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La periferia vi guarda con odio

Rumore, dicembre 2025La periferia vi guarda con odio

Voto: 81/100

La chiave di questo saggio sta nel sottotitolo: Come nasce la fobia dei maranza. Seroussi, giornalista esperto di rap, sottoculture e comunità marginalizzate e razzializzate, esplora e analizza il background sociale e culturale da cui sono emersi e in cui vivono i maranza (contemporanei), ma non per questo li nomina in continuazione mettendoli al centro di ogni discorso o analisi. Anche grazie alle voci di rapper e altre figure che, con vari ruoli, hanno a che fare con il rap, capitolo dopo capitolo l’autore definisce uno scenario composito in cui “abitano” attiviste, creator, stilisti, podcaster, insegnanti o, addirittura, un prete (l’ormai noto Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile di Milano e fondatore della comunità Kayros). È proprio da questo scenario che il lettore può entrare nel mondo dei maranza e prendere atto che “la fobia” nei loro confronti nasce in chi non ha interesse a conoscerne e capirne l’origine, in chi, di conseguenza, si limita solo ad avere paura “dell’emersione di un tessuto sociale giovanile e multirazziale, che si rispecchia pubblicamente nel rap italiano contemporaneo”, perché reputa questo fenomeno “pericoloso, preoccupante e immorale”. Un meccanismo classico che spiega tante altre fobie e che qui si applica a una categoria sempre più criminalizzata (con la complicità dei mass media). Frutto di un lavoro di ricerca sul campo da cui si intuisce il conseguimento di un equilibrio tra passione e accuratezza, questo saggio, inevitabilmente, parla della società italiana contemporanea. Ma non lo fa rivolgendosi solo ai cultori del rap e delle sottoculture o a chi parteggia per i maranza, anzi, potenzialmente apre a un pubblico piuttosto trasversale. E non stupisce che un editore formatosi nel punk come Marco Philopat abbia creduto in un libro in si parla di una “tribù metropolitana” presa così tanto di mira oggi… alla faccia dei denigratori incalliti.

di Luca Gricinella

altreconomia.it, 19 novembre 2025 Gabriel Seroussi. Chi ha ‘paura’ dell’etichetta dei maranza 

Nel libro La periferia vi guarda con odio (Agenzia X, 2025) Gabriel Seroussi analizza la “fobia” alimentata in Italia verso i giovani delle “periferie”, mostrando come il rap e le subculture urbane abbiano in realtà dato spazio e voce a una generazione marginalizzata. Denuncia la distorsione mediatica e politica della realtà, legata a timori sociali e razziali, e invita a un dialogo che riconosca identità e diritti delle nuove generazioni. 

Dal marzo di quest’anno sono comparsi sui social diversi gruppi di presunta “solidarietà” patriottica maschile che organizzano ronde notturne con l’obiettivo dichiarato di “cercare i maranza e dargli una lezione”. Tra i più noti c’è “Articolo 52” che si presenta come un “movimento anti-crimine” richiamando quell’articolo della Costituzione che afferma che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Questo nuovo attivismo punitivo si inserisce in un più ampio ciclo di violenza sociale e istituzionale che paradossalmente ha finito per rafforzare le stesse subculture urbane che intendeva reprimere. I giovani etichettati come maranza hanno trasformato lo stigma in un segno identitario, risignificando l’etichetta in chiave di identità, orgoglio e senso di appartenenza.
Gabriel Seroussi, che si occupa di musica rap, sottoculture giovanili e comunità marginalizzate, ne parla nel suo nuovo libro La periferia vi guarda con odio. Come nasce la fobia dei maranza edito da Agenzia X e pubblicato a ottobre 2025. Fu Marco Philopat – editore, scrittore e uno dei personaggi di riferimento dell’underground italiano – a proporgli di scriverlo, riconoscendo in lui la figura ideale per affrontare un tema tanto rilevante quanto spesso frainteso, qualcuno che potesse guardare la realtà con “un piede dentro e uno fuori”, capace di raccontarla con empatia e lucidità critica. 

