Società e storia, marzo 2019 Università della strada. Mezzo secolo di controcultura a Milano
La controcultura, ci ricordano Nicola Del Corno e Marco Philopat, organizzatori del convegno all’origine di questo volume, tenutosi alla Casa della Cultura di Milano il 28 ottobre 2017, è stata una componente feconda della stagione dei movimenti, quegli anni Sessanta in cui sembrava tutto fosse possibile. Compreso cambiare il mondo e le sue regole. Alle repliche della storia, che hanno spento le illusioni di palingenesi sociale, la controcultura ha opposto una proteiforme versatilità che le ha permesso di superare il drammatico tornante degli anni Settanta travasandosi in nuove aggregazioni che con le precedenti avevano in comune la volontà di contrapporsi alla cultura mainstream e la voglia di affermare il proprio diritto a promuovere una cultura altra.
Un percorso accidentato, nient’affatto lineare, minoritario ma estremamente vitale, che il volume ripercorre creando una texture che intreccia sapientemente saggi di impianto storiografico (N. Del Corno, G. Zanchetti, F. Bruni e F. Frongia, I. Nacci), narrazioni in soggettiva (G. De Martino, M. Guarnaccia, L. Melandri, G. Manfredi, E. Finardi, A. Valcavi), esplorazioni di terreni ancora largamente incogniti per chi, per età o scelte di vita, non ne abbia esperienza diretta (S. Tosoni e E. Zuccalà, A. Cegna, C. Cossutta, tra gli altri). Testi diversi per impianto, scrittura e ambizioni che, grazie appunto a questa varietà di approcci e di sguardi, sollevano questioni importanti.
Partirei da un elemento che nel libro resta forse un po’ sullo sfondo e che a me pare invece centrale per comprendere la traiettoria della controcultura in questo mezzo secolo. Mi riferisco alla scena urbana e alle sue trasformazioni, componenti centrali di tutte le subculture giovanili. In questi decenni Milano non è semplicemente cambiata, come è naturale avvenga a ogni organismo urbano. Ha mutato pelle, ha conosciuto cioè una autentica metamorfosi, che l’ha traghettata dall’essere “la centrale delle energie e degli ottimismi d’Italia”, per riprendere un’espressione di F.T. Marinetti (a sua volta esponente di una cultura contro), alla città che nel passaggio degli anni Novanta del secolo scorso sembrava aver smarrito il suo “programma”, sotto i colpi di una crisi sistemica che ne aveva spento la voce.
Oggi sappiamo che quello smottamento di consolidate certezze era il portato di molte contraddizioni, ma certamente non si comprendono le trasformazioni sociali e culturali di quegli anni se non si tiene conto del fatto che un’epoca si stava chiudendo. Definitivamente. Secondo Edward Glaeser, docente di economia ad Harvard, Milano è una delle poche grandi città industriali che sia riuscita a transitare nella nuova economia del terziario e della conoscenza. Si può essere d’accordo a patto di aggiungere che tale transito non è stato indolore né senza conseguenze sociali.
A partire dalla metà degli anni Settanta una dopo l’altra tutte le grandi fabbriche chiudono lasciando un grande vuoto. Un vuoto fisico: le aree ex industriali in attesa di nuova destinazione alla fine rappresenteranno l’equivalente di una superficie di oltre 12 milioni di metri quadrati. E un vuoto di senso: le fabbriche erano il centro motore di un sistema di relazioni sociali con l’esterno destinato a spegnersi al cessare dell’attività. La dismissione degli impianti porta con sé la perdita dello spirito comunitario che legava famiglie e persone ai luoghi nutrendosi della comune appartenenza di classe, di incontri e discussioni nei ritrovi di quartiere, nei circoli e nelle sezioni di strada dei partiti di sinistra, o nelle parrocchie, a seconda delle rispettive appartenenze politiche. Ha origine da questo processo di deindustrializzazione della città l’odierna deprivazione esistenziale di tante periferie, come ci ricordano le cronache. Una perdita di capitale sociale a cui fa riscontro il venir meno del lavoro, capace di saldare i luoghi e le persone in un comune destino. Di dare loro identità. A questa perdita si intreccia, contribuendo a dare nuova linfa alla controcultura, una rivoluzione digitale sempre più invasiva, generatrice di nuove visioni e aggregazioni. Utopie e distopie non di rado inquietanti. Sono tutti elementi che riaffiorano in alcuni contributi, in particolare in quello di Ilaria Nacci dedicato a Cyberpunk e “Decoder”, una delle riviste più innovative, nella grafica e nei contenuti, di questo universo. Sullo sfondo, una città irriconoscibile, plurale e magmatica.
Negli anni Ottanta, la Milano celebrata dai media, la “Milano da bere” del fortunato slogan di Marco Mignani, è una città finalmente pacificata nel nome della modernità e di un individualismo acquisitivo senza freni. Di questa stessa città la controcultura elabora una narrazione di segno opposto. Milano appare una terra desolata, soffocata da “una cappa grigia e pesante”, un luogo di solitudini e anomia che sconta la “fine del solidarismo militante” (p. 129). Del resto non poteva essere diversamente. Lo scarto tra il “Vogliamo tutto” gridato negli anni Settanta e la sensazione di vuoto e di smarrimento condensato nell’urlo di John Rotten “No future”, una delle bandiere del movimento punk, apre nuove strade all’underground. Un percorso che si declina per partenogenesi in un succedersi di movimenti, stili e forme espressive che hanno nel corpo e nelle scelte musicali due potenti elementi identitari. Sorgono, emergono, si scindono e scompaiono una varietà di culture alla ricerca di un loro spazio e di punto di aggregazione: a Milano “la geografia di via Torino è divisa in zone di appartenenza”. Una ricchezza espressiva che segna il limite di movimenti che restano minoritari anche quando assumono dimensioni non propriamente di nicchia come il movimento rave e la cultura hip hop.
A partire dalla fine degli anni Settanta radicalismo politico e antagonismo sociale non riescono a saldarsi in una prospettiva di cambiamento di portata generale, come era stato per la stagione delle controculture negli anni Sessanta. Venute meno le speranze di una grande trasformazione collettiva, non importa quanto fondate, si ripiega nella ricerca di spazi di libertà all’interno di una società che sembra invece negare loro legittimità: “Fare secessione significa costruire canali e circuiti alternativi per distanziarsi dalla cultura dominante” (p. 130). Un tornare nelle cantine da cui tutto era partito negli anni Sessanta, come ci ricorda Gianni De Martino nel suo contributo sulle origini del movimento beat. Lo scarto con il passato è netto. A mio avviso, è problematico leggere la controcultura come un fenomeno unitario, o quanto meno come una somma di fenomeni tenuti insieme da robusti fili.
