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Voci possenti e corsare
Left.it, 17 settembre 2018 Le voci corsare della Livorno ribelle
Parlare di Livorno rimanda spesso a fatti grandiosi, come le Leggi Livornine, la città delle Nazioni con le sue chiese ed i suoi cimiteri, la stampa tra le prime dell’edizione italiana dell’Encyclopédie – la summa del pensiero illuminista -, la cacciata del Granduca e la dittatura democratica di Francesco Domenico Guerrazzi nei moti del ’48-’49, la difesa in armi della città contro gli Austriaci, la fortissima presenza dell’associazionismo massonico che si intersecava col moto socialista e della Prima Internazionale, la fondazione del PcdI, gli straordinari protagonisti della Resistenza come Barontini e la rinascita democratica con sindaci del dopoguerra come il filosofo Nicola Badaloni e lo storico Furio Diaz. Fatti grandi anche in negativo, come il ruolo e la presenza della famiglia Ciano nelle vicende del fascismo italiano.
Voci possenti e corsare. La Livorno ribelle dagli anni ottanta ad oggi (Agenzia X) dell’esule volontario Luca Falorni non rimanda a niente di tutto questo. Ci narra, in forma diretta ed in forma di riflessione, facendo parlare direttamente i protagonisti, del lungo inglorioso crepuscolo della città, dagli anni Ottanta dello scorso secolo ad oggi. Quando si logora definitivamente il binomio porto-partecipazioni statali, dove il Pci seppur non ancora Ds-Pds-Pd mostra tutti i segni dell’involuzione ideologica e della mancata comprensione del modificarsi delle condizioni strutturali che lo avevano reso protagonista.
Dove valori, principi, idealità si dissanguano e si fanno evanescenti.
Dove la disoccupazione giovanile dilaga.
La deindustrializzazione della città, il ripiegamento nella rendita immobiliare e nel commercio.
Un libro doloroso, in cui l’autore ci narra in prima persona del proprio acre seppur autoironico distacco dalla sua città, per finire nelle nebbie milanesi.
Doloroso per la lunga scia di morti per eroina e per i suicidi che lo segna, per la fine della pietas labronica – dove “il piccino era sacro” – rappresentata dai commenti e dall’atteggiamento della città di fronte alla morte nel 2007 di alcuni poveri bimbi rom nel rogo della loro roulotte.
Una ribellione contro la volgarizzazione operata da Virzì nei suoi film della labronicità, spogliata dai suoi non pacificati aspetti costitutivi e resa compatibile per una diffusione edulcorata a livello nazionale.
Una Livorno giovanile che trova le sue forme di espressione sul piano artistico-musicale e tramite la pratica dell’occupazione degli spazi, dove in assenza di un ’77 cittadino ci vengono descritte le varie ondate che arrivano fino ad oggi. Una presenza che passa soprattutto dai giovani livornesi studenti universitari in quel di Pisa, che mostra difficoltà a divenire punto di riferimento dei settori operai. Un libro da leggere, per la capacità di scrittura dell’autore, per la riflessione sociologica e politica di Silvano Cacciari, per le testimonianze dirette dei protagonisti. Che spiega come sia stata possibile la vittoria del Movimento 5 Stelle alle elezioni per il sindaco di Livorno e come potrebbe esserla quella della Lega salviniana alle prossime amministrative.
Un aspetto colpisce particolarmente: la mancanza di riferimento allo scioglimento del Pci – seguito alla Bolognina di Occhetto – per la quasi totalità dei protagonisti. Eppure ho potuto constatare di persona quale forza popolare e quale fortissimo aspetto emotivo – oltre che politico – avesse rappresentato a Livorno lo scioglimento del Pci e la nascita del Movimento per la rifondazione comunista. Questa data e questo tornante non è assolutamente periodizzante per le vicende descritte e nelle vite dei testimoni.
Solo in un periodo assai tardo rispetto al 1989-’91 si assiste alle ripresa di una simbologia e di una pratica “comunista”, di un comunismo delle origini da contrapporre al presente e rispetto al quali dichiararsi i diretti e legittimi interpreti.
Ed è questo un punto di estremo interesse.
Un libro con alcune gustose chicche, come i trascorsi musicali assieme al Falorni nel gruppo post-wawe DTX. I Deltatauki del deputato del Pd Andrea Romano, proveniente da Scelta civica passando dalla Fondazione di Montezemolo ma in gioventù aderente a Lotta Comunista.
Perché se la vita collettiva ed individuale è ricca di contraddizioni, la coerenza rimane pur sempre una virtù. O almeno dovrebbe.
Un libro da leggere, da discutere e sul quale riflettere: e di questo non possiamo che essere grati all’autore, al quale mi lega una antica comune frequentazione delle aule della facoltà di lettere e soprattutto dei bar, mescite ed osterie di Pisa e dei monti sovrastanti.
di Maurizio Brotini
www.intoscana.it, 23 giugno 2018 Voci possenti e corsare: la livorno underground dagli anni ’80 ad oggi
Intervista a Luca Falorni autore del libro che ripercorre la storia della città labronica dal punto di vista dei centri sociali.
Luca Falorni è nato e cresciuto a Livorno, attualmente è docente di Lettere nelle scuole superiori milanesi. È anche videomaker e ha fondato nel 1990 la crew video Anthony Perkins Production. Voci possenti e corsare è il libro, pubblicato dalla casa editrice Agenzia X, che ha scritto per raccontare una Livorno diversa. Una città giovane, strettamente legata al suo porto, nata come melting pot di culture e religioni diverse e per questo rimasta sempre sovversiva, fuori da ogni possibile incasellamento. Una città mai banale, dove è stato fondato il partito comunista italiano e dove sono nate e cresciute varie mitologie ribelli nella musica, nell’arte, nella politica e nello sport. Da questo calderone di energie diverse che si intersecano è nato un potente movimento giovanile, legato ai centri sociali che si sono via via avvicendati nel coso di quasi trent’anni. Tutto questo mondo fino ad oggi sconosciuto ai più è stato raccontato per la prima volta da Luca Falorni nel suo libro. Un viaggio sentimentale dell’autore nel suo rapporto con la livornesità, con tantissime interviste raccolte personalmente. Ecco la nostra intervista.

