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Trap

www.atem-journal.com, febbraio 2025UFPT: Trap. Storie distopiche di un futuro assente

Se è vero che la musica è lo specchio della società, è anche vero che uno specchio, ingenuo ma critico, non offre la più lusinghiera delle immagini. La trap è il riflesso di un’epoca in cui ci ritroviamo ancora completamente immersi e per questo motivo non facile da analizzare, sia per l’impossibilità di prendere le giuste distanze, sia per la volatilità di questa musica, in continuo mutamento ed esclusivamente digitale. 
L’autore, un anonimo dj e producer diplomato in musica elettronica al Conservatorio Cherubini di Firenze che si cela dietro allo pseudonimo UFPT, si avventura senza indugi nei meandri di questo fenomeno raccontandone le origini nel contesto di degrado urbano delle metropoli del Sud degli Stati Uniti e analizzandone il percorso, per poi soffermarsi sulla scena italiana. 
Il lavoro, infatti, si può considerare un viaggio in due momenti: nel primo, si percorrono le strade dell’hip hop a partire dal Bronx, ma “evitando di ripetere la solita storiella ‘de borgata’” (22), quindi limitandosi a rimarcare l’appartenenza autentica dei suoi protagonisti alla strada e alla sottocultura della gang, “corporazione post tribale” (18) che tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta si presentava come una soluzione collettiva ai problemi di adattamento e collocazione sociale di quei giovani che si vedevano negata una posizione rispettabile nel mainstream perché non in grado di soddisfare i criteri di qualificazione sociale di quel sistema. UFPT sottolinea che è nel successivo passaggio dalla gang alla crew che emergono i collegamenti tra il rap e l’articolata tradizione orale afroamericana, menzionando i pionieri del genere (Kool Herc, Afrika Bambaataa, Grandmaster Flesh) e raccontando come, a partire dagli anni novanta, la subcultura si sia diffusa al di fuori di New York. Ed è proprio da “un tipo di decodifica territoriale” (25) ad opera di personaggi come Dj Screw e i Three 6 Mafia nelle metropoli del Sud degli Stati Uniti (rispettivamente Houston e Memphis) che deriva la trap, i cui primi ascoltatori sono i consumatori della droga dei poveri, la purple drank, beverone violaceo a base di sciroppo per la tosse, Sprite e codeina. Non a caso, la ‘trappola’ a cui fa riferimento il termine trap è quella della droga, quella preparata e spacciata nelle trap house, vecchie case abbandonate della periferia di Atlanta dove, una volta entrato, sei, appunto, in trappola, essendoci una sola via di accesso. Perché proprio Atlanta? Perché, spiega UFPT, è stata la prima città statunitense a costruire e successivamente a demolire le case popolari per i più poveri (ovvero gli afroamericani), che si ritrovarono a occupare le trap house. Ecco allora le tematiche inerenti alla droga e alla celebrazione della vita di strada che caratterizzano le produzioni (in quantità esorbitanti) degli anni duemila, narrazioni in prima persona su basi elettroniche essenziali e caratterizzate da un uso volutamente spropositato dell’autotune. 
Dopo questa attenta disamina ha inizio la seconda parte del viaggio di UFPT, che approda in Italia. Non mancano nemmeno in questo caso importanti spunti di analisi sociale. Si parla, prima di tutto, del ruolo fondamentale giocato nei primi anni novanta dai centri sociali come grembo di incubazione della cultura hip hop attraverso le posse, “una versione delle crew sfociata in una deriva politica un po’ troppo retrò” (49), che hanno il merito di aver adattato quel linguaggio musicale d’oltreoceano – inizialmente recepito con atteggiamento imitativo – ai diversi contesti sociopolitici delle città italiane (Milano, Roma, Bologna, Napoli), anche attraverso l’uso del dialetto. UFPT racconta, quindi, la fase di sdoganamento del rap italiano dai centri sociali e il suo approdo alle major discografiche agli inizi degli anni duemila, grazie soprattutto a figure come Fabri Fibra e i Club Dogo. Seguono pagine estremamente interessanti sulla “epocale trasposizione” (54) – che naturalmente non riguarda solo l’Italia – dall’ambiente fisico/materiale a quello digitale come luogo di diffusione e condivisione della controcultura musicale. I social network, Instagram in particolare, sono i luoghi di views e sharing a colpi di link, spazi virtuali capaci di accogliere numeri stratosferici di utenti. Tutto cambia. Ed è in questo cambiamento che trova terreno fertile la diffusione di quell’ammasso di generi musicali dalle definizioni indefinite (cloud rap, SoundCloud rap, mumble rap, lol rap), il cui bandolo viene districato con disinvoltura dall’autore, consentendo al lettore di avvicinarsi alla comprensione del fenomeno trap. 
