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Oltre l’avenue D
Il manifesto (Alias), 8 febbraio 2020 Il punk prima del punk
Il punk, anche nelle sue espressioni più estreme, ha perso ormai da tempo ogni carica eversiva e provocatoria, sdogananto proprio da quel sistema “imposto”, criticato e fronteggiato come antagonista, che lo ha trasformato da movimento di resistenza sociale e (sub)culturale, a semplice genere musicale e fenomeno di costume.
Tuttavia è una delle rare espressioni che continua a conservare una fascinazione difficile da eguagliare. Lo dimostra la massiccia produzione di tributi e approfondimenti di ogni genere (biografie, documentari, libri, mostre), molto spesso, purtroppo, in chiave approssimativa o sensazionalistica, lontana dalla vera essenza del movimento, ma che restituisce l’illusione che il “punk non (sia) morto”.
Punk’s not Dead è la traccia che apre e dà il titolo al primo album (1981) della band inglese The Exploited, ed è anche lo slogan spesso impiegato per significare che l’essenza antagonista e di rifiuto, che da sempre, trasversalmente, ha caratterizzato il movimento, ne ha ribadito ogni volta i contenuti e i confini, nonostante la complessità delle sue diverse correnti. le contaminazioni, l’approdo a forme di spettacolarizzazione che ne hanno tradito, in alcuni casi, l’autenticità e la forza dissacratoria.
Pretesto e occasione per questa riflessione, l’uscita (non recentissima, a dire il vero, ma passata in sordina) del libro Oltre l’Avenue D. Un punk a New York 1972-1982, autore Philippe Marcadé, francese, frontman e voce dei Senders, band punk blues, eletta dai lettori del “New York Press” miglior gruppo live di NY”, amico di Johnny Thunders, Richard Hell e Willy De Ville, anch’essi agitatori di coscienze sul palco del Cbgb o del Max’s Kansas City.
Testimone diretto e “con un buona reputazione” della primissima scena punk rock Usa, Marcadé ricorda che tutto ebbe inizio a New York. Tra gruppi che al tempo quasi nessuno conosceva, tantomeno i discografici. Invero, sulla nascita della scena punk, musicale ed estetica, si alternano, nella ricerca di un’origine precisa, teorie e considerazioni varie: indubitabile, in ogni caso, l’influenza dei New York Dolls, degli Stooges, degli MC5, così come non possono non definirsi protopunk i suoni sporchi, primitivi e crudi dei Sonics, a metà degli anni Sessanta. Del resto, il rock ha sempre dimostrato di essere un’entità in costante evoluzione, che sperimenta, e attinge dalle esperienze precedenti. Lo ha fatto anche il punk, quando, a metà degli anni Settanta, attraverso band come Ramones, Blondie, Television, gli Heartbreakers di Johnny Thunders, e poi Patti Smith e Richard Hell, prende vita dalla contaminazione tra glam, rock’n’roll, sonorità Sixties, surf, garage e rock. In una New York allo sbando, sporca, violentissima, e sull’orlo di una forte crisi economica, nacque e si sviluppò la prima scintilla di un movimento, che, sebbene non abbia determinato rivoluzioni politiche e sociali, ha mutato, a livello di costume e di attitudine, lo scenario culturale e sub-culturale all’opposizione dell’establishment dell’epoca.
In mezzo alle rovine dei quartieri e a quelle umane, travolte da droghe e degrado, si sviluppò una controcultura che investì diversi ambiti artistici, travolgendo il tessuto sotterraneo di ogni città americana, che ne esemplificò istanze e contenuti. Basti pensare all’esperienza del Colab (Collaborative Projects), collettivo nato nel 1977, che raggruppava personaggi impegnati nelle più svariate forme d’arte, portandola fuori dalle gallerie per mostrarla nelle strade, nei quartieri più problematici, com’era per esempio, ai tempi, Times Square. La “scuola” da cui uscirono talenti come Jean-Michel Basquiat o Keith Haring. O ai nuovi linguaggi della critica musicale, che investi e influenzò nettamente stili e linee editoriali. Vedi Lester Bangs in “Creem”, la rivista rock di Detroit nata dal giro che gravitava attorno al White Panther Party di John Sinclair, movimento politico rivoluzionario bianco fiancheggiatore delle Pantere Nere che inneggiava “all’assalto totale alla cultura con ogni mezzo necessario, inclusi rock’n’roll, droga e sesso per strada”, e alla eliminazione del capitalismo come base economica degli Usa da attuarsi mediante l’attivismo sociale per l’integrazione razziale e la eliminazione della classe borghese.
Con l’arrivo di Bangs, la rivista assume e si identifica fortemente con i toni delle sue recensioni, cariche di invettiva, disprezzo, fantasia, rabbia e gioia. Insieme a Dave Marsh (caporedattore), Bangs “... scoprì, inventò, alimentò e promosse un’estetica di gioioso sdegno, di amore per il trash e il disprezzo per tutto quello che era pretenzioso” (Greil Marcus nella introduzione a Detroit Sucks. Guida ragionevole al frastuono più atroce di Lester Bangs); quell’estetica che prese il nome che lo stesso Bangs gli aveva dato – punk – e poi raccontato, descritto e demistificato, tra il 1970 e il 1976, in più di 170 recensioni, 70 servizi speciali, numerose didascalie per le foto.
Altro esempio, lo stile fanzinaro adottato in onore al motto “do it yourself” dalla rivista “Punk” – a cui lo stesso Bangs, giovanissimo, aveva collaborato –, fondata dal critico musicale Legs McNeil, autore di Please Kill Me (1996), e della prefazione al libro di Marcadé, e dal fumettista e scrittore underground John Holmstrom, illustratore delle copertine degli album
Rocket in Russia e Road to Ruin dei Ramones, e creatore di personaggi come Bosko e Joe. La scena punk, musicale e non, di New York trovò proprio in questo magazine il tramite della propria diffusione in tutti gli Usa: tra il 1976 e il 1979 ne escono 15 numeri, con Holmstrom che definisce la rivista “la versione stampata di The Ramones”. La grafica editoriale è quella del “fumettismo underground”, quella immediata e istintiva delle fanzine (collage di foto e teso); i contenuti e lo stile rimandano a un giornalismo pop e diretto. Impossibile non fare riferimento all’estetica punk, ai vestiti (strappati), al taglio dei capelli, a una moda che era nata per non essere alla moda. Che parte da New York con Richard Hell e l’influente foto a torso nudo violato dalla scritta “you make me”, usata come copertina dell’album Blank Generation - e ispira Londra con Vivienne Westwood. Malcolm McLaren e la loro piccola boutique al 430 di King’s Road; dando vita all’iconografia e all’immaginario punk, copiati e imitati a tal punto da essere in seguito tra trasformati in qualcosa di assolutamente diverso, di elegante e di costoso, in qualcosa che si pose in evidente contrasto con il “do it yourself”, a cui anche in questo caso il movimento si era ispirato per essere libero dall’eleganza e dall’omologazione. DIY “fai da te”. Così Hell dichiarava a proposito: “Una cosa che ho cercato di restituire al rock’n’roll è la consapevolezza che sei tu che inventi te stesso. È per questo che ho cambiato nome, che mi sono inventato look, taglio di capelli e tutto il resto. Perché è normale che se inventi te stesso poi ti ami (…) Era una cosa che dovevi farti da solo, e con cui esibivi il tuo essere libero dalla proprietà e anche dall’eleganza”.
