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Vigliacchi!

D Donna, 21 dicembre 2024Le ragazze del 2024: Amelia C.

La Ragazza dell’anno forse non esiste, ma non importa. Non ha un nome non ha un volto, ha solo una casella di posta dove scriverle, una mail dalla quale invia lettere, se la vuoi anche una copia del suo libro: il libro s’intitola Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti (Agenzia X) ed è credibile, veemente, sgradevole, vero. È pieno di quelle frasi che sento ogni giorno dalle ragazze della sua età che frequentano la mia casa e la mia tavola, che fanno l’alba coi miei figli a discutere e fumare, le vedo, le so, talvolta intervengo ma poco, più che altro ascolto. Dunque quando mi è arrivata la mail di Amelia C., una bellissima mail, e il suo libro in allegato l’ho letto e ho pensato: brava, questa ragazza. È la voce della sua generazione. Quella di cui parliamo tutto il tempo senza saperne molto, diciamo pure senza capirne nulla. Poi subito dopo ho pensato chissà. Magari è un tipo di mezza età, è un editor scaltro. Lo so. Non è bello dubitare. Dietro ogni sospetto c’è un’abitudine e non è davvero mia abitudine mentire, ingannare. Però conosco bene il mondo editoriale, lo costeggio da anni lungo i bordi. C’è chi darebbe qualsiasi cosa per avere fra le mani un’altra Amica geniale che anche quella non si sa chi l’abbia scritta ma chi se ne importa, no? Saperlo cosa cambia, contano le parole e il valore che hanno, che poi è quello che dice Amelia C. Quindi ho deciso di crederle. Vale quello che dici: sto al tuo gioco, giochiamo. La biografia di copertina dice: “Mi chiamo Amelia C., ho 17 anni. Frequento un liceo classico e ho i capelli rossi. Nessun’altra caratteristica di riconoscimento intendo rendere nota. Per me valgono le pagine di questo libro”. Mi scrivi, nella mail: «Mi chiedo perché la maggior parte degli adulti non è più capace di fare domande. Perché lo smartphone è diventato un assillo e non si prova ad ascoltare una diciassettenne che ne fa uso. Perché tutti mi chiedono “come vai a scuola” e nessuno si domanda “come va la scuola”». Dici. «Mi sono trovata più volte a disagio con i giornalisti perché non riescono ad accettare che voglia restare anonima. Io non ho alcun desiderio di apparire. Non capisco, non capisco proprio. Da un lato si fa un gran parlare del rischio digitale, del fatto che dobbiamo stare attenti ai contatti con cui dialoghiamo, che la nostra immagine deve essere protetta per non cadere nelle trappole del bullismo o dell’effimera esaltazione di sé stessi. Poi se io scrivo un libro devo sculettare in uno studio televisivo. Ma chi sta contraddicendo sé stesso? Io o voi? Tra l’altro la scelta è mia. È un’opzione ponderata. Il mio volto, la mia voce, il mio corpo voglio riservarli alle persone che amo. Con un libro voglio discutere attraverso le parole». 
Facciamolo, questo esperimento. Proviamo ad ascoltarti. Senza essere noi quello che ti raccomandiamo di non diventare. Tu, ragazza e basta. La ragazza senza nome, senza foto. La Ragazza dell’anno in cui si cambia prospettiva. Sarebbe bello, sarebbe utile.

di Concita De Gregorio

www.ilfattoquotidiano.it, 20 dicembre 2024 Da «Sos amore tossico» a «Il burgattolo»: i 10 libri da regalare a Natale agli adolescenti

Con il Natale alle porte, scegliere il regalo perfetto può essere un'impresa ardua: ecco una selezione di libri da mettere sotto l’albero per i nostri ragazzi. 

Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti di Amelia C. 
Centoquaranta pagine che puntano il dito in maniera netta e decisa contro il mondo degli adulti scritto da una studentessa 17enne di un liceo che vuole restare anonima. Amelia crea senz’altro empatia con i suoi coetanei e forse anche l’interesse degli adulti con i suoi attacchi spudorati a tutti quelli che rappresentano i boomers: “Voi siete abituati a uno schema mentale. Avete dei punti fermi, questo non ve lo nego. Ma sono privi di forza. Quali sono i vostri riti? La cena di Natale? Quella di Pasqua? Il veglione di Capodanno? La domanda sembra stupida ma non capisco se festeggiate il fatto o il festeggiamento. Cioè che non si tratti di una festa del cibo e che il rito sia sparito nell’immaginario…”.

di Alex Corlazzoli

Radio 24, 8 dicembre 2024 Vigliacchi di Amelia C.

All’interno del programma “Essere e Avere - Radio24”, Francesco Morace (nel suo spazio “Il Consum-Autore”) ha parlato di “Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti” (minuto 19.41). 
Qui il link

Facebook, 19 novembre 2024 Due psicanalisti rispondo ad Amelia C.

In Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti io ho posto molte domande, agli adulti, a me stessa, al mondo. Tra le principali spiccavano: “La felicità è legata al desiderio? Perché la maggioranza degli adulti non è felice? Perché non corrispondono alle loro aspettative? Perché disobbediscono a quelli che sono i loro desideri infantili?”. Ebbene, io ho cercato risposta tra alcuni famosi psicanalisti. Il risultato è quello che ho trovato due professionisti preparati e cortesi, con storie differenti, età differenti, che hanno preso seriamente le mie domande e mi hanno risposto. (in parte, ma loro non hanno letto il libro, dando man forte alle tesi del mio libro). Offrendomi e offrendoci un lavoro straordinario. A rispondermi sono stati: Nicola Ghezzani che vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. (https://www.nicolaghezzani.it/) e Maurizio Montanari (Maurizio Montanari - psicoanalista psicologo e psicoterapeuta, iscritto all'ordine psicologi ed elenco psicoterapeuti Emilia-Romagna. Partecipante alla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi (https://www.montanarimaurizio.com/). A loro il mio grazie più sentito. 

Nicola Ghezzani: Cara Amelia, il discorso sulla felicità è tanto semplice quanto complesso, perché è quello che maggiormente va incontro alla manipolazione sociale e quindi alla mistificazione. Se le persone sapessero cosa realmente può renderle felici, il mondo sarebbe completamente diverso. La felicità coincide col desiderio? Dipende da cosa si intende con desiderio. Ogni emozione, nell’animale uomo, è manipolata dalla cultura. Ma se andiamo alle fonti dell’uomo, al bambino, dove c’è ancora poca manipolazione, la felicità coincide col desiderio, cioè con la piena manifestazione di ogni parte di sé: affettiva, fisica, ludica, creativa. La felicità è qualcosa di cui non posso fare a meno? Ovviamente sì, non posso farne a meno. Ogni nostro pensiero, ogni nostra azione, ogni nostro sforzo va nella direzione della felicità. La felicità è la motivazione psicobiologica principale dell’uomo. Fra parentesi, è proprio questo che ci rende diversi dall’Intelligenza Artificiale, che non ha motivazioni emotive. D’altra parte, è proprio per questo che le società tentano di darci obiettivi “sociali” e non “personali”, perché fanno il loro interesse, non il nostro. Ciascuno di noi in cuor suo sa che siamo già ricchi, di natura; ma allo stesso tempo non può fare a meno di subire la dottrina sociale corrente, che ci impone di pensare che siamo poveri e ce lo dimostra: se non guadagni quella certa cifra non hai accesso alla scuola, alla sanità, alla moda, all’auto, alla formazione permanente, ecc. Tutto sfavorisce la scoperta della ricchezza intrinseca e quindi della felicità naturale. La maggior parte degli adulti sono infelici perché soggiacciono alla mistificazione sociale e pensano alla felicità nei termini in cui la società glielo comanda: carriera, soldi, potere, successo; quindi, anche competizione, isolamento affettivo, rabbia, invidia, guerra. Sono servi, ma non lo sanno, quindi sono infelici. Solo le persone altamente sensibili (o come li chiamo io, gli iperfunzionali) e alcuni normodotati più attenti e riflessivi si accorgono del “grande inganno” costituito dai valori sociali condivisi. Essendo però soli, anche questi tendono ad essere infelici. La felicità è come un sole oscurato da un cielo coperto da nubi: tutti sanno che c’è, ma nessuno può vederlo. 