Ma se negli USA la trap è la cassa di risonanza dei racconti di vita sballata ai margini della società dei suoi protagonisti, in Italia è necessario crearsi un personaggio che faccia storcere il naso ai sostenitori della retromania e a “quelli che ben pensano”, come rappava Frankie hi-nrg alla fine degli anni novanta. Ci riesce egregiamente la Dark Polo Gang a Roma, con la loro strafottenza veicolata da uno spudorato sconvolgimento della sintassi italiana e da una coperta ironica, a volte così spessa da chiedersi “ma questi ci sono o ci fanno?”. La Dark Polo Gang innesta una vera e propria esplosione della trap romana, a cui UFPT dedica diverse pagine, per poi passare alla scena milanese, più tiepida e contenuta soprattutto per la “struttura gerarchica del cenacolo musicale” (81), in cui il giovane di periferia (ad esempio Sfera Ebbasta, Ghali, Mahmood) viene fiutato dalle major discografiche e ricoperto d’oro sull’altare del successo, a discapito della sua genuinità e creatività. 
C’è poi una parte particolarmente apprezzabile del volume in cui l’autore, attraverso una serie di interviste, dà voce ai protagonisti, e il fatto che sono per lo più sconosciuti costituisce un valore aggiunto. Dal “gruppo post millennial sbrilluccicante” (84), che include anche ragazzi e ragazze italiani della cosiddetta “seconda generazione” e con cui l’autore si ritrova a chiacchierare di trap sia ascoltata che prodotta, ai trapper delle province dell’Italia centrale, le domande di UFPT e le risposte dei protagonisti svelano al lettore un mondo che va ben oltre il racconto custodito nelle barre musicali, quel mondo che si può racchiudere nella definizione “trap da cameretta” (115), perché in Italia sono le case, ovvero proprio gli ambienti domestici a ospitare i consumatori di questa musica, non le trap house abbandonate di Atlanta. 
Il volume si chiude con uno sguardo alle scene estere dall’Europa all’Asia a cura di VIBRISSE, ovvero Cristina Ruggeri e Andrea Migliorati, due colleghi di UFPT (di cui in questa parte viene svelato almeno il nome di battesimo: Massimiliano) che parlano della trap come di “musica del fallimento” (133) che in ogni angolo del globo racconta l’assurdità della vita quotidiana e quell’assenza di futuro che attanaglia i ragazzi e le ragazze del nostro tempo, da XXXTentacion a Young Signorino, ma che, proprio per il suo rapporto privilegiato con il vastissimo bacino di giovani e giovanissimi utenti, potrebbe costituire un’opportunità per diffondere messaggi costruttivi e estirpare cancrene contemporanee come sessismo e misoginia per promuovere un ‘femminismo trap’. Utopia? Forse. Sta di fatto che non si può non considerare la quasi totale assenza di nomi femminili nella scena trap. E questo vorrà pur dire qualcosa. 
All’inserto fotografico, che arricchisce il volume documentando luoghi e volti del fenomeno trap, segue la postfazione di Stefano Di Trapani, a cui spetta il difficile compito di tirare le somme e sollevare degli interrogativi, a partire dalle analogie della trap con quei movimenti musicali del passato che a loro volta venivano visti come immorali e ripugnanti. 
Leggere il libro di UFTP è importante per chi desidera non fermarsi alla superficie, ma guardare a fondo, provare a capire senza pregiudizi la trap, il fenomeno musicale più significativo degli ultimi anni, sia dal punto di vista della produzione che della fruizione. Nonostante lo stile agile e a tratti colloquiale dell’autore (peccato per qualche piccolo refuso, dovuto sicuramente a un lavoro di editing un po’ distratto), il lettore dovrebbe avere almeno una infarinatura di base sui temi trattati per non perdersi nella impressionante quantità di nomi, canzoni, citazioni che fanno sì che il lavoro costituisca un apprezzabile archivio musicale degli ultimi cinquant’anni, ma che lo rendono anche molto denso. Del resto, molto denso e complesso è il mondo di cui parla. 
 