Seroussi, il libro si apre con un excursus dedicato all’evoluzione del termine maranza. Ma che cosa significa esattamente essere un “maranza”? 
La parola “maranza” ha un’origine molto più antica di quanto comunemente si pensi. Alla fine degli anni Ottanta Jovanotti la utilizza ben due volte nell’album “La mia moto” riferendosi a sé stesso, poi attribuisce la stessa etichetta a Celentano durante una trasmissione televisiva. In quel contesto, “maranza” era sinonimo di tamarro con un’accezione bonaria: indicava chi amava la discoteca, vestiva in modo appariscente e apparteneva al mondo della musica commerciale, allora in piena espansione. Nei primi anni Duemila, la parola tende a scomparire per poi ritornare nel 2008, in un articolo de la Repubblica che cita una scritta su un muro del quartiere Corvetto a Milano. Il termine viene usato da un gruppo neofascista per indicare in modo dispregiativo la comunità marocchina, che nel frattempo era cresciuta significativamente in Italia tra gli anni Novanta e Duemila. È in questo contesto che nasce il falso mito etimologico secondo cui “maranza” deriverebbe dalla fusione di marocchino e zanza (termine milanese per indicare il “ladruncolo”, il “borseggiatore”). Da quel momento il significato diventa quello che intendiamo oggi: il maranza è un giovane, generalmente di sesso maschile, proveniente da contesti marginalizzati e spesso anche razzializzati, tipicamente di origine nordafricana, ma non per forza. L’accezione contemporanea è più ampia di quella etnico-razziale: comprende un insieme di atteggiamenti spesso descritti come aggressivi, codici estetici e riferimenti musicali che si legano alla cultura urbana e, in particolare, all’esplosione del rap degli ultimi anni. Oggi il maranza si definisce attraverso un’estetica riconoscibile, fatta di tute sportive, Nike Tn, marchi come Lacoste e altri elementi propri della street culture contemporanea. 

Come nasce la “fobia dei maranza”?
La fobia verso i giovani delle periferie nasce quando la loro immagine raggiunge il grande pubblico con la musica e i fatti di cronaca. Con l’esordio del 2016 Ghali è il primo, lo racconto nel libro, a dare voce a una porzione di Paese fino ad allora ignorata dalla musica popolare italiana, diventando per i rapper una sorta di cavallo di Troia nell’industria musicale. Dopo di lui emerge una nuova generazione di cantanti non bianchi, figli di comunità marginalizzate, che altrimenti avrebbero faticato a trovare spazio. Non richiedendo una formazione musicale, il rap è uno spazio di espressione sociale accessibile a tutti e diventa un vero e proprio “ascensore sociale” per questi giovani. E quando questi ragazzi mostrano al grande pubblico una società multiculturale che già esiste, lo fanno in un’Italia che fatica a riconoscere determinati cambiamenti. Nell’estate del 2022 due episodi, uno a Peschiera del Garda e l’altro a Riccione, attirano l’attenzione dei media, in particolare della stampa leghista, portando il termine fuori dalla bolla giovanile e facendolo esplodere nel discorso pubblico, caricato di un significato negativo. 

