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Anarchy in the EU
www.mondoeditoriale.com, 16 marzo 2010L’insurrection c’est a qui? L’avenir c’est a nous!
Anarchy in the EU documenta il fluido scorrere sociale del movimento di contestazione che da Seattle in poi è vissuto e vive nel continente vecchio e si presenta – per la sua stessa essenza – come un esperimento incompiuto.
Suddiviso in colori il libro offre una prima lettura di schema; come fu all’origine, a Praga e poi negli appuntamenti successivi in cui coagulò il movimento, c’è una lettura in termini di green, pink, black, red che nasce da una particolarità tutta italiana e spesso europea: l’incomunicabilità.
Quando da Seattle arrivò un nuovo soggetto sovversivo in Italia si era in balia della fine degli anni 90, gli anni dell’incomunicabilità… gli anni della territorialità delle diverse parti di movimento, gli anni in cui finalmente iniziavano a uscire dal carcere i militanti degli anni 70. Gli anni dell’avvento di Internet.
Tutti vennero emozionati dall’eco di Seattle ma da subito si volle divedere per affinità e formazione ideologica e fu così che vennero fuori i colori.
Belli tutti quei colori: il rosso un po’ stantio (ma vedere la generazione delle lotte degli anni sessanta tornare in piazza per un futuro sociale scaldava il cuore); i verdi e i rosa con la loro creatività e la voglia di riportare il desiderio e la relazione come punto di svolta della pratica politica; i neri del fuoco, del cinema, della spettacolarità, dei pugni destri chiusi in piedi sulle macchine dello Stato rovesciate.
Così il libro descrive, documenta, insorge tra parallelismi micro-macro utili a comprendere la lettura del fenomeno europeo e milanese. Cosa avevano di comune, come si compenetravano.
Nel linguaggio da III millennio l’autore sviscera azioni e reazioni al contesto critico che vive la generazione flexibile tra incertezza del lavoro e certezza della pena: schiacciata dal bisogno di mettere la testa oltre la merda, il desiderio di trasformazione del reale e la repressione capillare sempre più attenta e diffusa.
Se il libro si chiude con la speranza convinta che la creatività di questa Europa eretica troverà la crepa della diga capitalistica e la ridurrà a pietra su pietra, vincola questa possibilità ad un passaggio politico irrinunciabile: la fine dell’autismo delle componenti. La meraviglia prenderà forma se tutti gli ingredienti sapranno combinarsi nel rispetto e nella tutela di ciascuno.
Questa chiosa è un monito per tutti quelli che portano nel cuore il sogno, il desiderio, il bisogno, la suggestione di libertà.
Corriere della Sera, 13 dicembre 2009Movimenti e centri sociali, la nuova mappa
La protesta di Seattle ormai è solo un ricordo. Accadeva dieci anni fa: la città americana, che ospitava il meeting del Wto, si trovò presa d'assedio da decine di migliaia di giovani. Fu il debutto del movimento no global, più un punto d'arrivo che di partenza. Proprio nella capitale del Nord Ovest americano si iniziò a fare la conoscenza con un termine black bloc, che sarebbe diventato sinistramente famoso durante il G8 di Genova. Ma è lecito chiedersi oggi cosa rimane di quel movimento, messo a confronto con la crisi economica. C'erano anche idee, in quel calderone. Oggi, quella rete trasversale e variegata viene raccontata da Alex Foti nel suo Anarchy in the EU (Agenzia X): storia di movimenti pink, black, green ai tempi della Grande Recessione. Il titolo è appropriato. Dopo anni di quiete, la violenza di strada che proprio ieri ha scosso Copenaghen dimostra che sta succedendo qualcosa nei centri sociali di tutta Europa, che sono la spina dorsale di qualunque forma di protesta. Quello di Foti è un fermo immagine più che un ritratto, perché il fenomeno è in continua mutazione, impossibile da mappare con precisione. In Italia se ne stimano 120. I sociologi che li studiano dicono che negli ultimi vent'anni hanno «resistito» (ovvero non sono stati