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Stand 4 what
Blow up, gennaio 2019 Stand 4 what
La vicenda di Colin Kaepernick, il giocatore di football statunitense che ha portato in giudizio la NFL accusando la lega di non permettergli di giocare (e quindi di lavorare), è ormai abbastanza nota. A farla breve, basti pensare che l’allora ventinovenne Kaepernick un bel giorno del 2016 decideva di restare seduto durante l’inno americano che viene, come da tradizione, suonato prima di ogni partita, comunicando contestualmente alla stampa di mezzo mondo che non aveva intenzione di onorare un paese in cui multirazzialità e multiculturità sono ancora oppresse dalla violenza. Ovviamente si riferiva soprattutto all’annosa questione della mano pesante che le forze dell’ordine hanno da sempre nei confronti della popolazione afroamericana – ormai atrocemente testimoniata, senza più filtri, da smartphone e telecamere di sicurezza – convincendo, con quella coraggiosa posizione, anche tanti altri colleghi del mondo dello sport, e non solo: i quali hanno iniziato a raccogliersi attorno ad un attivismo più o meno pacato, ben riassunto nel movimento Black Lives Matter nato qualche tempo prima. Ma è davvero un processo così lineare, così facilmente descrivibile, quello a cui stiamo assistendo? È proprio la sagoma di Kaepernick a campeggiare sulla copertina di Stand 4 what. Razza, rap e attivismo nell’America di Trump, un altro dei preziosi saggi sulla cultura afroamericana con cui u.net/Giuseppe Pipitone tenta di illuminare l’ennesimo mutamento all’interno del cosmo sociale e politico dei neri statunitensi.
“Nel corso del secondo mandato Obama abbiamo assistito ad un rinascimento nero che si intravede nella musica, nel cinema, nella letteratura, nell’arte e nella politica di base. Da qui la riscoperta di temi e valori ‘impegnati’. Molti artisti stanno portando all’attenzione di milioni di persone la ‘vera’ realtà dell’America nera: da qui la necessità di parlare del fermento che da qualche anno sta facendo ribollire di una nuova energia le strade delle metropoli americane”, mi dice Giuseppe. In Stand 4 what tira in ballo tanto Kendrick Lamar che Beyoncé, riconoscendoli come esponenti di un medesimo “momento di rottura”. Lecito chiedersi se anche il dissenso possa diventare, in qualche modo, pericolosamente pop, come si diceva in queste pagine qualche mese fa.
“L’America – in particolare le nuove generazioni – si è trovata di fronte allo scontro tra il sogno infranto di un’integrazione mai realizzata e una società incapace di fare i conti con la propria memoria. Di fronte a tutto ciò, non solo gli artisti underground più politici, ma anche quelli mainstream hanno sentito la necessità di esprimersi e denunciare lo stato delle cose. La percezione potrà anche essere diversa in Italia, ma bisognerebbe comprendere i sottotesti: una sorta di messaggio in codice per chi appartiene a quella tradizione culturale, che trasformano anche semplici videoclip in celebrazioni o denunce particolarmente efficaci. Penso proprio a Beyoncé, Kendrick Lamar, Jaz Z e molti altri.”
Resta da chiedersi allora in che modo sia possibile conciliare (se si può) le parole di Angela Davis e Stokely Carmichael con l’attivismo contemporanei. Se cioè la cultura – e la musica particolare – possono davvero arrivare laddove le parole e gli articoli di giornale non trovano spazio.
“È più semplice di quanto si possa immaginare. I militanti Black Lives Matter si rifanno proprio al movimento per i diritti civili, l’ultimo a porre una sfida reale all’amministrazione statunitense. Riprendono ad esempio pratiche di azione diretta, sconosciute dai militanti dell’hip hop generation negli anni ‘90 e 2000. Secondo BLM si è passati dalla difesa dei diritti civili a quella dei diritti umani, della vita di ogni individuo. Tutto ciò è ovviamente a demerito delle forme di attivismo immediatamente precedenti, all’interno della comunità nera.”
Eppure, forse, porsi in continuità con il passato a l’adagio del “I’m black and I proud” potrebbe rilevarsi un’arma a doppio taglio sul lungo termine.
“L’afro di Kamasi Washington, e ancora più quello di Kaepernick, rischiano ovviamente di essere messi sotto copyright. I soldi, soprattutto quelli delle multinazionali, stanno già facendo la differenza. Basta pensare a Kaepernick e alla pubblicità della Nike. Un’operazione pericolosa, in cui si rischia di cucire un brand sulla lotta. Dare l’illusione che grazie ad un paio di Nike puoi riuscire nella tua protesta è stata una scelta che certamente impatterà sul futuro del movimento”.