Ciao Luca, nel tuo libro Voci possenti e corsare ripercorri la storia della Livorno dagli anni '80 ad oggi, il movimento studentesco, i centri sociali. Se ti riesce vorrei che tu mi riassumessi le fasi salienti: Villa Sansoni, poi Godzilla e poi?
Mi stai chiedendo di riassumere praticamente tutto il libro! Scherzi a parte c'è nel libro un testo di Franco Marino preso da “Senza Soste” che fa egregiamente una sintesi dei fatti tra inizio anni zero e inizio anni 10 del 2000, dopo la mia premessa e l'altra introduzione di Silvano Cacciari. Per dirlo in due parole dopo la fine della I fase del Godzilla ci fu una rinascita dello stesso tra il 93 e il 97 (con all'inizio l'occupazione del Teatrino, promossa dal collettivo del Godzilla). Dopo un periodo di crisi, nel 2001, dopo Genova, lo spazio in Via dei Mulini fu rioccupato da un'area più vasta di movimento e di studenti, che si incontrò anche con settori della curva. Negli anni il Godzilla in vari modi “generò” altri spazi che compresero tutta la palazzina di Via dei Mulini (ora chiusa dopo l'inondazione). Ha a che fare con quel nucleo anche la nascita del Refugio, mentre è il collettivo dell'ultimo Godzilla a occupare la Caserma di Via Adriana.

Nel tuo libro si parla del problema dell'eroina, dei suicidi, e di come la tossicodipendenza sia stata strettamente legata alla realtà dei centri sociali e come, forse, sia stata una delle cause anche della fine di queste esperienze. È stato così? Come si è usciti dal quella problematica? Come mai oggi non c'è più l'eroina?
L'eroina non è legata univocamente ai CSA, ha devastato il mondo della cultura, della politica, di tutta la società giovanile dalla fine dei settanta ai primi novanta. In luoghi accoglienti (pure troppo) come i centri era ovvio che facesse dei danni se non tenuta a bada. In realtà le esperienze non direi che si siano chiuse, si sono trasformate per necessità. Come si dice spesso nel libro, le generazioni successive non sono state così “ingenue” con le persone tossicodipendenti come lo siamo stati noi, questo è stato il modo di uscirne. L'eroina c'è ancora, anzi sta tornando in forme preoccupanti. A Milano ce ne siamo già accorti da tempo, ma purtroppo sta tornando anche da voi. In questi anni è cambiato completamente il mercato, molte modalità di consumo e di spaccio, ma non il mostruoso profitto che le narcomafie fanno su questo business, reso possibile in forme così lucrose dall'insistenza cieca sulle fallimentari politiche proibizioniste. Sarei curioso, per esempio, di sapere come mai l'informazione italiana non parla mai di politiche intelligenti e vincenti di riduzione del danno come quella del Portogallo.

Sei uno dei fondatori dell'Anthony Perkins Productions, raccontaci la storia di questa realtà…
La APP è stata la crew video- informatica del Godzilla, poi dal 1994 al 2000 è stata un'associazione culturale con sede al CECUPO in Via degli Asili, che ha prodotto talmente tante cose da non poterle dire tutte: rassegne di film, produzione di video, incontri con autori, corsi di educazione all'immagine, performance e istallazioni, consulenze per mostre.... Dal 2003, sparsi i soci per il mondo è diventata, come dico sempre, “uno stato della mente”. Appare quando è necessaria, questo libro sicuramente è una produzione APP (anche se non c'è scritto)!

Livorno è sempre stata una città particolare, un'anomalia, tu dici che negli anni '80 era una piccola “Seattle”, con tanta musica punk, wave labronica e sperimentazioni creative. Com'è cambiata adesso, dov'è finita tutta quella energia?
È cambiata sicuramente, lo raccontano alcuni dei suoi protagonisti anche di adesso nel libro, forse non sta tanto a me a dirlo, visto che vivo altrove da molti anni, ma a me sembra che suoni sempre una marea di gente, con moltissime più possibilità di prima. Chi li aveva mai visti sei o sette locali dove suonare negli anni ottanta, delle etichette indipendenti discografiche? Forse l'unica cosa che manca è una radio, oltre al concetto di “scena” vera e proprio, difficilissimo però in una città di provincia, senza un grande polo culturale attrattivo di un altro da sé, come può essere L'Università a Pisa.

Nel libro scagli un duro attacco a Ovosodo di Virzì, un film che a tuo parere non racconta la realtà livornese, ma le sostituisce qualcosa di falso, è così?
Si è così, quando ho visto quel film sono stato malissimo, ma proprio emotivamente prima di ogni altra cosa. Il protagonista potrei essere io, vengo da una famiglia di portuali, ho fatto il Classico come il protagonista (e anche il regista): nel film non c'è nulla di vero, come ora si sa per testimonianze dirette, sono storie legate a un suo ambito familiare non della città vera come hanno creduto molti livornesi. Si parla di una Livorno abitata da delle maschere grottesche, da personaggi compiaciuti della propria ignoranza, di una città popolata di comparse bisognose di una guida (il Partito, mai nominato, presente solo per ellissi, il che fa già ridere) severa per necessità, un luogo dove si accetta a capo chino la propria sfiga, ci si adatta quasi beati a lavorare in fabbriche così umane da permetterti di raccontarti Dickens mentre lavori, no c'è mai nessuna rabbia, solo il famoso Ovosodo in gola. Il top è quel ragazzetto della Guglia amico del protagonista che si fa la prima canna a Roma: negli anni ottanta/novanta dalla Guglia passavano fiumi di roba, altro che scherzi. Sull'ignoranza compiaciuta potrei parlare per ore, dirò solo che la mia generazione di figli di lavoratori (che è anche quella del regista) si è fatta in genere un mazzo tanto per studiare e aprirsi al mondo, lo ha fatto perché chi è venuto prima ce ne ha dato gli strumenti e le possibilità, chi dice il contrario o è in malafede o non conosce la storia della città

A un certo punto nel 2001 hai sentito la necessità di allontanarti dalla tua città, volevo chiederti il perché di questa decisione.
La decisione la presi per ragioni personali, ma soprattutto per l'impossibilità di fare qualcosa di risolutivo per la mia vita nella mia città, oltre che per fuggire dalla sensazione del “topino nella gabbietta” che Livorno allora mi dava e mi dà ancora quando ci torno, di cui parlo diffusamente nella premessa al libro stesso. Amo la mia città, ci vengo spesso, ma la gioia di vagare e farmi gli affari miei in una grande città come Milano, senza che nessuno ci metta il becco, è per me ancora impagabile dopo 16 anni di vita quaggiù.

