http://storiadialtrestorie.wordpress.com, 17 maggio 2012Suonare il paese prima che cada
Era quasi peggio: ne parlavano tutti, io stesso potevo ammettere che stesse funzionando, eppure quando incontravo mio padre gli raccontavo tutto, i mille concerti, il videoclip, l’intervista in radio. Lui, sempre concretissimo, domandava: “Sì, ma ci vivi?” Si cambia musica.O almeno ci si prova. A descrivere il mutamento che oggi “minaccia” da vicino il mondo delle sette note italiane, soprattutto quelle giovani, è Andrea Scarabelli. Il giornalista non si affida a un asettico saggio per descrivere le dinamiche di una nuova scena ma decide di fare parlare i suoi protagonisti, artisti indipendenti, lontani dal grande carrozzone dello showbiz ma vicini al sentire di un pubblico sempre più numeroso e affezionato. Una riflessione attraversa come un filo rosso il libro: se il mercato discografico tradizionale pare non trovare soluzioni alla sua parabola in picchiata, le band emergenti, prive di mezzi e cariche di una furiosa e incazzata determinazione, avanzano destreggiandosi tra nuovi media e un marketing quasi completamente autoprodotto.Le piazze non sono più vuote e mute come recitavano Le luci della centrale elettrica. Nomi prima sommersi e ora alle porte di un successo che, valicati i confini locali, è approdato a quelli nazionali: sono Dente, Vasco Brondi, Enrico Gabrielli, Baustelle, Massimo Volume e tanti altri. Il libro raccoglie dodici racconti orali, variegati, disomogenei e liberi: biografie nostalgiche, chiacchierate informali, storie di mondi privati, beffardi strali politici, divertenti sdrammatizzazioni, narrazioni avvolte da atmosfere rarefatte e allucinate. Sono voci di approdi casuali alla musica, di lavori improbabili, di concerti al limite del sostenibile e di mesi a sbarcare il lunario. Scarabelli apre uno squarcio attraverso mondi musicali e umani diversi che cantano la stessa precarietà, la stessa rabbia, una società bucherellata, frammentata e violentata. Involontari agenti del cambiamento si muovono come torrenti, prima lenti, poi impetuosi e infine distruttivi.
Dietro di sé lasciano le macerie di un decennio carico di niente che appartenesse loro e si trovano davanti a un paesaggio desolato, soli, con la forza degli occhi per vedere, quella degli strumenti per urlare e quella della voce per descrivere. Cantanti e musicisti che “rovistando tra i futuri più probabili vogliono solo un futuro inverosimile”, suonare il paese prima che cada. In un momento in cui la musica sta affrontando una rivoluzione interna questo libro sa raccontare i retroscena, farci conoscere più da vicino i protagonisti sia per la loro storia sia per la scrittura, ovvero una modalità di comunicazione diversa da quella dei testi delle canzoni. Una lettura senz’altro, volontariamente, poco organica e organizzata ma che ci regala una dimensione diversa dei musicisti perché scelta da loro, sia per argomento che per registro, e non guidata come accade in un’usuale intervista. Da non sottovalutare il lavoro di Scarabelli che di fronte a tanti mondi diversi è riuscito a trovare una galassia unica.
Dietro di sé lasciano le macerie di un decennio carico di niente che appartenesse loro e si trovano davanti a un paesaggio desolato, soli, con la forza degli occhi per vedere, quella degli strumenti per urlare e quella della voce per descrivere. Cantanti e musicisti che “rovistando tra i futuri più probabili vogliono solo un futuro inverosimile”, suonare il paese prima che cada. In un momento in cui la musica sta affrontando una rivoluzione interna questo libro sa raccontare i retroscena, farci conoscere più da vicino i protagonisti sia per la loro storia sia per la scrittura, ovvero una modalità di comunicazione diversa da quella dei testi delle canzoni. Una lettura senz’altro, volontariamente, poco organica e organizzata ma che ci regala una dimensione diversa dei musicisti perché scelta da loro, sia per argomento che per registro, e non guidata come accade in un’usuale intervista. Da non sottovalutare il lavoro di Scarabelli che di fronte a tanti mondi diversi è riuscito a trovare una galassia unica.
http://thegreatcomplottoradio.weebly.com, 6 aprile 2012Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero
Se gli anni zero vi hanno riempito l’ipod di mp3 e gli scaffali di cd, questo libro vi potrebbe interessare.
Cosa ti spinge in un banchetto con tanti titoli a prenderne uno in particolare?
Tante possono essere le risposte, in questo caso il motivo dell’acquisto riguarda indiscutibilmente l’argomento: la musica degli anni zero.
Una questione personale.
Negli anni zero ho iniziato a vivere diversamente la musica ed ero davvero curiosa di sapere cosa ne dicevano quelli che avevano suonato (e suonano) le note a palla sparate nelle mie orecchie.
Quello che molti racconti mettono in luce è il cambiamento rispetto agli anni novanta, non solo per chi, come me, ascolta, ma anche per chi fa la musica.
Ci sono opinioni discordanti a riguardo.
Il racconto di Francesco Dragona dei Ministri ci porta tra le burrasche delle piccole band indipendenti che tengono duro nonostante il mare di attacchi da tutti i fronti: dallo scoraggiamento personale al poco entusiasmo dei famigliari, ai pirati del circuito dei locali. Non si delinea certo un quadro roseo, anche se brilla l’esperienza di Udine, in cui hanno aperto il concerto dei Coldplay.
Per rimpallare il discorso su un aspetto nuovo e positivo degli anni zero, riporto alcune frasi di Enrico Gabrielli: “Dieci anni fa si era più legati a una attitudine musicale, ora è tutto intercambiabile, o comunque non dipende strettamente dalla musica, ma piuttosto da interessi individuali, e questo è il riflesso della fruizione attraverso il web. Secondo me è ottimo”. Anche secondo me.
Credo che in Italia si siano sentiti in modo importante gli effetti della diffusione del web, a partire proprio dagli anni zero. Un po’ per un fisiologico ritardo e resistenza verso le innovazioni che si verifica in Italia in ogni campo, un po’ per lo stesso sviluppo in senso “sociale” che ha avuto la rete con il web 2.0 (social network, blog, messanger/chat, personalizzazione...).
Gli anni novanta sono serviti per prendere confidenza con il mezzo, con gli anni zero si è partiti. Continuiamo a leggere Gabrielli: “Internet ha dato una spallata meravigliosa alle grandi strutture, ha creato dei vuoti di potere mostruosi, è stupendo. Le major sono sparite, ormai totalmente fallimentari. [...] I grossi discografici, si sa, sono responsabili di tantissimi errori, troppi”. Sì, è stupendo.
Non credo che la major siano così defunte, mi piacerebbe, ma non è ancora il momento di festeggiare. Un bell’approfondimento sull’argomento lo trovate in appendice: Rountable, riflessioni di Enrico Veronese e Federico Savini.
Il tema è forte e unico, ma i panorami che vi verranno aperti sono diversi. C’è chi nella Londra dei rave ci ha sguazzato (Meg) e chi invece dalla City ’90 è rimasto deluso “dopo tre mesi non avevo incontrato una sola persona che suonasse. Sai che c’è? Domani torno a casa, le persone con cui devo lavorare magari sono lì” (Massimo Pupillo).
C’è chi ha battuto mille strade della musica, suonando in mille progetti seguendo contemporaneamente, su diversi fronti, più stili (Enrico Gabrielli). C’è chi ha creduto profondamente nel suo progetto, lo ha fatto nascere e ha voluto ed ottenuto con fatica la visibilità che meritava (Fracesco Bianconi).
Avrete anche lo sguardo dall’altra parte del palco, quello dietro al microfono sulle vostre teste, quando urlate una canzone durante un live, magari in mezzo alle gomitate del pogo: “Il pubblico che seguiva gli esordi del Il Teatro degli orrori all’inizio era quello dei One dimensional man, ma poi in pochissimo tempo abbiamo visto l’età media dei partecipanti abbassarsi vertiginosamente. Adesso molti dei nostri spettatori sono adolescenti, e questa è una cosa bellissima, perché è quella l’età in cui le canzoni possono spingere davvero ad agire” (Capovilla).
Quando parlo del potere della rete intendo anche questo. Non c’è più bisogno che tuo fratello maggiore o il cugino eccentrico ti passi i dischi, ora puoi sentire quello di cui hai sete con un click. La diffusione di strumenti per navigare il web ha avuto un fortissimo incremento negli ultimi 10 anni, anche grazie agli smartphone, che hanno permesso di bypassare i vari pc-mac-notebook ecc.
Credo che se oggi succede che alla re-union (dopo 20 anni) dei Peggio punx, i ragazzini di 15 anni cantano tutte le canzoni a memoria e si debba replicare lo spettacolo due volte nella serata, perché l’affluenza di pubblico non permette a tutti di entrare, il merito sia anche della rete.
“È in atto un passaggio, una trasmissione” dice Clementi, che parla anche di una “grossa forza d’azione dei musicisti”.
Ora agli inizi degli anni ’10 siamo in un momento in cui ancora qualcosa deve mutare.
Quello che colpisce è il fermento positivo di questa scena musicale contro il panorama grigio e per lo più indifferente del paese in cui avviene tutto questo.
Che stia cadendo davvero il paese?
Ne riparleremo, con altri libri.
di Silvia BelloCosa ti spinge in un banchetto con tanti titoli a prenderne uno in particolare?
Tante possono essere le risposte, in questo caso il motivo dell’acquisto riguarda indiscutibilmente l’argomento: la musica degli anni zero.
Una questione personale.
Negli anni zero ho iniziato a vivere diversamente la musica ed ero davvero curiosa di sapere cosa ne dicevano quelli che avevano suonato (e suonano) le note a palla sparate nelle mie orecchie.
Quello che molti racconti mettono in luce è il cambiamento rispetto agli anni novanta, non solo per chi, come me, ascolta, ma anche per chi fa la musica.
Ci sono opinioni discordanti a riguardo.
Il racconto di Francesco Dragona dei Ministri ci porta tra le burrasche delle piccole band indipendenti che tengono duro nonostante il mare di attacchi da tutti i fronti: dallo scoraggiamento personale al poco entusiasmo dei famigliari, ai pirati del circuito dei locali. Non si delinea certo un quadro roseo, anche se brilla l’esperienza di Udine, in cui hanno aperto il concerto dei Coldplay.
Per rimpallare il discorso su un aspetto nuovo e positivo degli anni zero, riporto alcune frasi di Enrico Gabrielli: “Dieci anni fa si era più legati a una attitudine musicale, ora è tutto intercambiabile, o comunque non dipende strettamente dalla musica, ma piuttosto da interessi individuali, e questo è il riflesso della fruizione attraverso il web. Secondo me è ottimo”. Anche secondo me.
Credo che in Italia si siano sentiti in modo importante gli effetti della diffusione del web, a partire proprio dagli anni zero. Un po’ per un fisiologico ritardo e resistenza verso le innovazioni che si verifica in Italia in ogni campo, un po’ per lo stesso sviluppo in senso “sociale” che ha avuto la rete con il web 2.0 (social network, blog, messanger/chat, personalizzazione...).
Gli anni novanta sono serviti per prendere confidenza con il mezzo, con gli anni zero si è partiti. Continuiamo a leggere Gabrielli: “Internet ha dato una spallata meravigliosa alle grandi strutture, ha creato dei vuoti di potere mostruosi, è stupendo. Le major sono sparite, ormai totalmente fallimentari. [...] I grossi discografici, si sa, sono responsabili di tantissimi errori, troppi”. Sì, è stupendo.
Non credo che la major siano così defunte, mi piacerebbe, ma non è ancora il momento di festeggiare. Un bell’approfondimento sull’argomento lo trovate in appendice: Rountable, riflessioni di Enrico Veronese e Federico Savini.
Il tema è forte e unico, ma i panorami che vi verranno aperti sono diversi. C’è chi nella Londra dei rave ci ha sguazzato (Meg) e chi invece dalla City ’90 è rimasto deluso “dopo tre mesi non avevo incontrato una sola persona che suonasse. Sai che c’è? Domani torno a casa, le persone con cui devo lavorare magari sono lì” (Massimo Pupillo).
C’è chi ha battuto mille strade della musica, suonando in mille progetti seguendo contemporaneamente, su diversi fronti, più stili (Enrico Gabrielli). C’è chi ha creduto profondamente nel suo progetto, lo ha fatto nascere e ha voluto ed ottenuto con fatica la visibilità che meritava (Fracesco Bianconi).
Avrete anche lo sguardo dall’altra parte del palco, quello dietro al microfono sulle vostre teste, quando urlate una canzone durante un live, magari in mezzo alle gomitate del pogo: “Il pubblico che seguiva gli esordi del Il Teatro degli orrori all’inizio era quello dei One dimensional man, ma poi in pochissimo tempo abbiamo visto l’età media dei partecipanti abbassarsi vertiginosamente. Adesso molti dei nostri spettatori sono adolescenti, e questa è una cosa bellissima, perché è quella l’età in cui le canzoni possono spingere davvero ad agire” (Capovilla).
Quando parlo del potere della rete intendo anche questo. Non c’è più bisogno che tuo fratello maggiore o il cugino eccentrico ti passi i dischi, ora puoi sentire quello di cui hai sete con un click. La diffusione di strumenti per navigare il web ha avuto un fortissimo incremento negli ultimi 10 anni, anche grazie agli smartphone, che hanno permesso di bypassare i vari pc-mac-notebook ecc.
Credo che se oggi succede che alla re-union (dopo 20 anni) dei Peggio punx, i ragazzini di 15 anni cantano tutte le canzoni a memoria e si debba replicare lo spettacolo due volte nella serata, perché l’affluenza di pubblico non permette a tutti di entrare, il merito sia anche della rete.
“È in atto un passaggio, una trasmissione” dice Clementi, che parla anche di una “grossa forza d’azione dei musicisti”.
Ora agli inizi degli anni ’10 siamo in un momento in cui ancora qualcosa deve mutare.
Quello che colpisce è il fermento positivo di questa scena musicale contro il panorama grigio e per lo più indifferente del paese in cui avviene tutto questo.
Che stia cadendo davvero il paese?
Ne riparleremo, con altri libri.
www.autautpisa.it, 29 gennaio 2012Suonare il paese prima che cada
Il paese cade, inesorabile, sotto i colpi della crisi, della finanza, degli scioperi dei tir che bloccano l’approvvigionamento merci dei supermercati e dei benzinai. Ma mentre cade, qualcuno suona, continua a suonare, e non i classici valzer, quelli che vennero suonati mentre il Titanic colava a picco per cercare di smorzare il panico, no, qualcuno suona il paese reale, suona la sua caduta, prima che avvenga lo schianto. Questo è il tema di Suonare il paese prima che cada, un libro uscito a giugno 2011, e che fa piacere leggere.
C’è un panorama dentro, molteplici storie, alcune interessanti, altre meno, comunque un tentativo di fare il punto su quanto è successo negli anni ’00 nella scena musicale italiana, intendiamo la scena indie, come è sbagliato chiamarla.
Se negli anni ’90 l’hip hop italiano ha dominato la scena underground, negli anni ’00 la capacità di incidere nell’immaginario e nei bisogni di molti giovani di ascoltare musica che racconti qualcosa è stata fatta propria da Vasco Brondi o dal Teatro degli Orrori, a seconda dei casi. Fare un primo bilancio, per capire cosa è stato e “Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero” è un’esigenza diffusa appunto, dalle Luci della centrale elettrica a molti altri. Lo è stato per gli Afterhours, nel loro progetto “Il paese è reale”, lo è stato per i Tre allegri ragazzi morti, che con Enrico Molteni hanno lanciato il progetto più riuscito nella scena delle etichette indipendenti: “La Tempesta dischi”.
La Tempesta è il vero fenomeno degli ultimi anni, uno spartiacque, un’unione tra artisti per riuscire a sopravvivere in un mercato discografico che cade più velocemente del paese e tentare di sopravvivere degnamente, per quanto possibile. Un’etichetta che è quasi un collettivo, fatto di musicisti che si occupano di tutto, produzione, booking, promozione sui social network e mille altre menate. Come recita la canzone dei Tre allegri ragazzi morti: “dopo la tempesta niente sarà uguale”.
Questo libro parla di alcuni di questi artisti, partendo dall’esperienza dello Slam X, festival musicale andato in scena al Conchetta a Milano. Scarabelli, il curatore del volume, intervista questi artisti che fanno parte di una “non scena”, che hanno stili diversi, basti pensare a un Dente rispetto a Massimo Pupillo degli ZU. In comune hanno poco, principalmente il fatto di fare il duro lavoro del musicista in Italia in anni ingrati, in cui spesso il compito si svolge per la gloria, almeno se non si seguono i canoni prettamente commerciali imposti dalle major.
Ma a dire il vero, la maggior parte di questi artisti possono anche far cagare, puoi odiarli proprio, specialmente quelli dall’attitudine punk snob, di chi non sa suonare ma suona lo stesso, perchè ha bisogno di esprimersi, e questo bisogno lo traduce in canzonette con tre accordi di chitarra smielense, come il peggior Battisti. E vorresti gridarglielo in faccia: “E ce lo caghi che se un artista...”.
Quello che c’è di apprezzabile, almeno per chi scrive, è che taluni te li ascolti quando vuoi sentire buona musica, gente che sa suonare proprio, altri quando hai bisogno che qualcuno ti racconti qualcosa, una storia, che ti faccia sentire che non sei solo, che quello che vivi non è una tua suggestione di merda, ma è un sentire condiviso. Certo se riesci a trovare chi fa entrambi, hai fatto bingo, ma non puoi avere sempre fortuna, e nel caso scegli, a seconda della giornata. Per questo chi scrive ascolta gli Uochi Toki così come il Teatro degli orrori, ma si è concesso pure un concerto di Vasco Brondi.
Poi c’è pure chi non ha da raccontarti un cazzo e suona tre accordi in croce, ma fa musica orecchiabile e improntata al ribellismo generico, quello del “mimportaunasega” io sono un giovane artista bohemienne, un decadentista, sono un dannato e disincantato, e tutto mi fa cagare, ma lì allora chiuso il discorso, lasci che se li ascolti la tua amica, quella che ascolta ancora Simon and Garfunkel.
Ma ho sviato, il libro è bello, parla di cose serie, di come certi artisti sono emersi e di come riescono a stare a galla, nonostante il mercato musicale non faccia sconti, e per il resto “de gustibus”. E c’è da dire che diverse persone si fanno il culo peso, sui furgoncini ogni week end a farsi il giro dello stivale per chiedere la paghetta della nonna a fine concerto. Per cui il minimo che puoi fare è “anche se per te non funziona ... rispettane l’aroma”. E chiudo qui, con questa citazione degli OTR, giusto per dire che anche ascoltarsi l’hip hop anni ’90 a volte aiuta.
di VinzC’è un panorama dentro, molteplici storie, alcune interessanti, altre meno, comunque un tentativo di fare il punto su quanto è successo negli anni ’00 nella scena musicale italiana, intendiamo la scena indie, come è sbagliato chiamarla.
Se negli anni ’90 l’hip hop italiano ha dominato la scena underground, negli anni ’00 la capacità di incidere nell’immaginario e nei bisogni di molti giovani di ascoltare musica che racconti qualcosa è stata fatta propria da Vasco Brondi o dal Teatro degli Orrori, a seconda dei casi. Fare un primo bilancio, per capire cosa è stato e “Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero” è un’esigenza diffusa appunto, dalle Luci della centrale elettrica a molti altri. Lo è stato per gli Afterhours, nel loro progetto “Il paese è reale”, lo è stato per i Tre allegri ragazzi morti, che con Enrico Molteni hanno lanciato il progetto più riuscito nella scena delle etichette indipendenti: “La Tempesta dischi”.