Nel vuoto esistenziale delle periferie i centri sociali autogestiti costituiscono gli unici centri di aggregazione giovanile capaci di dare voce alle diverse subculture metropolitane e alla loro disperata volontà di rappresentarsi sperimentando nuove forme di comunicazione musicale e visiva all’insegna del Do it yourself, altro pilastro dell’etica punk. Sorti in strutture ex industriali o in edifici occupati, diventano laboratori di creatività in cui prendono forma nuovi linguaggi, talvolta destinati a essere fatti propri dal mercato, in particolare nel campo della moda e degli stili musicali.
Il 4 aprile del 1984 durante la presentazione dei risultati di una ricerca su Le bande giovanili: una realtà nella metropoli degli anni Ottanta, promossa dall’assessorato ai servizi sociali della provincia di Milano, un gruppo di punk irrompe nella sala. Alcuni di loro a torso nudo si procurano dei tagli sul petto con delle lamette e quando il sangue comincia a uscire ci passano sopra il volantino che distribuiscono ai presenti: “Questo è il mio sangue. Analizzatelo! Forse scoprirete quali sono i miei bisogni veri” (p. 122). Un gesto di rottura e provocazione, che richiama in scala minore le performance dell’Azionismo viennese di Brus e Nitsch. L’episodio a me sembra rivelatore di un problema più generale. Con il loro gesto quei giovani punk esprimevano infatti il rifiuto nei confronti di saperi disciplinari che sentivano estranei al loro vissuto e sopraffattori. Un rifiuto che ci sollecita a cercare oggi nuovi approcci per penetrare una realtà con la quale gli storici hanno poca dimestichezza, più a loro agio con forme espressive e comunicative più strutturate e meno direttamente legate al vissuto delle persone. Approcci e strumenti necessari per penetrare nelle diverse subculture giovanili dando loro il rilievo che meritano.
Nella loro attenta mappatura di un fenomeno per sua natura nomade e dai confini sfuggenti i curatori non hanno dimenticato di scandagliare anche aree poste a cerniera fra cultura e controcultura. Penso in particolare ai contributi di Giorgio Zanchetti sulle avanguardie artistiche raccolte a Brera attorno al bar Giamaica, dove ha consumato la sua breve esistenza Piero Manzoni, luogo di incontri tra artisti, fotografi, uomini di cultura non interamente riconducibili all’underground, a quello di Francesco Bruni e Francesco Frongia sulla vivacissima scena teatrale, segnata da un processo di selezione e di istituzionalizzazione di esperienze nate ai margini. Ancora, il movimento delle donne, uno dei lasciti più rivoluzionari di quegli anni, anticipatore di una nuova stagione dei diritti cha ha avuto negli anni Settanta il proprio momento generativo, ma che non si è esaurito in questo, trovando nuovi ambiti di espressione e di ricerca sui temi del corpo, della sessualità e del gender come bene mostra il saggio di Carlotta Cossutta.
In conclusione, credo si debba essere grati a Nicola Del Corno e Marco Philopat che si sono fatti carico di promuovere un’ampia ricognizione di un fenomeno appassionante e dai confini mobili come quello della controcultura cercando di dare spessore storico a movimenti per loro natura portati a vivere e consumarsi nella immediatezza del qui e ora.
di Giorgio BigattiUn percorso accidentato, nient’affatto lineare, minoritario ma estremamente vitale, che il volume ripercorre creando una texture che intreccia sapientemente saggi di impianto storiografico (N. Del Corno, G. Zanchetti, F. Bruni e F. Frongia, I. Nacci), narrazioni in soggettiva (G. De Martino, M. Guarnaccia, L. Melandri, G. Manfredi, E. Finardi, A. Valcavi), esplorazioni di terreni ancora largamente incogniti per chi, per età o scelte di vita, non ne abbia esperienza diretta (S. Tosoni e E. Zuccalà, A. Cegna, C. Cossutta, tra gli altri). Testi diversi per impianto, scrittura e ambizioni che, grazie appunto a questa varietà di approcci e di sguardi, sollevano questioni importanti.
Partirei da un elemento che nel libro resta forse un po’ sullo sfondo e che a me pare invece centrale per comprendere la traiettoria della controcultura in questo mezzo secolo. Mi riferisco alla scena urbana e alle sue trasformazioni, componenti centrali di tutte le subculture giovanili. In questi decenni Milano non è semplicemente cambiata, come è naturale avvenga a ogni organismo urbano. Ha mutato pelle, ha conosciuto cioè una autentica metamorfosi, che l’ha traghettata dall’essere “la centrale delle energie e degli ottimismi d’Italia”, per riprendere un’espressione di F.T. Marinetti (a sua volta esponente di una cultura contro), alla città che nel passaggio degli anni Novanta del secolo scorso sembrava aver smarrito il suo “programma”, sotto i colpi di una crisi sistemica che ne aveva spento la voce.
Oggi sappiamo che quello smottamento di consolidate certezze era il portato di molte contraddizioni, ma certamente non si comprendono le trasformazioni sociali e culturali di quegli anni se non si tiene conto del fatto che un’epoca si stava chiudendo. Definitivamente. Secondo Edward Glaeser, docente di economia ad Harvard, Milano è una delle poche grandi città industriali che sia riuscita a transitare nella nuova economia del terziario e della conoscenza. Si può essere d’accordo a patto di aggiungere che tale transito non è stato indolore né senza conseguenze sociali.
A partire dalla metà degli anni Settanta una dopo l’altra tutte le grandi fabbriche chiudono lasciando un grande vuoto. Un vuoto fisico: le aree ex industriali in attesa di nuova destinazione alla fine rappresenteranno l’equivalente di una superficie di oltre 12 milioni di metri quadrati. E un vuoto di senso: le fabbriche erano il centro motore di un sistema di relazioni sociali con l’esterno destinato a spegnersi al cessare dell’attività. La dismissione degli impianti porta con sé la perdita dello spirito comunitario che legava famiglie e persone ai luoghi nutrendosi della comune appartenenza di classe, di incontri e discussioni nei ritrovi di quartiere, nei circoli e nelle sezioni di strada dei partiti di sinistra, o nelle parrocchie, a seconda delle rispettive appartenenze politiche. Ha origine da questo processo di deindustrializzazione della città l’odierna deprivazione esistenziale di tante periferie, come ci ricordano le cronache. Una perdita di capitale sociale a cui fa riscontro il venir meno del lavoro, capace di saldare i luoghi e le persone in un comune destino. Di dare loro identità. A questa perdita si intreccia, contribuendo a dare nuova linfa alla controcultura, una rivoluzione digitale sempre più invasiva, generatrice di nuove visioni e aggregazioni. Utopie e distopie non di rado inquietanti. Sono tutti elementi che riaffiorano in alcuni contributi, in particolare in quello di Ilaria Nacci dedicato a Cyberpunk e “Decoder”, una delle riviste più innovative, nella grafica e nei contenuti, di questo universo. Sullo sfondo, una città irriconoscibile, plurale e magmatica.