Maurizio Montanari: Provo a rispondere partendo dalle sue sollecitazioni. La maggioranza degli adulti non solo non è davvero felice, ma in tantissimi casi non riesce a trasmettere ai figli alcun desiderio. Basta guardarsi attorno e si trova conferma delle statistiche: più della metà degli italiani è insoddisfatta del proprio lavoro, e della propria condizione di vita in generale. Cosa significa questo? Indica che, come spiega la psicoanalisi, laddove si abdica ad un desiderio, si apre la porta del malessere e del disagio. Diceva Lacan: dovete chiedere al paziente se ha fatto tutto ciò che doveva per assecondare li proprio desiderio. Ecco, questa domanda è spesso inevasa e quando viene posta, cozza contro un mondo di soggetti che i propri desideri li ha lasciati per strada, abdicando in nome di un percorso di normalizzazione. La felicità, che è figlia del proprio desiderio, è sovversiva e sovente va in direzione contraria ai concetti di benessere comune. Ma pochi oggi riescono a chiamarsi fuori dall’omologazione e dalla normalizzazione, venendo in seduta dunque “nevrotici”, sofferenti, vale a dire pagando il prezzo di una vita non felice, perché hanno sapientemente schiacciato il loro desiderio tempo fa. “Ah se avessi sposato tizio o caio”, “se avessi iniziato la carriera di musicista, come desideravo, e non quella da impiegato come mi è stato detto, consigliato”. Una società che non sa più desiderare non sa trasmettere altro che un bagaglio di ricette e che, alla fine della fiera, si traduce in un “sposati, trova un buon lavoro e cerca un bravo ragazzo”. Lo psicoanalista va in direzione contraria al discorso del padrone, essendo la psicoanalisi sovversiva proprio perché indaga e svegli il desiderio personale che è anarchico e spesso contrario al discorso sociale “ordinato”. Ebbene, mentre noi operiamo in questa direzione una gran parte della popolazione vive di servilismo e obbedienza cieca, abdicano la propria soggettività a qualcuno, a qualcosa, mostrando di fatto ai figli al via dell’infelicità, della sottomissione. “Non desiderare. Omologati.” La normalizzazione dei rapporti degli adulti, oggi, spesso ridotta ad una ricerca meccanica su algoritmi, è in moltissimi casi legata alla mancanza di amore. L’amore è un elemento costante nel corso delle analisi. Potrei dire che la sua assenza o la sua presenza nella vita degli analizzanti è forse la vera trama in sottotraccia delle loro vite. Aver ricevuto amore costituisce una poderosa camera di protezione, una salvifica via di fuga dagli affanni e le contrarietà del quotidiano. L'amore ricevuto rende sostenibile un fine vita, per quanto lo possa umanamente essere. Parlo di uomini i quali a seguito di una diagnosi letale, dopo il colpo da assorbire, riescono, se sostenuti, a trovare una pacificazione nell'amore passato, il che li rende capaci di venire in studio per dire “caro dottore, ne è valsa comunque la pena”. Viceversa, uomini e donne che l'amore non lo hanno conosciuto, magari barattato per una vita ricca di oggetti e relazioni umane che nel tempo diventano caduche, se ne vanno rabbiosi dalla vita, dannandosi per non trovare, dentro di loro, quel luogo caldo e sicuro da dove osservare lo spegnimento delle cose con la necessaria serenità di aver avuto il privilegio di essere stati qualcosa di importante per qualcuno. Nella mente di qualcuno. Gli adulti oggi hanno un compito: salvare dell'infanzia l'idea di un mondo che non contempli la perversione. Un giorno, nemmeno tanto lontano, il bambino incontrerà lo svelamento del reale. Gli anni trascorsi a cullarlo in un universo di giochi, passati ad immaginare come con la scala si possa salire in cielo, con un figlio pensare alla casa da costruire. Col pastello colorare le giornate. I tempi passati a dirgli un bravo quando sale sulla bicicletta senza cadere, ad educarlo alla magia del giusto scambio col mondo. Le sue notti passate a fantasticare quel gioco che diventa realtà, calato in quel mondo che suo padre gli aveva preparato. Tutto questo incontrerà suo malgrado la dura realtà del favoritismo, dell’azzeramento dei meriti. Conoscerà la sopraffazione, il compromesso. Costruire una barriera dalla perversione significa fare in modo che, anche quando quelle sue certezze cadranno, gli resterà come sponda sicura il ricordo di quel mondo infantile, nel quale i suoi sforzi erano premiati da un bravo, da una carezza, da un premio. Un mondo di letture e di libri che saranno il suo rifugio. I genitori dovrebbero essere l’antidoto al cinismo che lo aspetta in agguato, fuori dalla stanza dei giochi, Un’ultima cosa: attenzione al diffuso moraleggiare di tanti esperti della psiche, i quali affollano le trasmissioni televisive intenti a dissertare di sfacelo giovanile, costumi corrotti, famiglie in crisi, autorità paterna scomparsa. bei tempi d’oro scomparsi per sempre. Cantori un po’ nostalgici di antichi mores familiari da restaurare, di padri autoritari di richiamare in servizio, propugnano la necessità di una ritrovata fedeltà coniugale antidoto alla degenerazione copulativa odierna, o di un ritorno ai valori del Vangelo. Tra un monito severo a “staccare i ragazzi dalla rete” e la messa in guardia dalla degenerazione della generazione “tik tok”, si insinua il dubbio che questi pur validi e antichi consigli di clinico abbiano ben poco o nulla. Consigli che, se andate indietro con la memoria, erano gli stessi che ci venivano impartiti dai nostri nonni, o dai genitori, quando si parlava di droga, cattive compagnie, violenza. Il clinico, il conoscitore della mente umana, lo “psy”, fuori dal setting terapeutico ha il compito di incarnare una posizione di ascolto e osservazione dei fenomeni sociali senza divenirne un censore. Il senza limite è oggi la cifra di tanto mondo giovanile, il volerlo calmierare con le “buone vecchie maniere” è il prodotto deleterio del discorso del padrone. I nostri studi sono colmi di ragazzi che usano droghe, si tagliano, ingrossano le fila della baby gang. Ciascuno con una modalità di vivere distruttiva che è compito di terapeuta lenire, limitare. Calmierare. Non giudicare. Il “ai miei tempi era tutto meglio” è una retorica insopportabile, orrenda ed ammuffita. Negli anni 70 non c’era la rete, la perversione non aveva questi riflettori. Ma i giovani morivano per strada con la siringa nel braccio, si menavano e si uccidevano. In regolamenti di conti tra bande di opposte fazioni politiche. Le ragazze venivano stuprate senza che nulla potessero dire, ottenendo spesso una reprimenda sociale che le imponeva un silenzio di tomba. Molti insegnanti usavano indisturbati le mani verso gli allievi, i cosiddetti “metodi educativi” in molte famiglie erano spinti all’eccesso. Gli studi per divenire un clinico della mente sono lunghi ed ardui, e non possono prescindere da un lavoro di analisi su sé stesso. I libri, le nozioni, il sapere sulle dinamiche della mente e sui farmaci non possono essere che un supporto ad una capacità di rendere sé stesso uno strumento di cura e e rettifica personale per chi, in un momento della propria vita, chiede aiuto ad un operatore. Ogni generazione trova delle modalità autodistruttive, ogni generazione omaggia la pulsione di morte, il compito di chi fa il clinico non è quello di puntare il dito quanto di essere un clinico sino in fondo, capace di indagare le vie che hanno condotto il soggetto a scegliere di bere, giocare d’azzardi, scegliere la violenza come elemento identitario. Mentre la medicina cura l’uomo perché mangia troppo, beve troppo e gioca troppo, la psicanalisi lo conosce come uomo proprio perché sono i suoi eccessi a definirlo. Fare l’analista, lo psicologo, Lo psicoterapeuta, non è un mestiere dal quale si esce puliti.

www.nazioneindiana.com, 13 novembre 2024 Amelia C: «a voi adulti dico: vigliacchi!»

«No, io non sarò come voi. Noi non saremo come voi. Noi siamo un mondo nuovo. Noi siamo l’insurrezione naturale perché la nostra natura poggia le radici su terre sconosciute» scrive Amelia C., 17 anni, e tanto basta come introduzione a uno dei libri più formidabili pubblicati negli ultimi tempi, Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti. Lo pubblica AgenziaX, e andrebbe letto subito, senza indugi, se non fosse che l’autrice sovverte anche questa aspettativa: «Sono Amelia, sono il futuro e non ho fretta».
Lettura antidotale al fatalismo, alla desolazione come mandato generazionale, questo libro si legge con una specie di attrito necessario. Siamo di fronte a un buon veleno, di quelli che curano, senza diluire la rabbia, senza truccarla di moralismo. Gli adulti, di questi mondo che si sono ritrovati in eredità, non hanno capito nulla. Soprattutto, sono stati cattivi antenati. Non possiamo più permetterci lo stesso errore, dice Amelia. E dovremmo darle ascolto. 
Come si comprenderà leggendo i due estratti che ho scelto di ospitare qui sotto, c’è molto in Vigliacchi!: l’incapacità di venire a patti con il passato e la ridefinizione del mito, la guerra permanente e l’orrore del genocidio in Palestina, l’analfabetismo digitale, le auto elettriche e lo sfruttamento sistematico delle materie, l’inutile crociata contro la pornografia e la crisi radicale della scuola. Pasolini e Madame, Facebook e Chi l’ha visto, la masturbazione e l’orgasmo, senza esaltazione, senza pruderie. Soprattutto, c’è la volontà di stare nell’incerto, in ciò che punge, che non si risolve immediatamente in qualche buona novella, con la consapevolezza di poter dire, contro ogni futuro già colonizzato: «Noi saremo proprio qualcosa di sconosciuto e lo saremo in maniera dirompente perché siamo figli di un secolo che farà da spartiacque, che stravolgerà il modo di lavorare, agire, pensare. […] Non ci fa paura questo nuovo mondo perché ne siamo parte integrante. Ma sappiamo metterci le mani».
Viva questo libro, vestito d’ortica e di furore, ma con tutto l’impeto della felicità – quella non facile, che non si dà pace, che che vuole ricominciare il mondo. 