Penso al decreto Caivano, al “decreto sicurezza”: misure politiche che non fanno altro che alimentare l’idea di una società da cui bisogna difendersi. Crede davvero che l’Italia sia oggi un Paese così pericoloso come viene spesso descritta?
Episodi di violenza o microcriminalità esistono ed è giusto raccontarli. Il libro non nega la complessità delle periferie né le idealizza. Tuttavia questi fatti sono ampiamente sovrarappresentati nei media. A Milano, per esempio, la percezione del pericolo è molto più alta della realtà, in una città che resta tra le più sicure d’Europa. La sproporzione emerge quando la violenza assume un valore simbolico. Come osserva Paolo Grassi nel libro, l’attenzione mediatica cambia a seconda del luogo: fin quando la violenza sta in Piazza Selinunte, nella periferia dimenticata di San Siro a Milano, non interessa a nessuno ma nel momento in cui Chiara Ferragni dal suo terrazzo fa le storie dicendo che ci sono le baby gang sotto casa (in CityLife, ndr) esplode l’ansia sociale. Perché tocca un’area percepita come intoccabile e dunque simbolicamente minacciata. In un’epoca in cui si citano continuamente i dati, è curioso che la questura non rivendichi il calo dei reati registrato negli ultimi quindici anni. Forse perché non conviene trasmettere l’immagine di una città sicura. La creazione di “zone rosse” e la retorica dell’allarme sociale servono spesso a legittimare investimenti privati, grandi eventi e turismo, spingendo fuori la popolazione più povera. Chi difenderebbe oggi gli abitanti di San Siro, destinati a essere sfrattati per il nuovo stadio? Nessuno: il quartiere è stato criminalizzato al punto da perdere qualsiasi voce politica. A tutto questo si somma un’islamofobia strutturale, radicata in un Paese ancora profondamente cristiano, dove perfino l’ora di religione è cattolica. Quando si agita la paura dei “giovani islamici” riaffiorano memorie antiche -dai Mori nel Sud fino al Medioevo- intrecciate a interessi concreti, e la paura diventa uno strumento per mantenere un certo equilibrio di potere. 

Nel libro torna spesso sul tema della differenza negli atteggiamenti tra le persone immigrate di prima e di seconda generazione. Essendo figlio di una persona immigrata, in che cosa si distinguono genitori e figli, secondo lei?
Quando nasci in Italia, frequenti le scuole italiane e cresci dentro questa società, è naturale pensare di meritare gli stessi diritti del tuo compagno di banco. Ti rendi conto fin da piccolo di essere considerato un cittadino di serie B. Nabiha (una donna tunisina immigrata in Italia negli anni Ottanta, personaggio del libro, ndr), ad esempio, ha accettato serenamente di farsi chiamare Nadia per tutta la vita: per lei, quella italianizzazione del nome era il segno di un’accoglienza, di un nuovo inizio e in fondo anche di una conquista personale. Un ragazzo come Helmi (suo figlio, ndr) invece rifiuta di farsi chiamare Elvis: rivendica il diritto che il proprio nome esista così com’è, senza essere adattato o storpiato, perché in quel nome c’è la sua identità e il rispetto che pretende per sé. Questo contrasto racconta due esperienze migratorie molto diverse. Chi appartiene alla prima generazione spesso accetta qualche forma di compromesso o discriminazione pur di costruirsi una vita stabile mentre per chi è nato o cresciuto qui, quel confine invisibile tra “noi” e “loro” è molto più vicino, più evidente e quindi insopportabile. Non è un conflitto, ma un passaggio di consapevolezza. Ogni generazione ridefinisce il senso del proprio stare al mondo e oggi per molti giovani italiani di origini straniere, questo significa non accontentarsi più di essere tollerati ma pretendere di essere riconosciuti. 

Che cosa direbbe a chi si preoccupa che il linguaggio violento del rap possa influenzare negativamente i giovani o addirittura spingerli a delinquere?
Al di là di esperienze più di nicchia legate al rap socialmente impegnato o conscious, la maggior parte del rap commerciale ha l’umile ambizione di voler restituire la realtà per com’è. Questo approccio, a volte aggressivo o provocatorio, non nasce per incitare al male ma inevitabilmente racconta la realtà ridotta all’osso: la competizione, la lotta per il più forte, topos ricorrenti fin dagli anni Ottanta nel gangster rap statunitense. Io credo che la risposta non stia né dell’indignazione né nella censura -come spesso accade- ma nel ricercare un dialogo con una parte di società che questo Paese lo abita, lo vive e che richiede attenzioni anche alzando il tono della voce. Nel libro, per esempio, nel capitolo con la professoressa Chiara Volpato, si parla di modelli maschili machisti: non li ha inventati il rap ma qui emergono in maniera chiara e manifesta, insieme ad altri temi complessi legati alla salute mentale, al rapporto con sé stessi e con l’altro sesso. Sono riflessioni che riguardano tutta la società e mostrano come questa musica e gli ambienti che abita possano essere uno specchio utile per comprendere meglio il mondo che ci circonda.

di Teresa Grgurić

Zero, 11 novembre 2025 La periferia vi guarda con odio: micrografia del maranza (e del rap) di oggi

Un dialogo con Gabriel Seroussi, autore dell’ultimo libro di Agenzia X fra TikTok, gen 2016 e gli inevitabili cambiamenti generazionali.