Negli anni Ottanta, la Milano celebrata dai media, la “Milano da bere” del fortunato slogan di Marco Mignani, è una città finalmente pacificata nel nome della modernità e di un individualismo acquisitivo senza freni. Di questa stessa città la controcultura elabora una narrazione di segno opposto. Milano appare una terra desolata, soffocata da “una cappa grigia e pesante”, un luogo di solitudini e anomia che sconta la “fine del solidarismo militante” (p. 129). Del resto non poteva essere diversamente. Lo scarto tra il “Vogliamo tutto” gridato negli anni Settanta e la sensazione di vuoto e di smarrimento condensato nell’urlo di John Rotten “No future”, una delle bandiere del movimento punk, apre nuove strade all’underground. Un percorso che si declina per partenogenesi in un succedersi di movimenti, stili e forme espressive che hanno nel corpo e nelle scelte musicali due potenti elementi identitari. Sorgono, emergono, si scindono e scompaiono una varietà di culture alla ricerca di un loro spazio e di punto di aggregazione: a Milano “la geografia di via Torino è divisa in zone di appartenenza”. Una ricchezza espressiva che segna il limite di movimenti che restano minoritari anche quando assumono dimensioni non propriamente di nicchia come il movimento rave e la cultura hip hop.
A partire dalla fine degli anni Settanta radicalismo politico e antagonismo sociale non riescono a saldarsi in una prospettiva di cambiamento di portata generale, come era stato per la stagione delle controculture negli anni Sessanta. Venute meno le speranze di una grande trasformazione collettiva, non importa quanto fondate, si ripiega nella ricerca di spazi di libertà all’interno di una società che sembra invece negare loro legittimità: “Fare secessione significa costruire canali e circuiti alternativi per distanziarsi dalla cultura dominante” (p. 130). Un tornare nelle cantine da cui tutto era partito negli anni Sessanta, come ci ricorda Gianni De Martino nel suo contributo sulle origini del movimento beat. Lo scarto con il passato è netto. A mio avviso, è problematico leggere la controcultura come un fenomeno unitario, o quanto meno come una somma di fenomeni tenuti insieme da robusti fili.
Nel vuoto esistenziale delle periferie i centri sociali autogestiti costituiscono gli unici centri di aggregazione giovanile capaci di dare voce alle diverse subculture metropolitane e alla loro disperata volontà di rappresentarsi sperimentando nuove forme di comunicazione musicale e visiva all’insegna del Do it yourself, altro pilastro dell’etica punk. Sorti in strutture ex industriali o in edifici occupati, diventano laboratori di creatività in cui prendono forma nuovi linguaggi, talvolta destinati a essere fatti propri dal mercato, in particolare nel campo della moda e degli stili musicali.
Il 4 aprile del 1984 durante la presentazione dei risultati di una ricerca su Le bande giovanili: una realtà nella metropoli degli anni Ottanta, promossa dall’assessorato ai servizi sociali della provincia di Milano, un gruppo di punk irrompe nella sala. Alcuni di loro a torso nudo si procurano dei tagli sul petto con delle lamette e quando il sangue comincia a uscire ci passano sopra il volantino che distribuiscono ai presenti: “Questo è il mio sangue. Analizzatelo! Forse scoprirete quali sono i miei bisogni veri” (p. 122). Un gesto di rottura e provocazione, che richiama in scala minore le performance dell’Azionismo viennese di Brus e Nitsch. L’episodio a me sembra rivelatore di un problema più generale. Con il loro gesto quei giovani punk esprimevano infatti il rifiuto nei confronti di saperi disciplinari che sentivano estranei al loro vissuto e sopraffattori. Un rifiuto che ci sollecita a cercare oggi nuovi approcci per penetrare una realtà con la quale gli storici hanno poca dimestichezza, più a loro agio con forme espressive e comunicative più strutturate e meno direttamente legate al vissuto delle persone. Approcci e strumenti necessari per penetrare nelle diverse subculture giovanili dando loro il rilievo che meritano.
Nella loro attenta mappatura di un fenomeno per sua natura nomade e dai confini sfuggenti i curatori non hanno dimenticato di scandagliare anche aree poste a cerniera fra cultura e controcultura. Penso in particolare ai contributi di Giorgio Zanchetti sulle avanguardie artistiche raccolte a Brera attorno al bar Giamaica, dove ha consumato la sua breve esistenza Piero Manzoni, luogo di incontri tra artisti, fotografi, uomini di cultura non interamente riconducibili all’underground, a quello di Francesco Bruni e Francesco Frongia sulla vivacissima scena teatrale, segnata da un processo di selezione e di istituzionalizzazione di esperienze nate ai margini. Ancora, il movimento delle donne, uno dei lasciti più rivoluzionari di quegli anni, anticipatore di una nuova stagione dei diritti cha ha avuto negli anni Settanta il proprio momento generativo, ma che non si è esaurito in questo, trovando nuovi ambiti di espressione e di ricerca sui temi del corpo, della sessualità e del gender come bene mostra il saggio di Carlotta Cossutta.
In conclusione, credo si debba essere grati a Nicola Del Corno e Marco Philopat che si sono fatti carico di promuovere un’ampia ricognizione di un fenomeno appassionante e dai confini mobili come quello della controcultura cercando di dare spessore storico a movimenti per loro natura portati a vivere e consumarsi nella immediatezza del qui e ora.
A-rivista anarchica, febbraio 2019 Controcultura
Per i tipi di Agenzia X è da poco uscito il libro Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano, una raccolta di studi critici alternati a testimonianze di protagonisti delle diverse esperienze underground che si sono susseguite lungo mezzo secolo a Milano. Un viaggio all'indietro alla scoperta di quei movimenti che, muovendosi lungo il sottile discrimine fra legale e illegale, si sono presentati come culture contro lo status quo.