Voi volete stare in pace
Continuate a discutere di fascismo e antifascismo. Quindi di un tema del nostro passato, relativo alla Seconda guerra mondiale e al dopoguerra. Non voglio fingere che sia una questione che non riguardi anche la nostra generazione. La storia è la nostra levatrice, non potrebbe non interessarci. Cosa è accaduto? Perché? Perché non dovrebbe mai più accadere? Però io non posso commuovermi per qualcosa che è accaduto settant’anni fa. Non perché sono insensibile, ma perché quello che è successo nel passato fa parte della Storia con la S maiuscola. Io la posso studiare ma non posso commuovermi e men che meno posso essere interessata al dibattito antistorico e spesso fumettistico che ne fanno gli adulti come in una disputa tra tifoserie. Poi c’è qualcosa che a me non torna. L’articolo 11 della nostra Costituzione recita nel primo comma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Bene. Noi non siamo coinvolti nell’attuale guerra RussiaUcraina, ma non mi sembra che stiamo ripudiando quel conflitto, visto che inviamo armi a uno dei due contendenti. Siamo coinvolti? Voi sembrate non curarvene, non ne parlate mai. E anche questo mi stupisce, quando poi vi accapigliate per motivi molto più stupidi. Il dramma della guerra è invece il tema principale del parrocco di zona, quel don Fabrizio che papà non hai mai sopportato. Ora, io non sono in grado di dire cosa si dovrebbe fare, ma mi rendo conto della contraddizione. Vi metto la questione sul piatto, perché sembra che voi non vogliate guardare. Dal basso dei miei anni, posso solo mettere in risalto ciò che vedo. Non sono ancora in grado di trovare soluzioni, ma di porvi domande precise e puntuali sì. Quelle a cui voi non rispondete forse perché siete stanchi o non vi sono mai interessate. Avete lasciato correre. Non ve ne siete mai occupati. Avete solcato la corrente del fiume dal verso più comodo. Vi siete lasciati trasportare. Poi vi lamentate, ma questo forse è un vizio che emerge a una certa età. Ecco, io no. Noi no. Questa sarà la differenza tra la mia e la vostra generazione. Entreremo nel merito delle cose. Ci sbatteremo la faccia. Forse ci faremo male, ma non ci lasceremo trasportare né dalle mode, né dalle abitudini, né da quello che chiamate “contesto sociale”. A voi della pace non interessa nulla. Volete semplicemente “stare in pace”, ossia restare ai margini, seduti sui vostri comodi divani, dibattendo del vostro collega di lavoro che ha avuto una promozione, mentre siete sempre fermi, anche se vi fate un “mazzo”, come dite. Oppure discutete, perché i pettegolezzi non li fate, sull’amica della mamma che ha deciso di cambiare vita a cinquant’anni. E a voi sembra una demoniaca serpe, mangiatrice di uomini, senza responsabilità. 
Per carità commentate anche del vicino che si è comprato un’auto storica, dell’estetista, del fatto che l’Ikea non è più conveniente come una volta, del meteo, del fine settimana che volete passare senza vedere nessuno, della cucina da cambiare, della lavatrice, della bolletta del gas, del caro benzina, di quegli stronzi dell’assicurazione, della gelateria che ha cambiato proprietari. Avete una serie interminabili di argomenti su cui discutere. Sul nulla. Perché sulla guerra tra Israele e Palestina non proferite parola. Io non riesco a capire! Come è possibile non dire nulla su quello che sta accadendo! Dovrebbe essere l’unico tema di interesse. Stanno sterminando un popolo, uccidendo civili, bambini, madri e vecchi. Da mesi e mesi. Senza soluzione di discontinuità. Io non voglio insegnare nulla a nessuno ma le domande mi sorgono. La reazione del governo israeliano a fronte di quella che è stata l’aggressione di Hamas il 7 ottobre 2023, non è andata oltre ogni limite? Esiste un principio di proporzionalità? Oppure è giusto sradicare qualsiasi forma di vita che persiste su quel territorio? È lecito lasciare morire di fame i civili, distruggere ogni edificio, eliminare fisicamente sino all’ultimo superstite? No. È barbarie allo stato puro. E nessuno mi può accusare di essere una sostenitrice di Hamas se dico che la reazione è stato fuori misura, disumana, ingiusta! E se critico il governo di Israele non sono antisemita, non odio gli ebrei, non ne conosco nemmeno uno. Penso solo che accettare inermi la soluzione “totale” tesa a massacrare un intero popolo è da considerarsi disumano. Non possiamo confondere la Palestina con Hamas. Qui sta il punto di equilibrio. 
E quando finirà questa atrocità, cosa rimarrà? Come potremo pensare che un superstite, che ha perso l’intera famiglia, gli amici, la casa, non potrà provare odio per quel Paese che ne è stato il carnefice? Come non potrà provare istintivamente vicinanza per qualsiasi gruppo terroristico che vorrà ripagare per l’ingiustizia ricevuta? Non ci può essere una prospettiva d’uscita dalla spirale dell’odio se non si comincia a riconoscere l’altro, affermando il diritto a esistere e a vivere in pace. Ma di tutto questo a voi, sembra non interessare. Perché? Forse avete paura di litigare troppo con qualcuno? Ma cosa sta succedendo? Solo l’altro ieri mi raccontavate che voi due vi siete messi insieme durante un grande corteo per la pace e ancora adesso conservate come un oggetto sacro la bandiera arcobaleno nel cassetto dei calzini. Per esempio, non vi siete mai chiesti come mai non ci sono immagini esplicite di morti e cadaveri tra le macerie di Gaza? Forse vi serve guardare una foto per aprire gli occhi. Ma forse ancora, voi davvero volete semplicemente essere lasciati in pace. Vivere la vostra vita, fingendo che nulla vi possa toccare, che la vostra casa è al sicuro, che la vostra auto è in garage, che vostra figlia non morirà accidentalmente per un effetto collaterale. Ebbene io non posso essere come voi, come l’Europa, come i nostri politici che parlano di tutto, si accapigliano sul redditometro, ma non sono in grado di esprimere parole decise contro quello che sta accadendo. È possibile che debba ascoltare il Papa, o Santoro, per sentire l’indignazione, il dolore, lo squarcio nel cuore, per tutti questi morti? 
No, io non sarò come voi. Noi non saremo come voi. Non saremo le ribelli del femminismo anni settanta. Noi siamo un mondo nuovo. Saremo proprio qualcosa di sconosciuto e lo saremo in maniera dirompente perché siamo figli di un secolo che farà da spartiacque, che stravolgerà il modo di lavorare, agire, pensare. Noi siamo l’insurrezione naturale perché la nostra natura poggia le radici su terre sconosciute, ancora tutte da scoprire. Terre e mondi di cui voi siete gli antenati, in cui trascorrete ancora parte della vostra vita ma da ospiti, noi del nuovo mondo vi sembreremo degli alieni. E questo è un bel paradosso, siamo vostri figli, figli di questa epoca storica, ma stranieri, extraterrestri. 

I (vostri) miti
“Ma che musica ascolti? Che cantanti sono questi che suonano tutti nella stessa maniera, con lo stesso ritmo, le stesse melodie, addirittura le medesime parole? Questi durano un mese e il prossimo non esistono più. Ma inizia ad ascoltare i miti della musica: non dico Bruce Springsteen, Pink Floyd, Bob Dylan, ma almeno quelli della mia generazione: Clash, Nirvana, CCCP! Suvvia, non esistono paragoni con quella roba che ascolti tu.” Ecco i miti. Vedete, questi sono i vostri miti. Mi citate gente che ha più di settant’anni, che voi seguite da quando ne avevate 20. E io vi capisco. Sono per voi i miti della vostra giovinezza e della vostra età adulta. Non li avete mai mollati. Parlano di voi. E voi parlate di loro. Ma sono i vostri. Io non ve li contesto, hanno accompagnato le vostre vite, le hanno plasmate, sono la memoria di voi stessi che prosegue nel tempo. Sono miti nel campo della musica probabilmente irraggiungibili. Ma capite che è proprio questo il punto. Voi avevate e avete bisogno di miti. Vi servono per spiegare a voi stessi l’origine, la vostra stessa genesi. Il mito in senso generale è parte costitutiva della nostra essenza umana. Ma vi ripeto qui risiede una parte della nostra inconciliabilità. Arriveremo anche noi ad ascoltare i vostri cantanti e non è escluso che ci piaceranno, ma non saranno mai i nostri miti, rimarranno i vostri. Oggi, la medesima parola ha perso la potenza con cui voi lo evocate, sono diventati oggetto di consumo e non più i dei dell’Olimpo. Voi adulti avete sostituito i classici miti come Platone, Hegel, Dostoevskij, Molière, Sartre, Marx, Calvino, Beckett e molti altri ancora, con i cantanti della vostra generazione che hanno riempito le vostre vite, l’amore, l’amicizia, le notti folli che avrete sicuramente fatto. Oggi, se ci sentite parlare di miti, noi lo facciamo con una certa leggerezza, non vorrei dirvi addirittura ironia. Ma sappiamo bene che il gruppo che ascoltiamo oggi vale solo per quest’oggi. Lo ascoltiamo centinaia di volte, poi lo molliamo e passiamo ad altro. 
Noi cerchiamo altri ragazzi che come noi si sono persi dietro una frase che condividiamo con le cuffiette. Non sono miti? Va bene. Non hanno le caratteristiche dei vostri, ma siamo in un altro tempo. Voi ascoltavate i gruppi o i cantanti come tifosi, odiando chi si appassionava per altra musica. Noi siamo una generazione liquida, lo posso dire a ripetizione tanto non capite. La musica è importante anche per noi, ti fa sconvolgere lo stomaco, arriva dritta all’anima. Li chiamiamo anche noi “miti” ma con molta meno enfasi di voi. Però usiamo lo stesso termine, perché al suo interno sopravvive il mistero, qualcosa impossibile da afferrare per intero. In questo segreto vive la speranza di un mito più grande, di qualcuno che riconosca per intero le nostre sensazioni nel momento stesso che le proviamo. A dire il vero, possiamo considerare un “mito” un nostro compagno di classe oggi, e descriverlo e persino denigrarlo come uno stupido domani. I nostri aggettivi sono liquidi. E la parola mito ha perso la sua forza propulsiva, il suo significato etimologico, ossia una narrazione epica o addirittura sacrale. Noi siamo figli dell’epoca del tweet. In tre righe, più minimalisti dello scrittore Raymond Carver, indichiamo ciò che pensiamo sul mondo. Oggi i miti si sono volgarizzati ma, attenzione, non pensiate che i vostri erano sacri. I nostri sono diventati estemporanei ma non hanno perso quell’alone di mistero che avevano i vostri. Ma voi avete sempre avuto disperatamente bisogno di miti e di eroi. Siete una generazione che ha tentato di decontestualizzare il mito per poi portarlo su un palco con 70mila persone. Ecco, non ridicolizzate i nostri perché ci fareste subire la medesima sensazione che la generazione precedente alla vostra ha fatto con voi. Sarebbe una ritorsione, una meschinità. Una sorta di mito per vendetta. Coccolateveli, teneteli buoni con voi. Se volete siamo disposti anche ad ascoltarli ma non riusciremo ad avere i vostri occhi luccicanti, a capire i vostri discorsi iperbolici. Noi non pretendiamo da voi lo stesso trattamento. Sappiamo quanto siano transitori i nostri riferimenti. 
Quello che non capite è che non siamo alla ricerca del mito, non ci sentiamo menomati per questo. Andiamo ai concerti, ci divertiamo, ascoltiamo le stesse tre canzoni per tre settimane e poi cambiamo. Fatto e disfatto il mito. Vedete c’è una leggerezza che portiamo in dote che voi non potete capire. Eppure, siamo in un periodo complesso, quello dell’adolescenza, ma non potete guardarci come vi osservavate voi allo specchio. Ci guardate ma continuate a guardare voi stessi. Siete solo dei narcisisti. Ecco perché non possiamo capirci. E guardate che il bene e l’affetto non c’entrano nulla. Non sentitevi colpevoli e non generate in noi sensi di colpa che tra l’altro facciamo fatica anche a percepire. Vi dovete solo arrendere al fatto che questa generazione con cui avete a che fare, perché ci avete tra i piedi, sarà lo spartiacque. Voi i luddisti a difendere i vecchi telai, noi i promotori delle nuove trasformazioni. Noi con lo smartphone, e voi… con lo smartphone che userete sempre più maldestramente.

www.clubghost.it, 12 novembre 2024 Amelia C. porta l’attacco al cuore del mondo degli adulti con Vigliacchi! 