Il tuo libro si conclude con un'ampia parte dedicata alle interviste ai protagonisti della storia culturale e politica della città, c'è anche il pugile Lenny Bottai. Mi chiedevo tutte queste persone che hanno vissuto insieme queste esperienze dove e come si aggrega adesso? Si sono persi del tutto i contatti o resiste ancora qualcosa di quelle esperienze di vita e amicizie?
La risposta alla prima domanda la dà in parte l'ultimo capitolo del libro “Il posto più difficile” che parla proprio della situazione attuale. Non è un quadro esaustivo come non è esaustivo il libro per quanto riguarda il passato, così accade per i lavori di narrazione orale come questo, dove le storie sono raccontate attraverso il vissuto di chi le racconta, la mia storia insieme a quella degli altri. Certo che non si sono persi i contatti, anzi si sono allargati, altrimenti non sarebbero nati né il documentario né il libro, né altre cose di cui nel libro si parla.
di Costanza Baldini
Carmilla, 27 maggio 2018 Le voci di una Livorno ribelle e corsara
Il recente libro di Luca Falorni, Voci possenti e corsare, trae il titolo da un verso di una canzone della cantautrice livornese Alessandra Falca, Livorno: le «voci possenti e corsare» sono le «urla del porto», le voci, cioè dei lavoratori portuali, che lo stesso Falorni, in una introduzione di carattere autobiografico, descrive come caratterizzate da un volume altissimo e scomposto, ascoltate mentre, da piccolo, una volta accompagnò il padre portuale a una assemblea dei lavoratori. Del resto, come ricorda lo stesso Falorni, anche lo scrittore livornese Carlo Coccioli diceva che «tutti i livornesi urlano troppo, sempre, senza motivo». È quindi la città di Livorno la vera protagonista del libro, una città che il lettore troverà molto diversa dalla ‘banalizzazione’ «degli anni novanta del cinema “postveltroniano” del noto regista Paolo Virzì […], annacquatore di costumi e usi labronici, tanto quanto inventore di una città immaginaria in cui le vie sono vuote a tutte le ore, in cui la politica non è niente più che un manifesto sbiadito o una battuta scherzosa in bocca a qualche personaggio secondario».
Quella che viene fuori dal libro di Falorni è una città vera e verace, che sa di mare e di porto, di voce della gente comune, di strade, di disagio e dolore, di ribellione. Perché, come leggiamo nel sottotitolo, si tratta della «Livorno ribelle», una Livorno corsara che ha sempre combattuto contro l’indifferenza e il vuoto diffuso, sollevando la testa, lottando. Infatti, il libro, è dedicato a una cronistoria della lotta per gli spazi sociali a Livorno (raccontata da svariate testimonianze di chi ha vissuto in prima persona quei momenti), una lotta effettuata da un gruppo di giovani che, fin dagli anni ottanta, ha combattuto, in aperto contrasto con il potentato locale – prima il PCI, poi il PDS – per cercare degli spazi sociali dove poter svolgere attività politica, culturale e artistica connotata da una chiara impronta antifascista. L’introduzione del libro, intitolata Ironici volti sulle rovine, è dedicata a un racconto prevalentemente di carattere autobiografico: Falorni racconta la sua ‘educazione sentimentale’ politica e culturale a Livorno fino alla scelta, nel 2002, di lasciare la città per trasferirsi a Milano e svolgere nel capoluogo lombardo la sua professione di insegnante di Lettere. Una situazione insostenibile – quella di sentirsi un «topo nella gabbietta» quando la gabbietta è tutta la città – ha determinato la decisione di trasferirsi a Milano: «Orrore, terrore, raccapriccio, pensavo all’epoca, meglio morire solo in un andito buio alla Bovisa, stramazzare sulla Comasina, marcire nella Brianza velenosa, che finire così». Livorno, quindi, oltre che come culla e madre, appare anche sotto le vesti di prigione provinciale vuota e insostenibile, quasi come la gretta e fatua provincia tratteggiata dalla penna di Balzac nella Comédie humaine, in cui tutti sanno tutto di tutti e ognuno ha un suo ‘rispettabile’ e incasellato ruolo sociale. L’autore, in questo modo, intende anche sfatare il mito di Livorno «isola felice», propagandato da una fatua opinione pubblica e dai «boiardi di partito». Disagio sociale, disoccupazione giovanile, «crisi sistemica del porto già dai fine anni ottanta, a cui sarebbe seguita la progressiva dissoluzione di tutto il tessuto sociale cittadino»: altro che isola felice! Luca, insofferente a ogni tipo di incasellamento, ha preferito ‘perdersi’ nella metropoli e da lì, anni dopo, raccontare con queste pagine alcuni indelebili momenti della storia underground livornese. Nel suo scritto autobiografico l’autore, con note malinconiche e doloranti, ricorda anche gli amici che non ci sono più, tanti compagni di strada che non ce l’hanno fatta, anche e soprattutto falcidiati dalla piaga dell’eroina che negli anni ottanta – gli anni del ‘riflusso’ in cui le persone cominciavano a chiudersi in casa, complici le nuove televisioni private, piuttosto che lanciarsi nel marasma vitale delle strade – mieteva le sue vittime soprattutto fra i giovani. E, in questi momenti, la scrittura di Falorni mi ha fatto pensare al recente romanzo di Alessandro Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo, uscito nel 2016 (cronistoria autobiografica di un’educazione sentimentale e politica, stavolta proprio a Milano), in cui lo scrittore ricorda con note dolorose tutti gli amici falcidiati dall’eroina.
A seguire l’introduzione dell’autore incontriamo uno scritto di Silvano Cacciari (Attaccare il dispositivo di controllo) che traccia un quadro delle occupazioni livornesi da un punto di vista più strategico-politico, legato alla gestione, anche sociale, del territorio. Uno degli errori più grandi, secondo Cacciari ma anche secondo molti altri intervistati, è stato quello di offrire indiscriminatamente troppo spazio ai tossicomani i quali, nella prima occupazione del 1989 (quella di Villa Sansoni, come vedremo), hanno preso in mano le redini della gestione del luogo dando adito all’opinione pubblica, movimentata dall’egemone partito locale, che considerava la Villa come una sorta di ricettacolo di ‘drogati’. Come nota Cacciari, «in Villa ci siamo dovuti confrontare con maggioranze schiaccianti di eroinomani in assemblea per la gestione del posto, forse il nostro è stato uno dei pochi collettivi che è stato politicamente sgomberato dai tossici!». Un’altra problematica affrontata è costituita dalle dinamiche di interrelazione col partito egemone in città, perché «il Pci all’epoca rappresentava esattamente il contrario di una forza popolare, era in realtà una forza di occupazione del territorio», un «dispositivo di controllo»: «Quando noi facevamo politica, organizzavamo un’azione, anche quando facevamo le feste, ci trovavamo sempre in mezzo i funzionari del partito». È facile quindi capire perché nel 2014, assistendo da Milano alla clamorosa sconfitta del PD nelle elezioni cittadine e alla vittoria dei pentastellati (comunque poi rivelatisi una specie di «Armata Brancaleone»), Luca afferma di aver euforicamente brindato con un «ottimo rosso piemontese» del 2003.