Buscadero, gennaio 2019 Università della strada tra i libri del mese
Moltissimi anni fa in uno dei tanti convegni istituzionali, chiamato "Bande giovanili", un gruppo di ragazzi fece irruzione e con un'azione molto punk si lacerò la pelle con le lamette e sparse il proprio sangue sul regolamentare tavola della presidenza. Il senso era esplicito: volete analizzarci? Ecco, cominciate da qui. Ne è passata di acqua nei Navigli, Milano si è trasformata (non più del tanto) e quei personaggi bizzarri oltre a imparare, come direbbe Woody Allen, che il sangue è meglio che stia al suo posto, sono cresciuti, si sono moltiplicati e, pur non avendo perso di un filo il coraggio dell'epoca, hanno coltivato altri modi di comunicare, oltre alla (necessaria) provocazione. Università della strada è il primo risultato di Moicana, un nome collettivo dedicato a "nuove forme di aggregazione spontanea in contrapposizione al dominante, qualunque esso sia; proprio come lo furono i nativi americani", ma che non può non ricordare le creste dei punk. L'ironia del titolo è palese. Più dell'università, conta la strada perché come scrive Ferruccio Cappelli "il volume, nell'insieme, aiuta a ricostruire un quadro di come si è evoluto il clima culturale della città negli ultimi cinquant'anni: le grandi fratture sociali e politiche di questo mezzo secolo sono state accompagnate da altrettante scansioni culturali. L'underground, ci suggerisce il libro, ha probabilmente anticipato questi bruschi sommovimenti: lo ha fatto negli anni della speranza, ma anche quando gli orizzonti hanno cominciato a rinchiudersi". Milano è una città ambivalente, capace di lasciare spazi enormi, ma anche di ripararsi in un ottuso provincialismo, fatto più che altro di apparenza e ipocrisia. È su quel territorio che i fermenti controculturali hanno avuto una visione molto più ampia, verrebbe da dire metropolitana, di sicuro più fantasiosa ed eccentrica. Come scrive l'antropologo Andrea Staid in Controculture, resistenza e capacità abitative informali, questi movimenti di lotta modificando la città vetrina con dei processi di mutazione culturale, portano a una revisione molto interessante dell'abitare urbano: quasi una forma di eterotopia, non un'utopia inarrivabile, ma realtà diverse create e custodite, ogni giorno. È importante non smettere di pensare all'avvenire ma è altrettanto importante darsi da fare nel qui ed ora, creare degli esempi e sperimentare come vivere in un mondo diverso, dove l'abitare smetta di essere qualcosa che ha a che fare con la merce, la solitudine, la chiusura e la proprietà privata". Si va da Addio a Barbonia City (siamo nel 1967) dedicata all'esperienza beat in via Ripamonti, "una breve estate di tentativi di amore e di rivolta" come li chiama Gianni De Martino in un'area dove l'ingenua tendopoli dei nostri beatnik venne poi sepolta dalla speculazione edilizia. È anche il periodo in cui prendono forma L'inquieta repubblica popolare di Brera nella vivida descrizione di Matteo Guarnaccia e le prime avvisaglie del Femminismo raccontate da Lea Melandri. Il decennio successivo sarà ancora più movimentato, con i suoi festival, riportato da Eugenio Finardi, Nicola Del Corno e Gianfranco Manfredi e le coraggiose innovazioni, dalla psichiatria al teatro, all'arte in generale. L'avvento del punk genera un'onda lunghissima che spinge "mezzo secolo di controculture" fino a oggi: si parla di fanzine, di occupazioni, di cultura digitale, di rap e di rave, di poesia e di box. Tutto autoprodotto, indipendente e brillante di luce propria nel narrare i Repentini cambiamenti di stagione, come li chiama Massimo Pirotta, intrisi fino al midollo di grande musica, in un arco ideale che va dal 1964 di The Times Are a Changin’ di Bob Dylan al 1991 di Smell Like Teen Spirit dei Nirvana. In un angolo c'è anche il Buscadero. Non sappiamo se siamo underground o mainstream, ma resistiamo anche noi".
di Marco DentiBlow Up, gennaio 2019 Università della strada
Probabilmente la controcultura in Italia a cavallo tra i '60 e i '70 e poi oltre, come traspare da questo bel libro, ha avuto più di un epicentro - Roma, Torino, Napoli, Bologna hanno avuto i loro momenti, per non dire di luoghi "magici" come Positano e Terrasini, crocevia di fatali incontri lungo le strade che portavano in oriente... Ma di certo Milano è stata la prima e più importante capitale di ogni controcultura. A partire dalla tendopoli Beat di Via Ripamonti ribattezzata Barbonia City, che apre la storia con il racconto dettagliato ed appassionato di Gianni De Martino, e poi la Brera di fine '60 primi '70, quartiere magico popolare e centrale dove poteva accadere di tutto, animata da artisti, musicisti, hippies e creativi, molto prima che diventasse moda, come ben racconta in prima persona Matteo Guarnaccia. Poi c'è l'esplosione del femminismo e di una rivista importante come "L'Erba Voglio" di Elvio Facchinelli, con la voce autorevole di Lea Melandri. Eugenio Finardi ci parla di rock, festival e radio libere, mentre non manca l'appuntamento con il '77 su cui interviene con la consueta ironia Gianfranco Manfredi. Intorno poi c'è il brulicare mondo delle fanzine underground con "Re Nudo" in testa, senza dubbio, la più longeva, tormentata e "nazionale" testata controculturale. E poi c'è il Teatro alternativo, quello dell'Elfo, il Piccolo Teatro di Dario Fo, saltabeccando ecco la nascita dei primi centri sociali occupati, Leoncavallo e Santa Marta. Il libro naturalmente corre veloce, con i repentini cambi di stagione, l'irrompere del punk e in seguito del post punk e dark con le miriadi di autoproduzioni grafiche e musicali. E via di seguito il passaggio dagli 80 ai 90 con il cyberpunk e con una rivista bella e importante come "Decoder", ancora la scena rave, dove per un attimo i '90 sembrano i '60 rovesciati, per chiudere con le ultime "resistenze" quando è ovvio che tutto è cambiato, tra occupazioni e sgomberi e quando come nelle parole di Davide Passoni, basta solo un panino con il prosciutto per scoprire il poetry slam e il centro si chiama ora Macao.