Lo scenario della New York culla del punk ci appare in evidente contrapposizione a quello della metropoli di oggi, ripulita, omologata, gentrificata. Ma a differenza di quanto si è portati a pensare, il movimento punk che nasce nella Grande Mela non si fa portatore di alcun preciso messaggio politico, vuole solo dichiarare una rottura con il passato, il superamento - in bilico tra ribellismo e nichilismo di ogni fissità culturale, estetica ed edonistica. Diversamente da quanto si verifica in Inghilterra, dove sicuramente non sono mancati i gruppi, primi tra tutti i Clash, che hanno sentito l’esigenza di veicolare in maniera netta attraverso le loro canzoni messaggi politicamente e socialmente orientati, sia in chiave di contestazione, sia proponendo una soluzione. Ma, in prevalenza, il primo punk era essenzialmente l’espressione di un’urgenza generazionale, della volontà di rompere con schemi imposti, rigidi, obsoleti, quindi senza particolari implicazioni ideologiche, soprattutto, come detto, negli States. Del resto, il rifiuto di partecipare alla politica era di per sé una dichiarazione politica.
In Italia il movimento attecchì assumendo forme più ideologiche e politiche, di contenuto più orientato alla corrente dell’anarco punk e dello slogan “DIY” che vide nei Crass la band iniziatrice, e che rappresentò per i punk italiani un messaggio consolatorio dopo la delusione per Rotten e compagni. Non a caso tutti i gruppi più importanti avevano finito per accasarsi con le grandi etichette discografiche, trovando successo e classifiche: dai Blondie ai Ramones che tennero fede al loro suono e all’immagine originaria, continuando a riproporla uguale nel corso degli anni. Accanto a questi. Willy De Ville, Talking Heads e Television, la stessa Patti Smith, i Dead Boys di Stiv Bators, Wayne/Jane County, Richard Hell e i Voidoids. i Dictators, i Suicide, i Senders. Storia a parte quella di Johnny Thunders, ex New York Dolls, poi negli Heartbreakers, autore del brano manifesto di questa generazione Born to Lose, che il successo non solo non lo aveva quasi mai visto, ma nemmeno lo prendeva in considerazione, unità all’ingenuità, alla spontaneità, all’urgenza di vita e, nel contempo, alla necessità di sopravvivere in situazioni difficili, modellò una generazione unica, e uno stile iconico quasi immediatamente ripetuto e imitato. Ma si trattò di un’esplosione “culturale” sincera, primitiva, che ancora oggi continua a ispirare e a forgiare gli antagonismi sociali ultra-generazionali.

Intervista. Philippe Marcadé, i ricordi immortali di un “sopravvissuto”

Ormai da anni trasferitosi in Italia, Philippe Marcadé accetta di raccontarci la scena punk rock newyorkese già, in buona parte, descritta nel suo libro. Presente alla prima esibizione dei Ramones, ed “esotico” interlocutore di una affascinata Debbie Harry, che incontra per la prima volta al Cbgb, Marcadé ci introduce, alla perfezione, nel clima di quei giorni.
“Quando arrivai a New York, nel 1975, la scena punk era ancora qualcosa ancora di molto ridotto, sotterraneo. Prima che l’intera scena passasse al Max e al Cbgb e diventasse molto popolare, accadeva tutto in un club molto piccolo, il Mother’s, sulla 23rd Street. I Ramones esistevano già, così come i Blondie, gli Heartbreakers e pochi altri, ma quasi nessuno li conosceva. Le case discografiche non sapevano ancora nulla di queste band e non avevano ancora rovinato tutto con i loro soldi e la loro commercializzazione. Tutto sarebbe cambiato nel giro di due anni. Ma nel ’75 erano ancora solo un gruppo di pazzi che suonavano per alcuni amici. Quello che sembravano avere in comune era un vero odio per tutte le pretenziose band hippie prog con i capelli lunghi che ascoltavi alla radio in quei giorni: nomi come Yes o Emerson, Lake & Palmer e tutti questi gruppi di ‘virtuosi’ con i loro tipici assoli di batteria da venti minuti, opere rock e tutta quella merda. Fu una vera ribellione contro il noioso rode commerciale dei primi anni Settanta, ed era tutto ancora molto, molto sotterraneo”.
Il titolo del libro trae spunto dal nome di una delle strade che compongono Alphabet City, uno dei quartieri di Manhattan, nell’East Village di una New York degradata e oscura, ma già profondamente cool, dove tutto ebbe inizio. “Nel ’75, New York stava attraversando la sua peggiore crisi economica ed era in rovina. Nel Lower East Side, interi block erano in gran parte demoliti, gli edifici abbandonati. Ed era anche molto pericoloso. Ci fu una massiccia diffusione di eroina e il crimine dilagava. La cosa buona era che si poteva trovare un appartamento per meno di duecento dollari al mese. Naturalrnente, questo tipo di degrado urbano era un terreno perfetto per il punk. I Ramones e i Blondie vivevano sulla Bowery, dove si trovava anche il Cbgb. Era davvero brutto, lì, con topi, scarafaggi e ubriachi senza tetto ovunque sui marciapiedi. Alphabet City, dove viveva la maggior parte di noi, era particolarmente pericolosa. Un tempo c’era questa piccola poesia che tutti quelli che vivevano là conoscevano, ‘Avenue A, you’re Alright, Avenue B, you’re Brave, Avenue C, you’re Crazy, Avenue D, you’re are Dead!’”.
Marcadé conferma che il punk: non è esploso con il primo album dei Ramones o il primo concerto dei Sex Pistols, ma era già in nuce da tempo. Peraltro aggiunge un particolare spesso trascurato o, in qualche modo, come gli piace evidenziare, accuratamente nascosto: “La maggior parte dei punkrocker che ostentavano la loro attitudine ‘anti-hippie’ erano stati hippie qualche anno prima, anche se molti erano piuttosto imbarazzati ad ammetterlo. Il punk era solo un’evoluzione naturale o ‘devoluzione’, si potrebbe dire! Già nel 1969 gli Stooges hanno piantato il seme del punk, riportando la semplicità e la ferocia che il rock aveva perso nel ‘67 con la grande ondata psichedelica, Sgt. Pepper’s e tutto il resto. I NewYork Dolls fecero un ulteriore passo in avanti riportando la formula della "canzone da tre minuti" e, nel 1974, Doctor Feelgood e l’intera scena del punk rock in Inghilterra, aprirono le porte al punk. Il punk ha riportato il divertimento e la rabbia adolescenziale che si era persa nella musica rock dalla metà degli anni Sessanta. Confronta Love Me dei Phantom o The Swag di Link Wray, entrambi del 1958, con qualsiasi cosa di Cramps, Ramones o Suicide e sicuramente troverai una relazione diretta e un’atmosfera simile”.
Allo stesso modo Philippe corregge un altro falso mito o comunque una posizione spesso richiamata a sproposito se riferita al punk delle origini: “Il lato politico del punk rock era più una cosa britannica (Clash, Sex Pistols, Crass ecc.). A New York, dove tutto ebbe inizio, non si parlò mai di politica. Il messaggio era più ‘non ce ne frega un cazzo’ anziché ‘vogliamo salvare il mondo’. Resta inteso che, a parte Johnny Ramone, che era un fuori di testa di destra, tutti questi punk rocker newyorkesi erano anti-sistema, anti-autorità, anti-polizia e tutti, semplicemente, non sentivano nessuna necessità di specificarlo e rompere le palle a qualcuno con queste cose. Era molto più divertente cantare della colla da sniffare! (Now I Wanna Sniff Some Glue è un brano dal primo album dei Ramones del ‘76, ndr). In Inghilterra, (i Crass erano un’evidente eccezione), penso che le tendenze politiche del punk purtroppo siano diventate in alcuni casi un po’ una contraddizione, a volte una sorta di ‘posizione ipocrita’’. Come puoi dire di essere anticapitalista mentre hai appena firmato un lucroso contratto con una casa discografica che è una società multimilionaria? O stai da una parte o dall’altra o stai zitto!”.