Paola Attolino (Università di Salerno)

www.musicletter.it, 25 aprile 2021Il libro che racconta la musica trap. La colonna sonora perfetta di questi tempi di crisi

Prendendo in prestito un passaggio della quarta di copertina del libro Trap. Storie distopiche di un futuro assente pubblicato da Agenzia X poco più di un anno fa, la musica trap è senza dubbio la colonna sonora perfetta di questi tempi di crisi.

«La musica trap è un nuovo linguaggio simile a quello della cultura hip hop, ma esposto con modalità che sembrano lasciare più spazio espressivo, un’arma a doppio taglio che genera un’alternanza di brutture stilistiche e picchi di genio. Questa maggiore libertà, enormemente agevolata da un accesso illimitato al mondo dei social, ha promosso la formazione di un’attitudine mai vista prima che ha grande influenza sulle nuove generazioni.
Il giovane autore traccia il contesto di degrado delle metropoli meridionali degli Stati Uniti dove è nata la trap, un viaggio tra le sue manifestazioni più popolari, le produzioni più significative e un’analisi sui perché siamo arrivati in pochi anni all’esplosione di un caso mondiale che ha saputo stravolgere anche la scena italiana.
In Trap. Storie distopiche di un futuro assente viene descritto il percorso di radicamento sia nei grandi snodi urbani sia nelle province, per addentrarsi all’interno di una scena contraddittoria formata da creature misteriose, apparentemente interessate solo alla fama e al denaro, ma che è riuscita finalmente a spodestare la paludosa fase della retromania.»

L’autore del libro è UFPT, sigla dietro quale si cela un anonimo dj e producer della scena locale, diplomato in musica elettronica al Conservatorio Cherubini di Firenze.

Noiseyit, gennaio 2021UFPT – Trap. Storie distopiche di un futuro assente

Un viaggio dagli esordi e i semi della trap, che passa alla realtà italiana e ne indaga anche microcosmi e protagonisti, con tanto di interviste tutt'altro che scontate. Il merito maggiore: uno sguardo e un linguaggio che stanno tra il visionario, l'accademico e la critica musicale.

Rumore, luglio 2020UFPT. Trap

Con un linguaggio tra il colloquiale/contemporaneo, l’accademico essenziale e qualche inciso in prima persona, UFPT, nel suo primo saggio, racconta il passaggio della trap dalla “periferia abbandonata” americana alle camerette degli adolescenti italiani e sembra trovarsi particolarmente a suo agio quando si spinge oltre il caos delle nuove definizioni – cloud rap, SoundCloud rap, mumble rap, lol rap, vaporwave ecc. – e si avventura, con la sua spontaneità, in descrizioni personali dei suoni. Rispetto ad altri scritti sul tema ci sono due differenze fondamentali: l’autore fa parte della stessa generazione di molti artisti citati e ha un punto di vista focalizzato sul Centro Italia, decentrato rispetto alla capitale del mercato, Milano. L’approccio alla materia di UPT è da “cane sciolto” e lo conferma la scelta di intervistare completo outsider della scena. I suoi spunti di analisi sociale, inoltre, ribadiscono come le correnti musicali urban, più di altri generi, siano uno specchio della società, dei suoi stravolgimenti, delle sue tendenze, dei suoi fenomeni e delle sue dipendenze.
Voto: 64/100

di Luca Gricinella

www.goldworld.it, 6 aprile 2020 Siamo in crisi: se non altro abbiamo trovato la colonna sonora perfetta