La Tempesta è il vero fenomeno degli ultimi anni, uno spartiacque, un’unione tra artisti per riuscire a sopravvivere in un mercato discografico che cade più velocemente del paese e tentare di sopravvivere degnamente, per quanto possibile. Un’etichetta che è quasi un collettivo, fatto di musicisti che si occupano di tutto, produzione, booking, promozione sui social network e mille altre menate. Come recita la canzone dei Tre allegri ragazzi morti: “dopo la tempesta niente sarà uguale”.
Questo libro parla di alcuni di questi artisti, partendo dall’esperienza dello Slam X, festival musicale andato in scena al Conchetta a Milano. Scarabelli, il curatore del volume, intervista questi artisti che fanno parte di una “non scena”, che hanno stili diversi, basti pensare a un Dente rispetto a Massimo Pupillo degli ZU. In comune hanno poco, principalmente il fatto di fare il duro lavoro del musicista in Italia in anni ingrati, in cui spesso il compito si svolge per la gloria, almeno se non si seguono i canoni prettamente commerciali imposti dalle major.
Ma a dire il vero, la maggior parte di questi artisti possono anche far cagare, puoi odiarli proprio, specialmente quelli dall’attitudine punk snob, di chi non sa suonare ma suona lo stesso, perchè ha bisogno di esprimersi, e questo bisogno lo traduce in canzonette con tre accordi di chitarra smielense, come il peggior Battisti. E vorresti gridarglielo in faccia: “E ce lo caghi che se un artista...”.
Quello che c’è di apprezzabile, almeno per chi scrive, è che taluni te li ascolti quando vuoi sentire buona musica, gente che sa suonare proprio, altri quando hai bisogno che qualcuno ti racconti qualcosa, una storia, che ti faccia sentire che non sei solo, che quello che vivi non è una tua suggestione di merda, ma è un sentire condiviso. Certo se riesci a trovare chi fa entrambi, hai fatto bingo, ma non puoi avere sempre fortuna, e nel caso scegli, a seconda della giornata. Per questo chi scrive ascolta gli Uochi Toki così come il Teatro degli orrori, ma si è concesso pure un concerto di Vasco Brondi.
Poi c’è pure chi non ha da raccontarti un cazzo e suona tre accordi in croce, ma fa musica orecchiabile e improntata al ribellismo generico, quello del “mimportaunasega” io sono un giovane artista bohemienne, un decadentista, sono un dannato e disincantato, e tutto mi fa cagare, ma lì allora chiuso il discorso, lasci che se li ascolti la tua amica, quella che ascolta ancora Simon and Garfunkel.
Ma ho sviato, il libro è bello, parla di cose serie, di come certi artisti sono emersi e di come riescono a stare a galla, nonostante il mercato musicale non faccia sconti, e per il resto “de gustibus”. E c’è da dire che diverse persone si fanno il culo peso, sui furgoncini ogni week end a farsi il giro dello stivale per chiedere la paghetta della nonna a fine concerto. Per cui il minimo che puoi fare è “anche se per te non funziona ... rispettane l’aroma”. E chiudo qui, con questa citazione degli OTR, giusto per dire che anche ascoltarsi l’hip hop anni ’90 a volte aiuta.
www.articolotre.com, 30 novembre 2011Il nuovo libro di Agenzia X prova ad analizzare la nuova leva musicale italiana
Esce Suonare il paese prima che cada e non so cosa mettermi. Così si potrebbe sintetizzare, parafrasando, l’uscita del libro guidato da Capitan Majakovskij, ossia quel Pierpaolo Capovilla (Teatro degli Orrori) di cui oramai le nuove generazioni non sanno fare a meno. Sotto la regia del ventottenne Andrea Scarabelli.
Prima di scrivere qualsiasi cosa, una digressione sanremese credo sia doverosa. Il raffronto discografico con Il Paese è Reale è tangibile. A dispetto delle più ovvie critiche però, credo che gli Afterhours abbiano solcato all’epoca il palco dell’Ariston più che dignitosamente; non limitandosi a ritornare a ciò che ormai non erano più, dimostrando quello che Manuel e soci erano nel 2009: vittime e carnefici di quella cover degli Area che fu loro nel 2004 e che ha sancito una svolta nella loro produzione fin’ora che ne scriviamo; ma anche imbolsiti da una dialettica percorsa in lungo e in largo nel corso degli ultimi venti anni. Ma se pensiamo ai Pooh, che per carriera li doppiano e a mezza via già erano messi peggio, c’è solo da esserne orgogliosi e speranzosi. Chiusa parentesi.
Il libro edito da Agenzia X è pragmatico: dodici artisti (Antolini, Bianconi, Brondi, Capovilla, Clementi, Collini, Dragogna, Gabrielli, Meg, Molteni, Pupillo, Tiffany) per parlare apertamente di questi fantomatici Anni Zero. Per aprirsi e uscire dal confine del solito pubblico. E per finire di rompere definitivamente le scatole a chi ne sente parlare da un lustro. Non un libro canonico ma una “compilation” con dentro inediti percorsi biografici di band diverse tra loro che, come tante altre e anche meglio di loro, rappresentano un’alternativa alla solita minestra. Il paese è reale, e proprio come quella canzone il libro è un manifesto di intenti: diffondere (anche attraverso la falsariga del “saggio” economico e culturale) ciò che nella musica italiana sembra non esistere. Il talento di emeriti sconosciuti come Zen Circus, Mariposa, Simona Gretchen, il Torquemada, Fuzz Orchestra, Be Forest, I Camillas, Craxi, Gioacchino Turù o, che so, A Toys Orchestra e Iosonouncane.
Ma qui c’è spazio soprattutto per gente come Mimì Clementi, che di storia della musica italiana ne ha vista e fatta un (bel) po’. Tutto il resto è gente, comunque, che macina concerti, shakera idee e trova nella discografia da Anni Zero una Linea Artistica ricorrendo anche al compromesso. Passino Vasco Brondi che l’idioma se l’è inventato (“anni zero”, appunto), Pierpaolo Capovilla (che ormai se s’arresta un minuto si riempe di bolle), Enrico Molteni che indirettamente (attraverso la prolifica produzione della sua etichetta, La Tempesta) c’entra effettivamente qualcosa; da Dente a Beatrice Antolini, da Federico Dragogna dei Ministi a Francesco Bianconi dei Baustelle, da Meg dei 99 Posse a Max Collini degli OfflagaDiscoPax, a Massimo Pupillo degli ZU, a Tying Tiffany e lo stesso Clementi dei Massimo Volume, si tratta per lo più di volti che ce l’hanno fatta e ora si autocelebrano. Giustamente? Lo lasciamo decidere a voi.
Ci risiamo. Già in passato avevano fatto qualcosa i Linea 77, per il video de La Nuova Musica Italiana, dove l’antifona (come i nomi chiamati in causa) era, bene o male, la stessa. Resta la tristezza nell’osservare l’unica cosa osservabile, ad aver un minimo l’occhio lungo: come la “lezioncina”, se così la vogliamo chiamare, venga sempre fatta da chi non ha certo problemi con il mutuo da pagare, dai paraculi e dai falliti. E’ bellissimo, infatti, constatare amaramente come a darci lezione di vita musicale sia chi, a un dato momento, ha preferito lasciarsi schiacciare dagli ingranaggi del business musicale: dal contratto con una multinazionale alle pacche sulle spalle a Jovanotti, dai sorrisoni su Mtv ai tour truffaldini, passando dalla comparsata televisiva in contesti impropri a chi sa quali altri compromessi taciuti. Ciascuno è libero di far ciò che meglio crede, ma stupiesce, a questo punto, l’assenza di quell’inarrestabile banca dati di Marco Morgan Castoldi. Dall’alto del suo contratto con Sky e delle interviste per Vanity Fair.
Il fatto è che l’autore Scarabelli e complici non sembrano in cattiva fede, tanto che nessuno ha il coraggio di attaccarli perchè nessuno in Italia si aspetta più realmente tanto la critica quanto il colpo di reni. Per quello tocca andare all’estero o pescare i dischi di gente alla quale operazioni simili neanche le propongono. Gente fortunatamente lontana dal circuito degli studenti fuori-sede e dei violoncelli sboroni dopo un solo disco. Del resto se in altre nazioni si fanno compilation per dire come votare alle elezioni, noi preferiamo ancora filosofeggiare alla matriciana, confessandoci di non essere ancora in grando di dare un senso a questa storia. Proprio perchè non sappiamo (ancora) come prenderla. E lì, nel fondo del barile e del libro, mentre restiamo a grattarci la testa su quanto letto, giace la tristezza. Da qualsiasi punto la si guardi. Passi anche la citata buona fede, o il tanto paterno “i miei figli non abbiano da passar quel che ho passato io”.
di Giorgio MoltisantiPrima di scrivere qualsiasi cosa, una digressione sanremese credo sia doverosa. Il raffronto discografico con Il Paese è Reale è tangibile. A dispetto delle più ovvie critiche però, credo che gli Afterhours abbiano solcato all’epoca il palco dell’Ariston più che dignitosamente; non limitandosi a ritornare a ciò che ormai non erano più, dimostrando quello che Manuel e soci erano nel 2009: vittime e carnefici di quella cover degli Area che fu loro nel 2004 e che ha sancito una svolta nella loro produzione fin’ora che ne scriviamo; ma anche imbolsiti da una dialettica percorsa in lungo e in largo nel corso degli ultimi venti anni. Ma se pensiamo ai Pooh, che per carriera li doppiano e a mezza via già erano messi peggio, c’è solo da esserne orgogliosi e speranzosi. Chiusa parentesi.
Il libro edito da Agenzia X è pragmatico: dodici artisti (Antolini, Bianconi, Brondi, Capovilla, Clementi, Collini, Dragogna, Gabrielli, Meg, Molteni, Pupillo, Tiffany) per parlare apertamente di questi fantomatici Anni Zero. Per aprirsi e uscire dal confine del solito pubblico. E per finire di rompere definitivamente le scatole a chi ne sente parlare da un lustro. Non un libro canonico ma una “compilation” con dentro inediti percorsi biografici di band diverse tra loro che, come tante altre e anche meglio di loro, rappresentano un’alternativa alla solita minestra. Il paese è reale, e proprio come quella canzone il libro è un manifesto di intenti: diffondere (anche attraverso la falsariga del “saggio” economico e culturale) ciò che nella musica italiana sembra non esistere. Il talento di emeriti sconosciuti come Zen Circus, Mariposa, Simona Gretchen, il Torquemada, Fuzz Orchestra, Be Forest, I Camillas, Craxi, Gioacchino Turù o, che so, A Toys Orchestra e Iosonouncane.
Ma qui c’è spazio soprattutto per gente come Mimì Clementi, che di storia della musica italiana ne ha vista e fatta un (bel) po’. Tutto il resto è gente, comunque, che macina concerti, shakera idee e trova nella discografia da Anni Zero una Linea Artistica ricorrendo anche al compromesso. Passino Vasco Brondi che l’idioma se l’è inventato (“anni zero”, appunto), Pierpaolo Capovilla (che ormai se s’arresta un minuto si riempe di bolle), Enrico Molteni che indirettamente (attraverso la prolifica produzione della sua etichetta, La Tempesta) c’entra effettivamente qualcosa; da Dente a Beatrice Antolini, da Federico Dragogna dei Ministi a Francesco Bianconi dei Baustelle, da Meg dei 99 Posse a Max Collini degli OfflagaDiscoPax, a Massimo Pupillo degli ZU, a Tying Tiffany e lo stesso Clementi dei Massimo Volume, si tratta per lo più di volti che ce l’hanno fatta e ora si autocelebrano. Giustamente? Lo lasciamo decidere a voi.
Ci risiamo. Già in passato avevano fatto qualcosa i Linea 77, per il video de La Nuova Musica Italiana, dove l’antifona (come i nomi chiamati in causa) era, bene o male, la stessa. Resta la tristezza nell’osservare l’unica cosa osservabile, ad aver un minimo l’occhio lungo: come la “lezioncina”, se così la vogliamo chiamare, venga sempre fatta da chi non ha certo problemi con il mutuo da pagare, dai paraculi e dai falliti. E’ bellissimo, infatti, constatare amaramente come a darci lezione di vita musicale sia chi, a un dato momento, ha preferito lasciarsi schiacciare dagli ingranaggi del business musicale: dal contratto con una multinazionale alle pacche sulle spalle a Jovanotti, dai sorrisoni su Mtv ai tour truffaldini, passando dalla comparsata televisiva in contesti impropri a chi sa quali altri compromessi taciuti. Ciascuno è libero di far ciò che meglio crede, ma stupiesce, a questo punto, l’assenza di quell’inarrestabile banca dati di Marco Morgan Castoldi. Dall’alto del suo contratto con Sky e delle interviste per Vanity Fair.
Il fatto è che l’autore Scarabelli e complici non sembrano in cattiva fede, tanto che nessuno ha il coraggio di attaccarli perchè nessuno in Italia si aspetta più realmente tanto la critica quanto il colpo di reni. Per quello tocca andare all’estero o pescare i dischi di gente alla quale operazioni simili neanche le propongono. Gente fortunatamente lontana dal circuito degli studenti fuori-sede e dei violoncelli sboroni dopo un solo disco. Del resto se in altre nazioni si fanno compilation per dire come votare alle elezioni, noi preferiamo ancora filosofeggiare alla matriciana, confessandoci di non essere ancora in grando di dare un senso a questa storia. Proprio perchè non sappiamo (ancora) come prenderla. E lì, nel fondo del barile e del libro, mentre restiamo a grattarci la testa su quanto letto, giace la tristezza. Da qualsiasi punto la si guardi. Passi anche la citata buona fede, o il tanto paterno “i miei figli non abbiano da passar quel che ho passato io”.
http://radiocage.it, 20 novembre 2011Suonare il paese prima che cada
Qualcosa sta cambiando. Mentre ci cadono in testa i cocci dei governi che si avvicendano, lasciando danni permanenti e buste di plastica svolazzanti nei quartieri dormitorio delle nostre città rovinate, una specie di rivoluzione pacifica nata dal basso, ha aperto un varco nella colata di cemento che da tempo impediva di respirare. Nell’ultimo decennio un pubblico trasversale ha accompagnato sulla nuova scena musicale nuovi artisti, bravi, giovani e con nuove idee, indicandoci delle alternative possibili. Il tutto mentre una pioggia di simboli continuava a cadere senza soste, la precarietà vissuta non solo in ambito lavorativo ma che come un virus invadeva la quotidianità fino a diventare un vero e proprio stile di vita. Con i mercati colpiti e affondati dalle varie crisi economiche, qualcuno ha trovato il coraggio di aprire delle crepe a colpi di chitarra e molti altri disposti a fare chilometri a bordo di furgoni anni ottanta per assistere ai loro concerti. Questa massa non si è arresa, non è rimasta con le mani in mano a guardare spegnersi la candela del futuro e non è fuggita nei ristoranti di qualche altro paese. Questi cantanti, questi uomini e donne, magazzinieri e spazzini, impiegati e farmacisti hanno continuato a credere che qualcosa era possibile fare, prima di arrendersi completamente. Nei locali di tutta Italia, da nord a sud alla faccia di improbabili secessioni hanno deciso di suonare il paese prima che cada. Un libro che profuma di realtà, una realtà che spesso non è piacevole da vivere né da sfogliare sui quotidiani imbrattati con violenze di ogni genere ma che tra una riga e l’altra sembra sussurrare all’orecchio che questi anni zero porteranno verso un grande cambiamento. E adesso non rimane che suonarlo insieme. Tutti insieme. A cura di Andrea Scarabelli, edito da Agenzia X, al suo interno ci sono dodici racconti orali dei principali interpreti della scena musicale indipendente italiana. Introduzione di Emidio Clementi dei Massimo Volume: “È importante essere disposti a sporcarsi le mani”. Una frase che starebbe bene dentro una preghiera.
di Gabriele BaroniAlias, supplemento a “il manifesto”, 12 novembre 2011Mutazioni punk nel paese che cade
Andrea Scarabelli (1983), scrittore, editore, giornalista, in Suonare il paese prima che cada fotografa il movimento che nell’Italia degli “anni zero” ha avanzato una proposta musicale policroma, alternativa e vendibile. Nell’introduzioe Emidio Clementi usa la metafora del percorso dei Massimo Volume per decretare che “gli anni zero sono stati un decennio di crisi, di morte e resurrezione”. Le altre esperienze, tra cui quella di Francesco Bianconi, Vasco Brondi, Pierpaolo Capovilla, Max Collini, Dente, Meg, Enrico Molteni, e Tying Tiffany confermano questa sintesi. La vena polemica verso la stampa è un vecchio ritornello, la condanna a vivere in un paese provinciale non viene da un passato prossimo, ma il concerto dal vivo che ha rimpiazzato l’importanza del disco, i nuovi circoli Arci che hanno ripreso il fermento dei centri sociali degli anni Novanta, la mancanza di risposte delle strutture all’impasse del mercato musicale, l’affermazione definitiva del cantato in italiano anche nei locali sotterranei e il ritorno prepotente del cantautorato, possono essere considerate novità caratteristiche. Un ritratto corale di un decennio che a caldo sembra alquanto definito: forse c’è più interazione tra artisti a prescindere dai generi? Le note di copertina dicono che “è emersa una nuova scena (…) refrattaria alle categorie e seguita da un pubblico trasversale”.
di Luca Grinicellahttp://breakfastjumpers.blogspot.com, 4 novembre 2011Suonare il paese prima che cada – Intervista ad Andrea Scarabelli
Nell’Italia che rischia quotidianamente di colare a picco, vi è una nuova generazione di musicisti, povera di mezzi, ma ricca di determinazione e di talento musicale e poetico, che non ha aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato con ogni forza a suonare il paese prima che cada. Andrea Scarabelli ha scelto di dare la parola proprio a loro. Io l’ho incontrato per fargli qualche domanda…
Dove ti trovavi quando è nata l’idea del libro? Mi sembra di aver capito che non fosse preventivato, ma che, per una serie di circostanze, l’argomento si è imposto alla tua attenzione... Ci vuoi raccontare?
Sì, tendenzialmente mi occupo di narrativa, anche all’interno della stessa Agenzia X, però dal 2009 organizzo insieme a Marco Philopat il festival Slam X, che mette in relazione musicisti e scrittori, tentando contaminazioni... (a proposito, la prossima edizione sarà sabato 26 novembre in Cox 18, save the date!). Ho quindi pensato che qualcosa di simile potesse funzionare anche in un libro. Ma il vero detonatore del progetto è stata l’intervista che ho fatto a Enrico Gabrielli per Carmilla, in occasione dell’uscita di Der Maurer: si è trasformata in un vero e proprio racconto, in cui si toccavano tanti argomenti interessanti... talmente interessanti da spingermi a realizzarne altre!
Parlaci della scelta del titolo Suonare il paese prima che cada.