sgomberati) almeno tre mesi 400 centri sociali. Il termine dei 90 giorni di sopravvivenza viene considerato come il requisito fondamentale per essere «mappato». «Il centro sociale subisce oggi la perdita di valori della società - racconta Marco Philopat, scrittore e studioso di cultura underground. Ma la grande recessione li riavvicinerà alla gente e fra un paio d'anni la presenza sarà più forte che negli anni '90». La profezia può rivelarsi veritiera. Il trend è quello di una riscoperta. I giovani tornano nei centri sociali, che si trovano a fronteggiare rapporti complicati con le istituzioni, meno tolleranti di un tempo, più decise a non sopportare alcuna illegalità. La situazione italiana riflette questa tendenza. Il Comune di Milano ha recentemente messo all'asta 67 stabili di proprietà pubblica, molti dei quali sono sedi di progetti di aggregazione sociale. Il circolo Giordano Bruno, l'Arci Bellezza o il Cox18, il celebre circolo della Conchetta fondato da Primo Moroni. A gennaio, quando venne sgomberato, la protesta unì intellettuali e abitanti del quartiere nella difesa di quello che veniva ormai percepito come un simbolo della cultura alternativa milanese. «È un problema di rispetto delle differenze - spiega Philopat - ai tempi delle amministrazioni socialiste molti spazi erano lasciati ai centri sociali in comodato d'uso, oggi a Milano siamo tornati indietro di 30 anni. Nelle metropoli ci sono i fari puntati, ma già a Roma la situazione è diversa». Nella Capitale si contano infatti una trentina di centri sociali, strutture consolidate come l'Esc e lo Strike o laboratori di quartiere. Storico è il Forte Prenestino, da 23 anni a Centocelle in un parco abbandonato dai tempi della Seconda guerra mondiale. C'è una sala cinema, una per il teatro, laboratori di serigrafia, scultura e falegnameria; una palestra, lo studio di registrazione Musica Forte, l'etichetta discografica FRT recordz, il mercato biologico, una sala da tè e il pub 12 de tutto. Il Forte Prenestino e il Leoncavallo di Milano sono le realtà autogestite più strutturate d'Italia. A rischiare sono sempre le realtà più piccole, meno conosciute. Nel 2000 un gruppo di universitari occupò uno stabile per farci un ostello per colleghi stranieri. Si chiamava Metropolix, visse due anni. Poi arrivò lo sgombero, legittimo dal punto di vista legale, con uscita ghandiana dei ragazzi legati uno con l'altro e con gli abitanti del quartiere che offrivano caffè e brioches per solidarietà. Un episodio come tanti, che racchiude gli aspetti controversi di queste vicende metropolitane. Tra gli spazi messi all'asta a Milano c'è la Cascina Torchiera, periferia ovest di Milano. Uno stabile del quattordicesimo secolo tenuto su a suon di collette da un gruppo di ragazzi che dentro ha avviato una scuola di italiano per stranieri e una sala teatro. Il problema italiano è l'assenza di riconoscimento reciproco. Le istituzioni spesso tollerano a malapena i centri sociali, i quali, è nel loro Dna, sono costretti a dipendere da istituzioni che non riconoscono e delle quali diffidano a loro volta. «Non esiste dialettica tra le parti perché nell'immaginario collettivo prevale la componente politico ideologica», spiega Andrea Mambretti, professore di sociologia all'Università di Pavia e autore di Leoncavallo S.p.a - Spazio pubblico Autogestito. «Questo aiuta il centro sociale a mobilitare le masse, ma frena la valorizzazione di posti dove si fa cultura a costo zero e che rappresentano una sorta di welfare a bassa soglia». Un esempio «virtuoso» di tolleranza potrebbe essere quello francese: la maggioranza dei centri sociali autogestiti sono legalizzati e sostenuti dai governi locali, a Parigi come a Tolosa o a Lille, perché facilitano l'integrazione coi migranti. «Milano ha esaurito le aree occupabili, le poche rimaste vengono rivendicate - spiega Mambretti. Questo spiega la maggiore tolleranza nei confronti dei centri sociali in Spagna, dove il patrimonio immobiliare