di Gino Dal Solerbooksnormali.blogspot.com, giovedì 27 dicembre 2018 Moicana
Moltissimi anni fa in uno dei tanti convegni istituzionali, chiamato Bande giovanili, un gruppo di ragazzi fece irruzione e con un’azione molto punk si lacerò la pelle con le lamette e sparse il proprio sangue sul regolamentare tavolo della presidenza. Il senso era esplicito: volete analizzarci? Ecco, cominciate da qui. Ne è passata di acqua nei Navigli, Milano si è trasformata (non più del tanto) e quei personaggi bizzarri oltre a imparare, come direbbe Woody Allen, che il sangue è meglio che stia al suo posto, sono cresciuti, si sono moltiplicati e, pur non avendo perso di un filo il coraggio dell’epoca, hanno coltivato altri modi di comunicare, oltre alla (necessaria) provocazione. Università della strada è il primo risultato di Moicana, un nome collettivo dedicato “nuove forme di aggregazione spontanea in contrapposizione al dominante, qualunque esso sia; proprio come lo furono i nativi americani”, ma che non può non ricordare le creste dei punk. Più dell’università, conta la strada perché come scrive Ferruccio Cappelli “il volume, nell’insieme, aiuta a ricostruire un quadro di come si è evoluto il clima culturale della città negli ultimi cinquant’anni: le grandi fratture sociali e politiche di questo mezzo secolo sono state accompagnate da altrettante scansioni culturali. L’underground, ci suggerisce il libro, ha probabilmente anticipato questi bruschi sommovimenti: lo ha fatto negli anni della speranza, ma anche quando gli orizzonti hanno cominciato a rinchiudersi”. Milano è una città ambivalente, capace di lasciare spazi enormi, ma anche di ripararsi in un ottuso provincialismo, fatto più che altro di apparenza e ipocrisia. È su quel territorio che i fermenti controculturali hanno avuto una visione molto più ampia, verrebbe da dire metropolitana, di sicuro più fantasiosa ed eccentrica. Come scrive l’antropologo Andrea Staid in Controculture, resistenza e capacità abitative informali, “questi movimenti di lotta modificando la città vetrina con dei processi di mutazione culturale, portano a una revisione molto interessante dell’abitare urbano: quasi una forma di eterotopia, non un’utopia inarrivabile, ma realtà diverse create e custodite ogni giorno. È importante non smettere di pensare all’avvenire ma è altrettanto importante darsi da fare nel qui ed ora, creare degli esempi e sperimentare come vivere in un modo diverso, dove l’abitare smetta di essere qualcosa che ha a che fare con la merce, la solitudine, la chiusura e la proprietà privata”. Si va da Addio a Barbonia City (siamo nel 1967) dedicata all’esperienza beat in via Ripamonti, “una breve estate di tentativi di amore e di rivolta” come li chiama Gianni De Martino in un’area dove l’ingenua tendopoli dei nostrani beatnik venne poi sepolta dalla speculazione edilizia. È anche il periodo in cui prendono forma L’inquieta repubblica popolare di Brera nella vivida descrizione di Matteo Guarnaccia e le prime avvisaglie del Femminismo raccontate puntualmente da Lea Melandri. Il decennio successivo sarà ancora più movimentato, con i suoi festival, riportati da Eugenio Finardi e Filippo Del Corno e Gianfranco Manfredi e le coraggiose innovazioni, dalla psichiatria al teatro, all’arte in generale. L’avvento del punk genera un’onda lunghissima che spinge mezzo secolo di controculture fino a oggi: si parla di fanzine, di occupazioni, di cultura digitale, di rap e di rave, di poesia e di boxe. Tutto autoprodotto, indipendente e brillante di luce propria nel narrare i Repentini cambi di stagione, come li chiama Massimo Pirotta, intrisi fino al midollo di grande musica, in un arco ideale che va dal 1964 di The Times Are a Changin’ di Bob Dylan al 1991 di Smell Like Teen Spirit dei Nirvana.
di Marco Dentiil manifesto, 22 dicembre 2018 Mappe dell’underground milanese e le controculture
A Milano, nella primavera del 1967 i redattori di una strana rivista, «Mondo Beat», fingendosi boy scout, affittano un terreno in via Ripamonti, una lunga arteria che, partendo da Porta Vigentina, si perde nelle campagne lombarde, per insediarvi un campeggio dove accogliere «scappati di casa» e giovani desiderosi di nuove avventure. Lo scandalo è immediato. Subito si parla di Barbonia city. Molti onesti cittadini si appostano nei dintorni per dare un’occhiata, con un misto di indignazione e voyeurismo, al luogo dove si radunano «capelloni» e «ninfette», questi gli epiteti prevalenti nella stampa del tempo per connotare quella gioventù dissidente, non inquadrabile nelle opposte e speculari discipline di chiesa o partito. Adriano Celentano si fa interprete del panico morale della maggioranza silenziosa con una canzone, Tre passi avanti, in cui, dopo avere sentenziato che «crolla il mondo beat», stigmatizza i giovani promiscui, con i capelli lunghi («Visti di spalle chi è la donna non si sa»), che non si lavano, si drogano e hanno pure dimenticato Dio.
LO SGOMBERO non tarda a venire, sotto lo sguardo di una folla che plaude alla fine dell’impero del vizio. Da lì inizia, nel nostro paese, la storia delle controculture, e inevitabilmente proprio di lì, attraverso la narrazione in prima persona di uno dei protagonisti di quella vicenda, Gianni de Martino, prende avvio il tentativo di mappatura delle molteplici storie dell’underground milanese di Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano (Agenzia X, pp. 224, euro 15).
Il volume raccoglie gli interventi di un incontro tenutosi alla Casa della cultura, promosso da Moicana, un’anomala agenzia di ricerca sulle controculture promossa da Nicola Del Corno e Marco Philopat. Si tratta di contributi che privilegiano il terreno della narrazione e dell’autonarrazione di chi c’era o chi c’è sul distacco analitico dello specialista, con una particolare sensibilità per la dimensione geografica delle subculture o controculture, per le mappe urbane costruite e vissute, contemporaneamente o in sequenza, dalle diverse tribù. Si parte con «Mondo Beat», e si prosegue con il profilo della Brera pre-gentrification tracciato da Matteo Guarnaccia, in cui si mostra come lo specifico degli stili controculturali impatti su un pre-esistente humus fatto di bohème, avanguardie artistiche, dopolavoro dell’industria culturale. Passando agli anni Settanta, Eugenio Finardi affronta il tema della scena rock e dei festival, Nicola Del Corno quello di «Re nudo», mentre Gianfranco Manfredi si sofferma sulla soglia di quel ciclo, il movimento del 77. Non mancano incursioni sulle declinazioni artistiche (Giorgio Zanchetti) e teatrali (Ferdinando Bruni e Francesco Frongia) della dimensione underground.