Mentre sto scrivendo, l’Ansa telegrafa la lentissima e putrescente agonia berlusconiana, che di certo non ci libererà del berlusconismo né ci salverà, ma in qualche modo mi sembra un buon aggancio per spiegarmi: il paese, il nostro, sembra sempre a un passo dal baratro, e il nostro presente in procinto di precipitare. Eppure, la caduta vera non arriva mai. Oppure, se si vuole, si sta cadendo ma nel vuoto cosmico, non c’è schianto. E suonare il paese vuol dire sia (in senso retrò) dargli un po’ di botte, di colpi ben assestati, sia portare la propria musica in lungo e in largo, di provincia in provincia. E farlo subito, senza aspettare tempi migliori.
Anche se ne parli ripetutamente, qual è, a tuo parere, la differenza più eclatante tra gli anni 90 e gli anni Zero, anche in virtù di quello che personalmente hai vissuto?
Il mio vissuto conta poco, perché per motivi anagrafici (sono del 1983) negli anni novanta andavo a vedere pochi concerti e i miei ascolti erano più esterofili... Le novità principali del decennio 00 sono, in ordine sparso: ruolo massiccio di internet, crollo delle major, live come unica forma di sussistenza per gli artisti, maggior accesso all’autoproduzione e all’autopromozione, effetto shuffle da iPad e una sbornia musicale quotidiana fatta di infiniti streaming e dowload di musica che poi ascoltiamo pochissimo. Altro? Forse minor distanza tra pubblico e artista, recupero di stili e linguaggi precedenti, pubblico più trasversale (es. chi va a vedere Dente magari ascolta anche il Teatro degli Orrori e gli Aucan). E un uso della lingua italiana meno astratta.
C’è qualcuna delle storie che vengono raccontate che ti ha appassionato particolarmente? C’è qualcuno degli artisti a cui ti senti più vicino (e non solo musicalmente)?
Tutte mi hanno stupito per la loro ricchezza e sincerità, davvero. Forse sento vicina l’attitudine di cui parla Massimo Pupillo all’indipendenza “che si paga in lavoro” di Agenzia X...
Ad oggi... cosa vorresti aggiungere alla tua prima edizione?
In molti mi hanno chiesto perché mancassero i Verdena. Osservazione pertinente, dato che ho scelto i musicisti in base all’impatto che hanno avuto sull’immaginario dell’ultimo decennio, e i Verdena l’hanno certamente segnato a fondo. Purtroppo, mentre realizzavo il libro, non avevo idea che stessero per pubblicare Wow – a dire il vero, con grande ignoranza, pensavo fossero proprio fermi – quindi non li ho contattati.
C’è qualche altro/a musicista che avresti voluto nel libro, ma proprio non è stato possibile?
A parte quanto detto per i Verdena, non ho ricevuto neanche un rifiuto: chi ho contattato ha partecipato.
Cosa serve perchè i musicisti risollevino il paese prima che cada?
Purtroppo dubito che i soli musicisti possano risollevarlo. Però è importante che l’azione creativa e artistica si faccia politica (in senso letterale), e che questa azione sia inclusiva e non esclusiva. Se non basta per evitare crolli, sono ottimi presupposti per tentare ricostruzioni.
A quale lettore hai pensato mentre scrivevi?
Sembrerà banale, ma proprio a un lettore qualsiasi, non necessariamente appassionato di musica. Credo infatti che questo sia un libro sul cercare una propria strada, prima di tutto, e sui sacrifici necessari per intraprenderla, senza nemmeno sapere dove porterà.
La canzone che può meglio riassumere quello che scrivi... il declino di questo paese?
Romina Power, Il ballo del Qua Qua
La canzone che può dare invece speranza a questo paese?
Stornelli d’esilio
di LucyVaNPeLTDove ti trovavi quando è nata l’idea del libro? Mi sembra di aver capito che non fosse preventivato, ma che, per una serie di circostanze, l’argomento si è imposto alla tua attenzione... Ci vuoi raccontare?
Sì, tendenzialmente mi occupo di narrativa, anche all’interno della stessa Agenzia X, però dal 2009 organizzo insieme a Marco Philopat il festival Slam X, che mette in relazione musicisti e scrittori, tentando contaminazioni... (a proposito, la prossima edizione sarà sabato 26 novembre in Cox 18, save the date!). Ho quindi pensato che qualcosa di simile potesse funzionare anche in un libro. Ma il vero detonatore del progetto è stata l’intervista che ho fatto a Enrico Gabrielli per Carmilla, in occasione dell’uscita di Der Maurer: si è trasformata in un vero e proprio racconto, in cui si toccavano tanti argomenti interessanti... talmente interessanti da spingermi a realizzarne altre!
Parlaci della scelta del titolo Suonare il paese prima che cada.
Mentre sto scrivendo, l’Ansa telegrafa la lentissima e putrescente agonia berlusconiana, che di certo non ci libererà del berlusconismo né ci salverà, ma in qualche modo mi sembra un buon aggancio per spiegarmi: il paese, il nostro, sembra sempre a un passo dal baratro, e il nostro presente in procinto di precipitare. Eppure, la caduta vera non arriva mai. Oppure, se si vuole, si sta cadendo ma nel vuoto cosmico, non c’è schianto. E suonare il paese vuol dire sia (in senso retrò) dargli un po’ di botte, di colpi ben assestati, sia portare la propria musica in lungo e in largo, di provincia in provincia. E farlo subito, senza aspettare tempi migliori.
Anche se ne parli ripetutamente, qual è, a tuo parere, la differenza più eclatante tra gli anni 90 e gli anni Zero, anche in virtù di quello che personalmente hai vissuto?
Il mio vissuto conta poco, perché per motivi anagrafici (sono del 1983) negli anni novanta andavo a vedere pochi concerti e i miei ascolti erano più esterofili... Le novità principali del decennio 00 sono, in ordine sparso: ruolo massiccio di internet, crollo delle major, live come unica forma di sussistenza per gli artisti, maggior accesso all’autoproduzione e all’autopromozione, effetto shuffle da iPad e una sbornia musicale quotidiana fatta di infiniti streaming e dowload di musica che poi ascoltiamo pochissimo. Altro? Forse minor distanza tra pubblico e artista, recupero di stili e linguaggi precedenti, pubblico più trasversale (es. chi va a vedere Dente magari ascolta anche il Teatro degli Orrori e gli Aucan). E un uso della lingua italiana meno astratta.
C’è qualcuna delle storie che vengono raccontate che ti ha appassionato particolarmente? C’è qualcuno degli artisti a cui ti senti più vicino (e non solo musicalmente)?
Tutte mi hanno stupito per la loro ricchezza e sincerità, davvero. Forse sento vicina l’attitudine di cui parla Massimo Pupillo all’indipendenza “che si paga in lavoro” di Agenzia X...
Ad oggi... cosa vorresti aggiungere alla tua prima edizione?
In molti mi hanno chiesto perché mancassero i Verdena. Osservazione pertinente, dato che ho scelto i musicisti in base all’impatto che hanno avuto sull’immaginario dell’ultimo decennio, e i Verdena l’hanno certamente segnato a fondo. Purtroppo, mentre realizzavo il libro, non avevo idea che stessero per pubblicare Wow – a dire il vero, con grande ignoranza, pensavo fossero proprio fermi – quindi non li ho contattati.
C’è qualche altro/a musicista che avresti voluto nel libro, ma proprio non è stato possibile?
A parte quanto detto per i Verdena, non ho ricevuto neanche un rifiuto: chi ho contattato ha partecipato.
Cosa serve perchè i musicisti risollevino il paese prima che cada?
Purtroppo dubito che i soli musicisti possano risollevarlo. Però è importante che l’azione creativa e artistica si faccia politica (in senso letterale), e che questa azione sia inclusiva e non esclusiva. Se non basta per evitare crolli, sono ottimi presupposti per tentare ricostruzioni.
A quale lettore hai pensato mentre scrivevi?
Sembrerà banale, ma proprio a un lettore qualsiasi, non necessariamente appassionato di musica. Credo infatti che questo sia un libro sul cercare una propria strada, prima di tutto, e sui sacrifici necessari per intraprenderla, senza nemmeno sapere dove porterà.
La canzone che può meglio riassumere quello che scrivi... il declino di questo paese?
Romina Power, Il ballo del Qua Qua
La canzone che può dare invece speranza a questo paese?
Stornelli d’esilio
www.martemagazine.it, 10 ottobre 2011Scarabelli: Suonare il paese prima che cada
È il libro che non ti aspetti. Non è un saggio e forse neanche un best seller, ma in 157 pagine (appendice compresa) questo libro, a cura di Andrea Scarabelli ed edito da Agenzia X, racconta l’ultimo decennio musicale attraverso la penna e i ricordi dei protagonisti. Quasi un libro corale.
12 artisti, 12 figure fondamentali della scena indie italiana o meglio come scrive lo stesso Scarabelli (che ci tiene a specificare di non essere un esperto né tantomeno un giornalista musicale) “…nomi che sono stati protagonisti indiscutibili di questo decennio”.
Ed eccoli uno ad uno che attraverso chiacchiere, autocelebrazioni, biografie, ricordi, disegnano il compianti anni ’90, quando potevi ancora sognare di essere un musicista, quando le orecchie e lo spirito erano pronti alla rivoluzione musicale.
A Emidio Clementi (Massimo Volume) è affidata l’introduzione. Con lui si parla del declino delle major e della titanica presenza del web, che cambia le carte in tavola a chiunque lavori nella musica. E in un mondo in cui tutto sta cambiando c’è qualcosa che ritorna, che viene considerato fondamentale per l’indie italiano, ovvero il cantato in italiano. Un ritorno alle origini.
MassimoPupillo (ZU) ci fa tra-sognare con i suoi racconti, i festival, il mondo, i sacrifici, il suonare gratis in ogni dove per affermare di esistere, puntare alla qualità anche se significa andare contro tutti. Gli Zu,cosmopoliti e combattenti.
Meg e Tying Tiffany sono le rappresentanti femminili degli anni zero: e se la prima ormai concentra le sue energie nell’auto-produzione e nella sua Multiformis, l’altra vive per e di concerti, per il rapporto con il pubblico, per il palco, perché solo nel live esplodi, ti racconti, ti realizzi.
Enrico Gabrielli si racconta come un “operaio di note” cresciuto nel mondo della musica classica e nella militanza dei genitori per il Pci, conoscendo il mondo indie-rock in ritardo, ma recuperando presto il terreno e collaborando con i migliori artisti del panorama.
È sempre la militanza che ha contraddistinto anche Max Collini (Offlaga Disco Pax) , emiliano, adulto, cresciuto a pane e CCCP, dal Pci ai Ds. Dai volantini di sezione ai testi delle sue canzoni.
Per il racconto dei Tre allegri Ragazzi Morti e la storia della “Tempesta” una delle fondamentali etichette discografiche degli anni zero, la penna è quella di Enrico Molteni. Un “collettivo” di artisti che non lavorano su contratti, ma sulla parola e che producono da Canali alle Luci della Centrale Elettrica reinvestendo il tutto nella musica, un ciclo completo e inesauribile di qualità. E quando Vasco Brondi si racconta nel libro di Scarabelli lo fa partendo dai suoi 15 anni (infondo ne ha solo 27) da una band di amici, dal bancone di un bar, da testi scritti per un’ esigenza lirica, e un album, quello che usciva nel 2007 con le Luci che esaudiva i suoi sogni di cantautore e di front man di una rock band.
E poi c’è Capovilla (Teatro degli Orrori), il “ Socialista Lombardiano”. Contrario agli Zucchero e Ramazzotti vari, ricorda i suoi anni ’70, quando quello che ascoltava era il De Gregori del folk studio o Guccini, la Pfm e il Banco del Mutuo soccorso. Quando ogni giorno alla radio passava roba di qualità, quando ogni giorno la musica quella fatta bene era protagonista delle quotidianità. E prende questo insegnamento, lo porta nei nostri tempi e afferma “sono al mondo per cambiarlo”.
E poi ci sono i racconti della provincia. Quelli in cui l’Italia è tutta una provincia come narra Francesco Bianconi. Afferma che l’unico modo per andare avanti e credere nella propria musica, perché c’era un tempo, negli anni ’90, in cui una major, la Warner, corteggiava realtà come i Baustelle, catturata da una musica che si univa al messaggio e a dischi che raccontavano.
Anche Dente è un ragazzo di provincia che trova a Milano lo sprone per realizzarsi. Da studente di un corso di grafica in cui non era bravo, dalle musicassette che registrava da solo a casa per farle sentire ai suoi amici è arrivato alla musica quasi per caso, ma sapendo che era destinato a farlo.
Ed ecco anche Francesco Dragogna (Ministri) che dipinge un quadro generale partendo dalla vita del musicista, della band, del tour. Ed eccoli i problemi di sempre cosi comuni tra gli emergenti e i più noti. Pochi soldi, lavorare ma senza che il lavoro sia riconosciuto. E poi l’Universal, i flop di pubblico…proprio come scrivi lui: “Se porti in giro la tua musica, non sei più quello che l’ha scritta, sei quello che deve interpretarla e soprattutto restituirla”. Interpretare le emozioni del pubblico. Vestirsi dell’abito migliore.
Il libro si conclude con un appendice che sintetizza e racconta il mondo delle Label indipendenti, la crisi discografica, i mySpace e faceBook, i cocci di ieri con i quali costruire il domani della musica. Un libro che ti consola nonostante i temi e che chiunque sia avvezzo al mondo della musica indipendente (artisti emergenti in primis) dovrebbe avere nella sua libreria, quanto meno per sentirsi meno solo.
di Ornella Stagno12 artisti, 12 figure fondamentali della scena indie italiana o meglio come scrive lo stesso Scarabelli (che ci tiene a specificare di non essere un esperto né tantomeno un giornalista musicale) “…nomi che sono stati protagonisti indiscutibili di questo decennio”.
Ed eccoli uno ad uno che attraverso chiacchiere, autocelebrazioni, biografie, ricordi, disegnano il compianti anni ’90, quando potevi ancora sognare di essere un musicista, quando le orecchie e lo spirito erano pronti alla rivoluzione musicale.
A Emidio Clementi (Massimo Volume) è affidata l’introduzione. Con lui si parla del declino delle major e della titanica presenza del web, che cambia le carte in tavola a chiunque lavori nella musica. E in un mondo in cui tutto sta cambiando c’è qualcosa che ritorna, che viene considerato fondamentale per l’indie italiano, ovvero il cantato in italiano. Un ritorno alle origini.
MassimoPupillo (ZU) ci fa tra-sognare con i suoi racconti, i festival, il mondo, i sacrifici, il suonare gratis in ogni dove per affermare di esistere, puntare alla qualità anche se significa andare contro tutti. Gli Zu,cosmopoliti e combattenti.
Meg e Tying Tiffany sono le rappresentanti femminili degli anni zero: e se la prima ormai concentra le sue energie nell’auto-produzione e nella sua Multiformis, l’altra vive per e di concerti, per il rapporto con il pubblico, per il palco, perché solo nel live esplodi, ti racconti, ti realizzi.
Enrico Gabrielli si racconta come un “operaio di note” cresciuto nel mondo della musica classica e nella militanza dei genitori per il Pci, conoscendo il mondo indie-rock in ritardo, ma recuperando presto il terreno e collaborando con i migliori artisti del panorama.
È sempre la militanza che ha contraddistinto anche Max Collini (Offlaga Disco Pax) , emiliano, adulto, cresciuto a pane e CCCP, dal Pci ai Ds. Dai volantini di sezione ai testi delle sue canzoni.
Per il racconto dei Tre allegri Ragazzi Morti e la storia della “Tempesta” una delle fondamentali etichette discografiche degli anni zero, la penna è quella di Enrico Molteni. Un “collettivo” di artisti che non lavorano su contratti, ma sulla parola e che producono da Canali alle Luci della Centrale Elettrica reinvestendo il tutto nella musica, un ciclo completo e inesauribile di qualità. E quando Vasco Brondi si racconta nel libro di Scarabelli lo fa partendo dai suoi 15 anni (infondo ne ha solo 27) da una band di amici, dal bancone di un bar, da testi scritti per un’ esigenza lirica, e un album, quello che usciva nel 2007 con le Luci che esaudiva i suoi sogni di cantautore e di front man di una rock band.
E poi c’è Capovilla (Teatro degli Orrori), il “ Socialista Lombardiano”. Contrario agli Zucchero e Ramazzotti vari, ricorda i suoi anni ’70, quando quello che ascoltava era il De Gregori del folk studio o Guccini, la Pfm e il Banco del Mutuo soccorso. Quando ogni giorno alla radio passava roba di qualità, quando ogni giorno la musica quella fatta bene era protagonista delle quotidianità. E prende questo insegnamento, lo porta nei nostri tempi e afferma “sono al mondo per cambiarlo”.
E poi ci sono i racconti della provincia. Quelli in cui l’Italia è tutta una provincia come narra Francesco Bianconi. Afferma che l’unico modo per andare avanti e credere nella propria musica, perché c’era un tempo, negli anni ’90, in cui una major, la Warner, corteggiava realtà come i Baustelle, catturata da una musica che si univa al messaggio e a dischi che raccontavano.
Anche Dente è un ragazzo di provincia che trova a Milano lo sprone per realizzarsi. Da studente di un corso di grafica in cui non era bravo, dalle musicassette che registrava da solo a casa per farle sentire ai suoi amici è arrivato alla musica quasi per caso, ma sapendo che era destinato a farlo.
Ed ecco anche Francesco Dragogna (Ministri) che dipinge un quadro generale partendo dalla vita del musicista, della band, del tour. Ed eccoli i problemi di sempre cosi comuni tra gli emergenti e i più noti. Pochi soldi, lavorare ma senza che il lavoro sia riconosciuto. E poi l’Universal, i flop di pubblico…proprio come scrivi lui: “Se porti in giro la tua musica, non sei più quello che l’ha scritta, sei quello che deve interpretarla e soprattutto restituirla”. Interpretare le emozioni del pubblico. Vestirsi dell’abito migliore.
Il libro si conclude con un appendice che sintetizza e racconta il mondo delle Label indipendenti, la crisi discografica, i mySpace e faceBook, i cocci di ieri con i quali costruire il domani della musica. Un libro che ti consola nonostante i temi e che chiunque sia avvezzo al mondo della musica indipendente (artisti emergenti in primis) dovrebbe avere nella sua libreria, quanto meno per sentirsi meno solo.
http://www.toylet.it, 21 settembre 2010Suonare il paese prima che cada
Percorsi diversi, talvolta opposti (almeno per come vengono raccontati), che si intrecciano in date, scalette, programmi, cartelloni dopo esser già stati smaterializzati ed affiancati in lettori mp3, in playlist di iTunes.
Suonare il paese prima che cada, come già i palazzi delle etichette o certi negozi di dischi: chi da quasi vent’anni come i TARM e chi da pochissimo, dagli indie delle major come i Ministri e i Baustelle alle major tra gli indie come La Tempesta, dal cantautorato spurio di Dente all’inevitabile andare oltre i confini nazionali degli Zu e Tying Tiffany.
Andrea Scarabelli raccoglie testimonianze di artisti, tra formazione e aneddoti, attraverso dodici firme che si dividono ma non contendono spazio (qui pagine, ma anche megabyte infiniti e palchi differenti), difformi e dissestate tra loro, ché i contributi dati – basta ascoltarli almeno una volta – sono di generi (non solo) musicali diversi, ma di un unico micro(?)cosmo, reso tale da almeno una certezza comune: la forza e il potere delle grosse etichette sono finiti, non hanno di che consacrare, troppo lente per stare autenticamente appresso a come la musica è stata cambiata da internet (come ogni altra cosa), non tanto verso un’ipotetica democrazia quanto per una selezione (più) naturale (inevitabilmente selvaggia), con le bacheche dei propri contatti come nuova e forse unica mtv (senza il peso del maiuscolo).