dismesso è dieci volte superiore». In Spagna le occupazioni iniziarono nei primi anni '90 a Barcellona, al Cinema Princesa. Dopo pochi mesi lo sgombero ebbe un forte impatto mediatico e sulla spinta dello slogan «Okupa tu tambè», le occupazioni si moltiplicarono. L'amministrazione scelse di non intervenire. Ma la tregua sta per rompersi. Oggi, la situazione è caldissima al Patio Meravillas, un centro sociale aperto un anno fa a Lavapies, il quartiere multietnico amato dagli universitari. Biciclettate e manifestazioni di protesta per lo sgombero qualche mese fa anche al Malaya 49 a due passi dalla stazione di Atocha. Anche negli stati del Nord, dove le occupazioni sono sempre state tollerate purché non rechino danni alla vita del quartiere, il vento sta cambiando. Ad Amsterdam, capitale mondiale dello squatting, il governo si è fatto promotore a livello nazionale di una normativa più rigida. Nel Regno Unito, i centri sociali sopravvivono in realtà minori come Brighton, Leeds o Nottingham, ma a Londra centri come il Bowl Court sono stati recentemente sgomberati. Anche il Christiania di Copenaghen, villaggio autonomo da tre generazioni, da maggio è proprietà dello Stato. E il Tacheles di Berlino, il centro sociale più attivo d'Europa nella città oggi più adatta ad accogliere la cultura alternativa, si trova sotto sfratto. L'edificio liberty che lo ospita, quattro piani che all'esterno portano tutti i segni dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale ma all'interno sono stati ristrutturati da artisti berlinesi, deve essere restituito ai suoi proprietari, che intendono demolirlo per farne un hotel a cinque stelle. Sarebbe la chiusura del cerchio per un quartiere cosiddetto «alternativo» dove le case costano ormai 10 mila euro al metro quadro e dove Angelina Jolie e Brad Pitt si permettono un pied-à-terre da 600 metri quadri.
di Stefano Landi
Historia, 8 ottobre 2009Anarchy in the EU
Risultato di un decennio di riflessioni, networking e azione diretta condotte all’interno della galassia no global, espressione assunta come popolare, “disturbante” nei confronti dell’establishment globale, e forse anche invisa alle organizzazioni e ai movimenti alterglobalisti più rispettabili.
Il libro è suddiviso in quattro parti: un’introduzione, la “cromatologia” dei nuovi movimenti noglobal, il diario di viaggio dello stesso Foti nelle mobilitazioni degli anni 2000 (di cui si riportano documenti, lettere, e-mail inviate alle più svariate mailing-lists) e una conclusione in cui l’autore tratteggia un’ipotesi interpretativa della “Grande recessione” centrata sulle possibilità di sviluppo di una politica autonoma delle giovani generazioni (la “Next Left”).
Nella “cromatologia” si trova la descrizione e l’interpretazione delle tre principali tendenze pratiche, politiche ed estetiche dell’attivismo noglobal: il black, il green e il pink. Il black – il nero – esprime l’orientamento più ribellistico, che fa dell’azione diretta contro la proprietà privata il proprio obiettivo concreto e simbolico. Il green – il verde – è l’elemento ecologista-radicale, applicato al campo delle esperienze di vita e stili di comportamento alternativi, di cui si sottolinea la differenza genealogica dai movimenti verdi emersi a partire dagli anni Sessanta. Il pink – il rosa – rappresenta la convergenza nell’attivismo globale della politicizzazione della differenza di genere, delle scelte sessuali, della sperimentazione a confine tra arte, creatività, détournement dei significati dominanti. Naturalmente, questo spettro cromatico del movimento noglobal è da considerarsi un continuum, perché nelle contestazioni globali come nei contesti metropolitani avvengono commistioni tra i vari colori di base del nuovo attivismo. Foti considera anche lo spettro “red”, ovvero i soggetti eredi delle tradizioni social-comuniste del Novecento, ma li liquida come elementi non più fecondi per il radicalismo del nuovo secolo, quantomeno in Europa.
