire. Non sapevo neppure cosa fosse stato via Correggio 18 a Milano. Ma andiamo per ordine.
Primo. Con Gavino ebbi modo di lavorare più volte in quegli anni e ogni volta passavo davanti la fila di poltrone da barbiere fuori dal suo ufficio. Entrato, rimanevo poi incantato a guardare le mille foto, dipinti e disegni originali appesi alle spalle della sua scrivania, provando a riconoscerne gli autori, tipo quello di Gerald Scarfe. Sì, l’autore della copertina e dei disegni di The Wall dei Pink Floyd.
Secondo. L’art director è grosso modo colui che si occupa della parte visiva nella comunicazione pubblicitaria, in coppia con il copywriter che si occupa del testo. La divisione non è mai così netta e lo scambio indispensabile. Art e copy formano la coppia creativa.
Terzo, soprattutto: via Correggio 18 a Milano. La finestra del mio ufficio dava sul cortile posteriore dell’edificio, dal lì si intravedeva l’interno dell’altra ala, evidentemente abbandonata e con le pareti ricoperte di scritte e manifesti strappati. Di spazi così ce ne sono tanti ovunque, nulla che facesse pensare a qualcosa di particolare. L’indizio vero e proprio lo scovai invece un giorno che dovetti scendere nell’interrato dell’edificio “buono” per recuperare materiale di cancelleria. Fra le pareti ridipinte, un pezzo in alto vicino all’ascensore era sopravvissuto sporco. Intenzionalmente lasciato così a testimoniare la vita precedente di via Correggio 18. Ora, potrei sbagliarmi ma mi pare di ricordare che ci fosse scritto “We want the world” e probabilmente anche il resto della frase tratta da When the music’s over dei Doors, ovvero “and we want it now”. Ma ripeto, la memoria non è il mio forte.
Non dovetti indagare molto per scoprire che quegli edifici, una dozzina di anni prima, erano stati sede del Virus, uno spazio a lungo occupato dai punk milanesi e adibito soprattutto a sala per i concerti della scena musicale hardcore. Il corto circuito era evidente e, lo ammetto, piuttosto tragicomico: lì dove avevano bivaccato la sinistra extraparlamentare e gli anarchici ora si scatenavano tempeste di cervelli — i brain storming! — per convincere quanta più gente possibile a comprare merci su merci, il tripudio del consumismo sulle rovine del comunismo…
Per la verità il Virus fu solo una parte della storia di via Correggio 18 e a rendere giustizia al resto è arrivato Massimo Pirotta con il suo Le radici del glicine, saggio edito da Agenzia X, la stessa casa editrice fondata da quel Marco Philopat che grazie a volumi come Costretti a sanguinare e Lumi di punk è forse il più noto testimone della scena punk, essendo stato lui stesso uno dei punx milanesi.
«Un lavoro lungo 18 mesi» mi ha raccontato Pirotta, durante i quali ha raccolto le testimonianze di coloro che a partire dall’11 aprile del 1975 — molto prima del Virus quindi — occuparono quella che un tempo era stata la fabbrica della Mellin, «quella dei biscotti per bambini». Un prezioso lavoro di documentazione attraverso i racconti in prima persona di Mimì, Stefano, Rita, Marco, Milena e molti altri. Tutti più o meno giovani, tutti più o meno di sinistra in quegli anni Settanta in cui pensare diversamente non era uno slogan pubblicitario molto paraculo. «(…) i loro racconti — riprendo dall’introduzione che potete leggere integralmente più avanti — non sono certo quelli di tristi ex aderenti a qualche organizzazione extraparlamentare di sinistra, qui si tratta di soggetti lontani mille miglia dal proselitismo o dall’agire per un tornaconto economico, generosi nella loro militanza come erano generosi nell’accogliere e sostenere ogni battaglia civile e politica.»
Sono storie di chi negli stessi anni vedeva l’Italia alle prese con quelle lotte che hanno cambiato tanto il Paese (il divorzio, l’aborto, il voto ai diciottenni…) decidendo di vivere in un luogo occupato e accogliendo molte altre persone e fra queste anche i punk che poi daranno vita al Virus.