Incontro Gabriel in un bar di quartiere poco distante dal posto in cui lavoro. Affianco a noi due avventori che origliano buona parte della conversazione e dopo che ci salutiamo mi fermano per farmi delle domande: uno viene da Baggio, l’altro da Cernusco, ascoltano rap da sempre ma giustamente “queste pare non se le sono mai fatte” e hanno deciso di farsele proprio quel giorno con noi. Mi fanno domande, divento io l’intervistata e capisco ancora meglio quanto da un punto di vista più o meno esterno risulta difficile comprendere gli intrinseci cambiamenti delle dinamiche della musica che arriva dalla strada e parla della strada, seguendo di pari passo i cambiamenti della società in termini micro e macroscopici. 
La periferia vi guarda con odio, il primo libro di Gabriel Seroussi uscito per Agenzia X, non parla solo di hip hop: parla della Milano di oggi e di quella di ieri, delle tensioni contemporanee che si porta dietro, e delle paure che emergono nel chiaroscuro contemporaneo che fanno puntare il dito in direzioni più o meno fuorvianti. 
Inevitabilmente anche il dialogo a riguardo parla di quello, incominciando dalle mie ricerche in tempi non sospetti grazie allo youtuber Gab Morrison, che mi ha fatto scoprire in termini di diggate hip hop le bellezze di Corvetto a Milano e della Barriera di Milano a Torino. Impressionante quest’ultima per quanto fermento di seconda generazione c’è e quanto allo stesso tempo tutto rimanga nel sottosuolo, nonostante lo urban in tutte le sue forme è attualmente l’immaginario preferito delle major… 

Dalla Barriera sta uscendo parecchia roba, stanno andando forte ma ancora non riescono a fare il salto. 
Sì, stanno spaccando. In generale il suono è molto Tiktok friendly, meno grill/gangsta ma più da social. Detto questo, diciamo che tutto quello che sta fuori dal segmento Milano fa fatica ad emergere nel contesto rap, soprattutto ciò che non strizza l’occhio al pop…

Sono le label per prime vanno sempre più a puntare su questo genere oppure è ancora la fame del rapper che è sempre più feroce?
Entrambe. L’ambizione della maggior parte dei rapper è quello di arrivare in alto commercialmente, almeno quel rap non conscious o impegnato, per questo la viralità su TikTok etc. Quello che sta accadendo però è che sempre più label nate insieme agli artisti di seconda generazione stanno iniziando a costruire dei percorsi con una maggiore autonomia rispetto a prima prendendosi degli spazi propri, dei propri studi di registrazione e spazi in cui fare shooting, con l’idea di internalizzare tutta una serie di processi e farsi le spalle più larghe. Qui a Milano succede spessissimo ma anche i ragazzi di Barriera di cui parlavamo prima hanno fatto la stessa cosa… Al di la dell’internalizzare i costi, secondo me c’è anche un ragionamento lungimirante legato al fatto che le carriere nel mondo del rap non sono mai particolarmente lunghe, quindi avere i propri riferimenti interni permette di muoversi più liberamente. 

Le carriere non sono lunghe per il solito discorso delle tematiche affrontate?
Un po’ il rap è un genere molto giovane ma che tende anche a seguire cambiamenti repentini di stile: quello che fai ora potrebbe non funzionare fra 6 anni. Quella che possiamo chiamare la generazione 2016 probabilmente per una fretta di svoltare non ha fatto in tempo a costruire un mercato del rap che fosse indipendente da quello pop ed è finito per farsi riassorbire dalla dinamica di Sanremo e tutte le altre coordinate relative. Attualmente invece sto vedendo emergere artisti che non vedo a fare quel tipo di percorso per la tipologia di rap che fanno: è difficile prevedere le dinamiche ma mi aspetto che per come sta andando la scena possa arrivare più o meno presto il momento di questa indipendenza. 