Dopo le dichiarazioni di Cacciari, è Franco Marino, pseudonimo di un redattore di “Senza Soste”, importante giornale livornese di controinformazione, a tracciare una sintesi di «dieci anni di movimento a Livorno (2001-2011)». Nel 2001, infatti, un gruppo di giovani rioccupa una palazzina che era stata la sede storica del centro sociale «Godzilla». Inizia poi un periodo di importanti lotte sociali che sfociano in cortei ed esperienze di piazza come il gigantesco corteo contro la base militare americana di Camp Darby, nel 2003, o la grande manifestazione, nel 2006, contro il rigassificatore offshore, una enorme nave gasiera che sarebbe stata ancorata al largo della città, fino alla nascita del «Mal», il Movimento antagonista livornese.
Cominciano quindi le testimonianze, anima e cuore pulsante del libro di Falorni, rigorosamente divise in blocchi cronologici e precedute da una mappa dei luoghi attraversati dal movimento livornese attraverso gli anni. Il primo gruppo di testimonianze comprende gli anni dal 1980 al 1993 ed è raccolto sotto il titolo Questa storia non mi piace! – lo stesso di un documentario di Falorni sugli spazi sociali a Livorno dal 1980 al 1993 (l’autore, infatti, è anche un bravo videomaker). Le testimonianze qui raccolte sono tratte proprio dal documentario-intervista. Già dagli anni ottanta, come osservano molti intervistati, si cercava – da parte del Collettivo spazi sociali che si riuniva nel Palazzo Rosciano occupato – uno spazio sociale che fosse un centro di aggregazione politica e culturale. La prima importante occupazione (dopo quella, passeggera, dell’ex Istituto Pascoli) è quindi quella, nel 1988, di Villa Sansoni, una villa ottocentesca nella frazione di Ardenza, nella zona sud della città, località in passato «sirena e adescatrice» di pittori postmacchiaioli. Come già ricordato, l’esperienza dell’occupazione svanisce nel ‘riflusso’ provocato dall’eroina. Come afferma Massimo M., «l’eroina pesò parecchio sul movimento degli spazi sociali, la città stessa in un certo periodo era stata affossata da chi si faceva le pere. Livorno era particolarmente nel mirino e non credo che ciò sia successo per caso. C’era stata una strage, anche di gente in gamba che avrebbe potuto dire la sua». La seconda, importante occupazione cittadina è poi quella del «Godzilla», che prende il nome dal mostro del cinema giapponese di fantascienza. Inaugurato nel dicembre del 1990, lo spazio sociale è il frutto di un’occupazione e di un accordo con l’amministrazione locale: all’interno di esso, nel corso degli anni, vengono avviati significativi progetti politici e culturali, come il gruppo di studio su Foucault o le prime sperimentazioni sulla comunicazione informatica. Purtroppo, anche l’esperienza del Godzilla decade più o meno per gli stessi motivi della fine dell’occupazione di Villa Sansoni: l’incapacità di contenere l’invasione da parte dei tossici e gli attacchi dell’amministrazione locale che, appunto, vedeva il centro sociale come un ‘ricettacolo di drogati’.
Dopo la significativa occupazione del Teatro delle Commedie, nel 1993, un teatro abbandonato e lasciato in disuso dall’incapace amministrazione locale, si passa alla seconda sezione delle testimonianze raccolte nel libro, Uovo strapazzato (1993-2010). Nel novembre del 2001, un gruppo di giovanissimi, una nuova generazione dedita alla ricerca di spazi sociali, rioccupa la palazzina del vecchio Godzilla mentre una parte del collettivo, più legata all’ambiente dello stadio, crea al primo piano della palazzina il Centro politico 1921. Di nuovo, vengono avviate iniziative culturali e politiche (personalmente, ricordo un interessante ciclo di seminari su Impero di Negri-Hardt tenuto da Silvano Cacciari) in una temperie socio-politica complessa: Genova 2001, manifestazioni contro la base americana di Camp Darby e contro il progetto del rigassificatore, le varie «sagre del precario» organizzate all’interno della Fortezza Nuova, un altro bellissimo spazio cittadino – una fortezza medicea circondata dai canali – abbandonato alla decadenza dall’amministrazione locale.
Si arriva dunque all’ultima sezione del libro, Il posto più difficile del mondo (Livorno ribelle oggi). La scena degli spazi sociali oggi è dominata da due importanti luoghi: il «Teatrofficina Refugio (Tor)» e la «Caserma occupata». Il primo, occupato nel 2006, è un teatro dove vengono organizzati concerti, spettacoli, mostre, iniziative culturali ed artistiche, anche con ospiti importanti a livello nazionale: si tratta probabilmente del luogo, al momento attuale, più culturalmente attivo e vitale della città. La Caserma (una vecchia caserma in disuso), occupata nel 2011, è sede di diverse iniziative, soprattutto di carattere musicale nonché del Critical Wine che ogni anno, in dicembre, vede riuniti produttori vitivinicoli provenienti da ogni parte d’Italia. A fianco di questi spazi occupati è poi doveroso ricordare altre strutture che sono attive a Livorno con un progetto di militanza sociale, politica e culturale sul territorio, come l’Associazione don Nesi nel quartiere di Corea (che nasce nel luogo dell’ex villaggio scolastico creato coraggiosamente negli anni sessanta da don Nesi per aiutare famiglie e ragazzi in condizioni di disagio), la Federazione anarchica, gli Orti Urbani di via Goito, un pezzo di amena campagna nel centro cittadino sottratto (per ora) all’edilizia selvaggia.
Il libro di Luca Falorni è perciò sicuramente un importante tassello, frutto di un lavoro certosino, nella ricostruzione di un periodo storico importante (e, direi, non solo underground) per la città di Livorno. Dopo la lettura viene spontaneo chiedersi quanto sia assurda la logica da sempre sottesa agli apparati di ‘potere’ e controllo: spazi gestiti da giovani, culturalmente e politicamente attivi, vengono contrastati e osteggiati fino allo sgombero da parte di amministrazioni locali (dappertutto, non solo a Livorno) che non riescono a tollerare che quella stessa cultura sia gestita (meglio) da un “altro da sé”. È una logica assurda perché queste strutture non riescono a rendersi conto di quanto bene facciano, invece, questi spazi alle realtà urbane contemporanee, attraversate da complessità sociali sempre più intricate. Il totale svelamento di questa assurda logica è quindi probabilmente il principale punto di forza del libro di Luca. Un punto di debolezza è però, a mio avviso, l’eccessiva nota malinconica e ‘dolorante’ con la quale molti degli intervistati, soprattutto legati al mondo artistico, rievocano il periodo in questione, come se dolori, rancori, insoddisfazioni personali facessero oggettivamente parte di uno spazio e di un tempo. Come se, in fin dei conti, tutte queste esperienze passate fossero state un grande fallimento. Ma, forse, questa nota malinconica fa da sempre parte, fino in fondo, dell’anima di Livorno, città di porto, disincantata, profondamente ferita nel corso della storia, fino alle terribili distruzioni della Seconda Guerra Mondiale. E, nonostante tutto, perdute in mille malinconie, le «voci possenti e corsare» riescono sempre a risollevare la testa, a cantare, a urlare, a parlare, adesso anche a un pubblico più vasto, grazie al bel libro di Luca Falorni.