Quando gli chiediamo di Thunders ci dice: “Johnny era così talentuoso, carismatico e figo che, ovviamente, senza l’uso di droghe e gli eccessi di ogni tipo, avrebbe potuto avere molto più successo. Ma successo in cosa? Più ricco e famoso? Certamente, ma sarebbe stato un fallimento nell’essere un vero eroe ribelle del rock’n’roll che si rifiutava di scendere a compromessi. Se avesse esaurito il tutto e accettato di diventare un artista mainstream, allora sarebbe stato un ‘perdente’? In un certo senso, penso di sì. Come Gene Vincent o Syd Barrett, Johnny è riuscito a diventare ‘The Real Deal’, non una versione annacquata”.
Marcadé è un protagonista diretto, un “sopravvissuto”, un “uscito vivo” da quella stagione pazzesca e alla domanda se è ancora in contatto con qualcuno del periodo risponde amaramente: “Purtroppo sono tutti morti!”. Si congeda suggerendo una playlist ideale durante la lettura del suo libro, ecco alcuni titoli: The Swag, Link Wray; Trash, The New York Dolls; She Does it Right, Doctor Feelgood; Judy is a Punk, The Ramones; Human Fly, The Cramps; Cheree, Suicide; Venus of Avenue D, Mink DeVille; Chinese Rocks, The Heartbreakers; Blank Generation, Richard Hell & The Voidoids; Denis, Blondie; No More Foolin’ Me, The Senders; You Really Piss Me off, The Senders; All Kindsa Girls, The Real Kids; You Can’t Put Your Arms Around a Memory, Johnny Thunders; (I Can Get No) Satisfaction, Devo; Garbageman, The Cramps; People Who Died, The Jim Carroll Band; Return to Sender, Elvis Presley.
di Clarice Carassi
www.satisfiction.me, 6 febbraio 2017 Oltre l’Avenue D
Dietro ogni grande viaggio, il vuoto terribile di ciò che ci si è lasciati dietro. Le speranze disattese, i colori sbiaditi, il crack di quel qualcosa che si è rotto dentro e non tornerà mai più come prima.
Ma non la noia, quella no. Assolutamente.
Una volta buttati giù i moloch della propria formazione sentimentale e una volta accertatisi che, nonostante tutto, nella vita capita comunque di rimanere in piedi, c’è ancora tempo di ricominciare. Più cinici di prima, certo. Sicuramente ammantati da una matta lucidità che vuol fare il suo corso, non c’è dubbio.
Eppure, con voglia.
In Oltre l’Avenue D (Agenzia X, pp 192, 15 €), la poco conosciuta leggenda del punk americano, Philippe Marcadé, ci racconta dal di dentro l’epopea del no future newyorchese degli anni Settanta. Partito poco più che fanciullo dalla natia Francia con il classico zainetto da esploratore “dell’anima” e il desiderio ardente di lanciarsi nei sentieri della Frontiera per eccellenza, il futuro leader della cult band Senderos sbarca nel Paese in cui si dice che ogni sogno s’avveri col malcelato entusiasmo del giovine in partenza per il grand tour formativo. Dopo un lungo, divertente periplo in decine di città statunitensi, fatto in compagnia di uno sballatissimo amico a bordo di un camion e allietato da corroboranti esperienze psicotrope e col gentil sesso, il duro risveglio e la rapida presa di coscienza del fatto che l’America dei meravigliosi vagabondi kerouachiani è solo una bufala tramandata dai fricchettoni dei due decenni precedenti. Marcadé assaggia la durezza delle galere a stelle a strisce e perde quella verginità incosciente dell’avventuriero in erba nel tentativo - per fortuna per lui riuscito - di conservare quella fisica e mentale. Basta frusta spiritualità d’accatto, dunque, e subito uno scomodissimo atterraggio nelle realtà metropolitane più dure del paese. Si comincia così una lotta alla sopravvivenza che passa da una sistemazione provvisoria all’altra, da un lavoro improvvisato all’altro, mentre gli eccessi, ogni tipo di eccessi, non hanno più quell’appeal fascinoso e blakiano (o jimmorrisoniano) di conoscenza, ma sono solo un modo di anestetizzare le Grandi Delusioni e rallentare la corsa verso il precipizio. Eppure, una volta messe definitivamente le radici nell’incasinatissima Grande Mela degli anni Settanta, questo transalpino dall’apparenza così delicata, si ritrova suo malgrado catapultato in un’atmosfera molto interessante: intorno a lui, infatti, un esercito di sfiduciati nichilisti e rinnegati si muove in un sottobosco urbano di sordida quanto rinnovata creatività. E così, smessi i panni romantici di sognante e non indirizzato vagheggiatore, Marcadé entra subito a far parte del giro “giusto”, che è poi quello sbagliato, sbagliatissimo di una nouvelle vague che non è soltanto musicale o ideologica, ma culturale tout court: il nome non è ancora quello, infatti, ma la sostanza sì: il punk. Da questo momento in poi, lo vediamo impazzare nelle strade più buie e peggio olezzanti dell’East New York, per una sortita nel nuovo tempio di questo non codificato movimento, il CBGB, o in qualche altra bettola pessimamente frequentata nella quale si stanno esibendo le nuove (anti)stelle: Johnny Thunders, i Ramones, Debbie Harry e compagnia brutta. Il giovane francese conosce tutti, frequenta tutti e presto si ritrova protagonista in prima persona di una stagione che segnerà indelebilmente gli ultimi quarant’anni.
Memoriale a dir poco avventuroso e con il “tiro” del romanzo ben riuscito, “Oltre l’Avenue D” è innanzitutto una storia piena di fascino. Nelle scarse duecento pagine di cui si compone, assistiamo ad una autentica sfilata di personaggi leggendari non soltanto del rock, ma del costume contemporaneo in generale. Con una calibrata oscillazione tra prosa divertita e momenti di maggior raccoglimento, quasi elegiaci, l’autore incanta chi lo sta leggendo attraverso un turbine di episodi in bilico tra il picaresco e l’assolutamente folle. Si sorride molto, è vero, ma ci si commuove non poco, soprattutto quando Marcadé, descrivendo la parabola discendente della rivolta di cui è stato tra i protagonisti, si trova costretto a contare i caduti tra i suoi amici o ad ammettere i tracolli affettivi o, e forse è la cosa peggiore e meglio affrontata, il venir meno emozionale ed effettivo di quello che voleva essere un nuovo modo d’essere, prima di tutto.