“Io non voglio più provare vergogna, non voglio avere sensi di colpa. Voglio che il mio desiderio sondi l’insondabile, ciò che è impossibile governare, l’eccedenza che non può essere tenuta al guinzaglio. Io voglio espormi al rischio della vita pienamente. Avrò paura ma non avrò paura di avere paura. Non voglio sacrificarmi sull’altare del pensiero di questa società che non riconosce il mio io incerto, dubbioso e forse anche narciso.” 

La copertina di questo libro, insieme alla descrizione dello stesso, mi incuriosisce. La noto in un post sul profilo di Marco Philophat, fondatore e direttore della casa editrice Agenzia X, con cui il libro è uscito. È un post della stessa Amelia C. Lascio un commento affermando che condivido quello che dice e le chiedo l’amicizia su Facebook perché mi sembra una persona interessante. Scopro che ha diciassette anni e ciò non fa scemare il mio interesse anzi lo aumenta. 
Raymond Radiguet, a chi, magari per invidia, gli rinfacciava il fatto di aver scritto Il diavolo in corpo tra i sedici e i diciotto anni, rispondeva: “Tutti i grandi scrittori hanno composto i loro primi capolavori a sedici anni; i più grandi sono quelli che sono riusciti a farlo dimenticare”. Jim Carrol in The basketball diaries, pubblicato in Italia con il titolo di Jim entra nel campo di basket diceva: “Sono solo un ragazzino ma ho visto il vostro gioco”. Jim aveva scritto il suo libro tra i tredici e i sedici anni. Questa frase appare nell’ultima parte del libro che era proprio il suo diario. Fu elogiato da Jack Kerouac. 
Credo che Raymond, Jim e Amelia, che non si droga come invece faceva Jim, in una ipotetica altra dimensione spazio temporale, avrebbero potuto fare una bella chiacchierata irriverente sul mondo degli adulti. 
Compro l’ebook e lo leggo, dopo aver inforcato gli occhiali da lettura, in tre, quattro ore di notte, tanto mi prende. Nel silenzio totale, io, il kindle e il vecchio nokia senza sim che uso abitualmente per prendere appunti. Le poche informazioni che Amelia da di sé nella nota introduttiva mi intrigano. La citazione da Le belle bandiere di Pier Paolo Pasolini, intellettuale in realtà mai capito in fondo dallo establishment, tanto meno dai “compagni”, mi affascina. Pasolini esalta i ragazzi generalmente pieni di iniziativa e voglia di fare e condanna gli adulti conformisti e apatici. Ovvio che si tratta di generalizzazioni, in genere sbagliate ma, in questo contesto, giuste. Pasolini, provocatorio e irriverente, uomo libero dagli schemi politici e culturali, era un vero rivoluzionario. E Amelia C. parte da quello spirito “anarchico” e rivoluzionario. Adopera la generalizzazione come strumento di rivolta apocalittica. 
Parliamo con calma ora del suo J’accuse agli adulti. 
Amelia C. riporta le accuse generalmente rivolte ai ragazzi. Sempre attaccati allo smartphone, fuori dal mondo reale, etc. Che cos’è la realtà? chiede Amelia C. E ha ragione. Io lo pensavo a vent’anni e lo credo tutt’ora. La realtà, intesa come dimensione unica valida per tutti, non esiste: ci sono tante realtà quanto ogni individuo. Ognuno ha la sua sala cinematografica dove proietta il proprio film. E reale e virtuale non sono in contrasto tra loro: chi ha il diritto di dire cosa è la realtà. “È reale solo il mondo delle idee” dice Amelia C., citando Platone. E non è l’unico filosofo che cita. Che la realtà non sia solo quella fisica lo sanno/sapevano gli sciamani ma in realtà lo sanno anche gli adulti che si rifugiano in realtà virtuali fatta di reality show, programmi idioti e cronache avvilenti. Il bambino sa che i suoi sogni sono reali. Per questo teme gli incubi più degli adulti. L’adolescente sa che i fumetti che legge e i film che guarda sono dimensioni altre. Ma crescendo si dimentica. 
“Noi siamo diversi” dice Amelia e aggiunge che gli adulti non fanno il minimo sforzo per capire i ragazzi. Scrivono libri e fanno conferenze e predicano sull’amore e l’eguaglianza ma alla fine reiterano comportamenti xenofobici, omo e transfobici e sono pederofobici e pedofobici. Hanno paura dei loro figli: come i bambini ne Il villaggio dei dannati, li pensano come una comunità di tutti uguali; predicano il diritto di esprimersi e lo sviluppo individuale, ma quando un adolescente prende una strada che non capiscono, questo li sconcerta e si rintanano nelle loro gabbie mentali. Continuano a predicare dall’alto di fragili pulpiti. Ma l’apocalisse è qui e ora e i ragazzi lo sanno. Il nostro mondo e già finito e un altro sta nascendo e non sappiamo come sarà e perché dovremmo poi? L’errore commesso da tutti i rivoluzionari e stata la programmazione. Ma, diceva Vincenzo Sparagna in un editoriale di “Frigidaire”, rivista anni 80, in cui spesso lui condannava la critica ipocrita e ambigua che già allora (è un mantra che si ripete) gli adulti muovevano ai giovani: “’Noi non sappiamo come sarà il mondo migliore che costruiremo”. Utòpia si trasforma nel suo contrario se si pensa troppo a come sarà il mondo nuovo: ci basti sapere che è già nato. 
I futuristi non avrebbero condannato la velocita dei nostri tempi e la possibilità di accesso a milioni di contenuti, interessanti o meno che offre il web. In contraddizione tra loro? Sicuramente. Ma siamo sicuri che la biblioteca di Babilonia non contenesse punti di vista differenti e contraddittori? Non è forse vero che per conoscere la storia bisogna leggere da punti di vista differenti? Sì, voi adulti lo sapete e lo predicate ma non lo fate: predicate bene e razzolate male. E quando giudicate i giovani siete orrendi. Ma basta poco. Ricordate la vostra adolescenza e i vostri vent’anni ma anche i quindici e i quattordici. L’adolescente è, per sua natura, un ribelle senza causa, un rivoluzionario senza programmi, un esploratore di zone liminali ed esperienze al limite. Molti accendono il fuoco della rivolta da giovani. E lo spengono da adulti. A parte i pochi che ricordano: gli anarchici veri e i vecchi comunisti, come lo zio che Amelia ricorda con affetto. 
Personalmente io non dirò mai a un giovane come deve cambiare il mondo. Loro lo sanno già e la rivolta e già in corso: viva l’anarchia che già c’e. Lottiamo oggi perché il mondo diventi una grande zona liminale: luogo di incontro reale e non di confronto inutile e sterile. Prima ascoltate i ragazzi e poi parlate loro. Sto generalizzando? Certo. Lo faccio apposta come fa apparentemente Amelia che cita Pasolini e ricorda il vecchio zio comunista. E, se pensate che questa sia una contraddizione, mi spiace per voi ma non state capendo. Il punto e proprio questo: i ragazzi non sono tutti uguali cosi come gli adulti: tutti quanti noi veniamo ridotti a numeri di statistiche ma non lo siamo. L’essere umano è Unico, uno splendido organismo olistico che quando pone mente e corpo in equilibrio può sfidare gli dei. E quando entra in connessione con altri esseri Unici, allora si crea veramente una società libera che non voglio nemmeno chiamare anarchica perché la parola. Anarchia perde valore quando viene ingabbiata nelle definizioni. Il vero anarchico smette di esserlo nel momento in cui si definisce tale. Sto delirando? E lasciatemi delirare. Sono pazzo? Forse, e allora? 
Amelia C. non è fuori dalla “realtà”. Vigliacchi non è il libro scritto da una disadattata solipsistica: infatti ci sono riferimenti all’aggressione Israeliana al popolo palestinese, aggressione che, come dice giustamente Amelia C. va oltre il legittimo principio di autodifesa. E Amelia C. parla anche della guerra russo-ucraina. Chi scrive pensa che tutte le bandiere siano oscene, tutte le patrie gabbie e gli dei siano sempre falsi. Il popolo palestinese dovrà liberarsi dal giogo israeliano prima e da quello di Hamas dopo. Ucraini e russi dovranno imparare a convivere in pace lontani dalle ossessioni di potere dei loro rispettivi governanti. 
Amelia C. sa essere anche ironica e scrive molto bene: usa un linguaggio chiaro e ritmico. Così come non censura niente del proprio pensiero. Usa le parole come fossero proiettili e le frasi come mitra. Bisognava “portare l’attacco al cuore del sistema” ricordate? Dico a voi che avete vissuto i settanta. Sì, ma per poi replicare gli stessi schemi politici e sociali e culturali. Allora state fermi che è meglio. Non fate niente. Silenzio. Ascoltatevi e ascoltate. Parlate con gli emarginati, con i pazzi, con i disadattati. 
Amelia C., con il suo stile incendiario, tirato come una lunga canzone trap, che alterna periodi brevi e altri lunghi armonicamente, affronta tutti gli argomenti possibili. Usando anche l’ironia. Dalla scuola dove si fa finta di insegnare, al divorzio e alle ipocrisie di chi resta insieme nonostante le incomprensioni. Ma anche le famiglie allargate sono ipocrite, secondo Amelia C. e anche secondo me. Il libero amore istituzionalizzato. Amelia C dice che non fa uso di droghe ma condanna l’ipocrisia e l’ambiguità degli adulti che ne hanno combinate di cotte e di crude e molti di loro continuano a farlo. 
Quindi tocca al sesso. Gli adulti sono incapaci di accettare che la società adesso, sul piano sessuale, è fluida, che le identità di genere sono sorpassate, che per molti giovani non ha più senso definirsi maschi e femmine ma neanche omosessuali o eterosessuali. Aggiungo io che anche il discorso sul rispetto della diversità di genere rischia di essere istituzionalizzato, pietrificato dai media tradizionali. “Beato chi è diverso, essendo egli diverso” diceva Sandro Penna. Non è beato chi va nei salotti televisivi a istituzionalizzare la diversità. 
E poi tocca alla pornografia che, dice giustamente Amelia C., è consumata soprattutto dagli adulti che, miserandi ipocriti e ambigui, mettono in guardia i ragazzi dal guardarla. 
Insomma, cari adulti, coetanei miei, smettete di predicare da pulpiti e palchi tanto le parole come rappava Mondo Marcio spesso “non servono a niente”. 
Piuttosto leggete questo libro illuminante e rivelatore/liberatorio che, ne sono sicuro, in molti di voi, porterà alla luce quello che già contenete in maniera embrionale o semi embrionale. 
Qualcuno dirà che questa non è una recensione vera e propria e avrà ragione. Che magari ogni tanto ho confuso la voce di Amelia con la mia e anche qui, chi lo dirà non avrà torto. Amelia C. accende il fuoco e io lo raccolgo senza paura di bruciarmi. 
E voi? 