Ci sono storie molto diverse nel prezioso libro di Pirotta, quelle di chi lavorava in ospedale o in fabbrica, di chi scappava dall’oppressione famigliare e di chi non sopravvisse all’ondata di eroina arrivata improvvisa a devastare esistenze, famiglie e probabilmente anche molta parte dell’energia del movimento.
Altro elemento importante di Le radici del glicine è costituito dagli apparati. La cronologia di quegli anni — dal primo giorno di occupazione fino al 15 maggio del 1984, quando ci fu lo sgombero con la polizia in tenuta antisommossa — che riporta quanto altro accadeva a Milano, la nascita di giornali e fanzine, le manifestazioni e gli omicidi dei terroristi, e insieme i dischi e i film che ne scandivano la successione. La bibliografia, dalle “Lettere a Lotta continua” al “Male” di Vincino. Le tantissime foto che testimoniano l’effervescenza di quell’arco di tempo così intenso. E ancora il testo scritto all’indomani dello sgombero sulla rivista “Primo maggio” da Cosimo Scarinzi e Fabio Traù, praticamente una ricostruzione in tempo reale di tutta l’esperienza.
A scorrere le quasi 300 pagine del libro di Pirotta viene spesso da credere che siano passati molti più dei 33 anni che ci separano dallo sgombero, non certo perché allora non c’erano i social network o le app, ma per la distanza siderale che separara le ambizioni di allora da quelle di oggi. Lo dicono Philopat e Pirotta — ancora dall’introduzione — «(…) l’incredibile milieu di personaggi che abitavano o frequentavano via Correggio è forse l’aspetto essenziale della nostra ricerca, ma a differenza dei disperati del Casermone così ben delineati dallo scrittore scamiciato (Paolo Valera in La folla, Ndr), chi viveva nella casa occupata non tentava solo di sopravvivere allo sfruttamento, ma provava anche a rialzare la testa per contrastare le ingiustizie, cercando l’unità con i propri simili. La lotta per una nuova umanità era il loro unico obiettivo». Oggi, al tempo del rancore, prevale l’aggressività fine a se stessa. L’insulto social e inconcludente «La totale assenza di tale prospettiva al giorno d’oggi, è la principale ragione della proposta editoriale che vi presentiamo».
di Antonio CornacchiaIn via Correggio 18 ho messo piede la prima volta nella primavera del 1998, quando entrai a far parte di una delle più grandi agenzie di pubblicità allora attive in Italia: lì era la sua sede. In realtà io allora non sapevo nulla. Non sapevo che quella — oltre che di Pasquale Barbella con cui feci il colloquio — fosse anche l’agenzia di Gavino Sanna, a lungo il più noto pubblicitario italiano. Non sapevo cosa fosse esattamente un art director, anche se sarebbe stata la mia professione per gli anni a venire. Non sapevo neppure cosa fosse stato via Correggio 18 a Milano. Ma andiamo per ordine.
Primo. Con Gavino ebbi modo di lavorare più volte in quegli anni e ogni volta passavo davanti la fila di poltrone da barbiere fuori dal suo ufficio. Entrato, rimanevo poi incantato a guardare le mille foto, dipinti e disegni originali appesi alle spalle della sua scrivania, provando a riconoscerne gli autori, tipo quello di Gerald Scarfe. Sì, l’autore della copertina e dei disegni di The Wall dei Pink Floyd.
Secondo. L’art director è grosso modo colui che si occupa della parte visiva nella comunicazione pubblicitaria, in coppia con il copywriter che si occupa del testo. La divisione non è mai così netta e lo scambio indispensabile. Art e copy formano la coppia creativa.