Il paese: prima che cada, reale, (de)cadente, già caduto, non importa. Pesa di più il sottotitolo, in ogni sua parola – musica dagli anni zero – già finiti e, a questo punto, storicizzati, degni di essere raccontati, con storie prima di tutto di persone che di gruppi, che perduti anche i cd forse diventano necessarie altre fisicità, ora che anche l’ultimo batterio della scena può essere rintracciato senza troppe difficoltà, nonostante sia facile perdersi negli elenchi sempre più fitti di nomi, titoli, etichette; con le testimonianze presenti nel volume, esaurienti ed esaustive (anche se abituati ormai a volerne “sempre di più”), vari e variabili perfetti esempi di libertà che parte dal basso, non solo artistica, adesso che gli anni dieci sono già iniziati da un pezzo.
di Alessandro TavolaSuonare il paese prima che cada, come già i palazzi delle etichette o certi negozi di dischi: chi da quasi vent’anni come i TARM e chi da pochissimo, dagli indie delle major come i Ministri e i Baustelle alle major tra gli indie come La Tempesta, dal cantautorato spurio di Dente all’inevitabile andare oltre i confini nazionali degli Zu e Tying Tiffany.
Andrea Scarabelli raccoglie testimonianze di artisti, tra formazione e aneddoti, attraverso dodici firme che si dividono ma non contendono spazio (qui pagine, ma anche megabyte infiniti e palchi differenti), difformi e dissestate tra loro, ché i contributi dati – basta ascoltarli almeno una volta – sono di generi (non solo) musicali diversi, ma di un unico micro(?)cosmo, reso tale da almeno una certezza comune: la forza e il potere delle grosse etichette sono finiti, non hanno di che consacrare, troppo lente per stare autenticamente appresso a come la musica è stata cambiata da internet (come ogni altra cosa), non tanto verso un’ipotetica democrazia quanto per una selezione (più) naturale (inevitabilmente selvaggia), con le bacheche dei propri contatti come nuova e forse unica mtv (senza il peso del maiuscolo).
Il paese: prima che cada, reale, (de)cadente, già caduto, non importa. Pesa di più il sottotitolo, in ogni sua parola – musica dagli anni zero – già finiti e, a questo punto, storicizzati, degni di essere raccontati, con storie prima di tutto di persone che di gruppi, che perduti anche i cd forse diventano necessarie altre fisicità, ora che anche l’ultimo batterio della scena può essere rintracciato senza troppe difficoltà, nonostante sia facile perdersi negli elenchi sempre più fitti di nomi, titoli, etichette; con le testimonianze presenti nel volume, esaurienti ed esaustive (anche se abituati ormai a volerne “sempre di più”), vari e variabili perfetti esempi di libertà che parte dal basso, non solo artistica, adesso che gli anni dieci sono già iniziati da un pezzo.
http://scrittoriprecari.wordpress.com, 13 settembre 2011Suonare il paese prima che cada
Sceglie un campo minato Andrea Scarabelli con il suo Suonare il paese prima che cada, un focus, un’analisi sulla musica indipendente italiana degli anni zero, il decennio più controverso da Rock around the clock in poi. E Andrea, 28 anni, sceglie di far parlare, in primis, loro, i protagonisti, o almeno una buona rappresentanza della scena indipendente nostrana, che sviluppa una nuova generazione di musicisti, povera di mezzi, ricca di determinazione e di talento musicale e poetico. In un’Italia che rischia di crollare questa nuova generazione di musicisti non ha aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato con ogni forza a suonare il paese prima che cada. L’introduzione è curata da Emidio Clementi, Massimo Volume, uno dei principali esponenti del nuovo panorama indipendente. Subito escono allo scoperto i primi nervi, affermando che, con la grande discografia al tracollo, un futuro sempre più ostaggio di Internet, non si capisce in che modo i musicisti riusciranno a guadagnarsi da vivere, dove anche il mondo delle etichette indipendenti non è chiaro se sia in via di estinzione oppure semplicemente in via di ridefinizione. L’importante è non pretendere di essere solamente artisti, ma occuparsi di distribuzione, produzione, aspetti logistici. Non accettare compromessi con persone spesso incompetenti. Crederci per davvero. Il libro poi prende il volo con undici racconti orali, ricchi di storie di vita vissuta, aneddoti d’infanzia e adolescenza teneri e divertenti, ma anche traumi e le classiche solitudini di chi decide di vivere al di fuori delle omologazioni sociali. Baustelle, Zu, Ministri, Offlaga Disco Pax, Meg, Il teatro degli orrori, Dente, Le luci della centrale elettrica, Tre allegri ragazzi morti, Tying Tiffany, Enrico Gabrielli dei Mariposa e Calibro 35 che narra la bizzarra idea di lanciare il primo lavoro con l’operazione “copia e masterizza”, allo stand del MEI, con tanto di fotocopiatrice e masterizzatore. Ad offerta libera. Chapeau. Salta fuori un altro nervo scoperto del decennio, dove viene a mancare il tentativo di ricerca di filoni, sempre meno legati ad un’attitudine musicale. Tutto è intercambiabile, interconnettibile. Internet ha dato una spallata epocale alle majors, responsabili di troppi errori, di un’irritante miopia, perdendo l’occasione buona per avviare una nuova cultura di management musicale, che possa coesistere con la democratica rete delle reti. Hard disk carichi all’inverosimile di Mp3, che diventano una sorta di blob della storia, frammentando e dematerializzando il concetto di disco. Il risultato è una platea sterminata di giovani neofiti, o semi neofiti, che vedono stimolanti o eccitanti suoni che appaiono subito poco positivi a chi di musica negli anni ne ha masticata davvero tanta. Ma chi può comprare dischi ai giorni nostri? Per lo più la fascia trenta/cinquantenni, vuoi per disponibilità economiche, vuoi per cultura all’oggetto disco. Intanto segnali incoraggianti possono scorgersi: il vinile, il cui funerale è stato tante volte annunciato, segue negli ultimi anni un trend positivo. E non credo sia per un vacuo vezzo vintage. Segnali di speranza ce ne sono e ciò rende ancora più indefinibili gli anni zero. Andrea Scarabelli rende omaggio a questa nuova scena indipendente che è emersa in Italia e lo fa con un libro che scorre senza intoppi, audace nell’intento, con dettagliate discografie, labels, un’appendice che ripercorre la storia della discografia indie italiana dal duemila al duemiladieci. Dichiara onestamente di non essere un giornalista musicale ma raggiunge l’obiettivo. Dopo averlo letto viene voglia di procurarsi subito qualcosa. Abbandonate Youtube e recatevi in un negozio. Si può partire anche con pochi euri, penso alla compilation del tour/progetto di Manuel Agnelli “Il paese è reale”. Ne troverete tanti dei nuovi dispensatori di emozioni che si raccontano in questo Suonare il paese prima che cada.
di Roberto De MarcoRumore, settembre 2011Suonare il paese prima che cada
Un’unica ombra copre il libro del ventottenne Andrea Scarabelli e compare già a pagina 9. Introduzione di Emidio Clementi. Con tutto il rispetto, azzardiamo: quale logica illogica si segue per far fare l’introduzione di un libro sui noughties a chi, in buona sostanza, li ha solo sfiorati? Rischiamo: quella del nome. Già, il Nome. Purtroppo siamo ancora un’italietta in cui è il nome che conta. Bianconi, Brondi, Collini, Dente, Molteni, Gabrielli. Manca soltanto Totti. C’è persino Meg. Per non parlare del nuovo monologo di Pierpaolo Majakovskji già sentito milioni di volte. Ve lo meritate tutto Alberto Sordi, direbbe Moretti con una proprietà di sintesi che però non ci è consentita. Ciascuno è libero di fare ciò che meglio crede, ovvio. Ma stupisce, a questo punto, l’assenza di quell’inarrestabile banca dati d’un Marco “Morgan” Castoldi. Allora perché non i Verdena, che di sicuro più di Tying Tiffany hanno dato a quella musica degli anni zero di cui parla il sottotitolo? Alla fine, nonostante una buona lettura (soprattutto per chi poco legge abitualmente di musica, diciamolo), ma solo a tratti realmente coinvolgente (Enrico Gabrielli e Max Collini ci stupiscono), spiace notare che a parlare siano sempre i soliti e, quasi sempre, questi soliti siano quelli che hanno meno da aggiungere al già noto o al supposto. Calpestando un’aneddotica trita e ritrita che molto spazio lascia ai vostri/nostri dubbi. Mentre dei nuovi heroes di questa generazione X, che magari ci narrerebbero di una realtà più reale, etimologicamente punk, coraggiosamente DIY e meno ingenua o autoreferenziale, non c’è la benché minima traccia. Se non in certe audaci incursioni nell’appendice di Davide Brace, Sandro Giorello, Federico Savini ed Enrico Veronese. Si poteva e doveva esser più temerari. Peccato.
di Giorgio MoltisantiMucchio selvaggio, settembre 2011Musica di carta. Suoni dagli anni zero
Suonare il paese prima che cada prova a tracciare un affresco dell’ultimo decennio di musica in Italia. Anziché optare per il canonico saggio, il curatore Andrea Scarabelli raccoglie i racconti degli stessi protagonisti.È sempre interessante entrare in contatto con le opinioni di chi ha vissuto certe esperienze sulla propria pelle. Scarabelli, che si mantiene di proposito alla larga dal ruolo di giornalista musicale, è bravo nel conferire un taglio epico alla cosiddetta nuova scena italiana. Gli undici artisti chiamati a partecipare sono stati scelti in virtù della capacità di incidere sull’immaginario contemporaneo. Partecipazioni rappresentative, dato che sarebbe impossibile appagare intenti esaustivi: tra gli assenti, basti nominare i Verdena. Suonare il paese prima che dagli anni zero offre così un mix di considerazioni sul presente e ricordi, sia personali sia collettivi. Nell’introduzione Emidio Clementi dei Massimo Volume sottolinea l’importanza del riappropriarsi della nostra lingua, tornata in auge a seguire un periodo in cui sembrava soccombere all’inglese, di pari passo con la necessità di muoversi in ambito indipendente perché “ciò che parte dal basso funziona meglio di quel che viene concesso dall’alto”. I colleghi offrono punti di vista diversi, che trovano terreno d’incontro nel riconoscere varie forme di rivoluzione propagate dalla Rete.
Secondo Meg, che ha imboccato la via dell’autoproduzione con la sua Multiformis, i centri sociali sono stati sostituiti proprio da Internet, che consente di informarsi, divulgare e collaborare a distanza. Enrico Molteni dei Tre Allegri Ragazzi Morti, abituati a imparare la geografia dello Stivale di live in live, testimonia la fortunata avventura de La Tempesta, che ha pubblicato fenomeni come Le Luci della Centrale Elettrica o il Teatro degli Orrori. Eccolo, Vasco Brondi, abile nel coniugare rock e cantautorato dopo essere stato dietro il bancone di un bar: per salvare se stesso, diventare una “microcelebrità” per una nicchia di “stronzi pronti a sparare pareri senza ascoltare niente”. Eccolo, Pierpaolo Capovilla, lieto di ribellarsi per un pubblico di giovanissimi “non c’è comizio paragonabile a una canzone”, “siamo sacerdoti non rockstar”. L’“imprinting politico” ha segnato anche Max Collini degli Offlaga Disco Pax, che è passato dalla militanza nel Pci al rifiuto del Pd, dai Diaframma ai CCCP, dagli appunti a mano ai testi al computer, dalla vittoria al Rock Contest alla registrazione del primo album.
Per Massimo Pupillo degli Zu la chiave di volta per ritagliarsi uno spazio è esibirsi ovunque nel mondo, come se si fosse “in guerra contro tutto e tutti”. L’attitudine combattiva prosegue con Federico Dragogna dei Ministri, che ricerca un senso di comunità e individua un unico obiettivo, che ci si trovi davanti a ventimila o sette persone: “non crollare mai”. “Cane sciolto che non ama i branchi”, Tying Tiffany vede invece nei concerti un’occasione di esplosione liberatoria. Dente constata che ora “i solisti sono predominanti” e ripercorre una “serie di incastri giusti”, indispensabile per emergere a dispetto di “una vita fatta di rinunce”. C’è chi ha raggiunto un successo maggiore, come Francesco Bianconi dei Baustelle: il segreto sta nel rigetto delle cover, nel coraggio di licenziarsi dal posto di lavoro, nella scoperta che la penisola è “tutta una grande provincia”. Dalla classica a un’attività operaia a suon di mattoni in note per Mariposa o Calibro 35, Enrico Gabrielli focalizza una “molecolarizzazione della tendenza, spesso individuale”: dal 2001 al 2010, infatti, non sono affiorate correnti ben precise, tipo il grunge o il britpop dei ’90. Il libro si conclude con un’appendice di Davide Brace, abbastanza caotica e soggettiva nel restituire in sintesi “una storia della discografia indipendente italiana dal 2000 al 2010”.
Non è poi di troppo aiuto la correlata conversazione a più voci con Enrico Veronese, Federico Savini e Sandro Giorello, dove si parla a ruota libera di etichette (Homesleep, Ghost, Trovarobato, Urtovox o Wallace, tra le più rilevanti), riviste specializzate, social network, blog, download selvaggio e crisi del disco. Su una cosa siamo d’accordo: la risposta risiede nella cultura, buona musica compresa. La rifondazione di un paese sovente più reale nelle sue brutture che in altro, può innescarsi soltanto da lì.
di Elena RaugeiSecondo Meg, che ha imboccato la via dell’autoproduzione con la sua Multiformis, i centri sociali sono stati sostituiti proprio da Internet, che consente di informarsi, divulgare e collaborare a distanza. Enrico Molteni dei Tre Allegri Ragazzi Morti, abituati a imparare la geografia dello Stivale di live in live, testimonia la fortunata avventura de La Tempesta, che ha pubblicato fenomeni come Le Luci della Centrale Elettrica o il Teatro degli Orrori. Eccolo, Vasco Brondi, abile nel coniugare rock e cantautorato dopo essere stato dietro il bancone di un bar: per salvare se stesso, diventare una “microcelebrità” per una nicchia di “stronzi pronti a sparare pareri senza ascoltare niente”. Eccolo, Pierpaolo Capovilla, lieto di ribellarsi per un pubblico di giovanissimi “non c’è comizio paragonabile a una canzone”, “siamo sacerdoti non rockstar”. L’“imprinting politico” ha segnato anche Max Collini degli Offlaga Disco Pax, che è passato dalla militanza nel Pci al rifiuto del Pd, dai Diaframma ai CCCP, dagli appunti a mano ai testi al computer, dalla vittoria al Rock Contest alla registrazione del primo album.
Per Massimo Pupillo degli Zu la chiave di volta per ritagliarsi uno spazio è esibirsi ovunque nel mondo, come se si fosse “in guerra contro tutto e tutti”. L’attitudine combattiva prosegue con Federico Dragogna dei Ministri, che ricerca un senso di comunità e individua un unico obiettivo, che ci si trovi davanti a ventimila o sette persone: “non crollare mai”. “Cane sciolto che non ama i branchi”, Tying Tiffany vede invece nei concerti un’occasione di esplosione liberatoria. Dente constata che ora “i solisti sono predominanti” e ripercorre una “serie di incastri giusti”, indispensabile per emergere a dispetto di “una vita fatta di rinunce”. C’è chi ha raggiunto un successo maggiore, come Francesco Bianconi dei Baustelle: il segreto sta nel rigetto delle cover, nel coraggio di licenziarsi dal posto di lavoro, nella scoperta che la penisola è “tutta una grande provincia”. Dalla classica a un’attività operaia a suon di mattoni in note per Mariposa o Calibro 35, Enrico Gabrielli focalizza una “molecolarizzazione della tendenza, spesso individuale”: dal 2001 al 2010, infatti, non sono affiorate correnti ben precise, tipo il grunge o il britpop dei ’90. Il libro si conclude con un’appendice di Davide Brace, abbastanza caotica e soggettiva nel restituire in sintesi “una storia della discografia indipendente italiana dal 2000 al 2010”.
Non è poi di troppo aiuto la correlata conversazione a più voci con Enrico Veronese, Federico Savini e Sandro Giorello, dove si parla a ruota libera di etichette (Homesleep, Ghost, Trovarobato, Urtovox o Wallace, tra le più rilevanti), riviste specializzate, social network, blog, download selvaggio e crisi del disco. Su una cosa siamo d’accordo: la risposta risiede nella cultura, buona musica compresa. La rifondazione di un paese sovente più reale nelle sue brutture che in altro, può innescarsi soltanto da lì.