Trap. Ogni volta che leggo o sento questa parola ho paura, lo ammetto; forse perché troppo spesso la vedo e la sento usare impropriamente.
Da un po’ di tempo a questa parte questo termine viene usato per definire un certo tipo di musica e di suono, non si capisce bene quale però.
Vedo usare la parola con la T per definire un larghissimo e vario tipo di musica; talmente vario che le tematiche spaziano dall’amore, all’amore per i soldi, dalle canzoni parodia a canzoni piene di significato.
Ma alla fine cos’è veramente sta Trap? La Trap è uno specifico genere musicale nato negli anni ’90 ad Atlanta, nel sud degli Stati Uniti; figlio del Dirty South e del Southern Hip Hop.
Le tematiche trattate erano soprattutto sballo, traffici e altri crimini vari o almeno era così in origine. Con il tempo e la globalizzazione del suono la Trap ha assunto milioni di sfumature e dato vita ad altrettanti sottogeneri.
Per chi ha sempre avuto un orecchio di riguardo verso la musica del Sud degli States questo è sempre stato chiaro. Ma come dicevo la globalizzazione, l’unificazione e la sovraesposizione del genere hanno influenzato l’Hip Hop e tutti gli altri generi musicali.
Questo è successo già molti anni fa; ma sembra che per la maggior parte delle persone, sia teste Hip Hop sia ex Truzzi o simili, questa roba sia nata nel 2015.
“Questa roba l’ho inventata io”, “Prima di noi non c’era nessuno”, “Ho portato questo e quello di qua e di la”.
Non so neanche quante volte ho sentito e sento quotidianamente frasi di questo tipo. Proprio per questo mio rapporto con la Trap e l’Hip Hop difficilmente mi trovo “bene” a parlare di musica; eccetto rari casi (vi vedo bestie).
Premesso questo, una delle ultime cose che mi aspettavo, lo ammetto, era leggere un libro che trattasse l’argomento; un libro veramente ben fatto e che ho letto davvero con piacere.
Un libro che ho incontrato casualmente, dopo una super chiacchierata affiatata con UFPT che fino a quel momento non conoscevo.
Abbiamo parlato di musica per circa una mezz’oretta e poi ho scoperto del suo libro; l’ho comprato immediatamente, aveva già passato il mio test ed ero decisamente interessato.
Questo libro è: Trap: Storie distopiche di un futuro assente.

Il libro Questo in realtà è un libro e molto di più. Sicuramente è un archivio pieno zeppo di Canzoni, Cultura e Citazioni, talmente tante che è quasi difficile starci dietro. C’è talmente tanta musica qua dentro che solo per ascoltare tutti gli album e gli artisti citati ci vorrebbero giorni o settimane.
Il libro è pieno di informazioni importantissime per capire il contesto in cui è nata sta roba, come, dove, quando e perché. L’autore ha scavato e cercato in lungo ed in largo per analizzare tutto il percorso della Trap: dalla nascita all’esposizione mondiale che vediamo oggi. A mio parere ha fatto un gran bel lavoro, infatti se vi piace il genere, ma anche se non vi piace, ve lo consiglio davvero.
UFPT ha analizzato la cosa dagli inizi, si proprio da Dj Kool Herc e da chi prima di lui e o con lui ha contribuito alla nascita di questa Cultura. Dall’inizio presenta ai lettori la scena Americana, che nel giro di pochi anni si era già evoluta nelle sue diverse e varie fazioni, East Coast, West Coast e Dirty South. UFTP ci guida attraverso il percorso che ci ha portato ad oggi, in Italia e nel Mondo.
Nella prima parte del libro l’autore si focalizza e da spazio soprattutto agli States e alle loro varie forme di Hip Hop. Dopo un’introduzione a questo mondo, l’autore comincia ad analizzare l’inizio di questa sottocultura citandone i pionieri: Dj Screw, i Three Six Mafia, T.I., Gucci Mane e molti altri.
Nella seconda parte del viaggio invece è l’Italia la protagonista. Anche qui l’autore parte dagli inizi, dalle Posse, arrivando a Young Signorino. Si proprio così: dalle Posse a Young Signorino, passando dai Sangue Misto, Fabri Fibra, Club Dogo, Sfera Ebbasta e la Dark Polo Gang.
UFPT originario di Pistoia, sfrutta l’occasione per dare voce anche a realtà toscane come: Malacalle, Franco Franco e molte altre, confrontandosi sulla realtà locale e sul come questa cosa sia vissuta e percepita.
Inoltre in chiusura, Vibrisse (Cristina Ruggeri & Andrea Migliorati), colleghi di UFPT ci offrono uno sguardo alle scene estere dall’Europa all’Asia, e anche se il gusto rimane una cosa personale, è decisamente interessante vedere e scoprire come il genere si sia adattato alle varie culture sparse per il mondo. La postfazione invece è a cura di Stefano Di Trapani, che ha il duro compito di tirare le somme e non manca di farlo, invitandoci ad una matura riflessione su quanto analizzato nel libro e sul genere stesso della Trap.
Il libro è stato prodotto da Agenzia X, ed è disponibile sul loro sito.
Il libro l’ho già consigliato, ma lo faccio di nuovo. di Pietro Raheem