di Paolo Lago
Milanox.eu, 9 aprile 2018 Voci possenti e corsare
Sono stato a Livorno una manciata di anni fa, dopo aver bazzicato il resto della Toscana per tutta la decade precedente senza mai approdare in quella che conoscevo solo e semplicemente come porto di mare e città di Piero Ciampi, e poi in un pomeriggio, una sera e una notte una schicchera della Dea Bendata – shakerata con la parte piacevole del mio lavoro – mi ha concesso l’occasione unica di essere catapultato fisicamente nel merito dell’argomento di questo libro: ospite del Teatrofficina Refugio, che è uno dei mille spazi controculturali di cui si racconta la genesi o la palingenesi in queste pagine, ho conosciuto per stretta di mano e con effetto immediato una buona e variegata porzione degli agitatori culturali locali qui intervistati, nonché l’autore Luca Falorni, a cavallo tra un paio di ponci nella sala fumatori di un bar storico e svariate birre a giro tra i Fossi della Venezia, che per fortuna è solo un quartiere caratteristico e checché se ne dica non assomiglia affatto alla triste (e turistica, e zozza) città di Aznavour quando non si ama più. Comunque la prima cosa che ci siamo detti tutti, credo, è che del Ciampi famoso, quello Presidente della Repubblica – che nel frattempo, aggiorno, è deceduto – non fregava un cazzo a nessuno: ciò ha cementato in partenza la nostra amicizia, e se siamo ancora in contatto è perché ovviamente rimangono tante altre cose da dirci anche se il diavolo ci mette la coda. Forcuta e lunga svariati chilometri, tra l’altro: cinquecento dal porto di Formia a quello di Livorno, su cui ho lasciato il mio cuore certamente più che a San Francisco, pure vista e visitata in questa vita. In ogni caso, è bello poter colmare anche solo un po’ le distanze con questo libro e rallegrarsi del fatto che Agenzia X l’abbia affidato a Luca alias Falco Ranuli alias Norman Bates di Anthony Perkins Productions, perché a quanto ne so lui è davvero la più esatta memoria storica dall’interno di quanto s’è agitato in città a partire dagli anni ottanta. E il risultato è che in queste pagine c’è tutto quello che viene promesso nel titolo: dal difficile rapporto con il vecchio e rossissimo PCI – sordomuto all’avanguardia dei “compagni che sbagliano” – al ricordo struggente e settantone, a tinte giallorosse, dei tempi in cui le banchine in disarmo non erano ancora in disarmo, e l’Italia tutta era soltanto in procinto di attraversare il terrorismo, il riflusso, il boom dell’eroina e delle TV private, le discese in campo, la grande crisi e tutte le altre mostruosità sociopolitiche che si incrociano con la storia del punk, della new wave e degli spazi occupati, liberati e riorganizzati dal basso con esiti alterni, che rimangono tuttora il partito preso di chi s’è rotto le palle, fino al compimento della lobotomia finale dell’umanità in atto. Un’epopea collettiva che assume per forza di cose i toni della commedia e della tragedia, in un andazzo grottesco come la vita vissuta, che la provincia amplifica con il suo rallentare ed estremizzare tutto e che lo humour labronico di cui il Falorni è un maestro stempera in una serie di passaggi in cui sostanzialmente uno legge e ride da solo come uno stronzo. Questo ed altro, dicevamo, nel breve memoriale di un intellettuale, docente e videomaker fuggito a Milano, unito a una sorta di inchiesta a cura del medesimo dove mezza città dà voce a una varietà impressionante di esperienze autogestite di cui si è resa o è tuttora protagonista (dagli orti agli squat ai teatri alle sale concerto al giornalismo allo stadio, saltando di palo in frasca con una velocità che rincoglionirebbe Pindaro).
L’impressione generale che se ne cava fuori, senza ulteriori anticipazioni, è che Livorno – tra alti e bassi – continua ad essere un manicomio pirata, oltre che la patria di alcune delle migliori menti delle ultime quattro generazioni, qualunque cosa esse facciano del loro spiritaccio brillante. Come foste San Tommaso, e insieme Marco Polo, vi consiglio di prendere questa Bibbia un po’ vernacolare e poi un veliero e di toccare con mano, seguendo l’apposita mappa del tesoro ubicata (realmente!) a pagina 80.
di Simone Lucciola
Il Tirreno, 18 febbraio 2018 Memorie autoironiche della Livorno anni '80 tra sogni e bisogni
«Invece, miei cari compaesani, c'era proprio qualcuno che preferiva essere professore (seppur precario) a Milano che disoccupato all'Ardenza». Questo qualcuno è Luca Falorni, classe 1965, poeta e videomaker, fondatore tra l'altro dell'associazione Anthony Perkins Production specializzata nella realizzazione di video, autore di Voci possenti e corsare. La Livorno ribelle dagli anni ottanta a oggi (Agenzia X). Libro presentato ieri nell'atmosfera vintage del negozio Taragaruz insieme agli amici livornesi Aldo Galeazzi, Silvia Giuntinelli e Marco Lenzi. Un po' saggio un po' romanzo, è la parabola underground buffa e triste, autobiografica e autoironica, di un antagonista «cresciuto nella Livorno anni '70 con il Partito come il babbo e con la 'ompagnia dei portuali come mamma». Liceale e universitario negli '80 «con le stimmate della sfiga», finito a vendere Lotta Comunista porta a porta, tra occupazioni, speranze un po' ingenue di rivoluzione culturale e politica negli anni' 90, la disillusione definitiva nei primi anni 2000. Fino al trasferimento a Milano. Voluto dall'editore milanese di cultura alternativa Marco Philopat, oltre a un testo autobiografico, contiene saggi di Silvano Cacciari e Franco Marino. Seguono testimonianze di attivisti di spazi sociali che hanno movimentato Livorno dal basso. Con un'operazione utile per una città che spesso non ha memoria né coscienza di sé, ripercorre, dal punto di vista degli antagonisti, la storia livornese dell'epoca governata dalla transizione dal Pci al Pd fino al giugno 2014, quando la vittoria dei Cinque Stelle alle amministrative ha rotto equilibri che parevano intoccabili. Le vicende si snodano tra Collettivo spazi sociali, Villa Sansoni, Godzilla, Teatrino occupato, Teatro del Porto, la Fabbrica, Teatrofficina Refugio, Federazione anarchica, lo stadio, Caserma occupata, Centro politico 1921, "Senza Soste", associazione Don Nesi, L'impulso, Centro per la pace, Teatro Mascagni, i fondi, The Cave...Tra chiusura delle fabbriche e dei cinema, il cantiere navale trasformato in una fabbrica di yacht, musica off e droga, è la fotografia di una Livorno lontana dalle atmosfere dei film di Virzì e dal mito della città un po' ignorante ma tanto bonaria. Definitivamente smitizzata dalla «vicenda più agghiacciante di razzismo degli anni zero in città e nell'Italia intera», cioè la non reazione della città alla morte dei 4 bambini rom nel rogo della loro baracca, che a suo avviso ha spazzato definitivamente via il mito della "pietas labronica".