L’AUTRICE
Mi chiamo Amelia C. ho 17 anni. Ho I capelli rossi. Vivo nel nord Italia, frequento un liceo classico. Non ho social, se non il profilo Facebook aperto per l’uscita di questo libro, perché so che gli adulti a cui rivolgo il mio j’accuse usano quella piattaforma. Nessuna altra caratteristica di riconoscimento intendo rendere nota.

di Luca Bonatesta

www.doppiozero.com, 8 novembre 2024 Amelia C.: Adulti io vi accuso 

 Sono molti i libri sull'adolescenza usciti negli ultimi tempi, a testimonianza di qualcosa di profondo che sta accadendo. Psicologi, psicoterapeuti e psicoanalisti cercano di offrire qualche risposta ad adulti che si sentono sempre più spesso persi di fronte all'apparenza aliena degli adolescenti. Tra i libri che permettono a questi adulti smarriti di acquisire una buona prospettiva da cui osservare le trasformazioni dell'adolescenza, ci sono quelli, recentissimi, di due psi dell'Istituto Minotauro di Milano: Adolescenti misteriosi di Gustavo Pietropolli Charmet (Mimesis, Milano 2024) e Soffrire di adolescenza di Loredana Cirillo (Raffaello Cortina Editore, Milano 2024). Due testimonianze di anni di pratica terapeutica, dove si è appreso a riconoscere il dolore muto di una generazione, il loro implicito dissenso rispetto al mondo che gli si è preparato, la necessità di offrirgli uno spazio – autonomo – per articolare il loro proprio senso. 
Ecco, in un tempo dove gli adolescenti sono sommersi da aspettative, ingiunzioni prestazionali, necessità di essere all'altezza di qualcosa o qualcuno, impossibilitati a sperimentarsi davvero, autonomia è una parola chiave per chiunque voglia relazionarsi oggi con gli adolescenti. 
In un incontro recente sui temi dell'adolescenza, ho dialogato con un'operatrice che, avendo la possibilità di dare uno spazio fisico a un gruppo di giovani, ha chiesto loro che cosa ci volessero dentro, quali attività ci si potessero organizzare: “niente”, è stata la risposta, “vogliamo uno spazio vuoto, vogliamo pensare noi a cosa farci”. Perché gli adolescenti smettano di essere alieni, occorre fare quella semplice e difficilissima cosa che è tacere. E ascoltare. Smettere di presumere che siano barbari incapaci di parlare e di pensare, ma persone che parlano e pensano in modo diverso. Se li ascoltiamo, magari arriviamo a capire che sono loro a considerare alieni gli adulti. Non ci dovrebbe essere difficile – in teoria – operare questo rovesciamento, visto che appartiene alle fondamenta della nostra tradizione culturale: penso a Montaigne, che invita gli europei a dismettere la loro presunzione di superiorità sui cannibali, invitandoli a guardarsi dall’esterno per scoprire finalmente la propria crudeltà, o a Montesquieu, che nelle Lettere persiane assume uno sguardo alieno per osservare le assurdità del proprio mondo. In teoria, dunque, sappiamo cosa bisognerebbe fare; in pratica, poi, è ben diverso: “e allora dai, le cose giuste tu le sai, e allora dai, dimmi perché tu non le fai”, cantava Gaber. In pratica, presso le generazioni precedenti, hanno successo le tonanti lamentazioni di psichiatri e filosofi apocalittici, che consentono di trovare il responsabile della distanza, della solitudine e delle difficoltà degli adolescenti – il mostruoso device; si pensi al successo che ha avuto il libro La generazione ansiosa di Jonathan Haidt, che stabilisce un legame causativo tra uso di Internet e aumento di ansia, depressione, autolesionismo e suicidi, dove invece, come ha scritto Vittorio Gallese, non è dimostrata alcuna relazione causale tra i due fenomeni, ma solo una correlazione, il che dimostra al più che “i giovani che hanno già problemi di salute mentale usano queste piattaforme più spesso o in modi diversi dai loro coetanei sani”. 
Un piccolo libro, allora, viene in soccorso agli adulti smarriti. 
Piccolo, ma esplosivo, nel senso in cui Michel Foucault scriveva: “vorrei scrivere dei libri-bomba, vale a dire dei libri che siano utili nel momento stesso in cui qualcuno li scrive o li legge. Poi, dovrebbero sparire”. Un desiderio che poi fa sì che quei libri siano destinati a restare. Si tratta di Vigliacchi! Il mio j'accuse al mondo degli adulti (Agenzia X, Milano 2024). Lo ha scritto una ragazza di diciassette anni, che si firma Amelia C. “Non si può essere seri a diciassette anni”, scriveva Arthur Rimbaud, non si può avere la serietà considerata tale dal mondo della norma, la norma degli adulti: a diciassette anni, si è necessariamente eccessivi, “al di là del serio”, per citare Bataille che sull'eccesso ha riflettuto a fondo. E, proprio per quello, si punta al cuore delle cose, con un gesto diretto, e con piglio punk (e non sarà un caso che il libro sia stato pubblicato da Agenzia X, che con il punk ha un legame genealogico). 
Amelia C. e basta, nessun cognome, nessun volto, nessuna referenza. Un anonimato che nasce per tutelarsi da qualsiasi possibile problema a scuola e in famiglia, ma che suona come un nome universale, un nome che sta per un insieme più grande a cui l'autrice sente di appartenere: tutti coloro che non si riconoscono nel mondo creato dagli adulti. Nel mondo creato dagli adulti la visibilità, il bisogno di riconoscimento e di ammirazione individuale, è il valore supremo: e a quello Amelia si sottrae. Si sottrae alla macina mediatica e al mondo lascia le sue parole, perché siano queste a essere prese in considerazione, a essere oggetto di riflessione, a far spostare lo sguardo a quegli adulti chiamati in causa. È una presa di parola, è la parola a prendersi lo spazio, e si fa universale: allora Amelia C. diventa un significante per tutti coloro che non si riconoscono nelle categorie dell'ordine del discorso degli adulti. 
Amelia C. ha scritto un'invettiva: “contro gli adulti”, diciamo per brevità, ma dovremmo dire “contro il mondo degli adulti”. Amelia C. sa bene che esistono adulti e adulti. Qualche adulto le ha detto: non siamo tutti uguali, non siamo tutti responsabili. Lei lo sa bene. La sua è un'invettiva, e un'invettiva non fa distinzioni, non fa prigionieri: spara ad alzo zero. Un’invettiva non è un’analisi, è l'esposizione di un sentimento. E a far segno a una necessaria rivolta generazionale non può che essere un'invettiva. Uno dei suoi obiettivi è proprio quello di trovare complici tra gli adulti, adulti che con-sentano col suo sentimento. 
È bella l'arroganza adolescenziale che inveisce contro quegli adulti che agli adolescenti lasciano un mondo in pezzi, e tutto quello sanno fare è fargli la morale. Bella la presunzione che qua e là nel libro taglia con l'accetta questioni che pure necessiterebbero di analisi complesse: perché questo libro è una chiamata, come dice Amelia C. È una spada che vuole dividere il grano dal loglio: il grano della responsabilità – che consiste prima di tutto nella capacità di fare domande – dal loglio della vigliaccheria – l'ignavia del Belacqua dantesco e poi beckettiano, gli indifferenti oggetto dell'odio gramsciano. Ecco, credo che a quel giovane sardo questo libro piacerebbe, perché si appella a una responsabilità comune, e al dovere di studiare e agitarsi. 
Perché gli adulti, quegli essere anfibi incastrati tra un mondo e un altro, non sanno vedere quello che ai giovani alieni è così chiaro? Non è chiaro a tutti i giovani, certo, molti sono presi negli incantamenti e nelle seduzioni spettacolari e performative della società degli individui. Ma altri – una minoranza forse, come sempre sono minoranza gli insorti, ma una minoranza consistente, e sempre crescente – sanno che questo mondo non lo si può accettare così com'è. Amelia C. è tra questi. E offre agli adulti smarriti una specie di mappa per orientarsi in questo mondo, smettendo di fare la morale dall'alto della propria catastrofe. 
Quello di Amelia è un grido che richiama ad assumersi finalmente la propria responsabilità. Ascoltiamola, dunque. 
“Io conosco solo persone adulte che si sentono vittime, del sistema, del fisco, della polizia, dei concorrenti, dello Stato, del sistema sanitario, del proprio fallimento professionale, della propria sconfitta sentimentale. Mai uno che dica: è mia la responsabilità. Sono io che ho sbagliato, per volontà, per inerzia, per stupidaggine, per calcolo mirato. No! Tutti innocenti, tutti vittime sacrificali. Sono gli altri i colpevoli. Ma chi sono questi colpevoli? […]. Ma che cazzo di educatori siete? Volete insegnarmi cos’è il bene e il male? E se sono io il male? Che cosa fate? Mi mandate da uno psicologo, aspettate che sfoghi la mia inquietudine, riempiendomi le braccia di tagli, o che smetta di mangiare o che mi abbuffi all’infinito per poi vomitare. Oppure che bullizzi sessualmente una mia coetanea, tanto per comprendere cosa è il sadismo? Io non sono perfetta. Non sono esente da comportamenti cinici e cattivi. Non mi vesto della vostra indignazione ma io sono più vera di voi. Quindi più fragile, più bisognosa di avere qualcuno con cui confrontarmi, di una maschera sincera che mi ascolti. Io ho bisogno dell’assoluto del mare, della finitezza dei laghi, delle vertigini della montagna, del soffocamento che provo prima di risalire a galla. Io ho bisogno di sentirmi, innanzitutto. In difetto, fallibile, errante, incerta, bella, desiderabile, mancante, sola. Non mi fido di voi. So che non siete malvagi per definizione divina, ma credo che la mia generazione dovrà sobbarcarsi sulle spalle molti dei vostri errori, perché voi avete fallito. Dovremo recuperare le parole, costruire un nuovo alfabeto”. 