La lettura di Foti del movimento noglobal è esplicitamente subculturale e giovanile. L’interesse va alla sottoclasse eterogenea composta da giovani, migranti, creativi e attori sociali poco ortodossi cresciuti ai margini e nelle enclave del liberismo europeo degli anni Novanta, e tra i quali ha attecchito maggiormente la fascinazione per stili politici non convenzionali. Questi sono riassunti nei termini “autonomia” (ma non nel riferimento politico italiano) e Anarchy lifestyle (per distinguerlo da Anarchism). Le potenzialità sovversive di questi gruppi risiederebbero nella grande ricchezza soggettiva affiancata all’estrema povertà di risorse e d’inclusione sociale di cui possono godere i soggetti giovanili emergenti, i quali diverrebbero gli aspiranti alla contestazione dell’ordine postcapitalista che emergerà dalla “grande recessione”.
di Beppe De Sario
sofiaroney.org, 7 luglio 2009Anarchia in Europa
Raccontare Anarchy in the EU, il libro scritto da Alex Foti, pubblicato da Agenzia X, significa immergersi, per chi non ne ha fatto esperienza, nell’universo dei movimenti post-Seattle, respirare l’aria pura e non artefatta della politica radicale di questi anni ’00 e testimoniare la ricchezza delle soggettività ribelli, anzitutto nella loro differenza rispetto all’ammuffita sinistra di fine ‘900 e all’onda reazionaria e xenofoba che da anni si abbatte sull’ Europa, ove i movimenti per il reddito sono nati, hanno vissuto e in forme diverse continuano a vivere. E’ un libro forte questo di Alex, anzitutto un percorso personale, paziente, di costruzione di un’altra politica, in un bisogno incessante di sperimentare, da Genova 2001 a oggi, forme inedite di sovranità e desideri condivisi, di fare insomma, come se, seguendo Benjamin, il messia potesse entrare per la porta stretta della storia in ogni momento. La rivoluzione infatti, per Alex e per quelle/i che come lui condividono un agire, una serie di pratiche e un’orizzonte del comune, è adesso, nella sola presenza di posse, gruppi, istanze, crew e rivendicazioni che, nate nei centri sociali alla metà degli anni ’90, hanno oggi il diritto di definirsi come l’unica ricchezza vera del paese e , diciamolo, dell’intero occidente. Retorica? esagerazione? ribellismo? Se leggiamo Anarchy ci ricrediamo subito. I limiti Alex li traccia all’inizio: “Di qua i cristiani, bianchi, efficienti, timorosi dello stato e del mercato, familisti consumisti che credono al culto della superiorità occidentale sulle altre formazioni storiche del pianeta, di là loro, gli scuri, gli islamici oppure i devianti, gli omosessuali, gli assenteisti, i graffitisti, il post-femminismo, i movimenti gbltqp”. E’ il paradigma inaugurato da Bush con la guerra permanente ma che la galassia antiliberista ha raccolto perché distruggeva l’insopportabile definizione della politica globale come conflitto amico/nemico di schmittiana memoria. Alex lo scrive e vi insiste più volte: niente a che vedere con i partiti, i sindacati, le riforme e le rifondazioni, le vere anime dei movimenti sono le reti, l’ecoradicalismo, il pink-queer transgender, il black criminalizzato da Genova al Forum di Firenze del 2003, che ha sostituito il red annacquato o stalinista dell’appartenza, dell’identità, dell’elite. E’ una nuova classe quella vissuta e agita da Alex Foti, che ha avuto il battesimo nella Mayday italiana ed europea pensata e realizzata dal 2000 al 2006 e che per la prima volta tematizza la rivolta precaria, la gioia di vivere, mascherarsi, irridere i sindacati concertativi… Lì erano indicati i reali effetti del post-fordismo, l’addio alla fabbrica, la liberazione dal lavoro, lì ‘68, ‘77, pantera, cs e cognitariato trovavano sintesi e una memoria davvero condivisa emergeva. Dal 2004 la Mayday si allarga, e le pretese imperiali dell’occidente, investito dalla guerra di civiltà colmavano a malapena la potenza creativa e libertaria dei 4 colori quattro che attivisti, donne, hacker ed anarcoecologisti