Blow up, luglio agosto 2011Suonare il paese prima che cada
A leggere il giovane Andrea Scarabelli, siamo cinzialeonescamente “sull’orlo del baaaaratro”. E lo si è sentito ormai tante volte che non ci crede più nessuno, come all’affondamento di Venezia o alla prossima stagione del riscatto juventino. Visto però dalla prospettiva delle musiche indipendenti italiane, il paese rivela energie altrove insospettate che, qualora diventassero inopinata maggioranza – il riferimento a Milano, la città dove opera Agenzia X, non è casuale – saprebbero ribaltare la situazione almeno nel rapporto univoco tra fornitori di input e loro fruitori: dice bene Emidio Clementi nella prefazione, «ci si è accorti che ciò che parte dal basso funziona meglio di quel che viene concesso dall’alto, ed è la gente stessa a richiederlo». Magari fosse sempre così, purtroppo i meccanismi di formazione del consenso sono rimasti intatti da quando Gramsci li teorizzava e i totalitarismi li applicavano, e senza autorizzare cernite antropologiche (ma anche sì) “vogliamoci bene, che è pieno di cover band di Ligabue là fuori”, come scritto in un commento sul web. Ciò non toglie che tra la metà degli anni Novanta e la stagione attuale, il bacino di utenza delle piccole produzioni italiche sia cresciuto in maniera evidente, grazie soprattutto alla Rete che ha espanso al massimo la possibilità di poter diffondere in diretta tali fenomeni ed eliminato qualche passaggio intermedio al development delle band: questo racconta Scarabelli, dalla viva voce dei personaggi, scegliendone dodici di significativi in quanto a importanza e risultati ottenuti. Baustelle, Dente, Enrico Gabrielli, Il Teatro degli Orrori, Le Luci della Centrale Elettrica, Massimo Volume, Meg, Ministri, Offlaga Disco e Pax, Tre Allegri Ragazzi Morti, Tying Tiffany e Zu si sono messi a nudo, raccontando la propria biografia collettiva in prima persona e offrendo il singolare angolo visuale a proposito di ciò che è venuto succedendo a sé e agli altri. Dietro questi iceberg – giusto un paio sindacabili quanto a exploit, al di là del gusto personale – stanno come sappiamo le moltitudini che sgomitano: anche a queste e dedicata l’appendice, curata da Davide “Brace” di Tafuzzy Records, che fa il punto sullo status quo degli anni Duemila o Zero che dir si voglia, iniziando dalla propria esperienza personale – da ascoltatore a label owner – e coinvolgendo in tavola rotonda virtuale tre operatori della comunicazione quali Federico Savini, ben noto a queste pagine, lo scrivente e Sandro Giorello di Rockit. Forse alcuni sprazzi lirici sono ammantati da un romanticismo politico e concettuale appena sopra le righe (“hanno attaccato jack agli amplificatori mentre il cosiddetto primo mondo dichiarava una guerra dietro l’altra, attraversato la penisola alla faccia di presente secessioni”), fatto sta che Suonare il paese prima che cada è un agile, curioso, concreto e inoppugnabile baedeker umanistico e temporale rivolto a chi c’è stato e c’è, agli appassionati manco troppo esterni se si considera che spesso in Italia gli ascoltatori indie sono spesso gli stessi protagonisti a loro modo in altri aspetti del microsistema, e magari fosse sfogliato pure sui tavoli dei “padroni del vapore” nelle major. Certi che è soprattutto per colpa loro – e del calo di desiderio delle masse – che solo uno su mille ce la fa; in quest’ultima ipotesi, alcuni soloni prestati dalla Bocconi all’aziendalismo musicale conoscerebbero una verità impastata di passione, e i casi di scuola – neanche pochi – dimostrerebbero come magari il paese è già caduto (non a caso, di pari passo con l’affermarsi di una coscienza indipendente inversa, quindi proprio dal 1994 circa) ma si continua a suonarlo e a suonargliele lo stesso.
di Enrico VeroneseRadio Capodistria, trasmissione “in orbita”, 24 agosto 2011Intervista ad Andrea Scarabelli
Ascolta l’intervista ad Andrea Scarabelli curatore di Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero
di Ricky Russohttp://spettacoli.tiscali.it, 2 agosto 2011Scarabelli e le storie di creatività resistente in “Suonare il paese prima che cada”
Pochi paesi maltrattano la musica e i musicisti come fa l’Italia. Con un’industria del disco marginale e sempre più asfittica e l’illusione di aver trovato il modo di sopravvivere a colpi di talent show, nel Belpaese chi vuole fare la sua musica deve faticare molto più che all’estero. Per questo, quando la necessità aguzza l’ingegno come vuole il celebre detto, tra le maceria di una discografia legata al formato cd ormai in pieno inabissamento, i musicisti italiani scoprono la necessità ma anche la soddisfazione di diventare totalmente imprenditori di se stessi. Nel senso di investire tempo, energie, soldi e creatività nella realizzazione del proprio progetto. Una dimensione nuova rispetto alla vecchia divisione di ruoli, per cui chi suona pensa a fare i pezzi e a presentarli dal vivo o al produttore di turno, e questi per conto di una etichetta procede a registrare il materiale inedito, dargli la sua impronta, renderlo appetibile per il mercato e poi legare il tutto al lavoro di un manager che fissa i concerti. La quotidianità di tanti artisti di talento che non mollano in tempi di crisi e di major del disco ormai disintegrate, è fatta di registrazioni a casa con software di produzione di qualità sempre maggiore, contatti via social network e Web per promuoversi, lavoro sulla grafica che presenta i concerti che ci si fissa da soli, andando a trattare con promoter e direttori di festival o proprietari di club.
Tutto questo, e molto altro, è raccontato nel libro Suonare il paese prima che cada, scritto da Andrea Scarabelli e pubblicato dalla piccola casa editrice Agenda X. Scarabelli usa le sue pagine come microfono aperto per amplificare le parole di Francesco Bianconi (Baustelle), Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori), Emidio Clementi (Massimo Volume), Max Collini (Offlaga Disco Pax), Dente, Federico Dragogna (Ministri), Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35), Meg, Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti), Massimo Pupillo (Zu), Tying Tiffany. Sono loro a raccontare le loro esperienze di musica fatta prima di tutto come esigenza espressiva in tempi sempre più duri.
Andrea, in una intervista di qualche settimana fa Pierpaolo Capovilla de Il Teatro degli Orrori ci ha detto che doversi occupare di tutto spinge il musicista a lasciarsi alle spalle la zavorra di divismi e nevrosi da successo che non arriva. E lo riavvicina alle sue esigenze creative, ad un rapporto più vero con il pubblico. Che ne pensa?
“Sono d’accordo, nella sostanza dei fatti e nell’ambito della realtà che stiamo vivendo, il ragionamento di Capovilla non fa una piega. Il suo approccio è sempre militante, lo è volutamente, fa parte del suo modo di essere e di esprimersi anche come artista. Quasi tutti i musicisti inclusi nel libro incidono per etichette indipendenti o si sono creati la loro label. Vedi La Tempesta, nata per pubblicare la musica dei Tre Allegri Ragazzi Morti e diventata una comunità musicale di riferimento per moltissime altre band. Ma anche esperienze al confine tra il mondo indipendente e le major, come quella dei Baustelle, terminano con una riflessione di Francesco Bianconi che ammette che oggi non sa fino a che punto abbia senso la permanenza del gruppo in una grossa etichetta discografica. Questo chiude il cerchio”.
A scanso di equivoci: doversi occupare di tanti aspetti, come la promozione, il marketing, la grafica, i rapporti sul Web, i contatti stampa, non toglie energie alla composizione musicale?
“Direi proprio di no. D’altra parte, tranne che agli inizi, anche molti artisti indipendenti hanno il loro booking e un ufficio stampa che li segue. Si tratta di resistere nel frattempo. La differenza la fanno le cifre. Magari una major può investire dieci volte tanto per promuoverti, ma lo fa quasi sempre male, con un danno che ha il sapore della beffa per il musicista in attesa della grande occasione. Tutte queste esperienze umane, poi, entrano nella musica che uno fa, fanno parte del suo racconto. Quindi stimolano la creatività”.
Ma quanti dei musicisti indipendenti da lei interpellati fanno anche un altro lavoro per mantenersi mentre curano il loro progetto?
“Alcuni di loro lo fanno. C’è chi fa il cameriere, chi lavora come agente immobiliare, altri fanno mestieri ancora più semplici, cercando di tenere più tempo possibile a disposizione per l’attività musicale. Ecco perché un musicista dovrebbe pensare soprattutto a fare buona musica, che lo renda soddisfatto. Se poi arriva anche il successo, tanto di guadagnato”.
Per terminare. In che modo è cambiato l’approccio ai testi per descrivere la realtà di oggi, rispetto ai tempi delle grandi scuole cantautoriali dei Tenco, De André, De Gregori eccetera?
“Nel mezzo ci sono stati gli anni Novanta, in cui si è fatta molta sperimentazione con i testi, vedi il cut-up degli Afterhours o i termini ricercati dei Marlene Kuntz. Oggi il linguaggio è molto più diretto, descrittivo, vicino al parlato della gente comune. Nei testi dei musicisti indipendenti di oggi c’è molto presente, pochissimo passato e poco futuro”.
di Cristiano SannaTutto questo, e molto altro, è raccontato nel libro Suonare il paese prima che cada, scritto da Andrea Scarabelli e pubblicato dalla piccola casa editrice Agenda X. Scarabelli usa le sue pagine come microfono aperto per amplificare le parole di Francesco Bianconi (Baustelle), Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori), Emidio Clementi (Massimo Volume), Max Collini (Offlaga Disco Pax), Dente, Federico Dragogna (Ministri), Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35), Meg, Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti), Massimo Pupillo (Zu), Tying Tiffany. Sono loro a raccontare le loro esperienze di musica fatta prima di tutto come esigenza espressiva in tempi sempre più duri.
Andrea, in una intervista di qualche settimana fa Pierpaolo Capovilla de Il Teatro degli Orrori ci ha detto che doversi occupare di tutto spinge il musicista a lasciarsi alle spalle la zavorra di divismi e nevrosi da successo che non arriva. E lo riavvicina alle sue esigenze creative, ad un rapporto più vero con il pubblico. Che ne pensa?
“Sono d’accordo, nella sostanza dei fatti e nell’ambito della realtà che stiamo vivendo, il ragionamento di Capovilla non fa una piega. Il suo approccio è sempre militante, lo è volutamente, fa parte del suo modo di essere e di esprimersi anche come artista. Quasi tutti i musicisti inclusi nel libro incidono per etichette indipendenti o si sono creati la loro label. Vedi La Tempesta, nata per pubblicare la musica dei Tre Allegri Ragazzi Morti e diventata una comunità musicale di riferimento per moltissime altre band. Ma anche esperienze al confine tra il mondo indipendente e le major, come quella dei Baustelle, terminano con una riflessione di Francesco Bianconi che ammette che oggi non sa fino a che punto abbia senso la permanenza del gruppo in una grossa etichetta discografica. Questo chiude il cerchio”.
A scanso di equivoci: doversi occupare di tanti aspetti, come la promozione, il marketing, la grafica, i rapporti sul Web, i contatti stampa, non toglie energie alla composizione musicale?
“Direi proprio di no. D’altra parte, tranne che agli inizi, anche molti artisti indipendenti hanno il loro booking e un ufficio stampa che li segue. Si tratta di resistere nel frattempo. La differenza la fanno le cifre. Magari una major può investire dieci volte tanto per promuoverti, ma lo fa quasi sempre male, con un danno che ha il sapore della beffa per il musicista in attesa della grande occasione. Tutte queste esperienze umane, poi, entrano nella musica che uno fa, fanno parte del suo racconto. Quindi stimolano la creatività”.
Ma quanti dei musicisti indipendenti da lei interpellati fanno anche un altro lavoro per mantenersi mentre curano il loro progetto?
“Alcuni di loro lo fanno. C’è chi fa il cameriere, chi lavora come agente immobiliare, altri fanno mestieri ancora più semplici, cercando di tenere più tempo possibile a disposizione per l’attività musicale. Ecco perché un musicista dovrebbe pensare soprattutto a fare buona musica, che lo renda soddisfatto. Se poi arriva anche il successo, tanto di guadagnato”.
Per terminare. In che modo è cambiato l’approccio ai testi per descrivere la realtà di oggi, rispetto ai tempi delle grandi scuole cantautoriali dei Tenco, De André, De Gregori eccetera?
“Nel mezzo ci sono stati gli anni Novanta, in cui si è fatta molta sperimentazione con i testi, vedi il cut-up degli Afterhours o i termini ricercati dei Marlene Kuntz. Oggi il linguaggio è molto più diretto, descrittivo, vicino al parlato della gente comune. Nei testi dei musicisti indipendenti di oggi c’è molto presente, pochissimo passato e poco futuro”.
www.grazia.it, 15 luglio 2011Suonare il paese: un libro sulla musica che cambia, in Italia
Baustelle, Le Luci della Centrale Elettrica, Dente, Massimo Volume, Tre allegri ragazzi morti. Questi sono solo alcuni dei nomi che compaiono nel libro Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero, uscito da poco per i tipi di Agenzia X di Milano. Ognuno dei gruppi sopra citati fa sentire la propria voce in questo volume immaginato e curato da Andrea Scarabelli. Andrea, nato a Milano nel 1983, scrive e collabora con “Rolling Stone”, “il manifesto”, “Pulp” e altre. Nel 2008 ha pubblicato il libro di docufiction Beautiful. Lo abbiamo incontrato per farci dire qualcosa di più su questo libro.
Di cosa parla Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero?
Si tratta di una serie di racconti in presa diretta, dalla viva voce di alcuni dei protagonisti della nuova musica italiana dell’ultimo decennio. Non è un saggio, sono piuttosto delle istantanee di certi percorsi personali e artistici. Da cui emerge anche una fotografia degli anni zero, in musica ma non solo.
Come hai scelto i vari contributors? Qual è il filo rosso che li lega?
Li ho scelti perché secondo me sono tutti musicisti che hanno avuto un potente impatto sull’immaginario. Le loro canzoni ci sono entrate in testa. Li possiamo amare o disprezzare, ma di sicuro ne abbiamo sentito parlare. Il filo rosso è quello di aver creduto al proprio sogno fino in fondo, anche in un momento in cui fare musica non paga.
Data l’eterogeneità dei personaggi che sei riuscito a mettere insieme, ci dai una definzione di “indipendente”?
In realtà non considero la mia selezione come una rappresentazione della musica “indipendente”. Non mi sembra ci sia una “scena”. Di certo c’è qualcosa che si muove a livello musicale a livelli diversi rispetto agli anni ‘90. Alcuni di questi artisti, per esempio, incidono con delle major. Eppure continuano ad avere il controllo della propria comunicazione e della propria musica più di quanto accadesse in passato. Forse il fatto che non si vendono più dischi e si è costretti a suonare tanto live aiuta!
Difficile fare una media di tutti gli interventi presenti nel tuo libro, ma dal tuo punto di vista, che panorama abbiamo di fronte?
Il panorama è quello che resta dopo un terremoto disastroso. I musicisti esistono tra le macerie dell’industria discografica. Ma, secondo me – e anche secondo loro a quanto hanno scritto – questo non è poi un grande male. La vera sfida per tutti sarà il confronto con internet, ora che le novità si sono sedimentate.
Si respira comunque un’aria un po’ pesante...
In Italia dici? Certo, e il titolo allude proprio a questo. Il nostro paese sembra sempre sul punto di crollare, eppure ci sono persone disposte a impegnarsi (nella musica, ma in tutta cultura) senza aspettare tempi migliori. Il problema è che spesso agiscono ognuno per conto suo, invece di aiutarsi a vicenda. Ma spero che esperimenti come questo libro possano servire anche a smuovere le acque (o le arie).
di Federico BernocchiDi cosa parla Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero?
Si tratta di una serie di racconti in presa diretta, dalla viva voce di alcuni dei protagonisti della nuova musica italiana dell’ultimo decennio. Non è un saggio, sono piuttosto delle istantanee di certi percorsi personali e artistici. Da cui emerge anche una fotografia degli anni zero, in musica ma non solo.
Come hai scelto i vari contributors? Qual è il filo rosso che li lega?
Li ho scelti perché secondo me sono tutti musicisti che hanno avuto un potente impatto sull’immaginario. Le loro canzoni ci sono entrate in testa. Li possiamo amare o disprezzare, ma di sicuro ne abbiamo sentito parlare. Il filo rosso è quello di aver creduto al proprio sogno fino in fondo, anche in un momento in cui fare musica non paga.
Data l’eterogeneità dei personaggi che sei riuscito a mettere insieme, ci dai una definzione di “indipendente”?
In realtà non considero la mia selezione come una rappresentazione della musica “indipendente”. Non mi sembra ci sia una “scena”. Di certo c’è qualcosa che si muove a livello musicale a livelli diversi rispetto agli anni ‘90. Alcuni di questi artisti, per esempio, incidono con delle major. Eppure continuano ad avere il controllo della propria comunicazione e della propria musica più di quanto accadesse in passato. Forse il fatto che non si vendono più dischi e si è costretti a suonare tanto live aiuta!
Difficile fare una media di tutti gli interventi presenti nel tuo libro, ma dal tuo punto di vista, che panorama abbiamo di fronte?
Il panorama è quello che resta dopo un terremoto disastroso. I musicisti esistono tra le macerie dell’industria discografica. Ma, secondo me – e anche secondo loro a quanto hanno scritto – questo non è poi un grande male. La vera sfida per tutti sarà il confronto con internet, ora che le novità si sono sedimentate.
Si respira comunque un’aria un po’ pesante...
In Italia dici? Certo, e il titolo allude proprio a questo. Il nostro paese sembra sempre sul punto di crollare, eppure ci sono persone disposte a impegnarsi (nella musica, ma in tutta cultura) senza aspettare tempi migliori. Il problema è che spesso agiscono ognuno per conto suo, invece di aiutarsi a vicenda. Ma spero che esperimenti come questo libro possano servire anche a smuovere le acque (o le arie).
Radio Città Fujiko, 12 luglio 2011Intervista ad Andrea Scarabelli
Ascolta l’intervista ad Andrea Scarabelli curatore di Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero
www.sentireascoltare.com, giugno 2011Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero
Fare una ricognizione dei suoni italiani degli anni Zero non è semplice. Riprendere in mano quello che è successo nella mappa spaziotemporale che ha visto sgretolarsi le certezze di fine secolo è un’operazione che pochi hanno tentato di fare, sia perché troppo laboriosa, sia perché fa capolino il rischio di una potenziale frammentazione (o come viene qui ben definita “la molecolarizzazione delle tendenze”): concentrarsi su isole poco rappresentative di un magma in continua evoluzione, mai fermo.
L’idea di Scarabelli parte dall’esperienza del festival milanese Slam X nelle due edizioni 2009 e 2010. Il curatore di quell’evento (insieme a Marco Philopat) ha preso in mano la consapevolezza di aver visto le voci più rappresentative di una “non scena” che continua imperterrita ad esprimere idee nuove e soluzioni musicali che si alienano dai canali delle radio o del mainstream, coniando ogni giorno irrinunciabili trame underground. Cercando comunque di coinvolgere nella narrazione del passato prossimo musicale italiano i suoi più rappresentativi protagonisti, il curatore lascia carta bianca agli stessi artisti e ci propone una raccolta delle loro opinioni, storie, documenti che tracciano linee critiche, percorsi mentali e viaggi lungo tutto lo stivale per tentare di capire cosa sta succedendo nel mondo della “nuova” (?) canzone d’autore italiana.
Un viaggio necessario alimentato dai ricordi di Emidio Clementi (‘padrino’ della scena con i suoi Massimo Volume), Massimo Pupillo (Zu), Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35), Tying Tiffany, Enrico Molteni (Tre Allegri Ragazzi Morti), Dente, Francesco Bianconi (Baustelle), Meg, Federico Dragogna (Ministri), Pierpaolo Capovilla (Il Teatro degli Orrori), Max Collini (Offlaga Disco Pax), Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica).
Percorsi e provenienze diverse, chi suona nella banda di paese, chi lascia un corso di grafica, chi ha scritto libri, chi alle major ci arriva per passaparola inattesi, chi frequenta i centri sociali e chi li evita, chi prova in un garage con qualche compagno di scuola. Le comunanze tra le voci così disparate sono una completa mobilità sullo stivale (a dispetto di un presunto regionalismo che proprio negli anni Zero prende il sopravvento con le istanze xenofobe della Lega Nord), il riconoscimento della superiorità del canale internet, sia esso lo spot sulla pagina personale o il download pirata dell’album, la difficoltà (o l’impossibilità) di accettare compromessi e la condizione di completa precarietà che si risolve nell’impiego instabile e perennemente a tempo determinato.
Il libro fotografa una parentesi ancora aperta sul suono dello stivale, il Bel Paese che in molti (forse tutti) i testi degli artisti qui presenti è dipinto con toni foschi, qualche volta romantici, in fondo però propositivi, mai apocalittici e nemmeno integrati. Centosessanta pagine, concluse con una breve “Storia della discografia indipendente italiana dal 2000 al 2010”, curata da Davide Brace con interventi dei giornalisti musicali Enrico Veronese, Federico Savini e Sandro Giorello da cui partire per scandagliare senza troppe velleità accademiche un mondo che riesce ancor oggi a fornirci una posizione estetica (e per questo più che mai politica) sul nostro tempo. Adatto sia agli specialisti che agli ascoltatori occasionali.
di Marco BraggionL’idea di Scarabelli parte dall’esperienza del festival milanese Slam X nelle due edizioni 2009 e 2010. Il curatore di quell’evento (insieme a Marco Philopat) ha preso in mano la consapevolezza di aver visto le voci più rappresentative di una “non scena” che continua imperterrita ad esprimere idee nuove e soluzioni musicali che si alienano dai canali delle radio o del mainstream, coniando ogni giorno irrinunciabili trame underground. Cercando comunque di coinvolgere nella narrazione del passato prossimo musicale italiano i suoi più rappresentativi protagonisti, il curatore lascia carta bianca agli stessi artisti e ci propone una raccolta delle loro opinioni, storie, documenti che tracciano linee critiche, percorsi mentali e viaggi lungo tutto lo stivale per tentare di capire cosa sta succedendo nel mondo della “nuova” (?) canzone d’autore italiana.