A QUEL PUNTO interviene una cesura, si consuma la svolta degli anni Ottanta. Poi verranno il punk (Valcavi), e il post punk (Tosoni e Zuccalà), fino alla cosiddetta «ultima sottocultura», quella legata al rave, le cui specificità milanesi sono ricostruite da Pablito el Drito. Considerando i vari contributi, emergono alcune problematiche di fondo. In primo luogo, abbiamo la questione delle scelte terminologiche, e inevitabilmente concettuali, utilizzate da Moicana per definire il proprio oggetto. Come si desume dal sottotitolo, si opta per controcultura. Non mancano i riferimenti all’underground, che in generale si caratterizza soprattutto in termini estetici, in contrapposizione al mainstream o al gusto legittimo, e che pur costituendo una dimensione interna all’ambito controculturale appare dotata di una propria autonomia e di una specifica genealogia. Per definire le culture dissidenti giovanili, tuttavia, a partire dalla pubblicazione, sulla scia del punk, di un fortunato volume di Dick Hebdige (recentemente riproposto da Meltemi), si è affermato l’uso, specie in ambito accademico, del termine «sottocultura». Nel corso del tempo, non sono emerse numerose critiche nei confronti di un approccio incentrato sull’idea di una «resistenza tramite rituali».
A entrare in crisi, tuttavia, sembra essere non solo lo stile analitico tipico dei British Cultural Studies ma anche il referente a cui si applicava. La precarizzazione delle condizioni lavorative e dei vincoli familiari, che costituivano la soglia di accesso all’età adulta, dilata progressivamente l’interstizialità nella quale si collocava la dimensione giovanile. In tal modo, si disinnesca il meccanismo di scansione generazionale che fin dai tempi del rock n’ roll aveva ritmato il succedersi delle ondate sottoculturali. I segni distintivi, a partire dall’abbigliamento, se da una parte proliferano, dall’altra non rimandano più ad alcun significato che vada oltre la distinzione individuale in un contesto in cui gli stili sottoculturali del passato tornano continuamente, ibridandosi e sovrapponendosi. In proposito, si potrebbe parlare di fine delle sottoculture, nell’orizzonte più generale del chiudersi di una parabola, quella dei giovani come categoria sociale sui generis. Oppure, ed è questa la scommessa di Moicana, ciò a cui assistiamo altro non è che una dislocazione verso nuovi codici. Non a caso, nei contributi più centrati sul presente, che si concentrano su pratiche che vanno dal writing al poetry slam, passando per metabrand e sport popolare, la questione della musica e della «manipolazione simbolica» legata al look sembrano svolgere un ruolo non certo centrale.
di Massimiliano GuareschiLO SGOMBERO non tarda a venire, sotto lo sguardo di una folla che plaude alla fine dell’impero del vizio. Da lì inizia, nel nostro paese, la storia delle controculture, e inevitabilmente proprio di lì, attraverso la narrazione in prima persona di uno dei protagonisti di quella vicenda, Gianni de Martino, prende avvio il tentativo di mappatura delle molteplici storie dell’underground milanese di Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano (Agenzia X, pp. 224, euro 15).
Il volume raccoglie gli interventi di un incontro tenutosi alla Casa della cultura, promosso da Moicana, un’anomala agenzia di ricerca sulle controculture promossa da Nicola Del Corno e Marco Philopat. Si tratta di contributi che privilegiano il terreno della narrazione e dell’autonarrazione di chi c’era o chi c’è sul distacco analitico dello specialista, con una particolare sensibilità per la dimensione geografica delle subculture o controculture, per le mappe urbane costruite e vissute, contemporaneamente o in sequenza, dalle diverse tribù. Si parte con «Mondo Beat», e si prosegue con il profilo della Brera pre-gentrification tracciato da Matteo Guarnaccia, in cui si mostra come lo specifico degli stili controculturali impatti su un pre-esistente humus fatto di bohème, avanguardie artistiche, dopolavoro dell’industria culturale. Passando agli anni Settanta, Eugenio Finardi affronta il tema della scena rock e dei festival, Nicola Del Corno quello di «Re nudo», mentre Gianfranco Manfredi si sofferma sulla soglia di quel ciclo, il movimento del 77. Non mancano incursioni sulle declinazioni artistiche (Giorgio Zanchetti) e teatrali (Ferdinando Bruni e Francesco Frongia) della dimensione underground.
A QUEL PUNTO interviene una cesura, si consuma la svolta degli anni Ottanta. Poi verranno il punk (Valcavi), e il post punk (Tosoni e Zuccalà), fino alla cosiddetta «ultima sottocultura», quella legata al rave, le cui specificità milanesi sono ricostruite da Pablito el Drito. Considerando i vari contributi, emergono alcune problematiche di fondo. In primo luogo, abbiamo la questione delle scelte terminologiche, e inevitabilmente concettuali, utilizzate da Moicana per definire il proprio oggetto. Come si desume dal sottotitolo, si opta per controcultura. Non mancano i riferimenti all’underground, che in generale si caratterizza soprattutto in termini estetici, in contrapposizione al mainstream o al gusto legittimo, e che pur costituendo una dimensione interna all’ambito controculturale appare dotata di una propria autonomia e di una specifica genealogia. Per definire le culture dissidenti giovanili, tuttavia, a partire dalla pubblicazione, sulla scia del punk, di un fortunato volume di Dick Hebdige (recentemente riproposto da Meltemi), si è affermato l’uso, specie in ambito accademico, del termine «sottocultura». Nel corso del tempo, non sono emerse numerose critiche nei confronti di un approccio incentrato sull’idea di una «resistenza tramite rituali».
A entrare in crisi, tuttavia, sembra essere non solo lo stile analitico tipico dei British Cultural Studies ma anche il referente a cui si applicava. La precarizzazione delle condizioni lavorative e dei vincoli familiari, che costituivano la soglia di accesso all’età adulta, dilata progressivamente l’interstizialità nella quale si collocava la dimensione giovanile. In tal modo, si disinnesca il meccanismo di scansione generazionale che fin dai tempi del rock n’ roll aveva ritmato il succedersi delle ondate sottoculturali. I segni distintivi, a partire dall’abbigliamento, se da una parte proliferano, dall’altra non rimandano più ad alcun significato che vada oltre la distinzione individuale in un contesto in cui gli stili sottoculturali del passato tornano continuamente, ibridandosi e sovrapponendosi. In proposito, si potrebbe parlare di fine delle sottoculture, nell’orizzonte più generale del chiudersi di una parabola, quella dei giovani come categoria sociale sui generis. Oppure, ed è questa la scommessa di Moicana, ciò a cui assistiamo altro non è che una dislocazione verso nuovi codici. Non a caso, nei contributi più centrati sul presente, che si concentrano su pratiche che vanno dal writing al poetry slam, passando per metabrand e sport popolare, la questione della musica e della «manipolazione simbolica» legata al look sembrano svolgere un ruolo non certo centrale.