Blow Up, aprile 2020 Trap

Arrivata in Italia verso la metà dello scorso decennio, quando in pratica era già sparita dalle scene di origine, la trap è l’ultimo trend musicale giovanile di un certo rilievo, almeno per quanto riguarda il Belpaese. Nata nel sud degli States a fine anni ’90 (epicentro Atlanta) come derivazione storta, rallentata e oppiacizzata dell’hip hop sudista (che in pochi hanno notato ma pare si trattasse di una scena rigogliosa e molto creativa), la trap assorbe in sé molti dei tratti “etici”, diciamo così, del gangsta rap: nata neo ghetti abbruttiti e dimenticati del sottoproletariato suburbano delle assolate megalopoli del sud, fortemente collusa con delinquenze & tossicodipendenze e portatrice insana di testi sboccati, iperdrogati, sessisti e violenti. La trap italiana naturalmente non ha nulla a che fare con la madre americana, non foss’altro perché da noi le voci delle delinquenze urbane utilizzano tutt’altri canoni musicali per esprimersi. La nostra versione è solo l’ennesimo trend adolescenziale con cui bullarsi, un modello interamente slavato col pop sanremese e messo a bagnomaria nella rete (Instagram + YouTube) che della matrice originaria mantiene unicamente una velleità da provocatorio neorealismo off limits che però, calato nella realtà nostrana del mammismo istituzionalizzato e del welfare parrocchiale, finisce solo per apparire come la versione grottesca, più viziata che viziosa, delle vecchie boy band. Ma tanto basta ai giovani e giovanissimi italici: la nostra cartoonesca trap è per tutti il modello vincente del momento (droga + soldi + moda), fermo restando che nel mazzo ci sarà pure chi sta male sul serio e magari ci rimette le sue giovani penne.
Tutto ciò detto, questo libro è decisamente molto riuscito e il suo autore, nascosto dietro il nick UFPT, è uno che la sa lunga e la sa raccontare anche meglio. Linguaggio puntuale, disamine perfette, analisi ricche e appuntite, condiscendenza e interpretazione ma non immedesimazione: tutto è al posto giusto, anche le rivelatorie interviste. Lo consiglio senza se e senza ma a chiunque legga questo giornale, principalmente a chi, come il sottoscritto, è interessato alla trap quanto alla pesca d’altura: scoprirà un universo brulicante, musicalmente (per me) valido meno di zero ma comunque intellettualmente stimolante perché tra i pochi a lanciare segnali di vita in questi anni disastrati (scrive l’autore: “Trap è musica del fallimento”, e questo basti).

di Stefano I. Bianchi

il manifesto, 7 marzo 2020 Anatomia della trap, il fascino indiscreto della trasgressione

Uno dei fenomeni (musicali e non) più criticati osteggiati, sbeffeggiati da musicisti, critici, pubblico. La trap ha coagulato intorno a sé un unanime. fronte di repulsa. A partire dalla irritante essenzialità musicale, passando per il contenuto dei testi, concludendo con un aspetto estetico che difficilmente può trovare approvazione. Le coordinate che appartenevano al punk degli esordi. Ma dove il punk era in qualche modo una prosecuzione di discorsi socio culturali e artistici già affermati in precedenza (garage, glam, rock’n’roll), la trap e il suo corollario estetico, pur essendo figlio di rap e hip hop, ostentano ogni mancanza di contenuto “politico”) o contro culturale. A fronte di un modo che viaggia, scientemente, verso il disastro ambientale ampiamente annunciato, preda di un capitalismo senza ormai alcun freno, in cui il mercato determina ogni singola mossa, non solo escludendo ma semplicemente annientando ogni voce dissidente, chi canta o ascolta trap, abbraccia una visione nichilista, dove il “no future” urlato provocatoriamente dai Sex Pistols nel 1977 è una realtà, un dato di fatto. Le nuove generazioni hanno in mano il mondo, hanno tutto lo scibile terracqueo a portata di click ma in realtà non possiedono nulla di tangibile, tanto meno un futuro. Lo stesso incedere ritmico della trap è il suono di un’epoca che si lascia cullare nell’abbandono ansiolitico, nell’appiattimento emotivo, nervoso, cerebrale. Contro l’ansia, l’insonnia, la paura della catastrofe, personale e globale, imminenti. E allora l’ostentazione becera della ricchezza, del lusso (spesso “inventato” e irreale), l’esaltazione della dipendenza da droghe rilassanti, sono un grido rassegnato di chi accetta l’ineluttabilità della dipendenza tecnologica, della sempre più scarsa attenzione al reale e al circostante, di una condizione sociale che ti imprigiona, fin da adolescente, in una gabbia classista da cui è impensabile pensare di uscire. Dove sei nato, rimani, nessuna possibilità di emanciparti, crescere, “diventare qualcuno”.