Un viaggio necessario alimentato dai ricordi di Emidio Clementi (‘padrino’ della scena con i suoi Massimo Volume), Massimo Pupillo (Zu), Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35), Tying Tiffany, Enrico Molteni (Tre Allegri Ragazzi Morti), Dente, Francesco Bianconi (Baustelle), Meg, Federico Dragogna (Ministri), Pierpaolo Capovilla (Il Teatro degli Orrori), Max Collini (Offlaga Disco Pax), Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica).
Percorsi e provenienze diverse, chi suona nella banda di paese, chi lascia un corso di grafica, chi ha scritto libri, chi alle major ci arriva per passaparola inattesi, chi frequenta i centri sociali e chi li evita, chi prova in un garage con qualche compagno di scuola. Le comunanze tra le voci così disparate sono una completa mobilità sullo stivale (a dispetto di un presunto regionalismo che proprio negli anni Zero prende il sopravvento con le istanze xenofobe della Lega Nord), il riconoscimento della superiorità del canale internet, sia esso lo spot sulla pagina personale o il download pirata dell’album, la difficoltà (o l’impossibilità) di accettare compromessi e la condizione di completa precarietà che si risolve nell’impiego instabile e perennemente a tempo determinato.
Il libro fotografa una parentesi ancora aperta sul suono dello stivale, il Bel Paese che in molti (forse tutti) i testi degli artisti qui presenti è dipinto con toni foschi, qualche volta romantici, in fondo però propositivi, mai apocalittici e nemmeno integrati. Centosessanta pagine, concluse con una breve “Storia della discografia indipendente italiana dal 2000 al 2010”, curata da Davide Brace con interventi dei giornalisti musicali Enrico Veronese, Federico Savini e Sandro Giorello da cui partire per scandagliare senza troppe velleità accademiche un mondo che riesce ancor oggi a fornirci una posizione estetica (e per questo più che mai politica) sul nostro tempo. Adatto sia agli specialisti che agli ascoltatori occasionali.
http://fieradellevanita.splinder.com, 30 giugno 2011The times they are a - changin’
Frasi, esperienze, testimonianze dirette tratte dal libro Suonare il paese prima che cada. Musica degli anni zeroÈ la grande forza d’azione dei musicisti, oggi: ci si è accorti che ciò che parte dal basso funziona meglio di quel che viene concesso dall’alto, ed è la gente stessa a richiederlo.Emidio Clementi (Massimo Volume)
Mi sono licenziato, ho detto ai ragazzi che andavo a Milano, per un anno,ma sarei tornato tutti i fine settimana a fare le prove. Avevo trovato un corso di grafica, un’altra cosa che mi piaceva. Poi a milano ho incontrato un’amica dei tempi del liceo che cercava un coinquilino, e così da allora ho sempre abitato con lei, nella stessa casa. Credo fosse il 2005. Mi dividevo tra casa e e scuola, con estrema severità: ero angosciatissimo, avevo ventinove anni, dopo aver lavorato così tanto era difficile. Se andavo a fare un giro in piazza Duomo mi sentivo come quando marinavo la scuola, mi chiedevo: cosa ci fa tutta quella gente in giro, ma non lavorano, cosa fanno? Questi vagabondi chi sono? Una cosa stranissima. A Fidenza in piazza il pomeriggio ci sono solo pensionati, spesso neanche quelli. Ho capito che c’erano tantissimi lavori che non implicavano lo stare in ufficio dalle 9 alle 18.
Dente
Cerco di puntare il dito contro le pretese soffocanti della nostra società. Nella canzone I Can Do It faccio una lista infinita di cose che sono in grado di fare. Sollevamento pesi? Lotta nel fango? Bungee jumping? Dogsitting? Finire su Rolling Stone? Su una Rolls Royce? È quello che ti aspetti da me,vero? Allora posso farlo. Dai. Sono il tuo giocattolo. Ti sei divertito?
Tying Tiffany
Mi piacerebbe riguardare le cose che faccio tra qualche anno e rivederle come eventi storici personali. Reperti della realta e della mia intimità. Fototessere. Arrivederci amore,tra otto ore. Salutarsi la mattina e rivedersi la sera, in questo stato del benessere ipotetico. Un governo che potrebbe cadere domani ma lasciare danni per vent’anni, perchè ha lavorato sull’immaginario, e l’immaginario è la cosa più importante e fragile. I problemi economici e costituzionali si risolvono prima. E sempre questo amore che come colonna sonora ha un telegiornale.
Vasco Brondi
L’atto di spostare i mobili è sempre stato misterioso, quasi simbolico, fin dall’infanzia quando nei fumetti Disney leggevo che Paperino chiamava Paperina per farlo. Lui faticava tantissimo, sudava disperato e alla fine passava Gastone in macchina e si portava via Paperina. La Disney mi ha procurato dei disastri.
Federico Dragogna (Ministri)
Dall’alto dei miei quarantadue anni non avevo mai visto tanto sfacelo. Viviamo un momento di profonda decadenza culturale, politica,istituzionale, sociale. Il ceto politico non è semplicemente inadeguato, quelli che sono al governo si stanno rivelando dei veri mascalzoni. Parafrasando von Clausewitz, sono convinto che la politica sia troppo importante per lasciarla ai politici. Ci vuole la società civile. Artisti e intellettuali attivi. Dobbiamo essere noi a ribellarci a questo stato di cose. Lo possiamo fare alle urne, ma ancora prima nella nostra vita privata, negli spazi di socializzazione. Bisogna tornare a discutere, e dobbiamo farlo nei luoghi di lavoro. Se sul lavoro non apri mai bocca e subisci tutto, la situazione si involve per forza. Dobbiamo mantenere intatta la nostra dignità di uomini e donne, di cittadini, esseri umani e lavoratori. Abbiamo smesso di discutere e interloquire tra di noi perchè ci autocensuriamo. Negli ultimi vent’anni abbiamo imparato ad avere paura di pestare i piedi al potente di turno. Il paese si sta tramutando, l’economia criminale ci sta stritolando. Nel mio piccolo mi ribello. Sono al mondo per cambiarlo. Voglio lasciare un bel segno positivo nella mia vita. Che cosa m’importa di avere mille lussi superflui? L’importante è vivere dignitosamente tutti quanti. E per riuscirci bisogna tornare a cantare di un universo di uguali. È un’esigenza che non possiamo più procrastinare all’infinito, è un problema di limiti dello sviluppo. L’attuale livello economico deve essere superato, non è più sostenibile. L’emergenza climatica non ci lascia più molto tempo per indugiare. È il momento giusto per ribellarsi.
Pierpaolo Capovilla (One Dimensional Man, Il Teatro degli Orrori)
Mi sono licenziato, ho detto ai ragazzi che andavo a Milano, per un anno,ma sarei tornato tutti i fine settimana a fare le prove. Avevo trovato un corso di grafica, un’altra cosa che mi piaceva. Poi a milano ho incontrato un’amica dei tempi del liceo che cercava un coinquilino, e così da allora ho sempre abitato con lei, nella stessa casa. Credo fosse il 2005. Mi dividevo tra casa e e scuola, con estrema severità: ero angosciatissimo, avevo ventinove anni, dopo aver lavorato così tanto era difficile. Se andavo a fare un giro in piazza Duomo mi sentivo come quando marinavo la scuola, mi chiedevo: cosa ci fa tutta quella gente in giro, ma non lavorano, cosa fanno? Questi vagabondi chi sono? Una cosa stranissima. A Fidenza in piazza il pomeriggio ci sono solo pensionati, spesso neanche quelli. Ho capito che c’erano tantissimi lavori che non implicavano lo stare in ufficio dalle 9 alle 18.
Dente
Cerco di puntare il dito contro le pretese soffocanti della nostra società. Nella canzone I Can Do It faccio una lista infinita di cose che sono in grado di fare. Sollevamento pesi? Lotta nel fango? Bungee jumping? Dogsitting? Finire su Rolling Stone? Su una Rolls Royce? È quello che ti aspetti da me,vero? Allora posso farlo. Dai. Sono il tuo giocattolo. Ti sei divertito?
Tying Tiffany
Mi piacerebbe riguardare le cose che faccio tra qualche anno e rivederle come eventi storici personali. Reperti della realta e della mia intimità. Fototessere. Arrivederci amore,tra otto ore. Salutarsi la mattina e rivedersi la sera, in questo stato del benessere ipotetico. Un governo che potrebbe cadere domani ma lasciare danni per vent’anni, perchè ha lavorato sull’immaginario, e l’immaginario è la cosa più importante e fragile. I problemi economici e costituzionali si risolvono prima. E sempre questo amore che come colonna sonora ha un telegiornale.
Vasco Brondi
L’atto di spostare i mobili è sempre stato misterioso, quasi simbolico, fin dall’infanzia quando nei fumetti Disney leggevo che Paperino chiamava Paperina per farlo. Lui faticava tantissimo, sudava disperato e alla fine passava Gastone in macchina e si portava via Paperina. La Disney mi ha procurato dei disastri.
Federico Dragogna (Ministri)
Dall’alto dei miei quarantadue anni non avevo mai visto tanto sfacelo. Viviamo un momento di profonda decadenza culturale, politica,istituzionale, sociale. Il ceto politico non è semplicemente inadeguato, quelli che sono al governo si stanno rivelando dei veri mascalzoni. Parafrasando von Clausewitz, sono convinto che la politica sia troppo importante per lasciarla ai politici. Ci vuole la società civile. Artisti e intellettuali attivi. Dobbiamo essere noi a ribellarci a questo stato di cose. Lo possiamo fare alle urne, ma ancora prima nella nostra vita privata, negli spazi di socializzazione. Bisogna tornare a discutere, e dobbiamo farlo nei luoghi di lavoro. Se sul lavoro non apri mai bocca e subisci tutto, la situazione si involve per forza. Dobbiamo mantenere intatta la nostra dignità di uomini e donne, di cittadini, esseri umani e lavoratori. Abbiamo smesso di discutere e interloquire tra di noi perchè ci autocensuriamo. Negli ultimi vent’anni abbiamo imparato ad avere paura di pestare i piedi al potente di turno. Il paese si sta tramutando, l’economia criminale ci sta stritolando. Nel mio piccolo mi ribello. Sono al mondo per cambiarlo. Voglio lasciare un bel segno positivo nella mia vita. Che cosa m’importa di avere mille lussi superflui? L’importante è vivere dignitosamente tutti quanti. E per riuscirci bisogna tornare a cantare di un universo di uguali. È un’esigenza che non possiamo più procrastinare all’infinito, è un problema di limiti dello sviluppo. L’attuale livello economico deve essere superato, non è più sostenibile. L’emergenza climatica non ci lascia più molto tempo per indugiare. È il momento giusto per ribellarsi.
Pierpaolo Capovilla (One Dimensional Man, Il Teatro degli Orrori)
unita.it, 16 giugno 2011Esordire negli anni zero
In questi giorni ho letto due libri che poco hanno a che fare tra loro e che però mi hanno offerto spunti simili di riflessione.
Il primo è Suonare il paese prima che cada, a cura di Andrea Scarabelli (Agenzia X editore). Come suggerisce il sottotitolo, Musica dagli anni zero, si tratta di un saggio sulla musica italiana dell’ultimo decennio, e non nel senso di Marco Carta e Emma Marrone, quanto sul ruolo culturalmente più rilevante svolto dai gruppi e dai cantautori della scena indipendente italiana.
Tramite testimonianze dirette, scambi di email e lunghe conversazioni, i protagonisti della scena indie raccontano il loro percorso individuale e tracciano un quadro del decennio che hanno (e abbiamo) appena attraversato. È proprio questa finestra temporale a rendere significativo il discorso. Gli anni zero infatti hanno rappresentato una svolta epocale per il mercato discografico mondiale. In una decade, il panorama musicale ha subito una rivoluzione: le major si sono sgretolate, i negozi di dischi hanno chiuso i battenti lasciando il ruolo di rivenditori a pochi grandi magazzini, internet è diventato il canale principale della distribuzione di musica (legale e, soprattutto, illegale), l’evoluzione digitale ha permesso che a chiunque di avere gli strumenti per registrare, produrre e far circolare le proprie canzoni, i social network hanno sostituito il ruolo dei promoter e degli uffici stampa. In una parola, è cambiato tutto. E se da consumatori ognuno di noi ha dovuto fare i conti con questi mutamenti radicali, è particolarmente interessante rivivere questo processo attraverso gli occhi di chi ha prodotto musica all’interno di questo scenario tellurico.
Il percorso dei Baustelle, qui raccontato dalla voce del leader Francesco Bianconi, rappresenta uno degli ultimi casi di carriera discografica dalle modalità classiche, e che infatti ha avuto il suo avvio negli anni ‘90: primi dischi prodotti da piccole etichette, un paio di video azzeccati tramessi da MTV, l’interesse di una grande casa discografica come la Warner, il contratto, il Festivalbar, l’arrivo al grande pubblico. Un tragitto che, secondo lo stesso Bianconi, oggi sarebbe “impossibile” anche per quelle nuove band molto valide che lui riconosce essere in circolazione.
Ecco allora, quasi da contraltare, l’avventura dei Tre allegri ragazzi morti di Pordenone, secondo le parole di Enrico Molteni: un gruppo che ha flirtato con le major per poi tornare a scegliere la strada dell’autoproduzione, creando una propria etichetta e chiamandola col titolo di una loro canzone, La tempesta. La label, nata al semplice scopo di produrre i dischi del trio, a poco, a poco, ha cominciato a pubblicare i lavori di altri amici musicisti, ospitando gruppi significativi come Il teatro degli orrori o scoprendo nuovi artisti di grande rilevanza come Le luci della centrale elettrica, sino a diventare la più importante realtà discografica indipendente del paese. Il tutto fatto a budget ridottissimi, con vendite di dischi ai concerti o nei festival, con il coinvolgimento del pubblico tramite internet, con un approccio diretto e quasi artigianale.
È cambiata la realtà, va cambiato dunque l’atteggiamento con cui ci si pone.
Per i musicisti questa rivoluzione ha significato doversi concedere anima e corpo all’impegno musicale, a costo di enormi sacrifici. Investire in se stessi, con una fede quasi cieca nel futuro, attraversando fasi di grandi incertezze. Sono significativi i racconti di Federico Dragogna dei Ministri, un gruppo che arrivava ad avere quasi duecento date in un anno, ma a condizioni tali da non ricavarci neanche trenta euro a testa a sera, o del cantautore Dente, che ha rinunciato a un impiego retribuito per dedicarsi a comporre canzoni, costringendosi a non uscire la sera per oltre un anno per evitare ogni spesa.
E questi non sono i soliti aneddoti folcroristici che segnano gli esordi di ogni leggenda rock che si rispetti. Qui, a mio avviso, sta la vera, fondamentale differenza, rispetto al recente passato musicale. Una volta l’artista faceva sacrifici nell’ottica di venire prima o poi scoperto da un celebre produttore e vedere il proprio lavoro riconosciuto, con grandi investimenti economici e promozionali. Oggi questa prospettiva può essere catalogata come del tutto utopica: il musicista è consapevole che l’impegno che gli si richiede sarà continuo e i risultati relativi. In un certo senso si può tornare a parlare di vocazione musicale. Una scelta di vita a fronte di un’insopprimibile esigenza di esprimersi e comunicare.
Che un primo, potente effetto della rivoluzione musicale degli anni zero sia un ritorno all’onestà? Questo libro me l’ha fatto pensare.
L’altro volume che ho letto quasi in contemporanea è Esordienti: lavori in corso (Giulio Perroni editore). Qui ci spostiamo in ambito letterario. Il giornalista Nicola Perilli ha intervistato trenta scrittori ponendo a tutti le stesse domande: Come ha esordito? Che consiglio si sentirebbe di dare a uno scrittore emergente? È meglio provare direttamente con un grande editore o affidarsi alla piccola editoria indipendente?
Si torna dunque a parlare di esordi, di percorsi individuali, di sacrifici e tentativi di fare arrivare la propria voce al pubblico. L’editoria non ha subito il tracollo che è toccato all’industria del disco (l’arrivo dei tablet e la diffusione degli e-book comporteranno le stesse conseguenze? È un po’ presto per dirlo). L’avvento di internet però anche in ambito editoriale ha mutato notevolmente lo scenario: editori on line, blog e riviste, nuove case editrici indipendenti che si fanno conoscere tramite la Rete.
Posto che alcune inclusioni nel volume non sono signficative (mi sembra irrisorio chiedere a chi già appartiene a certi circoli culturali, come Cristina Comencini, come abbia esordito), la lettura di queste interviste dimostra come per gli scrittori la via del debutto segni strade ogni volta differenti, quasi imprevedibili. La varietà delle esperienze è assoluta: c’è chi arriva a esordire con un colosso come Mondadori e ottenere un successo planetario (il caso Paolo Giordano), chi procede per piccoli passi (un racconto uscito su una rivista letteraria che porta alla pubblicazione di un romanzo presso un piccolo editore che desta la curiosità di un editore più grande...), chi gode dell’interessamento benevolo di un grande scrittore che gli funge da mentore.
Anche qui gli sforzi iniziali sono notevoli. Mesi, anni di impegno solitario, a fronte di nessuna certezza, e un percorso nel quale il talento non sempre è l’unico strumento necessario per emergere. Chi sta cercando di muovere i primi passi nell’ambito editoriale trarrà un certo giovamento nel leggere le traversie di chi l’ha preceduto in questo accidentato sentiero.
Il più bel consiglio allo scrittore emergente, fra i trenta presenti, mi sembra quello di Sandra Petrignani. Il più punk di tutti: “Di essere se stesso. Ascoltare la propria voce e esserle fedele. Fregarsene di tutto il resto, ma fregarsene davvero, profondamente”.
Sembra quasi di tornare a sentire la voce dei cantanti dell’altro libro: esprimersi perché ce n’è il bisogno. Credo, in tutti casi, sia il migliore punto di partenza comunque.
di Matteo B. BianchiIl primo è Suonare il paese prima che cada, a cura di Andrea Scarabelli (Agenzia X editore). Come suggerisce il sottotitolo, Musica dagli anni zero, si tratta di un saggio sulla musica italiana dell’ultimo decennio, e non nel senso di Marco Carta e Emma Marrone, quanto sul ruolo culturalmente più rilevante svolto dai gruppi e dai cantautori della scena indipendente italiana.
Tramite testimonianze dirette, scambi di email e lunghe conversazioni, i protagonisti della scena indie raccontano il loro percorso individuale e tracciano un quadro del decennio che hanno (e abbiamo) appena attraversato. È proprio questa finestra temporale a rendere significativo il discorso. Gli anni zero infatti hanno rappresentato una svolta epocale per il mercato discografico mondiale. In una decade, il panorama musicale ha subito una rivoluzione: le major si sono sgretolate, i negozi di dischi hanno chiuso i battenti lasciando il ruolo di rivenditori a pochi grandi magazzini, internet è diventato il canale principale della distribuzione di musica (legale e, soprattutto, illegale), l’evoluzione digitale ha permesso che a chiunque di avere gli strumenti per registrare, produrre e far circolare le proprie canzoni, i social network hanno sostituito il ruolo dei promoter e degli uffici stampa. In una parola, è cambiato tutto. E se da consumatori ognuno di noi ha dovuto fare i conti con questi mutamenti radicali, è particolarmente interessante rivivere questo processo attraverso gli occhi di chi ha prodotto musica all’interno di questo scenario tellurico.