disponevano in quanto “seconda superpotenza”. Si condivideva il passaggio all’Europa, la volontà di introdurre davvero elementi di comune anarchica (federalismo, antiliberismo, antistatalismo) dentro la governamentalità procedurale dell’UE: da rekombinant a precog a neurogreen, il superamento del fordismo era lettera viva, pratica concreta, voce dell’immateriale, potenza delle moltitudini e della creazione. L’altro mondo possibile, negli anni dal 2005 al 2007, viene lasciato nelle mani dei burocrati della decrescita, dei critici del mondo global, dei tentativi penosi di coniugare ribellione e ragion politica, mentre la questione precaria esplodeva, le violenze sui diversi anche, il climate change ci spinge a sovvertire la vita quotidiana; il lavoro della conoscenza e la ricerca, nonché l’informazione e la formazione in rete assumono una preminenza che sormonta gli stanchi riti degli anti-summit e le giaculatorie sulla morte dei movimenti di corvi e gufi “sinistri” e senza scrupoli. Alex vive e agisce nei movimenti, li respira, li anima, ma soprattutto, come testimoniano i suoi resoconti – narrativamente rilevanti! - da Rostock a Berlino a Londra ne ha disegnato la geografia discontinua che per lui è linguaggio, creatività, idee. Questa del linguaggio è di sicuro l’abilità e la miglior dote del post-umano Foti. L’aver elaborato un nuovo orizzonte simbolico è infatti la conquista vera delle reti e delle due generazioni in piazza dal 2001 ad oggi, all’Onda, insieme ai No dal Molin, No tav e no-discarica. Se ne può fare la storia, se ne possono compulsare gli umori nelle mailing list, non ultima radical europe, l’ennesima creatura postmoderna di Alex, che insieme alle esperienze di autoformazione dentro e fuori le Università, le case editrici e i server di informazione, inchiesta e prassi, come Agenzia X e Inventati, hanno ridisegnato la bandiera assai logora di chi vuole assaltare il cielo: red, pink, black e green, lunga vita all’anarchia nell’Unione Europea!
di Sofia Zoe & Roney Meclaim
il manifesto, 18 giugno 2009I quattro colori della rivolta precaria
È con gioia che va salutata la pubblicazione di Anarchy in the EU. L'autore è Alex Foti, attivista e ricercatore, che sul crinale del secolo/millennio ha attraversato il globo, immaginando e sperimentando le molteplici forme di rivolta della next generation precaria. I suoi sono gli occhi di un fratello maggiore, irriducibile agli stili di vita dominanti e ai quali preferisce gli sguardi carichi di rabbia creativa di una nuova generazione, disposta a mettersi in gioco nella palude di una società sorda e attonita.
Da queste esperienze è nato il desiderio dell'autore di «mappare» i sommovimenti sociali dell'ultimo decennio, provando a narrare in prima persona di questi nuovissimi movimenti dell'era globale, per concludere con uno slancio analitico e teorico di fuoriuscita dalla Grande recessione. Il libro si articola in tre parti: una mappa cromatologica delle quattro componenti dei movimenti - red, pink-queer, black-anarchica and green dell'EuroMayDay - per arrivare ad un «atlante dell'eresia politica in Europa»; un vero e proprio diario a mille piani dall'«Europa eretica e sovversiva»; per concludere con la presentazione di un modello analitico che, partendo dalla Grande Depressione degli anni '30 dello scorso secolo, ci invita a uscire dalla attuale Grande Recessione.
È un libro scritto con una grande capacità narrativa, riuscendo a tenere insieme narrazione dei nostri tremendi tempi postmoderni, analisi e riflessione da saggio di storia sociale ed economica, immaginifiche visioni del mondo che verrà. Il tutto con l'abilità poliedrica di un'impostazione da pragmatismo anglosassone, coniugata alla rielaborazione del pensiero critico continentale. È quindi un libro da leggere tutto d'un fiato e rileggere a frammenti: solo così le intuizioni, a volte provocatorie, altre illuminanti, altre ancora visionarie, trovano il tempo di sedimentarsi.