Non soltanto per i cultori della musica e del punk rock in particolare, ma per tutti quei lettori che hanno amato i grandi cantori delle “derive” metropolitane come Nelson Algren, Hubert Selby e Charles Bukowski.
di Domenico Paris
Alias – il manifesto, 30 giugno 2012Norman Cook, quel tour del 1981 mi ha sconvolto l’esistenza
Nel 1981 inizia a circolare il vinile The Adventures of Grandmaster Flash on the Wleels of Steel (Sugar Hill records), disco fondamentale cui un dj mixa vari pezzi di altri artisti scratchando. Gli strumenti infatti sono tre giradischi. A firmarlo è Joseph Saddler (1958), meglio conosciuto come Grandmaster Flash, uno dei padri dell’hip hop. I Clash, molto attenti alle subculture urbane, invitano il dj afroamericano ad aprire alcuni dei loro live, sia negli Stati Uniti, sia in Europa, II concerto a cui si riferisce Fatboy Slim nell’intervista qui a fianco, quello che gli ha cambiato la vita, ha avuto luogo a Londra, dove ii pubblico “bianco”, grazie al peso della comunità caraibica e alla forza del reggae, era quanto mai abituato a vedere esibizioni di un dj accompagnato dall’Mc o toaster di turno. Se Fatboy Slim ci fornisce un retroscena riguardo la data londinese, il connubio The Clash & Grandmaster Flash è passato agli annali anche per la reazione non certo magnanima dei pubblico newyorchese.
“(...) I Clash – scrive u.net a p. 215 del suo saggio Renegades of Funk. II Bronx e le radici dell’hip hop, – innamoratisi del rap grazie ai primi vinili che stavano arrivando oltreoceano, incisero un omaggio a quella cultura con la canzone The Magnificent Seven, inclusa nello storico triplo album Sandinista. Ma non si limitarono a questo: volevano dimostrare il loro amore per l’hip hop e lo fecero non appena si presentò l’occasione. Nel giugno del 1981, infatti, chiesero a Futura 2000 di realizzare il poster promozionale del loro tour statunitense e di accompagnarli per realizzare graffiti live durante i loro spettacoli; inoltre chiesero a Grandmaster Flash and the Furious Five di essere il loro gruppo di apertura. L’esito di questo connubio non fu dei migliori, come scrisse Michael Hill sul ‘Village Voice’: ‘Invece di un crossover culturale, si è rischiato di ampliare le differenze’. Sommersi dal lancio di bottiglie e di oggetti di altro genere, Flash e i suoi Mc furono costretti ad abbandonare il palco tra gli insulti del pubblico. Sebbene parte dei punk statunitensi non fossero pronti per un tale clash di culture, il gruppo inglese invece era parte integrante di quell’avanguardia estetica che stava emergendo come nuova élite della scena dei club downtown”.
Pubblicato dalla stessa casa editrice, Agenzia X, anche Oltre l’Avenue D. Un punk a New York – 1972-1982, il libro del francese Philippe Marcadé, racconta dello stesso live citato da u.net. Ma da un altro punto di vista: “La sera dopo ci siamo ritrovati sul palco davanti a ottomila persone. Prima di noi suonavano i Treacherous Three, un gruppo rap della Sugar Hill Gang legato a Grandmaster Flash, ai Furious Five e altri della scena. Cera anche Futura 2000, il graffitista, chiamato a dipingere con le bombolette un immenso muro metallico dietro al palco, mentre suonavano i Clash. Volendo sempre essere all’avanguardia, amavano molto il movimento hip hop che stava esplodendo nei club del Bronx e del Queens. Adoravano i rapper newyorkesi, al contrario del punk rock Usa che considerava quella musica come parte del mondo della disco, il nemico, la peggior musica del mondo. I Treacherous Three si fecero cacciare in malo modo. Piovevano migliaia di bottigliette di Coca-Cola. Se ne presero parecchie in piena faccia. Era il diluvio”. Un live passato alla storia, di cui ha scritto per esempio anche lo scrittore di Brooklyn Jonathan Lethem (1964) sul “New York Observer” nel 2000 parlando di un connubio frutto dello “scomodo e appassionato idealismo” dei Clash. Ma l’esperimento di Joe Strummer e soci, dopo la vivace prima assoluta newyorchese, presto avrebbe avuto altra sorte e, grazie alla mentalità i londinese, ora si può dire abbia dato il via alla camera di Fatboy Slim. Senza dimenticare la lunga lista di esponenti della scena punk italiana che si sono interessati all’hip hop i fino a diventarne parte: per quanto questo aspetto possa rincuorarci però stiamo sempre parlando del decennio successivo. Lasciando stare le tempistiche di ogni nazione e mettendo in conto le bottigliate, non si può che lodare la scuola punk.
di Luca Gricinella
Il Giornale, 13 febbraio 2012Alla conquista della Grande Mela
Oltre l’Avenue D di Philippe Marcadé racconta la svolta musicale anni settanta all’ombra della Statua della libertà. E furono gli europei in fuga a dettare la linea

A volte non servono le masse per fare le rivoluzioni: basta un gruppetto di poche persone, sufficientemente folli e visionarie, per accendere quelle scintille che daranno vita a cambiamenti epocali.
Una cosa del genere è accaduta a New York intorno al 1974, un periodo in cui le espressioni creative vivevano un momento di transizione. Soprattutto nella musica, il punk non era ancora esploso mentre dall’Inghilterra i suoni barocchi del pop sinfonico stavano fortunatamente terminando la loro epopea. Allo stesso modo nell’arte si attendeva una nuova avanguardia, visto che Pop e Minimal da tempo dominavano nei musei e gallerie, mentre il graffitismo risultava ancora marginale. Manhattan, peraltro, non era la stessa di ora e interi quartieri venivano considerati a rischio. Off limit, ad esempio, era Alphabet City, la zona in cui le strade si contano non più per numero ma per lettera. “Oltre l’Avenue D” era sconsigliabile spingersi. È proprio dalla “città proibita” che prende il titolo la docu-novel di Philippe Marcadé, Oltre l’Avenue D. Un punk a New York 1972-1982, appena pubblicata in Italia da Agenzia X (pagg. 192, euro 15).
Il racconto si apre con l’arresto di un diciassettenne beccato con una discreta quantità di droga addosso. Da lì cominciano una serie di avventure picaresche (viaggi in autostop, sballi, concerti, incroci sessuali) e di incontri che lo convinceranno ad abbandonare la vecchia Europa e trasferirsi definitivamente in America. Prima di approdare a New York, Marcadé fa tappa a Boston, dove divide l’appartamento con l’amico Bruce e conosce un manipolo di strafatti che passano il tempo ad ascoltare buona musica e rollare canne. Alcuni di loro sono “armati” di macchina fotografica per riprendere in tempo reale ciò che succede e ritrarre i protagonisti di questa nuova “lost generation”: c’è David Armstrong e, soprattutto, Nan Goldin, che oggi è considerata una delle artiste più importanti di quel periodo. Le sue istantanee hanno testimoniato un’epoca votata alla massima libertà e all’autodistruzione: aids ed eroina ne hanno portati via molti e lo stesso Marcadé, con la saggezza del reduce, ammette che esserne usciti è stata una grande fortuna.
Luoghi di culto della New York di allora erano il Chelsea Hotel, l’albergo che aveva ospitato, tra gli altri, William Burroughs, Janis Joplin, Edith Piaf, Henry Miller, Andy Warhol e la sua corte, il posto in cui qualche anno dopo sarebbe stata uccisa Nancy Spungen: quindi il CBGB’S, il locale che aveva sostituito nel cuore degli alternativi il Max Kansas City, in verità un posto brutto e sporco dove ogni venerdì sera si esibiva una band che molto probabilmente avrebbe scritto un capitolo nella storia del rock. Lì Marcadé capisce che la musica sta davvero cambiando. Dopo aver sentito Mink De Ville, conosce quattro ragazzi magri, taglio di capelli alla Beatles 1965, giubbotto di pelle nera, scarpe da ginnastica e jeans strettissimi. Sono i Ramones che “in mezzo a tutti quegli artistoidi scorreggioni e beautiful people con capelli lunghi e stivaloni argentati, erano sicuramente all’avanguardia, il gruppo più anti-hippie mai visto, il futuro del rock americano”.