Leggi anche: Elena Dal Pra, Jonathan Haidt: La generazione ansiosa; Vittorio Gallese, Haidt: quelli che... il digitale; Ivan Levrini, Meno cellulari e più trapani; Marco Rovelli, Adolescenza e disagio: figli perfetti; Alfio Maggiolini, Tutti in ansia e insicuri; Laura Porta, Gli adolescenti e il male; Enrico Manera, Studenti e docenti uniti nell’ansia.

Marco Rovelli

Corriere della Sera, 27 ottobre 2024Cari adulti siete vigliacchi! La ribellione di Amelia C. illumina il futuro

Non so dire se è autentico. Amelia C. mi ha scritto una mail assicurandomi che lo è, e le credo. In fondo che differenza fa? I testi vanno per il mondo e vivono da sol. A me ha aperto il cuore, mi ha riempito di speranza. Al di là della oscura barriera generazionale che da sempre separa l’adolescenza, c’è luce, voglia di verità, ribellione che illumina il futuro. 
È un libretto di poco più di cento pagine, firmato, appunto Amelia C. Titolo aggressivo: Vigliacchi! sottotitolo: Il mio j’accuse al mondo degli adulti. Chiude così: «Non sopporto la frenesia di voi adulti, odio il vostro conformismo e la vostra falsa eresia. Mi chiamo Amelia C. ho 17 anni. Sono il futuro e non ho fretta. Ho intenzione di indugiare su tutto, soffermandomi sull’effimero, dentro l’ozio, nella bellezza del creato, nella creatività degli inventori e nel duro lavoro dei faccini. Sono Amelia C. e per il momento è tutto». L’ho letto di un fiato, una serata in cui non riuscivo a dormire. Poi mi sono addormentato felice. Se fra i giovani di oggi c’è questa sincerità, questa rabbia, questa chiarezza sulle assurdità del nostro mondo, questa intelligenza, questa consapevolezza di se stessi, e questa meravigliosa voglia di ribellione, allora il mondo, nonostante le miei preoccupazioni. È salvo. 
Il libro si rivolge direttamente agli adulti, smascherando con allegria bugie, ipocrisie, pigrizia mentale, semplice stupidità, come sanno fare gli adolescenti, che hanno occhi per vedere. Ridicolizza il modo adulto, supponente, ignorante, pretenzioso, di rivolgersi ai ragazzi, e getta sprazzi di luce (non troppi, ma va bene proprio così) sugli aspetti della realtà dei ragazzi si cui noi generazioni antiche siamo più ottusi. 
È uno strano effetto leggerlo alla mia età, come una rapida occhiata a quel passaggio bruciante e favoloso di mezzo secolo fa. Come dare un cenno di saluto al me di allora, sorridergli, e mandargli un rapido pensiero: «Sì, avevi ragione tu». 
Vedere con stupore quanto resti simile e vitale quel passaggio, e insieme anche quanto profondamente sia cambiato. Forse per la prima volta ho davvero sentito qualcosa della misura della storia. Pochi libri letti di recente mi hanno insegnato cose nuove e mi hanno fatto cambiare idee quanto questo. Quanto è cambiato, e quanto splendidamente in meglio, per esempio, il delicato passaggio della scoperta dell’intimità. Valeva la pena di farla quella rivoluzione, allora, anche solo per aprire questo spazio. E non mi sfiorerà più l’idea che ci sia qualcosa di sbagliato nello stare attaccati a un cellulare, anzi scusa Amelia, a uno smarthphone… 
Ho pescato un’altra recensione a questo libretto: chiude accennando a forse inevitabili ri-posizionamenti, delusioni, adattamenti, con l’entrata nell’età adulta. Santi numi, spero proprio di no. 
Amelia scrive «per carità, io so di essere una minoranza». Forse sì, ma preziosa. E agginge: «Vorrei essere parte di quella schiera che sovvertirà il mondo». Sì, c’è speranza.

di Carlo Rovelli

www.puntoelineamagazine.it , 25 ottobre 2024«Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti» della 17enne Amelia C.

Il libro edito da Agenzia X– un vero e proprio pamphlet di 144 pagine, parte della collana Fulmicotone – è uscito il 4 ottobre nelle librerie fisiche e on-line, anche nella versione e-book

Quando ho saputo in anteprima dell’imminente uscita, sono rimasta subito incuriosita. L’autrice si descrive così: Mi chiamo Amelia C. ho 17 anni. Frequento un liceo classico e ho i capelli rossi. Nessuna altra caratteristica di riconoscimento intendo rendere nota. Per me valgono le parole scritte in questo libro. Ho raggiunto l’Autrice e mi sono fatta mandare il libro. L’ho letto con interesse e ho chiesto ad Amelia C. di fare – per prima cosa – una intervista via mail. Le avrei mandato delle domande a cui lei mi avrebbe risposto per iscritto, modo in più per non tradire il suo pensiero. Questo è il nostro primo scambio di domande e risposte.

Lucy Lo Russo: Punto e Linea Magazine: Quando è nata l’idea di “Vigliacchi” e perché? 
Amelia C.: Ti direi casualmente. Ero ad ascoltare, trascinata da un’amica, un incontro di Susanna Tamaro. L’argomento principale era la sua “crociata” contro i giovani che usano lo smartphone (ha ripreso l’argomento pochi giorni fa sul Corriere della Sera). Ebbene dentro una “crociata” ci possono anche essere punti di convergenza ma rimane sempre una “crociata”. Inoltre la domanda fondamentale non se l’è posta: perché i giovani stanno così tanto tempo davanti a quello schermo? Che esempi hanno avuto? Ebbene, finito l’incontro ero arrabbiata e volevo scriverle una lettera ma poi mi sono accorta che avevo molto altro da dire. Alla fine è nato “Vigliacchi!” 

Come sei arrivata a pubblicare con Agenzia X? 
Mi devo ripetere: per caso. Io ho uno zio paterno, con parecchi più anni di mio padre. Vive praticamente in una casa di libri, da solo. Potremmo dire che sfiora la misantropia. Nella sua biblioteca ho visto una delle prime edizioni di Costretti a sanguinare: leggendolo ho capito che in Agenzia X poteva esistere una sorta di anarchia che mi avrebbe permesso di pubblicare il mio libro [ndr. il titolo citato è stato scritto da Marco Galliani detto Philopat nel 1997: racconta in prima persona il punk italiano – in particolare di Milano – dal 1977 al 1982. Egli in seguito ha fondato la casa editrice Agenzia X]. 

Quanto tempo hai messo a scriverlo? 
Non più di tre mesi. Poi, Marco Philopat mi ha aiutato a mettere a fuoco i punti più importanti, con una cura eccezionale, senza mai infrangere la mia libertà. 

Qual è il capitolo a cui tieni di più? 
Direi l’ultimo perché è quello più poetico. E dopo una serie di j’accuse parlo di me. 

In quale avresti voluto dire qualcosa in più che hai voluto o dovuto tagliare? 
Non ho subito alcuna censura. Oggi mi rendo conto che avrei dovuto stare più attenta a parlare di “adulti”, perché esistono persone che lottano, che si informano, che combattono. Sono una nicchia, certo. Ma esistono e nessuno può essere inserito in una categoria. Né giovani, né adulti. Il mio j’accuse è rivolto alla maggioranza di questo Paese. 

Ti ringrazio a nome di molti colleghi insegnati e giornalisti, ma in fin dei conti ad essere troppo “politicamente corretti” ci avresti perso: titolo e sottotitolo sono proprio forti! Perché l’anonimato? 
Anonimato sino ad un certo punto. Io mi chiamo Amelia e C è l’iniziale del mio cognome. Forse sono un po’ diversa dai miei coetanei. Non mi interessa apparire, anzi non voglio proprio apparire, donare la mia immagine per farne carne da macello, per essere presa in giro come Greta Thunberg per le sue trecce, o elogiata per il mio fisico. Non mi interessa tutto questo. Il mio corpo, la mia voce, la mia anima, saranno solo di coloro a cui voglio bene. Ma nonostante questo ho cose da dire che riguardano questo mondo, la mia generazione, quella che ogni adulto cerca di educare, o di “formattare”, secondo logiche precostituite che fanno parte del decennio passato se non del secolo scorso. 

Sei pronta a incontrare delle scuole in cui gli studenti abbiano letto il tuo libro – e così i loro professori – per un dibattito? 
Io sarei felicissima che i miei coetanei leggessero il mio libro. Non necessariamente per ricevere lodi ma anche per essere contestata, sconfessata. Visto ciò che ti dicevo prima, possiamo trovare formule tecnologiche che ci permettano di dialogare pur non in presenza. 

Sei una studentessa liceale. Sei impegnata come rappresentante degli studenti o in consiglio di istituto? 
Lo sono stata sino allo scorso anno. Poi ho deciso di guardare, di osservare, di mettermi di lato, per scrutare da un’altra prospettiva. 