In questo scorcio di inizio di millennio Foti scommette sull'avvenuta contaminazione dei nuovissimi movimenti dell'era globale, tra Seattle, Genova e no war, con le sensibilità pink del femminismo «queer», il green dell'ecologismo urbano e postcapitalistico, il black antiautoritario, tra nuove forme di autonomia e anarchismo degli squat e dei centri sociali delle metropoli europee. Sono gli eventi che dalle MayDay degli european flexworkers let's unite di inizio secolo portano alle rivolte francesi anti-cpe e delle banlieues tra il 2005 e il 2006, alla Copenhagen dell'inverno successivo, alla Rostock della primavera seguente, a Malmö dell'autunno scorso e al Natale infuocato di Salonicco e Atene, mentre la recessione inizia a dispiegare i suoi devastanti effetti. È la European Next Generation che batte il proprio tempo: sono i Children of the Revolution, come ebbe a chiamarli il quotidiani inglese «The Guardian». Ma anche la narrazione di un conflitto generazionale contro la «gerontocrazia politico-istituzionale», mentre compare l'ospite inatteso della crisi economica globale che, assieme alla precarietà delle condizioni lavorativa, condanna a vivere nella penuria milioni di donne e uomini.
Può però sembrare azzardato che proprio dinanzi agli attuali effetti della crisi economico-finanziaria globale Foti proponga, nella parte conclusiva del suo libro, un modello di fuoriuscita dalla recessione interpretando i grandi cicli della storia economica e sociale del Novecento. Non volendo ridurre la complessità del modello, come negli anni '30/'40 del secolo scorso si assiste alla prima biforcazione tra Grande Depressione, New Deal statunitense, guerra mondiale e riformismo post-keynesiano degli anni '50 e '60, così nei primi dieci anni del Duemila si può ripresentare una seconda biforcazione da «futuro antidistopico», progressista ed ecosolidale, che prevalga su quello «reazionario, fascista, ecocida».
Il suo è l'ottimismo inguaribile di chi intravede una possibilità nelle riforme promesse da Barack Obama e nel protagonismo dei nuovissimi movimenti dal basso. Questa capacità di tenere insieme nuova linfa politica dei movimenti sociali europei e prospettiva di trasformazione globale dei destini dell'umanità è dunque il pregio di un volume che si rivolge agli attivisti vecchi e nuovi.
Rispondendo «per le rime» all'allusione a un brano dei Sex Pistols presente nel titolo dell volume, si può tuttavia notare che spesso The World Won't Listen, come titolavano i profeti dell'indie-pop capitanati da quel Morrissey che avrebbe voluto vedere Margaret Tatcher on the guillotine, assurta al trono neo-liberista proprio trenta anni fa e ora definitivamente spodestata, come i suoi eredi. Ma quest'anno ricorre anche il ventennale di una casa discografica cara a tutti i ravers europei degli anni '90 e oltre: la Warp Records, un acronimo per Weird And Radical Projects: «progetti misteriosi e radicali». Questo libro può aiutarci a immaginarli di nuovi e a rintracciare qualche arnese per costruirli.
Il volume sarà presentato oggi a Roma alla libreria-caffè Flexi (Via Clementina 9. All'incontro, oltre all'autore sarannoo presenti Peppe Allegri e Roberto Ciccarelli)
di Giuseppe Allegri
Carmilla, 21 maggio 2009Policromie del presente
Proviamo a fare un esperimento, avanzando l’ipotesi che il nostro presente manifesti, per certi versi, una serie di analogie con la fase che accompagna il compiersi della rivoluzione industriale. Lo scenario di questa ucronia è quello della città dickensiana, dell’immaginario steam punk, della working class manchesteriana descritta da Engels. La società feudale è stata travolta, le enclosure (delle terre, destinate all’allevamento intensivo) hanno travolto le forme di organizzazione del mondo rurale, con la conseguente espulsione di massa di una popolazione a cui, nelle nuove condizioni, non è più possibile sopravvivere.Le grandi città sono la