Decadenza Negli anni Sessanta per uscire dalla “miseria” (non necessariamente economica) potevi fare il cantante o dedicarti a calcio o boxe, Ma ora gli sportivi sono merce costruita in laboratorio. Se non ce l’hai fatta a 14 anni sei già out. Nella musica e nell’arte non è molto diverso ma in questo ultimo ambito un’ultima speranza ancora ce l’hai. Il guizzo, l’intuizione, il colpo di fortuna, una concatenazione di circostanze possono aprirti una strada, darti una luce. La trap può essere un mezzo immediato in tal senso.
Un suono, un’attitudine, un modus vivendi che nasce, non a caso, in luoghi di spaccio e consumo, ad Atlanta. Case abbandonate (le trap house) dove ci si ritrova clandestinamente e che generano il mood, lento, cupo, disperato e decadente, del genere. Brani fatti con il minimo indispensabile. Basi elettroniche minimali, scarne, essenziali a cui si sovrappongono narrazioni personali (caratterizzate da un volutamente esagerato e quasi parodistico uso dell’autotune sulla voce) di ciò che accade, allo stesso modo dei primi toaster reggae giamaicani che su brani remixati e allungati in loop, raccontavano la realtà circostante, fin dagli anni Settanta.
Si innesta in questo modo il concetto del Do It Yourself, dell’autogestione del brano e della proposta artistica. Un concetto “volatile”, musica distribuita non sul canonico cd o supporto fisico ma via web, con un concetto di degradabilità quasi immediata. E che si espande in breve tempo ovunque. La facilità di produzione a basso costo è tra le particolarità più immediate, mutuata da rap e hip hop. Lo studio di registrazione è facilmente riducibile a un portatile, un microfono e un paio dl cuffie. Autogestione a prezzo (e chilometro) zero. Dalla propria stanza alla conquista del proprio paese o del mondo. A cui si unisce l’immediatezza della fruizione, il linguaggio quasi carbonaro comprensibile solo agli adepti ma che ha il fascino perverso del proibito, del mondo delinquenziale e della trasgressione, che sono tra i propulsori dell’espansione In tutto il mondo. Diventando uno dei fenomeni giovanili di maggior seguito di sempre. Non necessariamente fautore di tatuaggi in faccia o comportamenti estremi ma nuovo meta linguaggio con le variabili adattate ai luoghi geografici. Che si sviluppa esclusivamente sul web, veloce, immediato. Che non ha bisogno di tour in locali, prove incessanti in cantina, strumentazioni complesse ed economicamente onerose.

Usi e abusi In Italia la trap arriva a metà degli anni Dieci e si può fare idealmente coincidere con il successo dell’esordio di Sfera Ebbasta con XDVR, inizialmente distribuito in download gratuito e solo successivamente pubblicato dall’etichetta di Marracash in una riedizione dove compare il brano Ciny in cui offre uno spaccato della periferia da cui viene, Cinisello Balsamo. Il tutto corredato da liriche con riferimenti chiari all’uso di droghe, dalla marijuana all’abuso della codeina. È il disco che lancia il talento del produttore Charlie Charles, factotum della scena trap nostrana, dietro ai primi successi di Ghali (uno dei personaggi più interessanti, latore di messaggi e testi più profondi e concreti), Tedua, Izi. E che è riuscito, in poco tempo, partendo da una condizione di totale autogestione, a diventare l’artefice di una vittoria al Festival di Sanremo, dove nel 2018 ha trionfato Mahmood con Soldi, grazie anche alla sua produzione. La Dark Polo Gang è la punta di diamante della scena romana. Anche loro escono autoprodotti, con una propria etichetta e un produttore alle spalle, stretto collaboratore e coetaneo del gruppo, Sick Luke. Nel 2015 il primo album viene, anche in questo caso, distribuito gratuitamente. Anomali nel porsi in modo sfrontato, esaltando il lusso, il danaro, ostentando ricchezza, sfacciataggine e disprezzo per povertà e umiltà, e atteggiamento sempre unpolitically correct, attirandosi le ire e le critiche di molti rapper e trapper. Non a caso non avranno alcun problema ad abbracciare una major. Assimilabile al fenomeno trap, solo per vicinanza elettiva ma mai effettivamente parte integrante della scena, c’è il periodo degli esordi di Achille Lauro, ormai traghettato ad un successo trasversale e musicalmente orientato in ben altre direzioni. Non dimenticando uno dei personaggi più estremi, provocatori e controversi come Young Signorino, cialtrone per molti, genio per (pochi) altri ma che, come buona parte dei trapper, non passa inosservato.
Dato significativo è la pressoché totale assenza, perlomeno in Italia, di importanti nomi femminili, a testimonianza di una scena non necessariamente considerabile misogina ma sicuramente poco incline a dare spazio a personaggi non maschili. E infine occorre sottolineare come in questo ambito sia fiorita la prima generazione di musicisti figli di immigrati, nati o cresciuti in Italia, da Ghali a Mahmood a Laioung.
La trap è il fenomeno più significativo in ambito musicale negli ultimi anni, testimonianza di un cambiamento epocale che ha modificato per sempre la modalità di fruizione della musica. Piaccia o meno. Agenzia X ha da poco pubblicato un libro di UFPT, Trap. Storie distopiche di un futuro assente, importante e basilare per chi vuole cogliere gli aspetti sociali, culturali e artistici del movimento. Contiene spunti essenziali per comprendere ciò che sta accadendo, in ambito strettamente musicale e (sotto) culturale. Chiamale sottoculture giovanili ed è curioso di comprenderne le evoluzioni e i cambiamenti farebbe bene a provare a capirne di più. Anche grazie a questo libro.