Altri incontri flash, quelli con i Cramps, Debbie Harry, il fotografo Robert Mapplethorpe, Johnny Thunder in una New York devastata dall’eroina: “non ci rendevamo conto del pericolo, né di quanti amici sarebbero morti. Era la droga degli intellettuali, degli artisti, della gente cool. Qualcuno avrebbe dovuto dirci la verità...”.
Nel 1976 Marcadé fonda la sua rock band, i Senders, autori di un punk oscuro nel mood della No Wave di allora, che suona al Max’s la stessa sera in cui muore Elvis Presley (“ma pareva non fregasse un cazzo a nessuno, visto che lo si considerava morto dal 1959”). Pur non passando alla storia resteranno un piccolo fenomeno indie di quegli anni (vengono considerati la miglior live band di New York) e faranno da spalla ai concerti di Blondie e dei Clash. Rispetto ai colleghi inglesi, chi vive a Manhattan ha da tempo abbandonato le spille da balia e i vestiti stracciati. Sono dei veri e propri dandy che curano il look con attenzione.
Il periodo d’oro dei Senders dura fino al 1982, quando l’atmosfera è profondamente cambiata e molti dei fenomeni underground sono stati definitivamente inglobati nel mainstream. Fino al 1997 si esibiscono dal vivo, nonostante scioglimenti temporanei e perdite definitive (la morte del chitarrista Marc Bourset). Oggi Marcadé ricorda quel periodo senza retorica né troppi rimpianti. La sua filosofia, in fondo, è rimasta quella di allora: “muori giovane e rimani bello”.
di Luca Beatrice
www.outsidersmusica.it, 5 settembre 2011I punk cocker che suonavano rhythm’n’blues 'Oltre l’avenue D'
Oltre l’avenue D è un libro che ha sconvolto il mondo ed ora da aprile anche l’Italia. Forse qualcuno lo supponeva, qualcuno lo sapeva e qualcun altro l’ha vissuto, ma quello che ci racconta Philippe Marcadè è sicuramente qualcosa che va oltre la nostra prospettiva.
Phil Marcadè, prima batterista poi leader e cantante dei Senders, ci racconta 10 anni importanti della sua vita in un momento in cui New York stava per essere assalita dal movimento Punk. Esatto i rocker degli anni ’70 delle opere-rock o dei grandi assoli stavano sparendo per lasciar vita al solo rock affilato e al blues, come quello degli Stones, in cui scarnezza e intenisità caratterizzavano il tutto, e fu così che si svilupparono i primi punk rocker e le band “pub rock” come i Dr.Feelgood.
Il trasferimento di Phil da Parigi a New York fu un percorso lungo compiuto attraverso tantissime città americane in stile On the road di Kerouac, senza soldi ma con un sorriso in faccia che permetteva di strappare un passaggio ovunque. Ed un passaggio gli permise di arrivare fino a Boston, dove ad un concerto incontrò Jhonny Thunders componente dei New York Dolls, amicizia che permise a Phil di entrare nel mondo della musica. Da lì il traferimento a New York dove iniziò a frequentare il CBCG’s e il Max’s, luoghi ormai inesistenti poiché il primo è stato abbattuto mentre al posto del Max’s ora vendono hamburger. Se citi questi luoghi a qualsiasi intenditore di musica facilmente dirà di conoscerli, in quei locali hanno fatto la storia della scena punk new yorkese e non solo.
Gente che suonava regolarmente in questi locali e quasi tutti amici del nostro Phil erano i Ramones, Heartbreakers, Mc5, Mink DeVille, Real Kids, Blondie e tantissimi altri.
In particolare la sua band, i Senders formati nel ’76, riuscirono a ritagliarsi un grande spazio tra tutti questi grandi, in poco tempo Phil Marcadè formò la band e iniziando a suonare cover anni ’50 blues, poi passarono a loro brani impastati di un forte rhythm’n\'blues che tendeva fortemente verso il punk, e questo fu una cosa che li caratterizzò molto.
Dopo le prime esperienze sul palco, il grupppo si fece notare sino a diventare uno dei tanti nomi presenti sul cocktails menù del locale, e non troppo tempo dopo nel 1978 furono invitati ad un festival punk organizzato al CBGB’s con i Ramones, Suicide, Fleshtones, Blondie, Dead Boys e altri. Nel ’79 fecero uscire The Senders Seven Song Super Singles album molto importante che si portavano dietro per non pagare da mangiare al CBGB’s!
Le conoscenze aumentarono da Warhol ai Clash, e soprattutto ad una sua amica, Nancy Spungen, consigliò di andare a Londra nell’undeground londinese. Lei tornò poco tempo dopo con Sid Vicious al suo fianco e sempre da lui si fece uccidere, forse.
La formazione rimase quasi sempre la stessa, non contando il batterista che cambiò spesso, le colonne portanti della band erano Phil e Steve, ex pugile al basso, che con il tempo perse l’udito; ebbero un paio di concerti con alla chitarra Jhonny Thunders, che si era separato dagli Heartbreaks e sentendo la situazione dell’amico fecero tre date al Max’s, venne poi sostituito da Wild Bill Thompson.
I Senders erano arrivati ai vertici, ma le mode di New York prendevano loro come tutti gli altri, e in quegli anni le mode erano: l’eroina e l’ultima fu anche prendersi l’Aids, chiamata anche il cancro dei gay.
Per i Senders il tempo stava passando e dopo aver cavalcato molti palchi di tutta l’America si sciolsero, per ritrovarsi 7 anni dopo per fare solo un concerto al CBCG’s, con molti membri cambiati, ma, come spesso succede, se torni a rivivere grandi emozioni è difficile smettere di nuovo. Così continuarono per altri 13 anni e, nel 2000, i Senders fuorono nominati dai lettori del “New York Press” miglior gruppo live di New York.
Il 3 maggio hanno fatto uscire il loro ultimo album Outrageus and Contageous, che gli permette di stare ancora sulla cresta dell’onda.
Oltre l’avenue D racconta di ragazzi che, vivendo ai margini della Grande Mela, riuscirono a far scrivere di loro tra musica, droghe e situazioni paradossali, ma tra il rockabilly d’annata e il rhythm’n’blues rissoso anche i Senders hanno contribuito a questa storia.
di Lorenzo Modica
http://deadskyline.wordpress.com, 3 agosto 2011C’è nessuno oltre l’Avenue D(ee dee)? Esegesi dell’editoria rock
Si stanno moltiplicando come scarafaggi in un bordello i libri sul rock and roll.
Esistono le mere traduzioni, più o meno fedeli al testo originale, per lo più biografie o autobiografie e traduzioni di testi così come fu in principio con gli immarcescibili testi targati Arcana, ve li ricordate? Oggi li trovate rannicchiati in un angoletto in qualche libreria che vende usato insicuro-seconda mano un po’ sgualciti ed ammuffiti, francamente non sono invecchiati bene ma essi furono il principio, ora e sempre.