Terzo, soprattutto: via Correggio 18 a Milano. La finestra del mio ufficio dava sul cortile posteriore dell’edificio, dal lì si intravedeva l’interno dell’altra ala, evidentemente abbandonata e con le pareti ricoperte di scritte e manifesti strappati. Di spazi così ce ne sono tanti ovunque, nulla che facesse pensare a qualcosa di particolare. L’indizio vero e proprio lo scovai invece un giorno che dovetti scendere nell’interrato dell’edificio “buono” per recuperare materiale di cancelleria. Fra le pareti ridipinte, un pezzo in alto vicino all’ascensore era sopravvissuto sporco. Intenzionalmente lasciato così a testimoniare la vita precedente di via Correggio 18. Ora, potrei sbagliarmi ma mi pare di ricordare che ci fosse scritto “We want the world” e probabilmente anche il resto della frase tratta da When the music’s over dei Doors, ovvero “and we want it now”. Ma ripeto, la memoria non è il mio forte.
Non dovetti indagare molto per scoprire che quegli edifici, una dozzina di anni prima, erano stati sede del Virus, uno spazio a lungo occupato dai punk milanesi e adibito soprattutto a sala per i concerti della scena musicale hardcore. Il corto circuito era evidente e, lo ammetto, piuttosto tragicomico: lì dove avevano bivaccato la sinistra extraparlamentare e gli anarchici ora si scatenavano tempeste di cervelli — i brain storming! — per convincere quanta più gente possibile a comprare merci su merci, il tripudio del consumismo sulle rovine del comunismo…
Per la verità il Virus fu solo una parte della storia di via Correggio 18 e a rendere giustizia al resto è arrivato Massimo Pirotta con il suo Le radici del glicine, saggio edito da Agenzia X, la stessa casa editrice fondata da quel Marco Philopat che grazie a volumi come Costretti a sanguinare e Lumi di punk è forse il più noto testimone della scena punk, essendo stato lui stesso uno dei punx milanesi.
«Un lavoro lungo 18 mesi» mi ha raccontato Pirotta, durante i quali ha raccolto le testimonianze di coloro che a partire dall’11 aprile del 1975 — molto prima del Virus quindi — occuparono quella che un tempo era stata la fabbrica della Mellin, «quella dei biscotti per bambini». Un prezioso lavoro di documentazione attraverso i racconti in prima persona di Mimì, Stefano, Rita, Marco, Milena e molti altri. Tutti più o meno giovani, tutti più o meno di sinistra in quegli anni Settanta in cui pensare diversamente non era uno slogan pubblicitario molto paraculo. «(…) i loro racconti — riprendo dall’introduzione che potete leggere integralmente più avanti — non sono certo quelli di tristi ex aderenti a qualche organizzazione extraparlamentare di sinistra, qui si tratta di soggetti lontani mille miglia dal proselitismo o dall’agire per un tornaconto economico, generosi nella loro militanza come erano generosi nell’accogliere e sostenere ogni battaglia civile e politica.»
Sono storie di chi negli stessi anni vedeva l’Italia alle prese con quelle lotte che hanno cambiato tanto il Paese (il divorzio, l’aborto, il voto ai diciottenni…) decidendo di vivere in un luogo occupato e accogliendo molte altre persone e fra queste anche i punk che poi daranno vita al Virus.
Ci sono storie molto diverse nel prezioso libro di Pirotta, quelle di chi lavorava in ospedale o in fabbrica, di chi scappava dall’oppressione famigliare e di chi non sopravvisse all’ondata di eroina arrivata improvvisa a devastare esistenze, famiglie e probabilmente anche molta parte dell’energia del movimento.
Altro elemento importante di Le radici del glicine è costituito dagli apparati. La cronologia di quegli anni — dal primo giorno di occupazione fino al 15 maggio del 1984, quando ci fu lo sgombero con la polizia in tenuta antisommossa — che riporta quanto altro accadeva a Milano, la nascita di giornali e fanzine, le manifestazioni e gli omicidi dei terroristi, e insieme i dischi e i film che ne scandivano la successione. La bibliografia, dalle “Lettere a Lotta continua” al “Male” di Vincino. Le tantissime foto che testimoniano l’effervescenza di quell’arco di tempo così intenso. E ancora il testo scritto all’indomani dello sgombero sulla rivista “Primo maggio” da Cosimo Scarinzi e Fabio Traù, praticamente una ricostruzione in tempo reale di tutta l’esperienza.