la Repubblica, 10 novembre 2018 Dagli hippie al rap viaggio nelle utopie con la camminata della controcultura
In altri tempi si sarebbe forse guadagnata la definizione di “adunanza sediziosa”. Oggi la presentazione del libro Università della strada. Mezzo secolo di controcultura a Milano è un “trekking urbano” per ripercorrere tappa dopo tappa decenni di movimenti, utopie, desideri, lotte, musiche, occupazioni, cercando i segni tracimati nel presente. Un pellegrinaggio in dieci tappe da Brera a Porta Ticinese alla ricerca del filo rosso della contestazione che lega luoghi e storie raccontate nel libro, frutto del convegno dallo stesso titolo di un anno fa alla Casa della Cultura.
Eccoci, quindi, in marcia guidata dagli autori che hanno firmato i vari capitoli: partenza alle 17.00 in via Formentini. Facile individuare il corteo: la bicicletta sonora di Madsoundsystem segue il percorso con musiche a tema. Primo agit-prop Matteo Guarnaccia, artista, storico del costume, scrittore, organizzatore di eventi. “Racconto la Brera come era, prima della gentrificazione forzata, quando si tirava mattina nei locali. Un luogo dove la diversità era incoraggiata, grazie all’Accademia e ai suoi artisti, da Manzoni a Bianciardi” dice Guarnaccia. Da qui, facendo tappa in Cordusio, si arriva in piazza Duomo, sotto la statua del “pirla a cavallo”, come Marco Philopat (anima di Agenzia X e promotore del convegno con Nicola Del Corni, docente della Statale) definisce il monumento a Vittorio Emanuele II. E qui, negli anni sessanta come a Londra in Piccadilly Circus e ad Amsterdam in piazza Dam, si trovavano i giovani globe trotter di tutta Europa. A ripercorrere il periodo ci pensa Gianni De Martino, scrittore e giornalista, uno dei promotori della rivista “Mondo Beat”, che ci porta (ma solo con i ricordi) anche a Barbonia City, quel mega campeggio abitato da hippie in via Ripamonti, poi sgomberato con litri di insetticidi e Ddt. Dal Duomo alla Statale il passo è breve. E qui arriva Gianfranco Manfredi, un veterano dell’utopia, quello che cantava Ma chi ha detto che non c’è. E non si può non perdersi nei movimenti studenteschi, in “Re Nudo”, nel parco Lambro, nell’Ultima Spiaggia, ka casa discografica di Nanni Ricordi. Passaggio nel contemporaneo, nella prima sede occupata del centro sociale LUMe, e si arriva in via Torino. “Passaggio imprescindibile: la via dei punk milanesi” dice Marco Philopat che tiene le fila di tutta la “camminata delle controculture”. Dal punk al cyberpunk alle Colonne di San Lorenzo, cena alle 21.00 al Bar Rattazzo, storico locale del Ticinese. Dai movimenti femministi a quelli Lgtb con Carlotta Cossutta che ci porta ai nostri giorni. Poi, esplode la festa. O meglio: spazio alle controculture contemporanee: “rapper, slammer, hiphopper – annuncia Philopat – da Pablito al Vandalo a Serpicanaro”.
di Valeria CeraboliniEccoci, quindi, in marcia guidata dagli autori che hanno firmato i vari capitoli: partenza alle 17.00 in via Formentini. Facile individuare il corteo: la bicicletta sonora di Madsoundsystem segue il percorso con musiche a tema. Primo agit-prop Matteo Guarnaccia, artista, storico del costume, scrittore, organizzatore di eventi. “Racconto la Brera come era, prima della gentrificazione forzata, quando si tirava mattina nei locali. Un luogo dove la diversità era incoraggiata, grazie all’Accademia e ai suoi artisti, da Manzoni a Bianciardi” dice Guarnaccia. Da qui, facendo tappa in Cordusio, si arriva in piazza Duomo, sotto la statua del “pirla a cavallo”, come Marco Philopat (anima di Agenzia X e promotore del convegno con Nicola Del Corni, docente della Statale) definisce il monumento a Vittorio Emanuele II. E qui, negli anni sessanta come a Londra in Piccadilly Circus e ad Amsterdam in piazza Dam, si trovavano i giovani globe trotter di tutta Europa. A ripercorrere il periodo ci pensa Gianni De Martino, scrittore e giornalista, uno dei promotori della rivista “Mondo Beat”, che ci porta (ma solo con i ricordi) anche a Barbonia City, quel mega campeggio abitato da hippie in via Ripamonti, poi sgomberato con litri di insetticidi e Ddt. Dal Duomo alla Statale il passo è breve. E qui arriva Gianfranco Manfredi, un veterano dell’utopia, quello che cantava Ma chi ha detto che non c’è. E non si può non perdersi nei movimenti studenteschi, in “Re Nudo”, nel parco Lambro, nell’Ultima Spiaggia, ka casa discografica di Nanni Ricordi. Passaggio nel contemporaneo, nella prima sede occupata del centro sociale LUMe, e si arriva in via Torino. “Passaggio imprescindibile: la via dei punk milanesi” dice Marco Philopat che tiene le fila di tutta la “camminata delle controculture”. Dal punk al cyberpunk alle Colonne di San Lorenzo, cena alle 21.00 al Bar Rattazzo, storico locale del Ticinese. Dai movimenti femministi a quelli Lgtb con Carlotta Cossutta che ci porta ai nostri giorni. Poi, esplode la festa. O meglio: spazio alle controculture contemporanee: “rapper, slammer, hiphopper – annuncia Philopat – da Pablito al Vandalo a Serpicanaro”.