Falorni, che caratteristiche ha avuto ed ha il "movimento" antagonista a Livorno?
«È partito in una Livorno, quella degli anni '80, in cui si faceva politica perché non si sapeva cosa fare, in confronto ad allora, oggi la città pare Disneyland. È considerato un movimento atipico rispetto al resto dell'Italia soprattutto per i buoni rapporti iniziali con il Pci».

Cioè?
«Diciamo che il Pci negli anni '80 era come un parente stretto, i Ds un parente di 3° o 4° grado un po' antipatico, il Pd il nemico di classe. Per me la rottura, in generale fu il discorso con cui Veltroni definì Milano la città di Calabresi. Ma come? Milano per noi era, ed è, la città di Pinelli. Così a Livorno, la rottura furono i due sgomberi a tradimento dei centri sociali da parte del sindaco Lamberti».

Il suo libro è una sorta di anti-Lungomai. Se Simone Lenzi parla di Livorno come di un recinto da cui non si riesce ad uscire, lei invece Livorno l'ha lasciata. Cosa le ha dato la spinta a farlo?
«Me ne sono andato 16 anni fa, per vicissitudini personali, ma anche per esasperazione, impotenza e rabbia per come stava cambiando la città, antropologicamente, e per come la vedevo amministrata, con operazioni che non condividevo (rigassificatore, Odeon trasformato in un parcheggio). E sono scappato per non diventare lo stereotipo del livornese “disoccupato all'Ardenza”».

Descrivendo la Livorno anni '80 parla tantissimo di droga.
«Sì, la droga era ovunque, era la città della “roba”, dell'eroina. Infatti il personaggio interpretato da Toto Barbato in Ovosodo di Virzì, quello del livornese che si fa per la prima volta una canna quando va nella Roma cool, è totalmente incredibile, mistificatorio. Era un ragazzo cresciuto alla Guglia, alla Guglia c'era e c'è un'area protetta per drogati (ride)».

Che giudizio dà della classe dirigente tra Pci e Pd che ha governato Livorno fino al 2014? Che cosa è mancato?
«C'è poco da rimproverare alla dirigenza Pci-Pds-Pd, hanno fatto il loro dovere, tenere a bada la città e alimentare il mito dell'isola felice mentre la crisi esplodeva. Diciamo che per anni hanno tenuto bene la polvere sotto il tappeto, e quando non si è potuto più mentire sono quasi rimasti a bocca aperta per la meraviglia, quando hanno perso il Comune è come se fosse arrivato l'Armageddon per la città».

Come ha vissuto la vittoria dei Cinque Stelle?
«Ebbi una mezz'oretta di ingenerosa euforia nel vedere questa classe dirigente arrogante, boriosa, affarista, assaggiare l'amaro calice della sconfitta. Immotivata perché scarsissima era la fiducia nell'arrivo dei pentastellati, rivelatisi poi una specie di Armata Brancaleone, al cui merito si può ascrivere però l'avere poi bloccato alcune speculazioni pericolose avviate dalle precedenti giunte, senza però nemmeno notare chissà quali svolte geniali. La storia dirà come andrà a finire per gli uni e per gli altri».

Rimarca spesso le differenze che la dividono da amici di adolescenza come Simone Lenzi, ora nella segreteria del Pd, e il deputato Andrea Romano, quello, scrive, «arrivato da Italia Futura (Montezemolo), proveniente dalla Fondazione italiani europei (D'Alema)... lascio i puntini per lasciare spazio magari a un futuro da grillino... chissà!».
«Non sono critico verso Simone, lo nomino con affetto. La pensiamo solo in maniera molto diversa, era così anche 30 anni fa. Per Andrea è diverso, era con me in Lotta Comunista, oggi ha votato tutte le leggi del suo partito che hanno peggiorato la condizione di tutti i lavoratori come me (Jobs Act, Fornero, Buona Scuola). Il mio presente e il mio futuro sono incerti anche grazie a quelli come lui».

Una figura di riferimento della sua infanzia di figlio di portuale, è stato Italo Piccini, «il Console, il Capo, il Signore Rosso delle Banchine in persona»...
«Lo ritraggo come me lo ricordo da bambino, durante un'assemblea nella sala Montecitorio, “vestito più o meno come i gerarchi del Pcus visti alla tv in bianco e nero, dato che era uno dei mammasantissima del Partito a Livorno”. In realtà è stato un personaggio così importante che meriterebbe un libro solo per lui, a giudicarlo sarà la Storia con la S maiuscola. Avrei voluto tanto intervistarlo in realtà, era tra i miei progetti un documentario sul porto».