Dunque oltre alle traduzioni ci sono i saggi sul rock and roll, personalmente vi consiglierei i due libri fulminanti del fulminato Lester Bangs e scartate tutto il resto: solo per gli appassionati di decostruttivismo, situazionismo e altra roba di scarto gay oriented, che ha poco a che fare con il rock and roll, consiglierei Tracce di Rossetto di Greil Marcus.
Per quanto riguarda le guide di genere rock, monumentale e succulenta quella sul Post punk 78-84 di Simon Reynolds, villosa al punto giusto American punk hardcore di Steven Blush, queste rientrano in qualche modo nel capitolo traduzioni, poi si trovano i bignami nostrani della Giunti Edizioni omnicomprensiva che spazia cioè dal metal al grunge passando per il progressive, essenziale e scabra, per i neofiti di qualsivoglia genere.
Particolare accanimento letterario si è riversato sulle defunte celebrità del Club 27, tra insalate di aneddotica, leggende dell’età dell’oro, improbabili ricostruzioni e confessioni dell’ultima ora furoreggiano tomi su Hendrix, Morrison in particolare, Cobain, Barrett ma anche mostri sacri del jazz bruciatisi troppo in fretta.
Di questa dinastia che ha una fetta di mercato piuttosto ostinata e maniacale ve ne suggerisco una recente del poliedrico Andrea Valentini su Brian Jones 3.7.69 morte di un Rolling Stone edito da Tzunami per almeno tre ragioni: primo, sono usciti pochissimi libri su Brian Jones, lui è uno dei pochi seguaci del Club 27 a non essere stato inflazionato e gettato nel mattatoio mediatico, secondo motivo è un libro che si attiene strettamente a dei fatti di cronaca, poco romanzato, pochi arzigogoli e sentimentalismi, insomma un vero crime book, sullo stile delle narrazioni di Lucarelli fedele al metodo causa effetto. Terzo Andrea Valentini è un mio amico, compagno di sbronze e di perversioni soniche.
Questo preambolo per affrontare in maniera un po’ obliqua due libri di rock and roll che ho visionato ultimamente. Wild Years. La musica ed il mito di Tom Waits di Jacob Jay edito da Arcana e Oltre l’Avenue D di Philippe Marcadè stampato per i coraggiosissimi tipi dell’Agenzia X.
Perché unire due libri così diversi fra loro? Due artisti che seppur hanno condiviso le medesime traiettorie che il rock and roll impone sono quasi agli antipodi dal punto di vista musicale.
Ebbene ciò che li accomuna è l’integrità.
Seppure Tom Waits è diventato con il passare degli anni a suon di sbronze e di ineccepibili album osannati dalla critica una figura coccolata anche dal grande pubblico non ha mai svenduto una sua canzone per la pubblicità, solo per intenderci, continua ad uscire ed entrare dalle porte laterali dei club dove suona e nonostante collabori con personaggi di calibro rock-monolitico e sia uno dei musicisti più influenti dell’ultimo ventennio difficilmente lo si nota in qualche show televisivo o sui rotocalchi scandalistici.
Wild Years. La musica ed il mito di Tom Waits di Jacob Jay è un libro che ha ormai qualche anno sulle spalle però in maniera molto diretta e limpida, attraverso stralci di interviste e poche altre notizie certe che si hanno sul guascone di Pomona, ci tratteggia una sagoma densa di significato che è molto somigliante al mito di Tom Waits e che forse anche lo stesso singer californiano troverebbe verosimile.
Philippe Marcadè è un altro guascone nel senso proprio del termine perché francese anzi parigino, quindi un testa di cazzo a tutti gli effetti.
Soltanto un parigino testa di cazzo amante del rock and roll anni ’50 avrebbe potuto sopravvivere al disastro pre punk e punk della New York nel decennio d’oro e di ero 72-82.
In mezzo alla sua sopravvivenza ci sono le decine di vittime dei suoi amici dell’epoca, noti e meno noti. Philippe o Flipper come lo chiamava il new york doll Johnny Thunders ha avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto con la gente sbagliata, e quindi giusta, come ammette candidamente anche lui.
In tutta franchezza dei suoi Senders, rock blues band, frega a nessuno, ma a tutti invece interessa sapere gli aneddoti di chi quella scena del CBGB e Max Kansas l’ha vissuta dal di dentro, se non come protagonista quanto meno da comparsa.
170 pagine ingoiate tutte d’un fiato, un overdose che se per fortuna non ti stende al tappeto non per questo non genera contusioni nello spirito.
È davvero solo rock and roll come ammiccavano gli Stones vestiti marinaretti sodomizzati da Genet? o forse è qualcosa per far sopravvivere la noia e la noia ha un suo mercato.
Rolling Stone, luglio 2011Vita di strada
“Avenue A: you’re ALRIGHT / Avenue B: you’re BRAVE / Avenue C: you’re CRAZY / Avenue D: you’re DEAD!!!”. Così recita un’haiku-dedica di Philippe Marcadé sul suo libro di memorie Oltre l’avenue D. Un punk a New York 1972-1982 scritto insieme al fratello Pierre e pubblicato da Agenzia X nella tambureggiante traduzione di Eva Savini. L’Avenue D a New York diventa qui una sorta di Colonne d’Ercole, il luogo dove anche i tossici più disperati temono di addentrarsi, per paura di essere rapinati e poi uccisi.
Nel 1972, non ancora diciottenne, Marcadé è un elegante cappellone francese, innamorato perso dei Rolling Stones. Dopo aver frequentato la Amsterdam delle chiatte galleggianti e del sesso e droghe facilmente disponibili, si imbarca in un avventuroso on the road attraverso mezza America. Per poi stabilirsi a N.Y. E diventare, a metà degli anni ’70, leader dei Senders, grande e misconosciuto gruppo punk-blues ante litteram. Philippe è un esempio lampante di “serendipità”: la miracolosa capacità di trovare ciò che si cerca. Alla festa di benvenuto in un appartamento newyorkese, si imbatte nel primo concerto in assoluto dei Ramones. Suona la batteria con i Gang War di Johnny Thunders e Wayne Kramer. Conosce la giovane Nancy Spungen e si prende cura del suo ferocissimo gatto eroinomane durante la fatale trasferta inglese che le farà conoscere Sid Vicious. Divide una canna con un Bob Marley non ancora superstar. Prende una cotta non ricambiata per Blondie, a cui fa da traduttore di testi in francese. Rifiuta le avnce di una giovanissima Madonna, tutta leggings e disco music... E, intanto, conosce i nomi che contano sulla scena del Max’s Kansas City e del CBGB’s: Mink DeVille, Heartbreakers, James Chance, Richard Hell and the Voidoids... Ma, soprattutto, si divide ferocemente tra musica, amori, scazzottate e droghe. A inizio anni ’80 l’arrivo dell’Aids suona come un monito: “La festa è finita”.
Oggi, Marcadé, che porta impresse sul viso le cicatrici di quegli anni difficili, ammette: “Perché ho scritto Oltre l’avenue D? L’ho fatto in un momento di vuoto, durante un inverno newyorkese, in attesa di avere i soldi per rifarmi i denti...” E sul proliferare di autobiografie rock osserva: “Ho letto il libro di Keith Richards e in qualche punto non ho potuto fare a meno di chiedermi: ’Ma perché esagera così tanto? Keith Richards? Ahahah!’”.