Pensi di fare politica in futuro o di impegnarti nel sociale? 
Per me scrivere un libro è già un impegno sociale. Se parliamo di politica invece, perlomeno oggi, faccio persino fatica a capire cosa voglia dire. 

Il tuo sogno a breve termine e a lungo termine. 
Riesco solo a parlare del presente. Quindi il sogno a breve termine è aver risposto alle tue domande con una certa coerenza. Per il futuro affidiamoci al coraggio. 

Non nego che avrei voluto incontrare anche di persona Amelia C. per dare un più emotività al pezzo e “sentirla a pelle”. Ma alla mia richiesta la sua risposta è stata ferma: “Ora io vorrei proprio sfidare questa possibilità e confrontarmi sulle mie parole. Il 28 dicembre compirò 18 anni. E potrebbe anche essere il momento di cambiare posa”. 
Rispetto la scelta, anzi, la apprezzo, in questo generale sgomitare per apparire. Una risoluzione – l’affidarsi solo alle parole – che ha accomunato vari autori e autrici di successo e di talento. Posso solo augurare ad Amelia C. che sia l’inizio di tante soddisfazioni a venire. E magari, chissà, ci conosceremo di persona, quando capita, se ne avremo voglia.

di Lucy Lo Russo

www.sololibri.net, 17 ottobre 2024Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti della 17enne Amelia C.

Gli esordi narrativi sono sempre una sorpresa per il lettore, perché si sente quasi partecipe del processo di creazione, ma certo non è un’azione automatica. È uscito a inizio ottobre 2024 in libreria Vigliacchi! Il mio j’accuse al mondo degli adulti (Agenzia X Edizioni, 2024), pamphlet di Amelia C., una ragazza presumibilmente di diciassette anni e con i capelli rossi, che frequenta il liceo. Non sappiamo altro dalla bandella. E allora l’incipit che ha scelto ci potrebbe dare una mano per sbrogliare la matassa: 
“I ragazzi sono in generale degli essere adorabili, pieni di speranza, di buona volontà: mentre gli adulti, sono in generale degli imbecilli, resi vili e ipocriti (alienati) dalle istituzioni sociali, in cui, crescendo, sono venuti a poco a poco incastrandosi.”
No, perché la diciassettenne “istituzioni sociali” non lo scriverebbe mai. Invece la prima pagina è questo pensiero in esergo di Pasolini che si trova ne Le belle bandiere (Dialoghi 1960-65) (Editori Riuniti, 1996). E non è irresistibile nemmeno il pezzo scelto del poeta di Casarsa. In effetti la scrittrice in erba sembra essere veramente la protagonista di questo pamphlet autobiografico. Si delinea una famiglia anaffettiva, dove nessuno parla se non è successo qualcosa di grave. I genitori sono col cellulare in n mano tutto il giorno, anche perché serve per il proprio lavoro e, ormai, con tutte le facilitazioni tecnologiche, l’impiegato statale o il bancario si ritrova con molte ore vuote e mai che si porti un libro da leggere. La scusa plateale è che ai piani alti degli uffici non gradiscono letture di nessuno genere, allora si finisce nei siti pornografici con la faccia sospettosa di chi è convinto che lo fanno anche altri colleghi, di chi al Pc ha trovato un gioco nuovo o una ragazza o un ragazzo disponibili a mandare messaggi. 
Le ore vuote angosciano anche i figli e le figlie adolescenti, che chattano guardando anche il libro scolastico, ma così, in una mezz’ora di buco, prima di uscire. Certo, in gamba, smart, anche le bruttine e i bruttoni possono dimagrire e diventare se non belli almeno interessanti. Sono tutte proiezioni della ragazza coi capelli rossi, perché non c’è una traccia di fonte, nulla: la storia delle ore vuote dei genitori sul lavoro è stata letta in qualche rivista o saggio o deriva da impressioni sui propri genitori o su altre famiglie di liceali e basta? Che le madri e i padri si detestino e divorzino, qui altro che fonte, lo sanno tutti: sicuramente l’ex moglie ha i figli tutta la settimana fino a venerdì, mentre il weekend è l’ex marito che si ritrova con adolescenti lagnosi. 
Leggendo questo diario pamphlet c’è però una chiarezza di stile: ti fa sorridere, ti intriga, perché quest’ultima generazione Z è così arrabbiata. Ma qui non sono i boomer o i giovani ad essere esasperati, non c’è la consapevolezza di vivere in un posto migliore di altri e di avere più fortuna e possibilità. 
I genitori ci nutrono, ci danno le medicine se stiamo male, sono presenti alle nostre prime parole. Questo j’accuse è solo un rimprovero ai propri genitori quando non si è più bambini, ma ancora nemmeno grandi. La neo scrittrice, però, deve “volare” più in alto. 
Amelia C. ha molte frecce nel suo arco e sicuramente diventerà un caso editoriale tra non molto, ma non le conviene tornare sul tormento tra giovani e famiglie. Lo capirà. Un breve romanzo appassionato e fragile, scritto con rabbia e cuore.

di Vincenzo Mazzaccaro

www.illibraio.it, 16 ottobre 2024«Vigliacchi! »: il j’accuse al mondo degli adulti della 17enne Amelia C.

“Mi chiamo Amelia C. e ho 17 anni. Frequento un liceo classico e ho i capelli rossi. Nessuna altra caratteristica di riconoscimento intendo rendere nota. Per me valgono le parole scritte in questo libro”. Si presenta così l’autrice del romanzo d’esordio Vigliacchi! – Il mio j’accuse al mondo degli adulti, in libreria per Agenzia X.
E ancora: “Ho tanti o pochi amici? Ho già fatto l’amore? Ho sperimentato me stessa? Mi sono conosciuta? Di certo io non odio gli adulti. Non uso ketamina anche se dissociarmi dal mio corpo sarebbe una bella sfida. So come farmi bene. So come farmi male. Sono bella. Sono brutta. Parlo disinvoltamente. Sono timida, aggressiva, modesta, molesta, cinica, socievole, capace di ridere di me stessa. Mi piace il gelato alla fragola. Non mangio le banane. Non uso i social e mi vesto come cazzo mi pare. Sono Amelia C. e per il momento è tutto”. 
Quello firmato dalla giovanissima esordiente è un atto d’accusa piuttosto netto verso un mondo degli adulti che non capisce le ragazze e i ragazzi di oggi, “fa domande sbagliate” e dà “risposte vacue”: “Non siete di un’altra generazione, siete di un’altra epoca. Ci parlate del vostro magnifico passato ma ci avete lasciato un presente devastato dalla guerra e dalle ingiustizie. Ci accusate di stare sempre attaccati allo smartphone, ma almeno noi lo sappiamo usare. Non avete capito che non ci interessa il colore della pelle di un nostro amico, che possiamo sperimentare l’amore con leggerezza e coscienza. Siamo maschi o femmine, possiamo scambiarci i ruoli senza essere perversi e non ci serve il porno che guardate voi. Avete un ruolo prestabilito ma non sapete più quale è il senso della vostra vita. Vogliamo essere guardati negli occhi. Vogliamo cambiare direzione milioni di volte. Noi siamo il futuro. Vogliamo sperimentare, vivere, provare, lanciarci in volo a occhi chiusi. Voi avete perso”.

La Stampa, 15 ottobre 2024Cari ragazzi parlate con gli adulti, non è vero che sono tutti «vigliacchi»

Il grande psicologo dell’età evolutiva Erik Erikson diceva che l’età dell’adolescenza e della prima giovinezza è quella in cui si ha bisogno di prendere le distanze dagli adulti, in particolare quelli di riferimento – genitori e insegnanti in primis – per creare uno spazio in cui sperimentare, e costruire, la propria identità autonoma. Separarsi, tracciare confini, dichiarare la propria radicale alterità, con tutte le ingenuità, arroganza, ma anche durezze, vulnerabilità, conflitti che ciò può comportare è un importante gesto di crescita, che si può fare in solitaria, o sentendosi parte di una generazione e talvolta facendosene voce e portabandiera. Succede quando, come nell’epoca attuale, le trasformazioni tecnologiche insieme a quelle geopolitiche cambiano talmente non solo il modo di viver, ma anche il sistema di opportunità e di rischi da far pensare ai più giovani che i loro genitori e gli adulti in generale non abbiano più nulla da trasmettere che abbia un senso, che serva per muoversi in un mondo che ha bisogno di muove mappe di navigazione.
È quello che fa Amelia C., diciassettenne milanese che ha appena pubblicato un pamphlet-denuncia contro gli adulti: Vigliacchi! (Agenzia X), con un sotto titolo ulteriormente chiarificatore: il mio j’accuse contro il mondo degli adulti. Adulti che, tutti, non capiscono nulla, sono ineluttabilmente legati al loro tran tran, hanno perso ogni voglia di cambiare il mondo, rassegnati, si preoccupano che i giovani non sappiano che cosa fare da grandi, ma per nulla di quello che vogliono fare ed essere oggi, per crescere e capire chi vogliono essere. Adulti rispetto ai quali dichiara che lei e i propri coetanei sono alieni, partecipi di un altro mondo, ancora in costruzione, ma inesorabilmente diverso da quello che ha dato forma alla vita e al modo di pensare degli adulti attuali. Come se la generazione dei suoi genitori non fosse anch’essa attraversata dagli stessi cambiamenti, anche se in una fase della vita diversa. 
E’ fin troppo rilevare come Amelia, certo con la scusante dell’età, abbia nei confronti degli adulti lo stesso atteggiamento di chi, adulto, ha dei giovani e adolescenti un’immagine stereotipata di una generazione indifferente, incolta, priva di valori, quando non pigra e viziata. Sembrano due mondi che si confrontano assomigliandosi nella incapacità di vedersi veramente. 
Ma il libro di Amelia può essere letto diversamente, come un lavoro di auto-riflessione su che cosa significhi essere adolescenti e sulle soglie dell’età adulta oggi, in un mondo per il quale le vecchie mappe di navigazione non sono più sufficienti, in cui il futuro appare incerto e fuori controllo da parte di una ragazza colta, informata, capace di giudizi acuminati e tutt’altro che banali, di mettere a nudo le nostre, di adulti, ipocrisie . Come non consentire con la sua constatazione che “gli adulti di oggi consacrano il passato e criminalizzano il presente, ma lo fanno con così tanta ipocrisia che è quasi difficile capacitarsi”. O che la domanda cruciale da fare non sia “come vai a scuola”, ma “come va la scuola”. O come non prendere sul serio le domande che si/ci fa sulla sproporzione della reazione di Israele al massacro perpetrato da Hamas, o sulle morti senza fine della guerra russo-ukraina? Sono le stesse che si fanno molti adulti, per altro. 
Certo, nella sua cavalcata rabbiosa, ma a volte anche divertente (“parlate come gli attori delle fiction televisive italiane … Siete un misto tra il milanese imbruttito e Recalcati) affastella cose minime e idiosincrasiche (il modo di organizzare le vacanze, ad esempio, o i gusti musicali) a questioni come la guerra, la fluidità di genere, una scuola che non sempre aiuta a sviluppare curiosità e spirito critico, una informazione desolantemente piatta. E non solo mette tutti gli adulti in un mucchio indistinto, di cui i genitori sembrano essere i rappresentanti, ma generalizza anche una nuova normalità positiva generazionale: “siamo tutti mischiati”, dichiara in risposta alle “paure adulte” dell’immigrazione, o tutti iper-preparati e informati per quanto riguarda la sessualità, ad esempio. Una omogeneità che le ricerche e la cronaca mostrano essere lungi dall’essere effettiva. Per altro, lei stessa nutre dei dubbi, quando ammette di essere minoranza: “Vorrei essere parte di quella schiera che sovvertirà il mondo - scrive - un gruppo minoritario, ma vincente". E allora, forse, ciò che la mette a disagio e la fa sentire aliena non è solo l’incomprensione e l’ipocrisia degli adulti con cui si confronta, ma il sentirsi parte di una minoranza. 
Invece di aspettarla al varco dell’età adulta e degli inevitabili (?) riposizionamenti, delusioni, adattamenti che questa comporterà, vale la pena di accompagnarla in questo desiderio di cambiamento. Alla fine, questo J’accuse sembra più un invito ad ascoltarla, a provare a parlarsi e vedersi.