A scorrere le quasi 300 pagine del libro di Pirotta viene spesso da credere che siano passati molti più dei 33 anni che ci separano dallo sgombero, non certo perché allora non c’erano i social network o le app, ma per la distanza siderale che separara le ambizioni di allora da quelle di oggi. Lo dicono Philopat e Pirotta — ancora dall’introduzione — «(…) l’incredibile milieu di personaggi che abitavano o frequentavano via Correggio è forse l’aspetto essenziale della nostra ricerca, ma a differenza dei disperati del Casermone così ben delineati dallo scrittore scamiciato (Paolo Valera in La folla, Ndr), chi viveva nella casa occupata non tentava solo di sopravvivere allo sfruttamento, ma provava anche a rialzare la testa per contrastare le ingiustizie, cercando l’unità con i propri simili. La lotta per una nuova umanità era il loro unico obiettivo». Oggi, al tempo del rancore, prevale l’aggressività fine a se stessa. L’insulto social e inconcludente «La totale assenza di tale prospettiva al giorno d’oggi, è la principale ragione della proposta editoriale che vi presentiamo».
tonyface.blogspot.it, 11 dicembre 2017 Massimo Pirotta – Le radici del glicine
In via Correggio 18 a Milano c'era una casa occupata in una ex fabbrica della Mellin. I primi nuclei di persone e famiglie entrarono nel 1975, fu sgomberata nel 1984.
Era un luogo aperto, fulcro di mille incontri trasversali, una sorta di albergo per girovaghi ma anche e soprattutto un posto in cui si creava, si condivideva, si viveva un'esperienza nuova. Un laboratorio sociale che passò dalle esperienze dell'Autonomia a quelle dei primi punk organizzati milanesi.
Un ambiente in cui si mischiavano estremisti di sinistra e anarchici ma anche cattolici (che pensavano fortemente a sinistra). Anni in cui si poteva ancora cambiare spesso lavoro.
Lì restò attivo per anni il Virus ma anche il Vidicon, ci passarono gruppi, artisti (dal Living Theatre a Nico a Basquiat a Keith Harding), si incrociarono migliaia di esperienze.
Molte vengono narrate in questo libro di Massimo Pirotta, giornalista, scrittore, tra i fondatori del "Bloom" di Mezzago, attraverso testimonianze e ricordi di molti degli occupanti e dei protagonisti.
Libro prezioso che documenta una realtà lontana, inimmaginabile oggi.
di tonyfaceEra un luogo aperto, fulcro di mille incontri trasversali, una sorta di albergo per girovaghi ma anche e soprattutto un posto in cui si creava, si condivideva, si viveva un'esperienza nuova. Un laboratorio sociale che passò dalle esperienze dell'Autonomia a quelle dei primi punk organizzati milanesi.
Un ambiente in cui si mischiavano estremisti di sinistra e anarchici ma anche cattolici (che pensavano fortemente a sinistra). Anni in cui si poteva ancora cambiare spesso lavoro.
Lì restò attivo per anni il Virus ma anche il Vidicon, ci passarono gruppi, artisti (dal Living Theatre a Nico a Basquiat a Keith Harding), si incrociarono migliaia di esperienze.
Molte vengono narrate in questo libro di Massimo Pirotta, giornalista, scrittore, tra i fondatori del "Bloom" di Mezzago, attraverso testimonianze e ricordi di molti degli occupanti e dei protagonisti.