Il percorso dei Baustelle, qui raccontato dalla voce del leader Francesco Bianconi, rappresenta uno degli ultimi casi di carriera discografica dalle modalità classiche, e che infatti ha avuto il suo avvio negli anni ‘90: primi dischi prodotti da piccole etichette, un paio di video azzeccati tramessi da MTV, l’interesse di una grande casa discografica come la Warner, il contratto, il Festivalbar, l’arrivo al grande pubblico. Un tragitto che, secondo lo stesso Bianconi, oggi sarebbe “impossibile” anche per quelle nuove band molto valide che lui riconosce essere in circolazione.
Ecco allora, quasi da contraltare, l’avventura dei Tre allegri ragazzi morti di Pordenone, secondo le parole di Enrico Molteni: un gruppo che ha flirtato con le major per poi tornare a scegliere la strada dell’autoproduzione, creando una propria etichetta e chiamandola col titolo di una loro canzone, La tempesta. La label, nata al semplice scopo di produrre i dischi del trio, a poco, a poco, ha cominciato a pubblicare i lavori di altri amici musicisti, ospitando gruppi significativi come Il teatro degli orrori o scoprendo nuovi artisti di grande rilevanza come Le luci della centrale elettrica, sino a diventare la più importante realtà discografica indipendente del paese. Il tutto fatto a budget ridottissimi, con vendite di dischi ai concerti o nei festival, con il coinvolgimento del pubblico tramite internet, con un approccio diretto e quasi artigianale.
È cambiata la realtà, va cambiato dunque l’atteggiamento con cui ci si pone.
Per i musicisti questa rivoluzione ha significato doversi concedere anima e corpo all’impegno musicale, a costo di enormi sacrifici. Investire in se stessi, con una fede quasi cieca nel futuro, attraversando fasi di grandi incertezze. Sono significativi i racconti di Federico Dragogna dei Ministri, un gruppo che arrivava ad avere quasi duecento date in un anno, ma a condizioni tali da non ricavarci neanche trenta euro a testa a sera, o del cantautore Dente, che ha rinunciato a un impiego retribuito per dedicarsi a comporre canzoni, costringendosi a non uscire la sera per oltre un anno per evitare ogni spesa.
E questi non sono i soliti aneddoti folcroristici che segnano gli esordi di ogni leggenda rock che si rispetti. Qui, a mio avviso, sta la vera, fondamentale differenza, rispetto al recente passato musicale. Una volta l’artista faceva sacrifici nell’ottica di venire prima o poi scoperto da un celebre produttore e vedere il proprio lavoro riconosciuto, con grandi investimenti economici e promozionali. Oggi questa prospettiva può essere catalogata come del tutto utopica: il musicista è consapevole che l’impegno che gli si richiede sarà continuo e i risultati relativi. In un certo senso si può tornare a parlare di vocazione musicale. Una scelta di vita a fronte di un’insopprimibile esigenza di esprimersi e comunicare.
Che un primo, potente effetto della rivoluzione musicale degli anni zero sia un ritorno all’onestà? Questo libro me l’ha fatto pensare.
L’altro volume che ho letto quasi in contemporanea è Esordienti: lavori in corso (Giulio Perroni editore). Qui ci spostiamo in ambito letterario. Il giornalista Nicola Perilli ha intervistato trenta scrittori ponendo a tutti le stesse domande: Come ha esordito? Che consiglio si sentirebbe di dare a uno scrittore emergente? È meglio provare direttamente con un grande editore o affidarsi alla piccola editoria indipendente?
Si torna dunque a parlare di esordi, di percorsi individuali, di sacrifici e tentativi di fare arrivare la propria voce al pubblico. L’editoria non ha subito il tracollo che è toccato all’industria del disco (l’arrivo dei tablet e la diffusione degli e-book comporteranno le stesse conseguenze? È un po’ presto per dirlo). L’avvento di internet però anche in ambito editoriale ha mutato notevolmente lo scenario: editori on line, blog e riviste, nuove case editrici indipendenti che si fanno conoscere tramite la Rete.
Posto che alcune inclusioni nel volume non sono signficative (mi sembra irrisorio chiedere a chi già appartiene a certi circoli culturali, come Cristina Comencini, come abbia esordito), la lettura di queste interviste dimostra come per gli scrittori la via del debutto segni strade ogni volta differenti, quasi imprevedibili. La varietà delle esperienze è assoluta: c’è chi arriva a esordire con un colosso come Mondadori e ottenere un successo planetario (il caso Paolo Giordano), chi procede per piccoli passi (un racconto uscito su una rivista letteraria che porta alla pubblicazione di un romanzo presso un piccolo editore che desta la curiosità di un editore più grande...), chi gode dell’interessamento benevolo di un grande scrittore che gli funge da mentore.
Anche qui gli sforzi iniziali sono notevoli. Mesi, anni di impegno solitario, a fronte di nessuna certezza, e un percorso nel quale il talento non sempre è l’unico strumento necessario per emergere. Chi sta cercando di muovere i primi passi nell’ambito editoriale trarrà un certo giovamento nel leggere le traversie di chi l’ha preceduto in questo accidentato sentiero.
Il più bel consiglio allo scrittore emergente, fra i trenta presenti, mi sembra quello di Sandra Petrignani. Il più punk di tutti: “Di essere se stesso. Ascoltare la propria voce e esserle fedele. Fregarsene di tutto il resto, ma fregarsene davvero, profondamente”.
Sembra quasi di tornare a sentire la voce dei cantanti dell’altro libro: esprimersi perché ce n’è il bisogno. Credo, in tutti casi, sia il migliore punto di partenza comunque.
http://peccatore.gqitalia.it, 12 giugno 2011Musica libera
Suonare il paese prima che cada racconta la musica che durante gli anni zero si è affermata grazie al web, ai circoli Arci, ai piccoli teatri di provincia e ai centri sociali.
Andrea Scarabelli ha raccolto le storie di chi negli ultimi dieci anni ha potuto fare a meno delle radio, di Mtv e delle major discografiche per arrivare a una quantità di ascoltatori sempre più numerosa. Esiste un pubblico che apprezza i musicisti concentrati a dare forma al proprio talento e sostiene gli artisti che cercano un senso aldilà della propria ispirazione.
La musica è la forma più sublime di comunicazione. Tra chi suona e ascolta si stabilisce una relazione emotiva profonda. Una democrazia vera deve diffidare della musica finta e ha necessità di educazione musicale, nelle scuole di ogni ordine e grado, come condizione base dell’insegnamento.
Scrivere, leggere, guardare e ascoltare il senso, il significato e l’emozione delle cose dovrebbe essere la base di una vera riforma. Abbiamo visto tutti, di recente, a quale risultato porta avere sul palco musicisti scimmietta.
Fino a qualche anno fa, un’intervista a Vasco Brondi (Le Luci della centrale elettrica), Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori), Federico Dragogna (Ministri), Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti) o a Dente non interessava alle grandi testate sempre alla ricerca del volto noto e della notizia ferma sul presente. Con il suo libro Andrea Scarabelli ci ricorda la funzione della scrittura, il ruolo attivo, lo sguardo al futuro e alle soluzioni che dovrebbero avere giornalisti e narratori.
A parte la collaborazione con l’editore indipendente, Agenzia X, l’autore nato nel 1983 (28 anni) ha scritto racconti, interviste e recensioni per Rolling Stones, Pulp, il manifesto, Carmilla, Atti impuri.
Il mio peccato più riuscito è stato farlo collaborare a GQ.com. Ricordo il live registrato nei nostri studi con i Calibro 35 e l’incredibile personalità di Enrico Gabrielli (Mariposa e Calibro 35) un polistrumentista degno della ribalta internazionale.
Nonostante l’incertezza sul futuro c’è chi ha trovato una strada rinunciando al mito del successo e si è misurato con se stesso sfruttando al meglio i mezzi che aveva a disposizione. Un cammino difficile e senz’altro spietato per quanti non sono andati oltre il primo disco o il demo, ma ricco di valore. Un’epopea che merita di essere tramandata, in grado di mostrare un volto diverso dalle solite lagne dei produttori in crisi o dai roboanti capricci di robotiche star da rotocalco.
Un esempio illuminante di cui andare orgogliosi rispetto al ghigno feroce del potere e all’arroganza del denaro. “Hanno attaccato jack agli amplificatori… guidato per ore in furgone, attraversando la penisola, alla faccia di presunte secessioni,” scrive Andrea nella sua prefazione.
“E allora, se anche l’Italia sta per crollare, questi musicisti non si sono risparmiati. Non hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato, con ogni forza residua, a suonare il paese prima che cada.”
Appassionano e divertono le storie di questo libro. Oltre agli artisti che ho già citato ci sono Francesco Bianconi (Baustelle), Max Collini (Offlaga Disco Pax), Meg, Massimo Pupillo (Zu), Tying Tiffany.
Soprattutto c’è Andrea che è giovane ed è un meraviglioso peccatore. Ha già gli occhi sui talenti del futuro e con lui gli dei della banalità, i comandamenti dell’opportunismo e le leggi del giornalismo copia e incolla non hanno scampo.
Un altro peccatore infernale è Emidio Clementi (Massimo Volume) che nella prefazione del libro scrive: “In questo momento, come scrittore, mi sembra controproducente pubblicare un libro con Rizzoli o Mondadori e come musicista fare dischi con Sony o Universal. In questo momento storico dobbiamo costruire da soli, non c’è alcun motivo di scendere a compromessi con persone spesso incompetenti che non sanno niente della nostra storia e non sono disposte a crederci. Certo, è un lavoro, un impegno, e in fondo anche un peso di cui si farebbe volentieri a meno. Ma ora non si può. Io ci credo.”
Bene. Ora vado a votare!
di Francesco MenichellaAndrea Scarabelli ha raccolto le storie di chi negli ultimi dieci anni ha potuto fare a meno delle radio, di Mtv e delle major discografiche per arrivare a una quantità di ascoltatori sempre più numerosa. Esiste un pubblico che apprezza i musicisti concentrati a dare forma al proprio talento e sostiene gli artisti che cercano un senso aldilà della propria ispirazione.
La musica è la forma più sublime di comunicazione. Tra chi suona e ascolta si stabilisce una relazione emotiva profonda. Una democrazia vera deve diffidare della musica finta e ha necessità di educazione musicale, nelle scuole di ogni ordine e grado, come condizione base dell’insegnamento.
Scrivere, leggere, guardare e ascoltare il senso, il significato e l’emozione delle cose dovrebbe essere la base di una vera riforma. Abbiamo visto tutti, di recente, a quale risultato porta avere sul palco musicisti scimmietta.
Fino a qualche anno fa, un’intervista a Vasco Brondi (Le Luci della centrale elettrica), Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori), Federico Dragogna (Ministri), Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti) o a Dente non interessava alle grandi testate sempre alla ricerca del volto noto e della notizia ferma sul presente. Con il suo libro Andrea Scarabelli ci ricorda la funzione della scrittura, il ruolo attivo, lo sguardo al futuro e alle soluzioni che dovrebbero avere giornalisti e narratori.
A parte la collaborazione con l’editore indipendente, Agenzia X, l’autore nato nel 1983 (28 anni) ha scritto racconti, interviste e recensioni per Rolling Stones, Pulp, il manifesto, Carmilla, Atti impuri.
Il mio peccato più riuscito è stato farlo collaborare a GQ.com. Ricordo il live registrato nei nostri studi con i Calibro 35 e l’incredibile personalità di Enrico Gabrielli (Mariposa e Calibro 35) un polistrumentista degno della ribalta internazionale.
Nonostante l’incertezza sul futuro c’è chi ha trovato una strada rinunciando al mito del successo e si è misurato con se stesso sfruttando al meglio i mezzi che aveva a disposizione. Un cammino difficile e senz’altro spietato per quanti non sono andati oltre il primo disco o il demo, ma ricco di valore. Un’epopea che merita di essere tramandata, in grado di mostrare un volto diverso dalle solite lagne dei produttori in crisi o dai roboanti capricci di robotiche star da rotocalco.
Un esempio illuminante di cui andare orgogliosi rispetto al ghigno feroce del potere e all’arroganza del denaro. “Hanno attaccato jack agli amplificatori… guidato per ore in furgone, attraversando la penisola, alla faccia di presunte secessioni,” scrive Andrea nella sua prefazione.
“E allora, se anche l’Italia sta per crollare, questi musicisti non si sono risparmiati. Non hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato, con ogni forza residua, a suonare il paese prima che cada.”
Appassionano e divertono le storie di questo libro. Oltre agli artisti che ho già citato ci sono Francesco Bianconi (Baustelle), Max Collini (Offlaga Disco Pax), Meg, Massimo Pupillo (Zu), Tying Tiffany.
Soprattutto c’è Andrea che è giovane ed è un meraviglioso peccatore. Ha già gli occhi sui talenti del futuro e con lui gli dei della banalità, i comandamenti dell’opportunismo e le leggi del giornalismo copia e incolla non hanno scampo.
Un altro peccatore infernale è Emidio Clementi (Massimo Volume) che nella prefazione del libro scrive: “In questo momento, come scrittore, mi sembra controproducente pubblicare un libro con Rizzoli o Mondadori e come musicista fare dischi con Sony o Universal. In questo momento storico dobbiamo costruire da soli, non c’è alcun motivo di scendere a compromessi con persone spesso incompetenti che non sanno niente della nostra storia e non sono disposte a crederci. Certo, è un lavoro, un impegno, e in fondo anche un peso di cui si farebbe volentieri a meno. Ma ora non si può. Io ci credo.”
Bene. Ora vado a votare!
Twilight - Radio Rai 2, 10 giugno 2011Suonare il paese prima che cada
Il rock indipendente italiano degli anni zero? Povero, ma coraggioso. A raccontarlo è un libro, curato da Andrea Scarabelli, intitolato Suonare il paese prima che cada. Un volume corale, con le testimonianze di alcuni dei protagonisti della scena musicale alternativa di casa nostra. Si raccontano percorsi biografici e creativi diversissimi, ma accomunati dalla stessa energia: quella di voler continuare a fare musica, senza arrendersi alle difficoltà, comprese quelle economiche, e nonostante intorno il Paese cada a pezzi.
IL LIBRO DEL GIORNO
Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero, a cura di Andrea Scarabelli, Agenzia X, pp. 160
Nella musica italiana qualcosa sta cambiando. È emersa una nuova scena, povera di mezzi e ricca di determinazione, refrattaria alle categorie e seguita da un pubblico trasversale. Musicisti che hanno attraversato il decennio senza tirare il fiato, nonostante intorno a loro crollassero palazzi e simboli, e si aprissero crepacci in cui precipitavano tutte le certezze acquisite. Hanno visto sciogliersi lavoro e mercati, innalzarsi la soglia della povertà insieme al riscaldamento globale. Attaccato jack agli amplificatori mentre il cosiddetto primo mondo dichiarava una guerra dopo l’altra, suonato a tutto volume senza riuscire a sovrastare i focolai di risate televisive. Guidato per ore in furgone, attraversando la penisola alla faccia di presunte secessioni. E se anche l’Italia sta per crollare, questi artisti non si sono risparmiati. Non hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato, con ogni forza residua, a fare musica. Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero è un volume corale, che raccoglie le testimonianze biografiche e artistiche di alcuni dei protagonisti di questa scena “alternativa“: Francesco Bianconi (Baustelle); Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica); Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori); Max Collini (Offlaga Disco Pax); Dente; Federico Dragogna (Ministri); Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35); Meg; Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti); Massimo Pupillo (Zu) e Tying Tiffany.Scarica MP3 della puntata con l’intervista ad Andrea Scarabelli
di John VignolaIL LIBRO DEL GIORNO
Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero, a cura di Andrea Scarabelli, Agenzia X, pp. 160
Nella musica italiana qualcosa sta cambiando. È emersa una nuova scena, povera di mezzi e ricca di determinazione, refrattaria alle categorie e seguita da un pubblico trasversale. Musicisti che hanno attraversato il decennio senza tirare il fiato, nonostante intorno a loro crollassero palazzi e simboli, e si aprissero crepacci in cui precipitavano tutte le certezze acquisite. Hanno visto sciogliersi lavoro e mercati, innalzarsi la soglia della povertà insieme al riscaldamento globale. Attaccato jack agli amplificatori mentre il cosiddetto primo mondo dichiarava una guerra dopo l’altra, suonato a tutto volume senza riuscire a sovrastare i focolai di risate televisive. Guidato per ore in furgone, attraversando la penisola alla faccia di presunte secessioni. E se anche l’Italia sta per crollare, questi artisti non si sono risparmiati. Non hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato, con ogni forza residua, a fare musica. Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero è un volume corale, che raccoglie le testimonianze biografiche e artistiche di alcuni dei protagonisti di questa scena “alternativa“: Francesco Bianconi (Baustelle); Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica); Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori); Max Collini (Offlaga Disco Pax); Dente; Federico Dragogna (Ministri); Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35); Meg; Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti); Massimo Pupillo (Zu) e Tying Tiffany.Scarica MP3 della puntata con l’intervista ad Andrea Scarabelli
www.carmillaonline.com, 8 giugno 2011Suonare il paese prima che cada
È in libreria Suonare il paese prima che cada (Agenzia X), un libro curato da Andrea Scarabelli sulla musica italiana degli anni zero, con testi di Francesco Bianconi (Baustelle), Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori), Emidio Clementi (Massimo Volume), Max Collini (Offlaga Disco Pax), Dente, Federico Dragogna (Ministri), Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35), Meg, Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti), Massimo Pupillo (Zu), Tying Tiffany. Il curatore ci spiega il progetto, nato proprio dal primo racconto pubblicato su Carmilla, con qualche anticipazione.Questo libro nasce da una duplice esigenza: quella di trovare possibili chiavi di analisi per il decennio appena conclusosi e quella di raccontare, attraverso le parole dei protagonisti, una parte di quanto sta accadendo nella nuova musica italiana. Credo sia interessante affrontarlo tramite la narrazione: fissare sulla pagina percorsi biografici e creativi diversissimi ma uniti da alcuni importanti punti comuni, che finiscono per essere proprio le caratteristiche più evidenti degli anni zero.
In primis la crisi economica, che ha minato alle sue fondamenta l’intera industria discografica come l’abbiamo conosciuta. La nuova povertà di mezzi è stata controbilanciata da una forte determinazione, decisa a scavalcare le macerie delle inutili strutture che ingombravano la produzione culturale in ogni campo. Internet è stata sicuramente capace di ridurre molte inutili distanze, ma anche di riempirci il cervello di rumore di fondo, e certamente ha dato una spallata al sistema di distribuzione della musica, rendendola praticamente gratuita o volontaria (si paga solo ciò che si decide di sostenere). I risicati proventi dei musicisti sono tornati a dipendere in stragrande maggioranza dai live, e quindi dalle ore trascorse in furgone, dalla credibilità costruita con una comunicazione mai affidata al caso.