meta ovvia per moltitudini di individui che per garantirsi la sussistenza devono vendere l’unica cosa su cui posano contare, la loro forza lavoro. In tale movimento può essere colto il versante affermativo della liberazione da servitù consuetudinarie, dall’autorità paternalista del signore, dalla soggezione al magistero del curato, dall’ossequio a orizzonti limitati. Marx, con entusiasmo modernista, non mancava di sottolineare questi aspetti emancipatori, nell’intento di tracciare un quadro della transizione in atto che non fosse solo a tinte fosche e non si prestasse a un equivoco, quello della nostalgia, del rimpianto per il “bel tempo che fu”, allora come oggi topos di ogni conservatorismo nostalgico, di destra come di sinistra. Se risultava impossibile, e nemmeno auspicabile, fare macchina indietro, non restava che prendere il “toro per le corna” e confrontarsi con il nuovo scenario alla ricerca di risposte alla situazione di miseria, sfruttamento, mancanza di garanzie, assenza di reti di tutela che caratterizzava la condizione di quella nuova figura, al crocevia fra dato oggettivo e comprensione soggettiva, che si sarebbe definita “proletariato”. Intorno alla “questione sociale”, questo il nome in cui il dibattito. Certo, abbiamo la tradizione marxista e socialdemocratica, il socialismo scientifico e il modello di organizzazione destinato a prevalere, sul lungo periodo, nelle varianti socialdemocratica e comunista, all’interno del movimento operaio. Ma non solo. Sulla “questione sociale”, questa la formula a cui all’epoca si ricorre, magari per neutralizzarne la portata politica, per indicare il corpo di problematiche legate all’industrializzazione, all’urbanizzazione e alla proletarizzazione di una crescente porzione delle classi subalterne si confrontano una pluralità di posizioni e approcci, caratterizzati da differenti coefficienti di radicalità e animati da propositi spesso opposti. In una situazione fluida, i rapporti di forza fra le varie proposte per modellare i lineamenti di quello che sarà il movimento operaio non sono dati a priori, come si potrebbe pensare proiettando gli esiti sulle origini. Fra azione politica e mobilitazione sindacale, fra forme di mutualismo e spirito di carità, fra progetti riformisti e pratica rivoluzionaria entrano in campo, con le loro specifiche risposte e proposte marxisti, cristiano sociali, socialisti utopisti, fourieristi e saint-simoniani, riformatori morali, cartisti, luddisti, anarchici di vario tipo.L’analogia che si voleva suggerire, in via sperimentale, è duplice. In primo luogo, ci troviamo a fare i conti con il lascito di decenni di trasformazioni radicali che hanno travolto le geografie politiche e i modelli di riferimento a cui il Novecento ci aveva acclimatizzato. Alle nostre latitudini si è parlato di “postfordismo” o di “nuovo spirito del capitalismo” per significare da una parte la profonda ristrutturazione del sistema produttivo rispetto alle forme del capitalismo industriale, dall’altra il dissolversi delle garanzie e della forza contrattuale che il lavoro e le sue rappresentanze avevano stabilito sul piano politico-sindacale. Sintetizzando, con la cosiddetta “precarizzazione” si assiste a una sorta di ritorno a uno scenario da rivoluzione industriale, in cui il lavoro viene venduto come semplice merce a un prezzo stabilito dalla domanda e dall’offerta, in un mercato retto dalla finzione di una simmetria fra compratore e venditori, entrambi formalmente liberi di accettare o meno l’offerta della controparte. Se la vicenda novecentesca del movimento operaio può essere compendiata nella trasformazione del lavoro da merce in status, per cui l’accesso alla forza lavoro è condizionato alla garanzia di uno stock di diritti, in termini di continuità, sicurezza sociale, forme retributive ecc. a formule contrattuali ricalcate sulla mera compravendita della forza lavoro del singolo lavoratore.