Libro prezioso che documenta una realtà lontana, inimmaginabile oggi.
www.rootshighway.it, 7 dicembre 2017 Le radici del glicine
Due libri diversi, per certi versi anche distanti e opposti: La scelta di Bianca parte da una ricostruzione collettiva per arrivare a un’espressione individuale, con l’autore in primo piano. È in gran parte un lavoro di narrazione letteraria, di fiction, con una predominante ambientale bucolica, visto che sono determinanti i paesaggi del lago Maggiore (riva piemontese) e delle sue valli. Le radici del glicine è una storia orale, che comincia dalle esperienze individuali per farne una testimonianza collettiva e l’autore scompare nel coro delle voci. È la storia di una casa occupata a Milano, quindi in uno scenario urbano, metropolitano, se Milano fosse una metropoli. Eppure i due libri sono legati da un chiarissimo filo (rosso) comune, a partire proprio dagli autori. Per quanto persino di due generazioni diverse, Michele Anelli e Massimo Pirotta battono da anni, con convinzione, coerenza e passione, vie culturali indipendenti. Il primo attraverso una lunga carriera di musicista, compresa la più recente svolta cantautorale, a cui La scelta di Bianca deve non poco. Il secondo, già animatore del benemerito Bloom e con un passato prossimo di libraio, con una continua messe di proposte, di stimoli e di vivaci curiosità che l’hanno condotto a ricostruire, pezzo per pezzo, Le radici del glicine. Se questo è ciò che condividono gli autori, non di meno i due libri fanno vivere le stesse tematiche: testimonianze di resistenze e di Resistenza con una prevalenza di nitide voci femminili, una vocazione concreta a rispecchiare i valori della memoria, della ribellione, della spontaneità e della creatività, un’espressione libera da formalismi estetici e politici. E la musica, ovviamente, anche se il legame è ancora più sottile e ricercato perché La scelta di Bianca con gli omaggi ripetuti (e sacrosanti) a Joe Strummer e ai Clash, parte proprio dove finiscono Le radici del glicine, che furono fertili anche per il cuore punk della città.
[…]
Il vino rosso innaffia anche Le radici del glicine e non poteva andare in modo diverso, visto che alla base dell’occupazione di via Correggio 18 c’era l’elemento conviviale, la risposta immediata alle necessità primarie (a partire, si capisce, da un posto più o meno caldo dove dormire) come atto politico. Massimo Pirotta, in complicità con Marco Philopat, lo dice senza esitazioni nell’introduzione: “Chi legge oggi la storia di via Correggio deve quindi sognare di approdare in una cena collettiva a bordo di una tavola da surf immaginaria”. L’onda da cavalcare è quella della memoria, una lunga teoria di testimonianze che rivelano, senza filtri, senza particolari correzioni, la vita quotidiana nel contesto di una casa occupata a Milano, tra il 1975 e il 1984. Massimo Pirotta si è dedicato a raccoglierle con un certo ordine, dandogli uniformità, ma senza togliere un grammo della spontaneità e dell’emotività. Qui l’umiltà dell’autore, che sparisce letteralmente tra le pagine, una volta che cominciano i racconti, è un elemento fondamentale. Si è limitato a gestire (molto bene) il traffico e a lasciare emergere, dalle loro stesse parole, le personalità che hanno abitato e animato l’occupazione di via Correggio 18, dove affondavano e prosperavano Le radici del glicine. Essendo le porte sempre aperte e il bicchiere pronto sul tavolo, le esperienze e le voci sono tra le più disparate perché lo spirito comunitario e alternativo abbracciava uno spettro ampio, popolare e popolano, di identità: dagli anarchici ai clochard, dai convinti marxisti ai cattolici dissidenti, gente che, come ricorda Stefano “celebrava la messa fuori dalla chiesa”, disoccupati, studenti e operai, artisti e intere famiglie fino all’avvento dei punk.