Sicuramente i temi e le dinamiche testuali del rap raccontano di dinamiche e problematiche di vita giovanile che cambiano molto in termini generazionali di pari passo a come cambiano i parametri con cui ti muovi nel mondo. 
C’è una bella intervista di Marracash di qualche anno fa in cui dice che dei rapper ci si ricorda principalmente i primi due dischi: il primo dice “vengo dalla fame e voglio uscirne” e il secondo dice “ne sono uscito e ora mi godo la vita”. Da lì c’è tutto quello che viene dopo questo percorso molto classico, ovvero la capacità dell’artista in questione di rinnovarsi. Nel suo caso, ha avuto il suo percorso e poi è arrivato a Persona, un disco maturo: un aggettivo che non è facile utilizzare nel genere. 

Una cosa che però mi ha colpito ad esempio al concerto di Fabri Fibra del mese scorso era che nonostante fosse un pubblico molto piccolo in termini di età, tipo gente nata del 2004, quelli che comunque sentivi cantare più forte erano i primi dischi. Fabri parlava negli anni 90/0 di un certo tipo di bisogni, mi chiedo come la gente nata dopo quel momento possa gasarsela. 
Questo pensando anche ai Club Dogo e cosa è successo quando anni dopo hanno fatto il concerto nel palazzetto credo che sia più legato alla maggiore capacità di diffusione del rap, che è diventato sempre più di tutte e di tutti. Personalmente nel 2004 Mifist non me lo ascoltavo ma poi ho sentito la mancanza di qualcosa che non ho mai vissuto. Il meccanismo è che negli ultimi 10 anni il rap è veramente il genere più ascoltato da tutte e tutti, il pubblico è aumentato a dismisura ed è molto più grande il bacino di utenza dei Club Dogo ora rispetto a quando erano più popolari. 

Quindi il pubblico del rap è cambiato. 
Sicuramente un passaggio fondamentale avviene a metà anni zero quando la generazione di Fabri, Marra etc inizia a tracciare un possibile percorso rap in termini discografici italiani. La generazione 2016 poi ha sancito il rap come un genere che tutti ascoltano e che non ti definisce più come persona: la categoria del rappuso non è più così definente di una persona, sia dal punto di vista di chi lo fa che di chi lo ascolta. Se pensi a Sfera Ebbasta, lui si è consacrato raccontando una realtà di paese di Cinisello senza particolari sottotesti sociali, mentre già Emis Killa si è preso il culo otto anni prima perché non veniva da un certo tipo di contesto… da qui il dibattito è aperto. Sicuramente alcuni valori che incarnava il rap si sono persi o indeboliti o meno radicati, quindi anche il target che prima ascoltava Gianni Celeste ora ascolta Sfera. È anche positivo, perché il rap è diventato più relatable. 

E quindi andando sul libro: nasce da una ricerca ampia che ha trovato la sua espressione lì o c’è un’origine più anedottica? 
Devo essere sincero: io non avevo nei piani un libro, mi è stato proposto. Davanti a questa possibilità, il ragionamento che ho fatto è stato che avendo lavorato nell’arco di questi anni in varie realtà che mi hanno permesso di inquadrare il fenomeno da vari punti di vista tutti diversi fossi in una posizione fortunata per dare voce a una serie di punti di vista che partono anche dalla mia stessa vita. 

E la scelta di parlare di Milano arriva dal tuo esserti spostato da Roma a qui quando hai iniziato a interessarti a questo oppure è più una scelta legata a come Milano rappresenta una tipologia di scena come questa? 
La fobia dei maranza in sé parte molto da Milano e dal Nord Italia in generale per una serie di questioni sociali, partendo dalle tante comunità razzializzate che rendono le province del nord diverse da quelle di centro e sud. Più che un discorso di grandezza di queste comunità si tratta della loro persistenza negli anni e soprattutto del loro rapporto ciò che è esterno a quella comunità (Per esempio a Roma la comunità bengalese è enorme ma si interfaccia molto poco con il fuori). Il libro racconta di una generazione di persone nate qui da genitori stranieri, che è la generazione che viene raccontata nel rap attuale di Milano. Nelle altre zone anche i rapper che sono emersi raccontano altro, in primis storie di periferie strutturate in maniera totalmente diversa. Fra l’altro, personalmente trasferirmi in un contesto milanese multiculturale come via Padova mi ha permesso di comprendere velocemente delle dinamiche per me nuove. 