Di Livorno oggi non salva nulla?
«Sicuramente tanta brava gente».
di Ursula Galli
Firenze.repubblica.it, 16 febbraio 2018 Pugno chiuso e collettivi, la parabola underground di un livornese che ha scelto Milano
LIVORNO - Autoritratto autoironico di un ribelle antagonista as a young man. Cresciuto nella Livorno anni ’70 “con il Partito come il babbo e con la ’ompagnia dei portuali come mamma”. Liceale e universitario negli ’80 “con le stimmate della sfiga”, finito a vendere Lotta Comunista porta a porta, tra occupazioni, speranze un po’ ingenue di rivoluzione culturale e politica negli anni ‘90, la disillusione definitiva nei primi anni 2000. Fino a preferire di essere prof di lettere precario a Milano che disoccupato (e magari piddino o grillino) all’Ardenza.
Sarà presentata domani, sabato 17 febbraio a Livorno, ore 17.30 da Taragaruz (negozio vintage in via Ernesto Rossi 23), la parabola underground ironica, amara, scorrevole, di Voci possenti e corsare. La Livorno ribelle dagli anni Ottanta a oggi (Agenzia X), un po’ saggio un po’ romanzo, autore Luca Falorni, classe 1965, diploma al classico Niccolini-Guerrazzi, oggi prof ma non più precario, videomaker e “manovale della cultura”.
Il libro, suggerito e pubblicato dall’editore-guru di cultura alternativa Marco Philopat (autore tra l’altro della La banda Bellini), è diviso in parti nette: un testo di apertura, sospeso tra autobiografia e romanzo di formazione (qualità della scrittura eccellente, ironia a mille), seguito un corpus di interventi di intellettuali locali. Quindi una cinquantina di testimonianze di attivisti di spazi sociali che hanno movimentato dal basso la Livorno ufficiale, quella governata dai rappresentanti della transizione dal PCI al PD fino al giugno 2014, quando la vittoria dei Cinque Stelle alle amministrative ha spiazzato un po’ tutti rompendo equilibri che parevano eterni e intoccabili.
In pratica si ripercorre la storia livornese degli ultimi tre decenni del secolo scorso a Livorno, e il primo quindicennio dei 2000, sul filo del movimento antagonista alla politica ufficiale. Movimento che, spiega Falorni, “è partito in una Livorno, quella degli anni ’80, in cui si faceva politica perché non si sapeva cosa cazzo fare, non c’era nessun locale in cui andare, in confronto ad allora oggi la città pare Disneyland”.
Movimento inizialmente atipico rispetto agli altri movimenti italiani, soprattutto per i buoni rapporti con il PCI. "Diciamo che il PCI negli anni ’80 era come un parente stretto – precisa Falorni - DS un parente di 3° o 4° grado un po’ antipatico, il PD il nemico di classe".
Le vicende del libro si snodano tra luoghi fisici e di elaborazione culturale come Collettivo spazi sociali, Villa Sansoni, Godzilla, Teatrino occupato, Teatro del Porto, la Fabbrica, Teatrofficina Refugio, Federazione anarchica, lo stadio, Caserma occupata, Centro politico 1921, “Senza Soste”, associazione Don Nesi, L’impulso, Centro per la pace, Teatro Mascagni, i fondi…
Una ricostruzione sferzante che tocca tanti temi, dalla droga diffusa in città, prima in periferia poi ovunque, alla chiusura delle fabbriche e dei cinema, alla mancanza di una politica culturale convincente e condivisa. Il tutto a suon di musica e di teatrini off. Molti vi si riconosceranno, altri inorridiranno, urtati.
Difficile invece restare indifferenti: nel bene (poco) e nel male Falorni fotografa un’epoca, e documenta da un preciso punto di vista - il suo - una Livorno appunto con tanta musica underground in un locale che si chiamava The cave, e tanta droga, lontanissima dalle atmosfere dei film di Virzì e dalla mitologia della città scherzosa e accogliente, un po’ ignorante ma tanto bonaria.
Definitivamente smitizzata dalla “vicenda più agghiacciante di razzismo degli anni zero in città e nell’Italia intera”, cioè la reazione della città alla morte dei quattro bambini rom nel rogo della loro baracca, che a suo avviso ha spazzato definitivamente via il mito “della pietas labronica”. Vicenda che gli ha confermato: "Ho fatto bene a andarmene".
di Ursula Galli
aspettandoilcaffe.com, 12 febbraio 2018 Voci possenti e corsare
La storia sono fatti che finiscono col diventare leggenda (Jean Cocteau)