Rispetto al panorama anni novanta, è evidente che qualcosa sia cambiato. Forse sono meno i gruppi che ricalcano percorsi e sonorità straniere in modo artificioso, o forse ancora le trasformazioni sono dovute a fattori inevitabili piuttosto che a scelte consapevoli. Non è certo nemmeno se ci sia una forma di coesione o se l’impressione che abbiamo, davanti a una serie di nomi che tornano sempre, sia essenzialmente dovuta a fattori umani; ovvero che a forza di suonare in contesti simili, certi musicisti sono diventati amici e hanno iniziato a collaborare. Di certo in questi anni, ancora troppo disgraziati e bollenti da maneggiare, l’interesse per la musica italiana non mainstream è andato crescendo, irradiando una fascia di pubblico trasversale, capace di includere i fanboy dei blog musicali, gli adolescenti non più monopolio di Mtv, le ragazzine innamorate dei musicisti, gli universitari in cerca di aggregazione, i nerd con otto hard disk esterni pieni di post rock e noise, la precedente generazione degli anni novanta e i veterani assoluti degli ottanta. E questo mix si estende anche agli artisti, davvero eterogenei per età e provenienza.
I musicisti che partecipano a questo progetto hanno attraversato il decennio senza tirare il fiato. Intorno a loro crollavano palazzi e simboli, si aprivano crepacci sismici in cui precipitavano certezze acquisite, hanno visto sciogliersi lavoro e mercati, esplodere persone, innalzarsi la soglia della povertà insieme al riscaldamento globale. Hanno attaccato jack agli amplificatori mentre il cosiddetto primo mondo dichiarava una guerra dopo l’altra, suonato a tutto volume senza riuscire a sovrastare i focolai di risate televisive. Guidato per ore in furgone, attraversando la penisola, alla faccia di presunte secessioni. Quell’Italia che in questi anni ha svelato il suo ghigno più feroce, in cui situazioni che abbiamo sempre creduto impossibili oggi ribadiscono arroganti la loro esistenza. Uno stato di cose che, come ripetono tutti, non può durare a lungo. Lo sostengono convinti da quasi dieci anni. E allora, se anche l’Italia sta per crollare, questi musicisti non si sono risparmiati. Non hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato, con ogni forza residua, a suonare il paese prima che cada.
Ecco alcune istantanee dai loro racconti:Abbiamo sempre vissuto ogni disco come quello spazio che uno riesce a ritagliarsi nel corso di una vita intera, la sua occasione per trasmettere qualcosa al mondo. Ogni volta è come la prima e l’ultima, sappiamo di avere quaranta o cinquanta minuti a disposizione per andare al centro delle cose.
Emidio Clementi (Massimo Volume)
Una volta abbiamo suonato a Mostar. Eravamo forse il secondo gruppo in assoluto che passava di là, dopo la guerra. Era il 2000. Avevano ricostruito il ponte. Solo quello. Ci aveva invitato il Collettivo Post Pessimista. Abbiamo chiesto, perché Post Pessimista? Ci hanno risposto: perché noi eravamo pessimisti. Ma poi è arrivata la guerra.
Massimo Pupillo (Zu)
Le major sono sparite, ormai totalmente fallimentari. Vorrei vedere dei bei fallimenti all’americana, gente che si butta dai grattacieli, magari dal palazzo della Warner di piazza Repubblica a Milano. O un autosbudellamento alla Mishima.
Enrico Gabrielli (Mariposa e Calibro 35)
Tying Tiffany non è solo un riferimento al bondage, a una sessualità giudicata non convenzionale, ma a tutto ciò che la società vuole fare a Tiffany. Legarla, reprimerla, farla tacere. Impersono quella che volete legare e sul palco vi faccio vedere come si fa.
Tying Tiffany
Decidiamo di indossare delle maschere, prima ci esibivamo riconoscibili in volto. Il pretesto ce lo offrono le prime richieste, qualche intervista per la televisione oppure per un videoclip. Non vogliamo entrare in quella dinamica. Il primo modello della maschera è in terracotta. Funziona. Troviamo un’azienda che le fabbrica per carnevale, accetta di produrle con il nostro disegno. Le indossiamo sempre e le distribuiamo ai nostri concerti. Tutti diventano ragazzi morti.
Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti)
Ho cominciato a suonare senza cover, senza La canzone del sole, senza studiare la chitarra. Tardi, verso i diciott’anni. Appena ho imparato due accordi, ma in realtà anche quando non li avevo ancora imparati, ho iniziato subito a scrivere canzoni, completamente diverse da quelle che faccio adesso. Dei girini, erano.
Dente
Presi la decisione più avventata possibile: licenziarmi. Una cosa da pazzi, il mio capo era comprensivo, avevo un lavoro decente. Eppure sentivo che in questo modo non ci saremmo mai riusciti. Dovevo dedicarmi ai Baustelle al cento per cento, riuscire a rendere la musica la mia unica occupazione, solo così sarei riuscito a fare qualcosa di buono.
Francesco Bianconi (Baustelle)
1981. Ascolto di O Superman di Laurie Anderson. Ecco, attenzione alla ricetta: una donna + musica realizzata da sola + ricerca elettronica + utilizzo della voce sperimentale = amore a prima vista.
Meg
Lo spirito iniziale dei Ministri è facilmente riassumibile in uno dei nostri primi pezzi, Abituarsi alla fine: “Io sono nato da qualche mese, conto di vivere per qualche mese, c’è solo un modo per vedere oltre, pianificare la propria morte, ed è fare debiti”. L’ho scritto mentre stavo cominciando un mutuo, e mi aveva colpito che quello fosse il primo documento dove si parlasse del mio futuro. Prevedeva che fossi ancora vivo dopo vent’anni.
Federico Dragogna (Ministri)
Verso la fine degli anni ottanta, quando avevo circa vent’anni, avevo incominciato a rifiutare tutto ciò che era in qualche misura colto. Volevo l’ignoranza, mi dava un senso di libertà d’espressione, di scontro sociale.
Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori)
Ho fatto il primo concerto a trentasei anni, le prime prove l’anno precedente. Non so suonare, se non per qualche lezione di pianoforte che ricordo ancora come un incubo. Le aveva volute mio padre. Figlio di due mezzadri, aveva la quinta elementare, suo padre imparò a leggere e a scrivere nella sezione del partito comunista.
Max Collini (Offlaga Disco Pax)
Ho lavorato alle ultime canzoni tenendole in testa, ero in giro a fare i concerti, allo sbaraglio totale, duecento date, avevo una chitarra di scorta per l’albergo e dei fogli sparsi. Ero un cantiere aperto. Avevo questo rapporto intimo deflagrato e tutto quello che succedeva attorno. Una strana tensione sociale, indecifrabile.
Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica)
In primis la crisi economica, che ha minato alle sue fondamenta l’intera industria discografica come l’abbiamo conosciuta. La nuova povertà di mezzi è stata controbilanciata da una forte determinazione, decisa a scavalcare le macerie delle inutili strutture che ingombravano la produzione culturale in ogni campo. Internet è stata sicuramente capace di ridurre molte inutili distanze, ma anche di riempirci il cervello di rumore di fondo, e certamente ha dato una spallata al sistema di distribuzione della musica, rendendola praticamente gratuita o volontaria (si paga solo ciò che si decide di sostenere). I risicati proventi dei musicisti sono tornati a dipendere in stragrande maggioranza dai live, e quindi dalle ore trascorse in furgone, dalla credibilità costruita con una comunicazione mai affidata al caso.
Rispetto al panorama anni novanta, è evidente che qualcosa sia cambiato. Forse sono meno i gruppi che ricalcano percorsi e sonorità straniere in modo artificioso, o forse ancora le trasformazioni sono dovute a fattori inevitabili piuttosto che a scelte consapevoli. Non è certo nemmeno se ci sia una forma di coesione o se l’impressione che abbiamo, davanti a una serie di nomi che tornano sempre, sia essenzialmente dovuta a fattori umani; ovvero che a forza di suonare in contesti simili, certi musicisti sono diventati amici e hanno iniziato a collaborare. Di certo in questi anni, ancora troppo disgraziati e bollenti da maneggiare, l’interesse per la musica italiana non mainstream è andato crescendo, irradiando una fascia di pubblico trasversale, capace di includere i fanboy dei blog musicali, gli adolescenti non più monopolio di Mtv, le ragazzine innamorate dei musicisti, gli universitari in cerca di aggregazione, i nerd con otto hard disk esterni pieni di post rock e noise, la precedente generazione degli anni novanta e i veterani assoluti degli ottanta. E questo mix si estende anche agli artisti, davvero eterogenei per età e provenienza.
I musicisti che partecipano a questo progetto hanno attraversato il decennio senza tirare il fiato. Intorno a loro crollavano palazzi e simboli, si aprivano crepacci sismici in cui precipitavano certezze acquisite, hanno visto sciogliersi lavoro e mercati, esplodere persone, innalzarsi la soglia della povertà insieme al riscaldamento globale. Hanno attaccato jack agli amplificatori mentre il cosiddetto primo mondo dichiarava una guerra dopo l’altra, suonato a tutto volume senza riuscire a sovrastare i focolai di risate televisive. Guidato per ore in furgone, attraversando la penisola, alla faccia di presunte secessioni. Quell’Italia che in questi anni ha svelato il suo ghigno più feroce, in cui situazioni che abbiamo sempre creduto impossibili oggi ribadiscono arroganti la loro esistenza. Uno stato di cose che, come ripetono tutti, non può durare a lungo. Lo sostengono convinti da quasi dieci anni. E allora, se anche l’Italia sta per crollare, questi musicisti non si sono risparmiati. Non hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato, con ogni forza residua, a suonare il paese prima che cada.
Ecco alcune istantanee dai loro racconti:Abbiamo sempre vissuto ogni disco come quello spazio che uno riesce a ritagliarsi nel corso di una vita intera, la sua occasione per trasmettere qualcosa al mondo. Ogni volta è come la prima e l’ultima, sappiamo di avere quaranta o cinquanta minuti a disposizione per andare al centro delle cose.
Emidio Clementi (Massimo Volume)
Una volta abbiamo suonato a Mostar. Eravamo forse il secondo gruppo in assoluto che passava di là, dopo la guerra. Era il 2000. Avevano ricostruito il ponte. Solo quello. Ci aveva invitato il Collettivo Post Pessimista. Abbiamo chiesto, perché Post Pessimista? Ci hanno risposto: perché noi eravamo pessimisti. Ma poi è arrivata la guerra.
Massimo Pupillo (Zu)
Le major sono sparite, ormai totalmente fallimentari. Vorrei vedere dei bei fallimenti all’americana, gente che si butta dai grattacieli, magari dal palazzo della Warner di piazza Repubblica a Milano. O un autosbudellamento alla Mishima.
Enrico Gabrielli (Mariposa e Calibro 35)
Tying Tiffany non è solo un riferimento al bondage, a una sessualità giudicata non convenzionale, ma a tutto ciò che la società vuole fare a Tiffany. Legarla, reprimerla, farla tacere. Impersono quella che volete legare e sul palco vi faccio vedere come si fa.
Tying Tiffany
Decidiamo di indossare delle maschere, prima ci esibivamo riconoscibili in volto. Il pretesto ce lo offrono le prime richieste, qualche intervista per la televisione oppure per un videoclip. Non vogliamo entrare in quella dinamica. Il primo modello della maschera è in terracotta. Funziona. Troviamo un’azienda che le fabbrica per carnevale, accetta di produrle con il nostro disegno. Le indossiamo sempre e le distribuiamo ai nostri concerti. Tutti diventano ragazzi morti.
Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti)
Ho cominciato a suonare senza cover, senza La canzone del sole, senza studiare la chitarra. Tardi, verso i diciott’anni. Appena ho imparato due accordi, ma in realtà anche quando non li avevo ancora imparati, ho iniziato subito a scrivere canzoni, completamente diverse da quelle che faccio adesso. Dei girini, erano.
Dente
Presi la decisione più avventata possibile: licenziarmi. Una cosa da pazzi, il mio capo era comprensivo, avevo un lavoro decente. Eppure sentivo che in questo modo non ci saremmo mai riusciti. Dovevo dedicarmi ai Baustelle al cento per cento, riuscire a rendere la musica la mia unica occupazione, solo così sarei riuscito a fare qualcosa di buono.
Francesco Bianconi (Baustelle)
1981. Ascolto di O Superman di Laurie Anderson. Ecco, attenzione alla ricetta: una donna + musica realizzata da sola + ricerca elettronica + utilizzo della voce sperimentale = amore a prima vista.
Meg
Lo spirito iniziale dei Ministri è facilmente riassumibile in uno dei nostri primi pezzi, Abituarsi alla fine: “Io sono nato da qualche mese, conto di vivere per qualche mese, c’è solo un modo per vedere oltre, pianificare la propria morte, ed è fare debiti”. L’ho scritto mentre stavo cominciando un mutuo, e mi aveva colpito che quello fosse il primo documento dove si parlasse del mio futuro. Prevedeva che fossi ancora vivo dopo vent’anni.
Federico Dragogna (Ministri)
Verso la fine degli anni ottanta, quando avevo circa vent’anni, avevo incominciato a rifiutare tutto ciò che era in qualche misura colto. Volevo l’ignoranza, mi dava un senso di libertà d’espressione, di scontro sociale.
Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori)
Ho fatto il primo concerto a trentasei anni, le prime prove l’anno precedente. Non so suonare, se non per qualche lezione di pianoforte che ricordo ancora come un incubo. Le aveva volute mio padre. Figlio di due mezzadri, aveva la quinta elementare, suo padre imparò a leggere e a scrivere nella sezione del partito comunista.
Max Collini (Offlaga Disco Pax)
Ho lavorato alle ultime canzoni tenendole in testa, ero in giro a fare i concerti, allo sbaraglio totale, duecento date, avevo una chitarra di scorta per l’albergo e dei fogli sparsi. Ero un cantiere aperto. Avevo questo rapporto intimo deflagrato e tutto quello che succedeva attorno. Una strana tensione sociale, indecifrabile.
Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica)
Radio popolare, 3 giugno 2011Suonare il paese prima che cada a Jalla Jalla
Andrea Scarabelli parla di Suonare il paese prima che cada ospite di Paolo Maggioni a Jalla! Jalla!, su Radio Popolare, venerdì 3 giugno 2011.
Ospiti Massimo Pupillo degli ZU e Tying Tiffany! Ascolta l‘intervista
Ospiti Massimo Pupillo degli ZU e Tying Tiffany! Ascolta l‘intervista
Corriere della sera, 1 giugno 2011Racconti rock dagli anni zero
Un decennio visto dai musicisti indipendenti. Esce l’8 giugno il libro Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero curato da Andrea Scarabelli, che raccoglie scritti di alcuni protagonisti della scena “indie” italiana degli ultimi anni. Tra questi – dopo un’introduzione di Emidio Clementi (Massimo Volume) –, Francesco Bianconi (Baustelle), Dente, Federico Dragogna (Ministri), Meg, Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti), Tying Tiffany. Presentano il libro oggi alla Santeria (via Paladini 8), alle 18.30, Andrea Scarabelli e Marco Philopat, con Dente, Dragogna, Molteni e Stefano Fiz Bottura.
di Matteo Speronihttp://affaritaliani.libero.it, 1 giugno 2011Il rock indipendente italiano degli anni zero? Povero ma coraggioso
Baustelle, Le luci della centrale elettrica, Offlaga Disco Pax, Dente e molti altri. Sono alcuni dei protagonisti del rock indipendente italiano dei cosiddetti “anni zero”. In “Suonare il paese prima che cada” (Agenzia X), Andrea Scarabelli raccoglie le testimonianze dei protagonisti dell’“altra” musica italiana. Ragazzi e ragazze “che non si sono risparmiati. Non hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. E che hanno continuato, con ogni forza residua, a suonare il paese prima che cada”.Nella musica italiana qualcosa sta cambiando. È emersa una nuova scena, povera di mezzi e ricca di determinazione, refrattaria alle categorie e seguita da un pubblico trasversale. I musicisti che vi partecipano hanno attraversato il decennio senza tirare il fiato: intorno a loro crollavano palazzi e simboli, si aprivano crepacci in cui precipitavano certezze acquisite. Hanno visto sciogliersilavoro e mercati, innalzarsi la soglia della povertà insieme al riscaldamento globale. Attaccato jack agli amplificatori mentre il cosiddetto primo mondo dichiarava una guerra dopo l’altra, suonato a tutto volume senza riuscire a sovrastare i focolai di risate televisive. Guidato per ore in furgone, attraversando la penisola alla faccia di presunte secessioni. E se anche l’Italia sta per crollare, questi artisti non si sono risparmiati. Non hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato, con ogni forza residua, a suonare il paese prima che cada.Racconti orali di: Francesco Bianconi (Baustelle), Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), Pierpaolo Capovilla (Il teatro degli orrori), Max Collini (OfflagaDisco Pax), Dente, Federico Dragogna (Ministri), Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35), Meg, Enrico Molteni (Tre allegri ragazzi morti), Massimo Pupillo (Zu), Tying Tiffany. In più, l’appendice con la storia della discografia indipendente italiana (2000-2010) a cura di Davide Brace.
L’autore – Andrea Scarabelli è nato a Milano nel 1983. Suoi racconti, interviste e recensioni sono apparsi su “Rolling Stone”, “Pulp”, “il manifesto”, Gq.com, Carmilla, “Atti impuri”. Nel 2008 ha pubblicato la docufiction Beautiful (No Reply).
L’autore – Andrea Scarabelli è nato a Milano nel 1983. Suoi racconti, interviste e recensioni sono apparsi su “Rolling Stone”, “Pulp”, “il manifesto”, Gq.com, Carmilla, “Atti impuri”. Nel 2008 ha pubblicato la docufiction Beautiful (No Reply).
www.periodicoitalianomagazine.it, 9 ottobre 2012Il sound degli anni zero
Nella musica italiana qualcosa sta cambiando. È emersa una nuova scena, povera di mezzi e ricca di determinazione, refrattaria alle categorie e seguita da un pubblico trasversale. È questa la grande forza d’azione dei musicisti, oggi, secondo Andrea Scarabelli, autore di Suonare il paese prima che cada. La nuova musica parte dal basso e funziona meglio di quel che viene concesso dall’alto, perché è la gente stessa a richiederlo. Così emerge nel mercato musicale italiano una nuova scena, povera di mezzi e ricca di determinazione, refrattaria alle categorie e seguita da un pubblico trasversale. I musicisti che vi partecipano hanno attraversato il decennio senza tirare il fiato: intorno a loro crollavano palazzi e simboli, si aprivano crepacci in cui precipitavano certezze acquisite. Hanno visto sciogliersi lavoro e mercati, innalzarsi la soglia della povertà insieme al riscaldamento globale. Attaccato jack agli amplificatori mentre il cosiddetto primo mondo dichiarava una guerra dopo l’altra, suonato a tutto volume senza riuscire a sovrastare i focolai di risate televisive. Guidato per ore in furgone, attraversando la penisola alla faccia di presunte secessioni. E se anche l’Italia sta per crollare, questi artisti non si sono risparmiati. musica1.jpgNon hanno aspettato tempi migliori per evitare di sporcarsi le mani. Non si sono trasferiti all’estero. Hanno continuato, con ogni forza residua, a suonare il paese prima che cada. È questo il panorama descritto nel libro Suonare il paese prima che cada. Musica dagli anni zero, edito da Agenzia X e a cura di Andrea Scarabelli che raccoglie scritti di alcuni protagonisti della scena “indie” italiana degli ultimi anni. Una realtà che ha ben poco a che fare con Sanremo o X-Factor e che ha tutto il sapore di vecchie cantine, buona musica e una passione che si rinnova di generazione in generazione alla ricerca di un riconoscimento proporzionale alla qualità che produce.
di Lucrezia Pallotta