La periferia vi guarda con odio. Chi guarda con odio chi? 
Il titolo nasce da un’opera d’arte di Amir Fathi che a sua volta è una citazione di un graffito fatto a Milano nel 2015, in occasione degli sfratti per via dell’Expo per cui c’era stata una manifestazione in centro organizzata da vari comitati di Milano. Questa scritta è comparsa in Missori e poi Amir l’ha resa un’opera d’arte. L’ho trovata una citazione interessante perchè a livello di cambiamenti in questa città l’Expo è stato un momento di cesura in cui il divario fra ricchi e poveri si è fatto sentire parecchio, quindi mi sembrava emblematico riprenderlo per raccontare queste storie. Il sottotitolo poi ti spiega chi guarda chi: l’idea è che dalle periferie ci siano i mostri, i matti, c’è una percezione di paura che quel titolo restituisce, ma si tratta di una fobia. Questo non toglie che sicuramente c’è un enorme divaricazione sociale e tanta rabbia in giro, che se non viene comunicata diventa odio. 

Quindi chi è il maranza di oggi di cui parli? 
Un giovane, tendenzialmente uomo, cresciuto in comunità marginalizzate e spesso razzializzate che condivide un atteggiamento che viene percepito come da bullo, prevalicante, e che a livello estetico si lega a quel tipo di cultura di abbigliamento che è diventata molto popolare anche grazie al rap. Le due assi sono sempre quelle: estetica e appartenenza di classe. 

E chi ti sei immaginato come target di questo libro? 
Il tentativo è quello di arrivare a un pubblico che è al di là di chi legge i libri ma che è interessato al rap in quanto tale e alle storie che racconto, che può riconoscersi in qualcosa di quello che racconto e dare un’identità a queste storie e a sè stesso. 

Citi molto Tiktok come riferimento. Io penso per assurdo che sia uno dei pochi specchietti virtuali che permettono di comprendere in maniera spontanea determinate tipologie di sottoculture, avendo un linguaggio molto diretto e a portata rispetto alle altre piattaforme. 
Sicuramente, e anche molto più orizzontale nei confronti dei contenuti. È un mezzo molto utile, io lo uso con parsimonia ma è super interessante nel suo essere ancora molto poco praticato e colonizzato dai boomer, per cui è chiaro che le culture giovanili si sviluppano lì. Mi viene da citare Zre9a, un tiktoker che ha iniziato a fare format tipo “un maranza può?”, contestualizzando il maranza in determinati spazi. Un maranza può andare in un centro sociale? In un rave? E intanto vestito da maranza andava a intervistare le persone facendo domande tipo “ti fa strano che io sia qui”? Era interessante perchè provava a raccontare il disagio del sentirsi inadeguato come maranza. 