Da qualche decennio Livorno è stata, inaspettatamente, reinventata come scenario di storie banalotte da vendere e consumare – da Ovo sodo al recente Romanzo famigliare – nonché innumerevoli spot commerciali e foto di moda con il lungomare come set.
Dal disordine sottoproletario dei quartieri marginali all’ordine lustrato dell’Accademia navale, prevale così un’immagine lontana dal reale sopravvissuto e dalle sue contraddizioni, compresi livelli di sofferenza sociale che niente hanno da invidiare a quelli metropolitani.
L’autenticità umana e l’originalità urbana di questa città sono ridotte a merce, tanto da stravolgerne la percezione anche da parte dei suoi stessi abitanti che, sovente, sembrano compiaciuti nell’adeguarsi al ruolo di comparse e a stereotipi caricaturali.
Realtà portuale e post-industriale, simile per molti versi a Piombino, La Spezia o Savona, quella livornese rimane annegata e non solo figurativamente tra un passato di fabbriche dismesse e un improbabile futuro di provincia “a vocazione turistica”.
Persino l’alone piratesco e l’antico ribellismo diventano quindi “colore”, attrattive alla stregua del cacciucco; tanto che, mentre tanti fuggono altrove: “Livorno a chi viene da fuori solitamente piace! Di più che a noi che ci si abita! Ci viene a trovare tanta gente da fuori e si vorrebbero tutti trasferire qui!”.
Gli anni Ottanta sono stati l’epicentro di questa crisi senza uscita, ma anche quelli che, sconfinando nei Novanta, hanno visto svilupparsi un movimento alternativo, fatto di occupazioni di spazi ed esperienze autogestionarie, che non solo l’ha avuta vinta sul paternalistico modello di lavoro e di governo del PCI e delle sue successive mutazioni genetiche, ma che rappresenta tutt’ora una consistente e vivace area di controculture, solidarietà e autorganizzazione.
Quanti allora, in piena desolazione craxiana, ruppero in prima persona il ghiaccio, mai avrebbero immaginato gli sviluppi e gli approdi, seppure alquanto diversi, della loro avventura. Davvero, da questo punto di vista, come osservava Tolstoj, “la storia la fa chi non sa di farla”.
Tutto nasceva dall’insofferenza, non soltanto giovanile, per la mancanza di spazi, ma anche verso il vivere quotidiano e il divertimento alienato e da questo underground giunsero pratiche extralegali, inedite anche nell’ambito locale dei superstiti gruppi alla sinistra del Partito comunista. Infatti, anche la partecipazione di quanti si ritenevano autonomi, anarchici o comunisti, rimase sempre a carattere individuale, a fianco di “cani sciolti e gatte slegate”.
Ora a distanza di un trentennio, nel suo Voci possenti e corsare, Luca Falorni ha provato, con ironia e spericolato affetto, a mettere insieme i tanti e scombinati tasselli di quel periodo, tra narrazione personale, ricordi individuali e memorie collettive, corredate da foto e documenti.
Un lavoro storico-letterario non semplice, quello di Luca, nell’onesto tentativo di annodare, cucire, ritagliare, connettere sentimenti, percorsi, convinzioni, approcci diversi e non sempre compatibili tra loro. E il materiale da lui usato è stato l’iniziale paziente raccolta di numerose testimonianze videoregistrate, dalle quali sono stati trascritti e “montati” i passaggi ritenuti più significativi su momenti di festa, iniziative, concerti e risvolti anche tragici.
Il risultato non è e non poteva essere una storia, ma un flusso di storie. Ricorda un po’ il confuso rumoreggiare di un’incasinata assemblea di movimento o di una discussione al mercato, con tante voci contrastanti che si parlano sopra, vogliono raccontarsi, dire la loro, sostenere la rispettiva visione politica.
E, come in ogni assemblea che si rispetti, c’è chi ha fatto e visto come quelli che sparivano, emerge il militante e il passante, quello che introduce e chi sceglie di stare zitto, ma pure il solito che parla per sentito dire e colui che non ha dubbi. Inevitabile poi a distanza di parecchi anni, oltre alle amnesie e alle suggestioni, così come avviene in tutti i processi di recupero delle memorie orali o scritte, la rielaborazione più o meno conscia del vissuto, alla luce di successive riconsiderazioni critiche ma anche di nostalgie, mutamenti ideologici o dissocianti scelte esistenziali.
Anche in questa inchiesta, forse i meno attendibili appaiono proprio i diretti testimoni a causa del sentito coinvolgimento soggettivo, ma pure le ricostruzioni degli osservatori esterni – e allora magari avversi – non possono non risentire di pregiudizi e giudizi a posteriori.
Finisce infatti per prevalere una sorta di narrazione mainstream su alcuni passaggi problematici, in parte riflettendo prevenzioni e luoghi comuni di chi scuoteva la testa oppure assumendo conclusioni date per scontate non sempre in grado di distinguere le cause dagli effetti.
E, aldilà di ogni sforzo di inserire gli eventi in un quadro economico e rendere politicamente organico quell’iniziale sommovimento cittadino, riaffiora un fotogramma che allora esprimeva un sentire “contro e nonostante” Livorno, in un rapporto di amore-odio oggi meno conflittuale.
In un freddo sabato pomeriggio del dicembre 1986, un nutrito corteo per gli spazi sociali e contro la repressione transita per via Grande, tra lo sconcerto della gente. Dal gruppo alla testa, in cui prevale il nero, sul ritmo di una nota canzone degli amati Cccp viene intonato e ossessivamente ripetuto il ritornello: LIVORNO PARANOICA! LIVORNO PARANOICA!… PA RA NOI CA
il manifesto, venerdì 2 febbraio 2018 Livorno, la ribelle
Livorno possiede un’autenticità innegabile, molto viva nell’immaginario italiano e bene ha fatto Marco Philopat, l’editore, a commissionare a Luca Falorni Voci possenti e corsare. La Livorno ribelle dagli anni ottanta a oggi (Agenzia X, 260 pp, 15 euro). La città è stata spesso raccontata, in libri e film, forse perché, come dichiarò Piero Ciampi nel 1976: “Livorno è un’isola, è la città più difficile, c’è tutta la contraddizione di questo mondo: ci sono gli americani, c’è il più grande monte di Pietà […] una delle più numerose comunità ebraiche, qui è nato il partito comunista e c’è anche una squadra di calcio che milita in serie C ma che meriterebbe lo scudetto in A”. Ma le storie difficili spesso sono anche quelle più interessanti. Livorno è sponda per varie mitologie ribelli, nella politica, nell’arte, come non ricordare l’azione situazionista delle “teste di Modigliani”, nello sport, con la sua celebre curva, e anche nell’umorismo, con il “Vernacoliere”. E si potrebbe continuare con le scritture diversissime ma entrambe insubordinate di Giorgio Caproni e Carlo Coccioli. C’era però una storia non raccontata, quella degli spazi e delle persone che hanno movimentato la città negli ultimi trent’anni, lo fa ora Voci possenti e corsare, raccogliendo – con il metodo insegnato da Danilo Montaldi in Autobiografia della leggera – le dichiarazioni di attivisti di realtà sociali che rappresentano esperienze dissidenti da quella ufficialità istituzionale che, con la transizione dal Pci al Pd, ha governato il comune fino al 2014, quando i grillini hanno sfruttato l’onda dello scontento per vincere le elezioni.
Trent’anni corrono veloci tra luoghi e gruppi: Collettivo spazi sociali, Villa Sansoni, Godzilla, Teatrino occupato, Teatro del Porto, la Fabbrica, Teatrofficina Refugio, Federazione anarchica, lo stadio, Caserma occupata, Centro politico 1921, “Senza Soste”, associazione Don Nesi, L’impulso, Centro per la pace, Teatro Mascagni, i fondi… Come in L’onda d’urto, storia della radio lombarda, pubblicato sempre da Agenzia X, anche qui colpisce la vitalità degli anni ’80 che reagiscono al riflusso politico con esperienze non di massa ma seminali. “Creature simili” attraverseranno gli ’80 tra analisi della ricomposizione di classe, autonomia creativa, tensioni libertarie, punk, nuovi linguaggi e tecnologie, ma con una particolare predilezione per il teatro e l’arte performativa.
L’intreccio delle dichiarazioni è preceduto da tre testi importanti: l’“educazione sentimentale” di Falorni (che è anche videomaker e poeta) dentro la livornesità, un emozionante e raffinato pezzo di scrittura che ricorda le prose di Luciano Bianciardi e fa sperare a ulteriori prove narrative; e due analisi sull’anomalia e l’originalità del movimento livornese di Silvano Cacciari e di Franco Marino, redattore di Senza Soste, interessante esperienza mediatica.
È Giorgio Caproni a benedire simbolicamente questo titolo. Il poeta muore a Roma nel 1990, ma i suoi ultimi splendidi versi pubblicati in Res amissa contengono la “verità livornese” fatta di poesia, provocazione, immaginazione e ribellione che percorre il libro: “Guardateli bene in faccia. / Guardateli. / Alla televisione, / magari in luogo di guardar la partita. / Son loro, i ‘governanti’. […] / I ‘tutori’ / – eletti – della nostra vita. […] / Guardateli, i grandi attori: / i guitti. / Degni / – tutti – dei loro elettori. / Proteggono i Valori / (in Borsa!) e le Istituzioni… / Ma cosa si nasconde / dietro le invereconde / Maschere? / Il Male / che dicono di combattere? / Toglieteceli davanti. / Per sempre. / Tutti quanti”.
di Marc Tibaldi

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