È uno snodo culturale singolare, se non proprio unico, che vede sommarsi esperienze della Resistenza (Il partigiano Bruno Casini), frammenti dentro e fuori ai movimenti di quegli anni, proposte innovative e non mercificate, manifestazioni e mobilitazioni, solidarietà e tolleranza che traspaiono in modo molto nitido mentre si seguono i fili dei ricordi che compongono Le radici del glicine. A partire dalla costante e puntuale presenza femminile, una sorta di matriarcato che ha retto per tutta la durata dell’occupazione. Così mentre la città ripeteva “la sua vita uguale spostandosi in su e in giù sulla scacchiera vuota”, come scriveva Italo Calvino nel 1972, via Correggio 18 era vissuta come “un centro culturale che fornisce uno spazio a coloro che ne avevano bisogno”, come “un luogo in cui i principi rivoluzionari sono stati messi in pratica”, come “un luogo dove gli stranieri sono diventati compagni e amici”, come “un piatto di pasta sul tavolo in cucina”, come “una bottiglia di vino dalla campagna”, ed eccoci qui. Tra le tante possibili, le sintesi di Jez, attore e regista, nella loro schematicità sono una mappa molto utile per comprendere Le radici del glicine, poi come dice Mimì “le parole confondono e allontanano dall’ascolto ai suoni che, se diventassero musica, non ci sarebbe bisogno della ragione per capirle”. Di sicuro, la città non le ha mai capite e quindi venne il tempo degli sgomberi, ma in via Correggio erano cominciati ad arrivare i punk, prima guardati con sospetto, poi con curiosità e infine accettati al punto che proprio lì, tra Le radici del glicine, prese forma il Virus ma come giustamente scrive Stefano, “iniziava un’altra storia”. Per aver uno quadro completo del contesto politico e sociale è più che utile anche la lettura, in appendice, di Correggio’s graffiti, una lucida analisi dell’epoca (1984) di Cosimo Scarinzi e Fabio Traù, che rende conto degli ideali dell’occupazione in sé rispetto all’evoluzione economica e alle trasformazioni urbane che hanno stravolto Milano.
Oggi, mentre i nuovi grattacieli insensati confondono le idee, verrebbe da dire, come è stato fatto in occasione di altre occupazioni e di altri sgomberi: ascolta il tuo cuore città. È quello che batte dentro Le radici del glicine. Il senso del titolo invece va scoperto in proprio, perché ha una sua specifica importanza, evidente fin dalla coloratissima copertina di Matteo Guarnaccia, che nel suo fiorire psichedelico spalanca le porte a quella che non è soltanto la “storia di una casa occupata”. Per una volta, almeno, è proprio come scrive Nicola Del Corno nella prefazione, è “una storia scritta dai vinti e non dai vincitori”.
di Marco Denti[…]
Il vino rosso innaffia anche Le radici del glicine e non poteva andare in modo diverso, visto che alla base dell’occupazione di via Correggio 18 c’era l’elemento conviviale, la risposta immediata alle necessità primarie (a partire, si capisce, da un posto più o meno caldo dove dormire) come atto politico. Massimo Pirotta, in complicità con Marco Philopat, lo dice senza esitazioni nell’introduzione: “Chi legge oggi la storia di via Correggio deve quindi sognare di approdare in una cena collettiva a bordo di una tavola da surf immaginaria”. L’onda da cavalcare è quella della memoria, una lunga teoria di testimonianze che rivelano, senza filtri, senza particolari correzioni, la vita quotidiana nel contesto di una casa occupata a Milano, tra il 1975 e il 1984. Massimo Pirotta si è dedicato a raccoglierle con un certo ordine, dandogli uniformità, ma senza togliere un grammo della spontaneità e dell’emotività. Qui l’umiltà dell’autore, che sparisce letteralmente tra le pagine, una volta che cominciano i racconti, è un elemento fondamentale. Si è limitato a gestire (molto bene) il traffico e a lasciare emergere, dalle loro stesse parole, le personalità che hanno abitato e animato l’occupazione di via Correggio 18, dove affondavano e prosperavano Le radici del glicine. Essendo le porte sempre aperte e il bicchiere pronto sul tavolo, le esperienze e le voci sono tra le più disparate perché lo spirito comunitario e alternativo abbracciava uno spettro ampio, popolare e popolano, di identità: dagli anarchici ai clochard, dai convinti marxisti ai cattolici dissidenti, gente che, come ricorda Stefano “celebrava la messa fuori dalla chiesa”, disoccupati, studenti e operai, artisti e intere famiglie fino all’avvento dei punk.