Marcadé conserva un’integrità che è, forse, l’eredità più preziosa del punk, quella che gli fa dire con calcolato disprezzo: “I Grateful Dead? Fanno cagare!” oppure ammettere con candore: “I Fugs? Chi sono?”. Etica punk, insomma, comunque la si pensi. Merce rara di questi tempi, e non solo tra i punk.
di Manlio Benigni
Rumore, giugno 2011Oltre l’avenue D. Un punk a New York
Il contesto (la New York punk e pre-punk degli anni settanta) è lo stesso descrito magistralmente da Legs McNeil in Please Kill Me ma con una differenza: Marcadé all’epoca mai si sarebbe sognato di “cronicizzare” quei giorni (a differenza di McNeil, che con la sua rivista “Punk” lo fece in tempo reale). Questo suo Oltre l’Avenue D è il racconto di dieci anni vissuti in apnea. Pensate, un 17enne parigino pseudo-hippy sbarcato negli USA nel ’72, al posto giusto nel momento giusto. Il momento giusto per finire in carcere, drogarsi, rubare, ma anche per concorrere alla nascita del punk. Nel racconto di Marcadé c’è proprio tutto: la coda dei Velvet, il boom tossico delle New York Dolls, gli anni d’oro del Max’s e del CBGB’s, le cene a casa di Johnny Thunders, l’esordio improvvisato dei Ramones in un loft, l’esperienza illuminante di un concerto dei primi Cramps. C’è quella New York protagonista di una favola fatta di siringhe e sangue raccontata con quell’ironia tutta francese e quello stile che valsero a Marcadé l’affetto e la stima di tutti i protagonisti della scena. Volendo, c’erano anche i Senders, la sua band, ma, credetemi, è un dettaglio. La loro storia, come quella di tante altre band nate e morte in quel contesto, è solo il frammento di un puzzle ben più complesso, un nome che arricchisce l’elenco di tossici senza ritegno che fecero della Grande Mela alla metà degli anni settanta l’epicentro di un terremoto culturale. Oltre l’Avenue D è un libro agile e bellissimo, indispensabile per penetrare un’epoca e capire il punk.
di Luca Frazzi
Blow up, giugno 2011Philippe Marcadé. Oltre l’Avenue D

“Eravamo nel 1972, avevo diciassette anni e frequentavo la Scuola d’Arte a Parigi, dove sono cresciuto. Un fine settimana me ne andai ad Amsterdam e conobbi Bruce, un ragazzo di Boston che era semplicemente il più figo di tutti. Quando ritornai a Parigi, lui venne con me, e quando lui ritornò negli States, all’incirca un mese più tardi, io andai con lui, programmando di starmene via almeno un mesetto. Trentotto anni dopo sto ancora a New York... senza aver mai finito la Scuola d’Arte...”. Così sintetizza la sua storia Philippe Marcadé anche se poi in questa autobiografia racconta i suoi primi dieci anni americani, quelli più intensi e significativi da raccontare a un pubblico. Ancora però non riusciamo a focalizzare qualcosa: …ma chi è Philippe Marcadé? Diciamo che è stato il fondatore e il cantante dei Senders, un gruppo di rhythm & blues bianco alla Dr. Feelgood che ha vissuto i suoi giorni di gloria intorno al circuito dei club newyorkesi ma che alla fine è rimasto abbastanza nell’oscurità per il resto del mondo. Di loro si dice siano stati una potenza dal vivo (scovate su You Tube). Basta questo per rendere interessante il racconto? Aggiungiamo allora che Marcadé era uno che stava nel posto giusto al momento giusto, a volte senza rendersene nemmeno conto. A Boston conosce Johnny Thunders, s’interessa di reggae e gli capita di fumarsi una canna in compagnia di Bob Marley senza sapere ancora chi fosse (e sarebbe diventato di lì a poco). Quando si trasferisce a New York entra in contatto con una serie di musicisti e artisti che avrebbero rappresentato a vario titolo il substrato del cosiddetto punk cittadino e dimora negli stessi ambienti. Al party di benvenuto si esibiscono dal vivo per la prima volta in assoluto nientemeno che i Ramones. Marcadé è poi una delle rare persone che cerca di consolare e spendere una parola buona per Nancy Spungen, stringe amicizia con Debbie Harry e non si fila una ancora sconosciuta Madonna che frequenta la sua stessa sala prove. E così via: le frequentazioni, gli incontri, le situazioni tragicomiche che accadono a Marcadé ruotano intorno all’avventura coi Senders, all’amicizia con Johnny Thunders, al suo matrimonio. Sullo sfondo una New York decadente che non c’è più, popolata da un’umanità che fa la spola tra il Max’s Kansas City e il CBGB fino alle luci del mattino. E poi c’è l’Avenue D del titolo, il fatiscente e pericolosissimo quartier generale dello spaccio. Perché ogni saga r’n’r che si rispetti non può non avere la sua discesa negli inferi dell’eroina, dove Marcadé spende la sua personale “mezzanotte a vita” con la brutale consapevolezza che nulla sarebbe mai più tornato come prima. Torrenziale, pieno di gustosi aneddoti, di personaggi noti e in cerca d’autore, Oltre l’avenue D è una sorta di Please, Kill Me 2 vista da un’unica angolatura e raccontata da una sola voce. Il punk da questa prima prospettiva newyorkese non è una grande truffa sovversivo-burlonesca e nemmeno l’austerità poi imposta dall’hardcore ma semplicemente il grande sogno del rock’n’roll andato a male. Per Marcadé che lo ha vissuto in pieno rappresenta “la fine di un’epoca in cui eravamo stati liberi come non lo saremmo stati mai più”. E in una recente intervista ribadiva con il solito spirito “quelli sono stati i tempi più liberi nell’intera storia dell’umanità, in cui la pillola già esisteva mentre l’AIDS ancora no. Mi manca quel senso di libertà. I tempi sono oramai cambiati: in aereo non si può più nemmeno fumare una sigaretta...”. (voto 8)
di Fabio Polvani
www.ilprimoamore.com, 25 maggio 2011Oltre l’avenue D. Philippe Marcadé
New York, 1975. Philippe Marcadé è un giovane francese che ha già vissuto parecchie avventure: una convivenza con una ragazza e il figlio appena nato in una Amsterdam sballata e divertente, una settimana di carcere a Phoenix in seguito a un maldestro traffico internazionale di hashish e un lungo soggiorno a Boston in compagnia dell’amico Bruce e degli Aerosmith, all’epoca niente più che una band di esordienti. Sono questi gli ingredienti con cui Marcadè condisce l’inizio del memoir Oltre l’avenue D, appena pubblicato da Agenzia X nella traduzione di Eva Savini. È una New York straordinaria, quella che accoglie Marcadé a braccia aperte. È la capitale mondiale dell’underground dove ha appena iniziato a pulsare il punk, l’artista Andy Warhol passa da un party all’altro e un’intera ondata di band imperdibili si riversa sui palchi del CBGB’s e del Max’s Kansas City. Ed è proprio l’universo marginale e creativo di quella New York che Marcadé racconta a piene pagine. La sua è una voce da testimone e protagonista della scena (in qualità di cantante dei Senders) più che da narratore, e Oltre l’avenue D è un documento in presa diretta di un’epoca irripetibile. Il tono della rievocazione è lieve e divertito il giusto. Basta leggersi le storie sul primo concerto in assoluto dei Ramones, sugli esordi dell’artista Nan Goldin e le mille vicissitudini del rocker tossico Johnny Thunders. Merito dell’autore riuscire in quest’ultima impresa senza scadere nello scandalismo della coppia Legs McNeil/Gillian McCain e del loro Please kill me, da molti considerato la Bibbia della scena newyorkese anni ‘70. È una città sempre sorprendente, quella vissuta in prima persona da Marcadé, in cui la cantante dei Blondie, l’icona-sexy Debbie Harry, lo rincorre per chiedergli la traduzione in francese della canzone Denis Denis, che diventerà poi un hit da classifica, e l’ancora sconosciuta Madonna occupa la stanza accanto alla sua in un loft scalcagnato. Attorno a queste star in erba si muove un intero mondo di locali sempre aperti, affitti a prezzi stracciati e milioni di modi per guadagnarsi da vivere, quasi tutte leciti. È una New York destinata a decadere con l’inizio degli anni ‘80, la fine del punk e della new wave e l’esplosione finale dell’eroina e dell’AIDS. Come scrive amaramente Marcadé “Era la fine di un’epoca in cui eravamo stati liberi come non lo saremmo stati mai più.” Un’età dell’oro costruita con niente e dal niente, che nel mondo di oggi, dominato dal marketing, dal denaro e dal conformismo sembra semplicemente inconcepibile.