Ma le analogie possono essere colte anche sul piano soggettivo. Anche a fronte degli sconvolgimenti che hanno caratterizzato questi ultimi decenni, l’articolazione delle possibili risposte avviene su un registro plurale, senza che alcuna proposta riesca ad apparire a qualsiasi osservatore non accecato dall’ideologia come autosufficiente o in sintonia con il cammino della storia. Ed è qui che intercettiamo l’indagine policromatica intorno alla quale ruota il libro di Alex Foti Anarchy in the EU. Movimenti pink, black, green in Europa e Grande Recessione (Agenzia X, pp. 238, euro 16). Si parte da quattro colori, pink, black, green e red, identificati come lo spettro della ribellione. Se ne tratteggia la storia e la geografia, in direzione del presente. Il rosa del trangender e del queer, il nero dell’anarchia, il verde dell’ecologismo, il rosso del comunismo. La quadricromia da subito si trasforma però in tricromia. L’analisi di Foti sconta infatti la consapevolezza che una fase si è definitivamente chiusa. Quel rosso, che nelle sue varie gradazioni ha rappresentato la tonalità dominante del movimento operaio così come lo abbiamo conosciuto, avrebbe perso oggi qualsiasi capacità di incidere positivamente sul reale. Retrospettivamente, si potrebbe lamentare come l’inerzia nel non liberarsi di quella tradizione (delle sue forme e delle sue retoriche) abbia intaccato, per tutto il tardo novecento, la capacità di spezzare compartimentazioni e schieramenti, di declinare politicamente i potenziali emancipatori e libertari di una serie di passaggi. Ma la di là delle nostalgie per un passato che non è stato, l’analisi di Foti si concentra sull’inefficacia di partiti e partitucoli ormai ridotti a una funzione di testimonianza, di culto dei simboli e dei cimeli, in preda a una schizofrenia fatta di formule astratte e roboanti e timidezza politica. Con quel tipo di immaginario, di retorica calibrata su miti relativi a un altrove, magari a latitudini esotiche, in cui nessuno poi vorrebbe veramente vivere, ben difficilmente si può pensare di potere aggregare una massa critica in grado di spostare i rapporti di forza e aprire nuovi scenari. Diversamente, è la tesi del libro, il movimento noglobal, la realtà da cui, volenti e nolenti si deve partire, nei suoi momenti di più forte impatto ha saputo coniugare i colori pink, black e green. L’aggressività del nero, come non disponibilità ad accettare le regole stabilite dai tutori dell’ordine e dai sostenitori di una politica ridotta a galateo e gioco delle parti, in cui non esistono interessi divergenti e si è tutti amici. Il pink, antidoto alla rudezza black e, allo stesso tempo, vettore di trasversalità e spiazzamento creativo. Il green dell’intervento diretto sulle grandi questioni della sopravvivenza del pianeta e dell’uso del territorio. Tutti questi colori presi singolarmente sono insufficienti, passibili di ripiegamento identitario (il black), effimero (il pink), settoriale o “austerity style” (il green). Ma quando riescono a operare insieme qualcosa si muove. Altre tonalità si potranno poi aggiungere. E allora l’Anarchy in the Eu del titolo significa in primo luogo due cose. Anarchy non in termini di rivalutazione dell’anarchismo storico, non raramente dogmatico quanto le sette comuniste e comunque irrimediabilmente legato al passato, ma l’anarchia sottoculturale, rubrica di insubordinazione, costruzioni di reti e attitudine Diy (Do it yorself): in sintesi: l’anarchy lifestyle. E poi Eu, come contesto privilegiato, per noi che viviamo in questa porzione del pianeta, in cui cercare di costruire vertenze e mobilitazioni, superando l’angustia della dimensione nazionale ma senza per questo cadere in un generico globalismo. Da una crisi si può uscire da destra o da sinistra. Individuando uno o più capri espiatori su cui convogliare il malessere sociale oppure implementando assetti redistributivi più equi, ampliando le garanzie sociali e lo spazio dei diritti, ricostruendo uno status del lavoro. Si tratta non semplicemente di dare addosso agli speculatori ma di invertire la rotta intrapresa negli ultimi decenni. Ma ciò non avverrà per libera scelta dei governi. Bisogna costringerli a farlo.
di Massimiliano Guareschi
il manifesto, 30 aprile 2009Anarchy in the EU
Se avesse smesso di credere che la rivoluzione è ancora possibile, se non ne avesse viste di tutti i colori in giro per l'Europa, sempre innamorandosi dell'ultima sfumatura che sovverte almeno un poco il nero che ci situaziona qui intorno, allora forse avrebbe avuto il coraggio di intitolare il suo libro “No future”. Perché Alex Foti fondamentalmente è un punk ma non è disperato, e fa comodo a tutti ogni tanto cullarsi sull'onda del suo anarcobalenocarico di aspettative, un fenomeno meteoroillogico sempre in movimento che oscilla tra suggestioni pink, incursioni black e futurismi green che selvatici germinano in Europa, a maggior ragione oggi in tempi di grande crisi. C'è qualche variazione cromatica che in Europa butta a sinistra? Mah... è presto per dirlo, ma se qualche effervescente sovversivo da qualche parte sta pasticciando con la tavolozza delle idee, Alex Foti qualche pennellata l'ha intravista di sicuro.
di Luca Fazio

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