Corriere della Sera, 10 novembre 2018 I luoghi milanesi della controcultura
Matteo Guarnaccia parla della “Repubblica hippie” di fianco al Bar Giamaica e Gianni De Martino riflette su beat e capelloni sotto la statua del Re in piazza Duomo, poco dopo, davanti all’Università Statale, Gianfranco Manfredi racconta il decennio 1968-1977. Sono alcune delle tappe della Controcultura in cammino, la passeggiata di autori multipli ideata da Marco Philopt per la presentazione del libro Università della strada. Mezzo secolo di controcultura a Milano edito da Agenzia X e firmato da diversi autori che ripercorre mezzo secolo della storia “altra” della nostra città, pagine che oggi prendono voce nei luoghi dove la controcultura milanese è nata. “Noi punk ci trovavamo in piazza S. Giorgio, all’ex negozio di dischi New Kary in via Torino”, dice Philopat, “oggi in piazza alle ore 20 parliamo di no future con Angela Valcavi, poi ci spostiamo alle Colonne di San Lorenzo dove si ritrovavano dark e cyberpunk, lì ci saranno Simone Tosoni ed Emanuela Zuccalà”. E dopo la pausa polpette da Ratazzo (ore 21) il leggendario bar di via Vetere, tutti in piazza XXIV Maggio per il gran finale con performance, rap e poesie di Tempi diVersi. Per partecipare alla Controcultura in cammino, il ritrovo è alle ore 17.00 davanti all’ex chiesa di San Carpoforo, via Formentini.
Livia Grossitonyface.blogspot.com, 24 ottobre 2018 Moicana - Università della strada
Moicana è un centro studi sulle controculture che si propone di tenere viva l’attenzione di studiosi, ricercatori, militanti, così come di semplici appassionati, sulle esperienze dell’underground in Italia e nel mondo tramite la pubblicazione di libri, l’organizzazione di convegni, reading e mostre, ma anche attraverso la raccolta di materiali d’archivio, testimonianze orali e iniziative di strada.
Il termine Moicana ci ricorda come le controculture, in quanto declinate al femminile, non saranno mai le ultime e quindi sempre in grado di generare nuove forme di aggregazione spontanea in contrapposizione al dominante.
Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano (stampa Agenzia X) raccoglie gli interventi dei relatori durante il convegno svoltosi il 27 ottobre 2017 alla Casa della Cultura a Milano durante il quale si è tracciato il filo rosso che collega le esperienze dei 60's di Mondo Beat per passare a "Re Nudo", alle Feste del Proletariato a Parco Lambro, Virus, Leonka, "Decoder" e il cyberpunk, femminismo, il Ladyfest, occupazioni di luoghi e case, poetry slam, rivolte, palestre popolari.
Un patrimonio interessantissimo da conservare, preservare, tramandare per voce dei protagonisti, senza filtri o interpretazioni.
di Tony FaceIl termine Moicana ci ricorda come le controculture, in quanto declinate al femminile, non saranno mai le ultime e quindi sempre in grado di generare nuove forme di aggregazione spontanea in contrapposizione al dominante.
Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano (stampa Agenzia X) raccoglie gli interventi dei relatori durante il convegno svoltosi il 27 ottobre 2017 alla Casa della Cultura a Milano durante il quale si è tracciato il filo rosso che collega le esperienze dei 60's di Mondo Beat per passare a "Re Nudo", alle Feste del Proletariato a Parco Lambro, Virus, Leonka, "Decoder" e il cyberpunk, femminismo, il Ladyfest, occupazioni di luoghi e case, poetry slam, rivolte, palestre popolari.
Un patrimonio interessantissimo da conservare, preservare, tramandare per voce dei protagonisti, senza filtri o interpretazioni.
Il Cittadino, 12 ottobre 2018 Mezzo secolo di controculture. Dalla Milano dei festival alla Brianza del poetry slam
Mezzo secolo fatto di beat, capelloni, hippie oppure freak e indiani metropolitani, punk, dark, post-punk, hip-hopper, rapper, raver. Fino agli slammer che reinventano la poesia. Si tratta di controcultura, un termine un po’ vago che comunque classifica tutto ciò che non è fatto per entrare necessariamente in un’antologia ufficiale.
Il centro studi “Moicana” ne ha fatto un racconto a tante voci per raccontare tutto quello che succede nel sottosuolo (già, proprio l’underground) e ogni tanto riesce a mettere la testa fuori per diventare se non mainstream (la strada principale, quella frequentata da tutti) almeno “fenomeno” capace di scrivere un paragrafo della storia culturale dell’Italia.
Che l’accademia lo approvi o no, la controcultura è un pezzo portante del Paese e il volume Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano torna a raccontarlo a distanza di un anno dal convegno alla Casa della cultura di Milano. Dentro ci sono le firme tra gli altri di Ferdinando Bruni, Nicola Del Corno, Eugenio Finardi, Matteo Guarnaccia, Lea Melandri e Marco Philopat, ma anche quelle di Davide ScartyDoc Passoni e Massimo Pirotta che la controcultura l’hanno vissuta a Milano e l’hanno trasferita (in andare e ritorno) dalla Brianza. Il volume è in uscita oggi e racconta mezzo secolo di Molano-Monza in cui sono nati “giornali, teatri, festival, radio llibere, librerie, gallerie d’arte, centri sociali e case occupate; un insieme di iniziative e luoghi dove incontrarsi e produrre una propria cultura, ogni volta alternativa e di contestazione, dando vita a un caleidoscopio di esperienze. Cifra comune di tali milieu è stato un continuo nomadismo metropolitano, coinvolgente il centro quanto le periferie, che ha finito per caratterizzare l’intero tessuto urbano.
di Massimiliano RossinIl centro studi “Moicana” ne ha fatto un racconto a tante voci per raccontare tutto quello che succede nel sottosuolo (già, proprio l’underground) e ogni tanto riesce a mettere la testa fuori per diventare se non mainstream (la strada principale, quella frequentata da tutti) almeno “fenomeno” capace di scrivere un paragrafo della storia culturale dell’Italia.
Che l’accademia lo approvi o no, la controcultura è un pezzo portante del Paese e il volume Università della strada. Mezzo secolo di controculture a Milano torna a raccontarlo a distanza di un anno dal convegno alla Casa della cultura di Milano. Dentro ci sono le firme tra gli altri di Ferdinando Bruni, Nicola Del Corno, Eugenio Finardi, Matteo Guarnaccia, Lea Melandri e Marco Philopat, ma anche quelle di Davide ScartyDoc Passoni e Massimo Pirotta che la controcultura l’hanno vissuta a Milano e l’hanno trasferita (in andare e ritorno) dalla Brianza. Il volume è in uscita oggi e racconta mezzo secolo di Molano-Monza in cui sono nati “giornali, teatri, festival, radio llibere, librerie, gallerie d’arte, centri sociali e case occupate; un insieme di iniziative e luoghi dove incontrarsi e produrre una propria cultura, ogni volta alternativa e di contestazione, dando vita a un caleidoscopio di esperienze. Cifra comune di tali milieu è stato un continuo nomadismo metropolitano, coinvolgente il centro quanto le periferie, che ha finito per caratterizzare l’intero tessuto urbano.