di a.ba.

www.tomtomrock.it, 1° marzo 2020, UFPT e il suo racconto ad ampio respiro sulla trap

Già da mo’: YouTube Killed The Tv Stars. Andirivieni, qui e ora: canali di successo, trucchi per le riprese, ottimizzazioni video, promozioni sui social-media. Scorciatoie necessarie? Calma, non è ancora detta l’ultima. Fragori istantanei con tanto di trucco e parrucco, piercing, corpi tatuati. Maori in Occidente?. Liriche bisognose della massificazione (out of the ghetto), allenamenti ed esercizi campionati, refrain dove mettere dentro il più possibile. Dall’esterno: valutare e non giudicare affinché sguardi e ascolti abbiano a che fare con il mare mosso delle contraddizioni. Giovani tra individualismi e collettivi, sberleffo alla “retromania” che sta invadendo pop, rock, persino il cosiddetto cantautorato/bandautorato. In Trap. Storie distopiche di un futuro assente di UFPT (Agenzia X, pp.167, euro 14) si trovano più radici. Tempi remoti, ascese e declini. Johnny Lydon, il punk, che mixa se stesso con Afrika Bambaataa, ex “guerriero della notte” e poi esponente di spicco della pacifista Zulu Nation. Oppure, fratelli coltelli divenuti fratelli gemelli: punk-funk. Titoli emblematici: We Are All Prostitutes, singolo del Pop Group. E la Gang Of Four: ricordando Andy Gill, recentemente scomparso. Walk This Way dove Aerosmith e Run DMC facevano comunella. Giorni nostri: Vinicio Capossela e Young Signorino in +Peste: scatti umorali e creativi, “cellule dormienti”.

Chi è UFPT
UFPT, che firma il libro, è un giovane produttore, dj, diplomato in musica elettronica al Conservatorio Cherubini di Firenze e soprattutto meticoloso indagatore perfettamente a suo agio nel districarsi fra oggettistica e lavori a divenire, tanto che azzarda: “Siamo in crisi: se non altro abbiamo trovato la colonna sonora perfetta”.
Attitudini sequenziali e dove adesso c’è un elemento in più da prendere in considerazione. Sono o non sono sinonimi ricerca del consenso e precipitosa ricerca del successo? Approdi: un’isola dei sogni dove convivono picchi di genio e cadute stilistiche. Software craccati, spiragli neo-millenial, digitalizzazioni a macchia d’olio. Trap come nuova proto (sub) cultura. Non è l’ennesima etichettatura musicale da condannare o in cui finire infatuati. Sono nuove forme di linguaggi. Che ad alcuni provocano disgusto: ecco uno dei perché i trapper hanno già vinto. Quali scandali? No problem: successe così anche agli urlatori a Sanremo, ai complessi di capelloni, all’arrivo del punk, al sovraccarico dei bpm techno-disco-rave. La trap che sfida se stessa spingendosi in possibili afrofuturismi (come coniugare Mama Africa con chi inventò la bottiglietta del Campari), che si propaganda attraverso i mutamenti urbanistici, diviene declamazione monologante. Interpretazione linguistica spalmata per il mondo, slang (neo-dialetti ?!?!) che si insinuano tra decodifiche territoriali e fisicità terrestri. Trap- House ma anche Crack-House (Atlanta Scene e pure Memphis) dove capita di ascoltare: “vuoi sapere qualcosa in più sul rap?, prima regola se è reale, non è solo un contratto discografico, è una trappola”.
Ed allora, la trap come elemento transitorio, esaltazione periferica, logica progettuale, intenta a creare un nuovi personaggi “vendibili”. E in Italia? Mixtape tra l’essere contro-culturale e inaspettato mainstream. Centri sociali con staffette generazionali, case discografiche che vogliono investire su musicisti dai vestiti larghi, storytelling alla ricerca di nuove appartenenze geografiche, schermature sul quotidiano. Agorà tra l’Io e il Noi, sul muretto, nella cameretta, pronti ad entrare in scena. Tavola rotonda su sfoggi estetici, utilizzi tecnologici di massa, Mahmood che vince a Sanremo, giovani con la cittadinanza italiana ma figli di immigrati, nuove linfe. Drughi, parchetti, WhatsApp, desiderio di rivalsa, nuovi lasciti, grigi agglomerati urbani, lunghe ed insopportabili attese se risiedi in provincia.