di Silvio Bernelli
http://musiclash.blogosfere.it, 22 maggio 2011“Oltre l’avenue D” aka quando vorresti tornare indietro, ai tempi di Ramones e Johnny Thunders
Più scorri quelle pagine più strabuzzi gli occhi, chiedendoti quale strana congiunzione astrale abbia permesso proprio a New York e proprio in quel momento (1972-1982) quella straordinaria sequenza di eventi che hanno fatto la storia del punk.
Le storie che Philippe Marcadé, questo straordinario personaggio “amico di tutti” al Max’s e al CBGB’s, ha messo nero su bianco nel suo libro, Oltre l’avenue D, saranno anche un po’ romanzati per esigenze editoriali, ma mi piace pensare che tutto quello che racconta sia avvenuto veramente, in un periodo magico e musicalmente prolifico.
Si è trattata di un’era fatta di grandi concerti e musicisti ipercreativi, il trionfo di un movimento artistico eclettico e fluido, nonostante la pochezza di mezzi. C’era una gran voglia di esprimersi attraverso metodi diversi ma ugualmente comunicativi (pittura, fotografia, ricerca musicale).
Peccato solo che molto di tutto questo si sia perso nella giungla delle sostanze stupefacenti. Perché nessuno ci ha messi in guardia, si chiede ad un certo punto amaramente Philippe nel suo racconto. Tantissimi, troppi protagonisti della scena sono scomparsi. E chissà quanto ancora avrebbero potuto dare alla storia.
Grazie a Philippe insomma possiamo conoscere anche noi, troppo giovani e troppo lontani dal tempio del punk, qualche segreto dei Ramones (i membri della band tra di loro si detestavano, ma singolarmente erano davvero affabili), i retroscena della ‘Cenerentola tossica’ Nancy Spungen, la vita quotidiana di Johnny Thunders e come si viveva on the road grazie alle avventure dei The Senders, la band dell’autore.
E non può non scattare quel pizzico di sana invidia, perché la nostra generazione si è dovuta solo accontentare delle briciole.
di Arianna Ascione
Radio CapodistriaOltre l’avenue D
IN ORBITA NEWS
Ascolta la presentazione del romanzo di Philippe Marcadé Oltre l’avenue D a cura di Luca Frazzi e Fabio Vergani
di Ricky ed Elisa Russo
Corriere della Sera, 21 aprile 2011Memorie di un punk a New York
Fumare una canna con Bob Marley, assistere al primo show dei Ramones, resistere alle lusinghe di Andy Warhol, spiegare a Sid Vicious cos’è un aspirapolvere: sono solo alcuni dei tanti episodi che Philippe Marcadé, francese piombato a New York negli anni Settanta, racconta in Oltre l’avenue D. Un memori spiegato dal sottotitolo – Un punk a New York, 1972-1982 – che l’autore presenta oggi alla Santeria /via Paladini 8, ore 18) con uno showcase di brani acustici e dialogando con Marco Philopat e Claudio Sorge.

Che cosa voleva dire in quegli anni essere un punk a New York?
New York negli anni Settanta era un mix continuo di stili, posso dire che io ero punk, più nella vita che nella musica. Eravamo una generazione che si divertiva ed era ingenua, come nell’uso dell’eroina, tanto che un sacco di amici sono morti veramente giovani.

Quali sono state le sue migliori esperienze musicali?
La più bella è stata suonare la batteria nei Gang War con Wayne Kramer degli MC5 e Johnny Tunders dei New York Dolls, mentre con la mia band, The Senders, aprire per i Clash per uno show in Times Squame è stato decisamente grandioso.

Nel suo libro tutto si svolge tra due mitici locali scomparsi, il CBGB’s e il Max’s, ma oggi si fa ancora buona musica a New York?
Sì, bisogna andare a Brooklyn, in posti come l’Union Poor, lì ci sono tante nuove band che portano avanti il sacro fuoco del rock.
Com’è stato il primo concerto dei Ramones?
è stato folle. Era il 1975, ero appena arrivato e un amico ha fatto una festa per accogliermi in un loft di West Broadway, era pieno di hippie quando all’improvviso sono arrivati questi ragazzi a suonare. Erano i Ramones. Solo anni dopo Dee Dee Ramone mi ha spiegato che quella era la prima volta che si esibivano. Ed era la mia festa!
di Alessandro Beretta
Radio Popolare, 21 aprile 2011Oltre l’avenue D a Jalla jalla
C’erano sempre degli sfigati in stile disco che venivano al Max’s. Uno di questi era appena entrato quando Babette gli vomitò addosso. Se era venuto per vedere del punk rock, era stato accontentato. New York, 1972- 1982. Dieci anni nel racconto di Philippe Marcadè, francese, arrivato negli States a diciassette anni, un po’ di galera, poi la scena punk, ma sempre con stile, la carriera musicale con i Senders e una girandola pazzesca di aneddoti. È in studio con noi, presentando Oltre l’Avenue D, la sua autobiografia uscita per Agenzia X (15 euro). Con noi anche Eva Savini che ha curato la traduzione del libro e Andrea Scarabelli di Agenzia X.
Ascolta l’intervista a Philippe Marcadé
Radio onda rossa, 19 aprile 2011Oltre l’avenue D
Il Duka parla su Radio onda rossa a Daje Pure Te di Oltre l’avenue D ASCOLTA
Repubblica, 13 aprile 2010Philippe Marcadé in libro e canto per raccontare il suo punk blues
Nella divertente autobiografia Oltre l’Avenue D le tragicomiche vicende di Phililppe Marcadé, giovane musicista punk francese approdato nel 1972 a New York, si incrociano con quelle di celebri nomi come Ramones, Sid Vicious, Madonna, Bob Marley, Andy Warhol e John Waters. In occasione dell’uscita dell’edizione italiana del romanzo pubblicata da Agenzia X, Philippe Marcadé sarà ospite oggi della libreria Modo Infoshop alle 18.30 insieme alla traduttrice del libro Eva Savini, all’editor Andrea Scarabelli e allo scrittore Wu Ming 5. Al termine della presentazione l’autore si esibirà con il chitarrista bolognese Yu Guerra in un unplugged di brani dei Senders, band punk blues della quale è fondatore e cantante.
di Susanna La Polla

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