di Chiara Saraceno

www.ansa.it, 25 settembre 2024 Vigliacchi! di Amelia C.

Il libro della 17enne Amelia C., manifesto di una generazione

Il modo in cui dimostra di esserlo, però, non è mai banale. Amelia C., 17 anni, ha scelto di farlo attrverso un libro, Vigliacchi!, in uscita il 4 ottobre per Agenzia X. In 138 pagine, raccoglie quello che la giovane definisce un "j'accuse al mondo degli adulti". 
Probabilmente l'ultima teenager a usare l'anonimato per pubblicare un libro è stata Melissa P. con i suoi 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire. Un innegabile cult della nostra letteratura. Era il 2003, e Amelia C. non era ancora nata. È dunque scontato che, già solo per la differenza generazionale, il libro della classe 2007 sia diverso. Non è un romanzo, anzitutto. È una sorta di lettera, ma non un diario. E non ha nulla di erotico, anche se in un capitolo discute di sessualità. Dell'adolescenza, però, ha tutto: i temi, il turpiloquio, lo sguardo al futuro, la presunzione di dire "mai", la legittima saccenza dell'età. Cose a cui si aggiunge una gran voglia di prendersela con i "grandi", gli adulti o, almeno, quelli che Amelia accusa di non capirla per via di una "profonda inconciliabilità". Anche se a loro ribadisce che il mondo non è bianco e nero, lei incorre nel loro stesso errore, non tanto perché generalizza i comportamenti, quanto perché non si rende conto che ormai nel mondo degli adulti rientrano tanti nativi digitali. 
Al di là di questo - un libro di un'adolescente è già di per sé un successo, anzi, dev'essere imperfetto - Amelia riesce a scrivere un manifesto di ciò che vuole diventare, ammettendo che non tutti coloro che hanno 17 anni si sentono come lei. "Vorrei essere parte di quella schiera che sovvertirà il mondo - scrive - un gruppo minoritario, ma vincente". Elabora le sue idee, cita Platone, dimostra di avere anche una certa cultura che non è solo figlia del suo liceo classico. E rinfaccia di tutto alla generazione dei suoi genitori, alternando impeti di rabbia a momenti in cui ammette che "possiamo ancora dialogare". 
Con una penna per nulla pomposa (in barba alle abitudini scolastiche), Amelia snocciola teorie, spiega che gli adulti sono quelli che fanno più danni con la tecnologia ma si preoccupano tanto per i giovani al cellulare, si lamenta di ciò che propone il tg (le "esternazioni del ministro Valditara" e i "Måneskin che conquistano il Messico"), soffre all'idea dell'appiattimento dell'opinione pubblica rispetto alle guerre. 
Non ha paura, giustamente, di dire la sua sulla politica e la situazione in Medioriente, passando pure dalle migrazioni: "noi siamo già mischiati - ricorda - I nomi dei miei compagni di scuola sono misti. Nessuno di noi ci fa caso". E si lascia andare anche a un umorismo condivisibile: "parlate come gli attori delle fiction televisive italiane - è il suo rimprovero - Siete un misto tra il milanese imbruttito e Recalcati". 
Amelia, insomma, scrive un libro che possono leggere i giovani (per condividere o meno le sue idee ed emozioni) e gli adulti (per cercare di capirci qualcosa dei primi). In mezzo a tutta la rabbia, tira fuori opinioni che sono lo specchio del suo tempo ma che meriterebbero un approfondimento, se non un confronto. E forse proprio per questo, alla fine del j'accuse, la cosa più triste di tutte è il non poter rispondere.

Chiara Venuto

www.bagolinoweb.it , 25 settembre 2024 Amelia C. lancia un forte j’accuse nel suo libro «Vigliacchi!» contro il mondo degli adulti 

Un libro di denuncia e riflessione, Vigliacchi! di Amelia C. esprime l’indignazione di una generazione. Con un linguaggio diretto e provocatorio, la giovane autrice affronta temi cruciali per gli adolescenti di oggi, criticando gli adulti e il loro approccio ai problemi contemporanei. Pubblicato il 4 ottobre da Agenzia X, il volume di 138 pagine si propone di esplorare e mettere in discussione le incomprensioni tra le due generazioni.

Il contesto dell’opera: un adolescente contro il mondo
Amelia C., una ragazza di 17 anni, rappresenta il sentimento di molti coetanei attraverso Vigliacchi!. Questo libro non è un romanzo, ma piuttosto una lettera aperta sia ai suoi coetanei sia agli adulti, un significativo tentativo di comunicare sfide, paure e sogni di una giovane generazione che sente di avere poco spazio nel mondo che la circonda. L’opera ricorda in parte quella di Melissa P. che nel 2003 conquistò il pubblico con 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, ma mentre il sottofondo di quella scrittura era fortemente permeato da elementi erotici, Amelia si concentra su altre tematiche cruciali. 
Il suo messaggio è nitido: la visione dei giovani non è mai banale, e ciò che li distingue è il loro desiderio di essere ascoltati. Questo testo diventa così un manifesto in cui Amelia si pone come voce della sua generazione, cercando di evidenziare la profonda incomprensione che spesso esiste tra adulti e adolescenti. La ragazza denuncia una sorta di “profonda inconciliabilità” tra le due generazioni, ma non si limita a lanciare accuse. La sua capacità di analizzare la realtà e il suo desiderio di dialogo si intrecciano in un’opera che invita a considerare le sfide del mondo moderno. 

Temi centrali: dalla tecnologia alla politica
Amelia C. affronta con audacia temi come l’uso della tecnologia, i conflitti sociali e le nascenti problematiche politiche che caratterizzano il mondo attuale. Il suo approccio critico nei confronti degli adulti si manifesta in una dettagliata analisi sull’uso della tecnologia: mentre gli adulti accusano i giovani di essere sempre incollati ai loro dispositivi, la giovane scrittrice sottolinea come siano proprio gli adulti a danneggiare il mondo attraverso la tecnologia stessa. 
Inoltre, non si sottrae a questioni sociali più ampie, come le migrazioni e le guerre, affermando che la sua generazione è già “mischiata“. I suoi compagni di scuola portano nomi che rispecchiano questa diversità, evidenziando una pluralità che per Amelia non è solo un dato di fatto, ma una ricchezza. In questo contesto, il suo umorismo emerge in modo genuino quando critica il linguaggio degli adulti, paragonandolo a quello degli attori televisivi, creando un parallelo tra la comunicazione quotidiana e le finzioni proposte dai media. 

Il manifesto della gioventù e la ricerca di un dialogo
Vigliacchi! rappresenta un tentativo di Amelia C. di connettersi con gli adulti, esprimendo la frustrazione della sua generazione. La scrittura è caratterizzata da uno stile diretto e incisivo, che non teme di mettere in luce le contraddizioni e le criticità del mondo contemporaneo. La giovane autrice usa le sue parole per cercare di spiegare ai grandi un punto di vista differente, sottolineando che molti giovani non si sentono rappresentati dalle voci dominanti degli adulti. Il testo è denso di riferimenti culturali e filosofici, dimostrando che la giovane autrice ha spessore intellettuale e una visione critica del mondo. Le citazioni di Platone, ad esempio, amalgamano la sua esperienza con una tradizione più ampia, rendendo il suo libro non solo un j’accuse ma anche un invito a un confronto serio e profondo. Il dialogo è, per Amelia, non solo desiderato ma necessario. Anche se esprime una forte critica, non abbandona mai la speranza che possa esserci un terreno comune su cui adulti e giovani possano incontrarsi e discutere. Amelia C. ha quindi creato un’opera caratterizzata da contenuti densi e significativi che riescono a trasmettere il senso di urgenza e la necessità di ascolto, sia per i giovani che per i loro genitori. Vigliacchi! è più di un semplice libro: è un grido di battaglia per una generazione che chiede spazio e rispetto.

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