È uno snodo culturale singolare, se non proprio unico, che vede sommarsi esperienze della Resistenza (Il partigiano Bruno Casini), frammenti dentro e fuori ai movimenti di quegli anni, proposte innovative e non mercificate, manifestazioni e mobilitazioni, solidarietà e tolleranza che traspaiono in modo molto nitido mentre si seguono i fili dei ricordi che compongono Le radici del glicine. A partire dalla costante e puntuale presenza femminile, una sorta di matriarcato che ha retto per tutta la durata dell’occupazione. Così mentre la città ripeteva “la sua vita uguale spostandosi in su e in giù sulla scacchiera vuota”, come scriveva Italo Calvino nel 1972, via Correggio 18 era vissuta come “un centro culturale che fornisce uno spazio a coloro che ne avevano bisogno”, come “un luogo in cui i principi rivoluzionari sono stati messi in pratica”, come “un luogo dove gli stranieri sono diventati compagni e amici”, come “un piatto di pasta sul tavolo in cucina”, come “una bottiglia di vino dalla campagna”, ed eccoci qui. Tra le tante possibili, le sintesi di Jez, attore e regista, nella loro schematicità sono una mappa molto utile per comprendere Le radici del glicine, poi come dice Mimì “le parole confondono e allontanano dall’ascolto ai suoni che, se diventassero musica, non ci sarebbe bisogno della ragione per capirle”. Di sicuro, la città non le ha mai capite e quindi venne il tempo degli sgomberi, ma in via Correggio erano cominciati ad arrivare i punk, prima guardati con sospetto, poi con curiosità e infine accettati al punto che proprio lì, tra Le radici del glicine, prese forma il Virus ma come giustamente scrive Stefano, “iniziava un’altra storia”. Per aver uno quadro completo del contesto politico e sociale è più che utile anche la lettura, in appendice, di Correggio’s graffiti, una lucida analisi dell’epoca (1984) di Cosimo Scarinzi e Fabio Traù, che rende conto degli ideali dell’occupazione in sé rispetto all’evoluzione economica e alle trasformazioni urbane che hanno stravolto Milano.
Oggi, mentre i nuovi grattacieli insensati confondono le idee, verrebbe da dire, come è stato fatto in occasione di altre occupazioni e di altri sgomberi: ascolta il tuo cuore città. È quello che batte dentro Le radici del glicine. Il senso del titolo invece va scoperto in proprio, perché ha una sua specifica importanza, evidente fin dalla coloratissima copertina di Matteo Guarnaccia, che nel suo fiorire psichedelico spalanca le porte a quella che non è soltanto la “storia di una casa occupata”. Per una volta, almeno, è proprio come scrive Nicola Del Corno nella prefazione, è “una storia scritta dai vinti e non dai vincitori”.
il manifesto, 22 novembre 2007 Glicini e utopie, storia milanese di un’occupazione
Per Carlo Ginzburg, teorico della microstoria, l’attenzione al particolare permette di accedere a verità profonde altrimenti inattingibili e di scoprire aspetti del passato che rischiano di andare perduti. Le radici del glicine. Storia di una casa occupataSettanta, ha giustamente sostenuto che “Nell’arco di un decennio, quello che inizia con il 1978 e finisce con il 1989, tutto sembra essersi consumato insieme all’idea di un cambiamento drastico del sistema capitalistico occidentale”.
La storia (1975-1984) della casa occupata di via Correggio, a Milano, si sovrappone a quel periodo. Con l’“aggravante” che per quegli occupanti, che avevano conosciuto la potenza desiderante della dimensione sociale (che fino al 1977 aveva consentito di sognare collettivamente), la visione dell’orizzonte utopico si trasforma lentamente, con il passaggio agli ’80, in disorientamento distopico, nel passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo, come sosteneva Deleuze.