Qualche tempo fa hai scritto un articolo sulla chiusura del Leoncavallo su un noto magazine online street. Quello che mi ha colpito è che i commenti sotto al relativo post instagram erano terribilmente negativi nei confronti di quello spazio. Pensando al discorso fatto fino ad ora mi chiedo come sia possibile che il pubblico che si approccia a determinate narrative, che magari sono più soft del passato ma comunque legate a determinate storie e percorsi di vita, sia così disinteressato politicamente e culturalmente a queste tematiche ma allo stesso tempo così coinvolto da queste narrazioni. Pensando anche al corrispettivo femminile di cui si parla sempre poco, quelle stelle stile ANNA che emergono con quel linguaggio baddie che cattura un pubblico di ragazz(in)e che quasi sicuramente non condivideranno le esperienze raccontate ma ne saranno catalizzate comunque. 
Innanzitutto direi una cosa: spesso si parla di come il rap abbia perso un aspetto legato agli spazi. Secondo me questo ha molto a che fare con un fenomeno generale che parte dalla fine degli anni ‘80, quando emerge quel rap non conscious che ha funzionato di più in termini commerciali. In quegli anni il rap switcha e diventa una dinamica di estremo realismo.< br> Mark Fisher coglie in una frase un punto molto figo: “l’ossessione del rap per il reale è anche la morte del sociale”. La restituzione di una realtà scarnificata è un racconto che va a eliminare il lato sociale della realtà. è una sorta di rilettura in termini economici e individualisti della realtà. 
Il rap è questo, e non dagli ultimi 5 anni… Vile Denaro, come direbbero i Club Dogo, senza ambizioni trasformative della società. Tutto questo è difficile che vada di pari passi con un impegno politico. Non è un fenomeno italiano: se si pensa all’America, la storia è la stessa. E se uno è interessato a quel circuito finisce per immergersi in quella visione del mondo: l’economia, la scalata, la vita in termini economici. Ciò che ha in se valori affettivi è fuori da questo schema. Da lì in poi, nonostante non ci sia nessuna ambizione trasformativa è chiaro che comunque queste figure rappresentano qualcosa. Da Simba la Rue che viene arrestato e i giornali che ci spendono sopra fiumi di parole, a Baby Gang e gli arresti domiciliari, naturalmente questa cosa ha un impatto collettivo sulla società anche solo passivamente, rompendo comunque gli schemi di un’industria globale dell’intrattenimento in cui svettano.

di Carlotta Magistris

tonyface.blogspot.com, 5 novembre 2025 La periferia vi guarda con odio 

"Le istituzioni e la politica hanno cominciato a demonizzare la figura del maranza con tutti i mezzi a disposizione, trasformandola in un capro espiatorio utile a confortare una società vecchia e impoverita". 

Si riassume in queste righe la tesi dell'autore, che analizza, attraverso una serie di incontri e interviste, non tanto la figura spettacolarizzata e demonizzata del "maranza" ma il contesto sociale e culturale in cui emergono criticità che portano alle situazioni più estreme (sparate puntualmente in prima pagina. Inserendo uno degli aspetti conseguenti, la modalità comunicativa più immediata ovvero l'ascolto e la proposta di certe tematiche attraverso rap e trap. 

"Nello stereotipo del maranza c'è la sintesi di tutto ciò che è destabilizzante per una società depressa a livello economico e demograficamente anziana, sobillata da decenni di retorica razzista e xenofoba. La fobia del maranza è una reazione di rigetto di fronte a cambiamenti demografici e culturali che sono già pienamente in atto in Italia." 

Il libro riesce a dare voce, in modo chiaro e diretto, a una realtà già da tempo stabile, attiva e partecipe alla quotidianità italiana, per quanto sia ancora vista come un corpo estraneo, una nicchia, un ghetto a parte. 

"Un altro tratto culturale del nostro paese è il diffuso sentimento d'odio verso i giovani. Considerati da molti pigri e ignoranti, sbeffeggiati perché non hanno fatto il Sessantotto o usato un telefono a gettoni, i giovani in Italia sono una categoria su cui si riversa facilmente la frustrazione di giornalisti anziani e incapaci di leggere la contemporaneità." 

In questo contesto si inserisce l'importanza della musica (t)rap, veicolo comunicativo, spesso inintelleggibile dai meno giovani e al di fuori dal contesto di riferimento, anche se "il valore culturale e politico dei rapper si misura dunque in ciò che questi rappresentano, prima ancora che in quello che comunicano. Il rap, soprattutto negli ultimi anni, è stato additato come piaga sociale, proprio perché in grado di raccontare condizioni di estrema marginalizzazione sociale, in particolare quelle persone con un background migratorio".
Un testo importante, approfondito e profondo, da leggere per chi è interessato a ciò che cambia o è già cambiato. 

"Questi ragazzi, spesso, non parlano con gli adulti. Non si fidano. L'unico modo per costruire un dialogo è imparare ad ascoltarli davvero, con rispetto."

di Tony Face

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