Il futuro e non futuro della trap
La trap è efficace “perché sempre sul pezzo”, almeno dal 1998. Vibrazioni, mescolare, distruggere, ricostruire. Sampling come predisposizioni di pensieri-attack, grido che è percezione. Princess Nokia in “Morphine”, 2017: “La gente pensa che la mia vita sia puro divertimento, ma in realtà è solitaria, non c’è nessuno che possa salvarmi o consolarmi… uso i miei soldi come una coperta e mi ci avvolgo quando mi sento sola”. Sembra roba old new-wave, roba da The Cure. Dunque la trap come questione aperta, imprevedibile nelle sue modalità d’uso. Uno spintone al deja-vu e all’auto-censura. All’interno: atti anti-discriminatori, misoginia, binarizzazioni, turbo-proletariato, messaggi costruttivi, ambiguità sparse. Tanto che risulta curiosa la postfazione di Stefano Di Trapani che inizia così: “Che futuro ha la trap? La risposta è: “Nessuno”. È abbastanza ovvio poiché non è un genere nato dalla speranza in qualcosa che arriverà, ma dall’incartarsi su un discorso “alla giornata, del qui e ora, del riuscire adesso a costo di bruciarsi”. E a concludere: “Bombardamento a tappeto dei sensi. Non ci capisci più nulla: ma il bello della trap è proprio questo. Nel momento in cui finirà, forse non ce ne renderemo conto e saremo già andati oltre o forse (più probabile) si ritornerà indietro. Pensando di essere nel futuro, ovviamente”. Suggestivo inserto fotografico con luoghi e volti: il centro sociale milanese Macao, periferie metropolitane, Noyz Narcos, Kaos One, Fabri Fibra, Capo Plaza, Trap House e scuole di elite in Usa. Ulteriori testimonianze tra classi sociali in frantumazione, artisti felpati ed incappucciati ma con lo sguardo all’insù, sberleffo all’impantanata retorica del “come eravamo”. E che, piuttosto, a maggior ragione pongono la domanda sul “come saremo”.

di Massimo Pirotta

tonyface.blogspot.com, 18 febbraio 2020 Trap

La TRAP è il fenomeno più significativo in ambito musicale negli ultimi anni. Piaccia o meno. La Trap è l'espressione della youth culture con il maggior bacino di utenza di sempre. Grazie al digitale e alla tecnologia (con cui è facile produrre canzoni) si è espansa in ogni angolo del mondo. È musica volatile, destinata ad esaurirsi in pochissimo tempo, in continuo cambiamento, al 100% digitale, che non subirà mai il feticismo del collezionista affamato di ristampe. È la testimonianza di un cambiamento epocale che ha modificato per sempre la modalità di fruizione della musica. "La quantità ha distrutto la qualità, l'artigianato è morto." Questo libro per Agenzia X è importante e basilare per chi vuole cogliere gli aspetti sociali e culturali del fenomeno TRAP. Contiene spunti essenziali per comprendere ciò che sta accadendo, in ambito strettamente musicale e (sotto) culturale. Chi ama le sotto culture ed è curioso di comprenderne le evoluzioni e i cambiamenti farebbe bene a provare a capirne di più.

di tonyface

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