Niente paura, quando inizia a chiudersi un’epoca arrivano le scintille dei punk, anzi dei punx (come si chiamarono gli attivisti dell’ala più politicizzata di quel piccolo ma incisivo movimento) e la casa occupata riprende a palpitare di creatività. Via Correggio 18 era “un’isola pirata, un concentrato di libertari, famiglie senzatetto, hippie, comunisti, femministe, cattolici del dissenso, operai riottosi ed ex-partigiani”, un luogo tollerante e pieno di energia, dove, appunto, trovano rifugio i punx che danno vita allo storico Virus. Questa esperienza ibrida sarà seminale per l’impulso che darà a nuove occupazioni che esploderanno a fine anni ’80 con il movimento dei centri sociali.
Realizzato con le testimonianze degli ex occupanti, sviluppate in un clima collettivo che richiama i tempi di quell’occupazione, il libro racconta un’eterotopia “fulcro di mille incontri trasversali, asilo per le battaglie sociali, albergo per girovaghi internazionali, iniziative di quartiere, con una cassa comune in cui ognuno dava secondo le proprie possibilità, un’assemblea come sede decisionale e poi feste e spettacoli nel capannone industriale sul retro del palazzo dove prima risiedevano i padroni”, dove si era creata una dimensione confusionaria ma quasi idilliaca e le meravigliose piante di glicine del cortile riempivano di fiori le primavere degli occupanti, in cui sbocciavano amori e utopie.
Una microstoria altro non è che una controstoria, cioè racconto che rimette in discussione il discorso disciplinare e dissuasivo del potere, e, nonostante tutto, tutti i protagonisti delle diverse forme di vita che “covarono” in via Correggio conoscevano la frase di Buenaventura Durruti: “Non erediteremo che rovine, ma le macerie non ci fanno paura, perché portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori. Questo mondo sta crescendo in questo istante”.
di Marc TibaldiLa storia (1975-1984) della casa occupata di via Correggio, a Milano, si sovrappone a quel periodo. Con l’“aggravante” che per quegli occupanti, che avevano conosciuto la potenza desiderante della dimensione sociale (che fino al 1977 aveva consentito di sognare collettivamente), la visione dell’orizzonte utopico si trasforma lentamente, con il passaggio agli ’80, in disorientamento distopico, nel passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo, come sosteneva Deleuze.
Niente paura, quando inizia a chiudersi un’epoca arrivano le scintille dei punk, anzi dei punx (come si chiamarono gli attivisti dell’ala più politicizzata di quel piccolo ma incisivo movimento) e la casa occupata riprende a palpitare di creatività. Via Correggio 18 era “un’isola pirata, un concentrato di libertari, famiglie senzatetto, hippie, comunisti, femministe, cattolici del dissenso, operai riottosi ed ex-partigiani”, un luogo tollerante e pieno di energia, dove, appunto, trovano rifugio i punx che danno vita allo storico Virus. Questa esperienza ibrida sarà seminale per l’impulso che darà a nuove occupazioni che esploderanno a fine anni ’80 con il movimento dei centri sociali.
Realizzato con le testimonianze degli ex occupanti, sviluppate in un clima collettivo che richiama i tempi di quell’occupazione, il libro racconta un’eterotopia “fulcro di mille incontri trasversali, asilo per le battaglie sociali, albergo per girovaghi internazionali, iniziative di quartiere, con una cassa comune in cui ognuno dava secondo le proprie possibilità, un’assemblea come sede decisionale e poi feste e spettacoli nel capannone industriale sul retro del palazzo dove prima risiedevano i padroni”, dove si era creata una dimensione confusionaria ma quasi idilliaca e le meravigliose piante di glicine del cortile riempivano di fiori le primavere degli occupanti, in cui sbocciavano amori e utopie.
Una microstoria altro non è che una controstoria, cioè racconto che rimette in discussione il discorso disciplinare e dissuasivo del potere, e, nonostante tutto, tutti i protagonisti delle diverse forme di vita che “covarono” in via Correggio conoscevano la frase di Buenaventura Durruti: “Non erediteremo che rovine, ma le macerie non ci fanno paura, perché portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori. Questo mondo sta crescendo in questo istante”.