Tra le consigliatissime pagine di Stand 4 what non mancano spunti e riflessioni che conducono a sviluppare una percezione diversa di come si stanno muovendo le cose su entrambe le sponde dell’oceano, anche se di black culture si è del tutto a digiuno. E, manco a dirlo, non è (solo) un fatto di groove, flow, latte o caffè… anzi. La verità è che, quando si parla di lotte e diritti, tutto ciò che ha a che fare con il conto in banca allunga la propria ombra in maniera terribilmente inquietante, da sempre. E ci risiamo.
di Carlo Babando
ilfattoquotidiano.it, 11 settembre 2018 Stand 4 What: non solo Nike, in America chi combatte sta con Colin Kaepernick
Il viso di Colin Kaepernick, lo stesso della campagna Nike che ha suscitato polemiche e forti prese di posizione nei giorni scorsi, appare – stilizzato ma riconoscibilissimo nell’iconica posizione di protesta inginocchiata – sulla copertina di Stand 4 What, con il sottotitolo Razza, rap e attivismo nell’America di Trump. L’autore del libro è u.net, pseudonimo dietro cui si cela Giuseppe Pipitone, uno dei più importanti studiosi italiani di cultura afroamericana, tra l’altro in procinto di iniziare un percorso come ricercatore a Harvard proprio su questo soggetto. Secondo lo stesso u.net, “siamo testimoni di una nuova fase di coscienza individuale e collettiva, di un momento di definizione di nuovi valori personali e politici”. E ancora: “Una critica radicale delle esperienze passate sta portando alla luce nuovi modi di comprendere e vivere la propria individualità. Gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta sono l’ispirazione per riprogettare radicalmente il movimento, la base da cui immaginare nuovi percorsi sociali, artistici e politici”.
Sgombriamo il campo dagli equivoci: è chiaro che Nike non ha sposato la resistenza anti-Trump di Kaepernick se non dopo un’attenta analisi dei costi e benefici (e infatti i primi dati post-campagna parlano di un importante incremento delle vendite) ed è altrettanto chiaro che Trump non è la causa – ma semmai la conseguenza – della crescente polarizzazione politica e sociale negli Stati Uniti. Da questo punto di vista, l’analisi dell’autore è molto netta, evidenziando come otto anni di presidenza Obama non abbiano intaccato questo processo: “(Obama) è stato il presidente del dialogo con il mondo musulmano, ma è anche colui che ha autorizzato l’uccisione attraverso i droni in Pakistan, Siria e Iraq. È stato il primo presidente afroamericano, paladino dei diritti civili per gli omosessuali, ma il suo secondo mandato è stato caratterizzato da violenti scontri tra polizia e comunità di colore. È stato il presidente che ha fatto ripartire un’economia in profonda crisi, ma la sua riforma sanitaria non sta dando i frutti sperati”.
Stand 4 What diventa quindi un viaggio complesso e probabilmente anche contraddittorio, che parte dalle periferie metropolitane e arriva a Jay Z e Beyoncé passando per le espressioni più attuali del rap cosciente e “letterario” di Kendrick Lamar e Childish Gambino. Suggestivamente, il percorso parte dal Wakanda, lo stato africano immaginario del film Black Panther, simbolo di come sarebbe potuta essere la vita di quelle popolazioni senza colonialismo, schiavitù, razzismo. Ma le rappresentazioni del cinema e della rete non sono sufficienti a creare un vero movimento di popolo: “non voglio essere un hashtag”, recita il cartello sollevato da uno dei manifestanti nelle fotografie che accompagnano il testo. E quindi la conclusione, senza svelare troppo, diventa una sorta di mappatura dei luoghi e delle persone che stanno concretizzando la lotta e la sua espressione socioculturale.
Stand 4 What è per tutti questi motivi una lettura consigliatissima che – tra le altre cose – riesce a rimanere scorrevole anche nell’apparente frammentarietà dei temi e delle testimonianze raccolte. Da segnalare, infine, anche il sito dell’autore, www.hiphopreader.it, che raccoglie una nutrita e interessante serie di articoli e abstract ovviamente gratuiti.
di Kento
carmineerricoblog.wordpress.com, 16 luglio 2018 Intervista a u.net
u.net: Finché in Italia non ci sarà un nuovo movimento politico in grado di articolare una visione del futuro non avremo mai una rivoluzione artistica

Qualche giorno fa sono stato a Milano per lavoro. Mentre ero a pranzo ho scoperto che – a sorpresa – il Cox18 organizzava un dj set con Dj Lord (Public Enemy/Prophets of Rage). I ‘nuovi’ Rage Against the Machine, avevano suonato in città il giorno prima. Chiaramente ero lì e non potevo mancare. E ho avuto il piacere di incontrare (a parte Tom Morello, B-Real, Tim C e Brad Wilk) uno degli organizzatori dell’evento, nonché figura cruciale per la divulgazione del rap militante in Italia e non: Giuseppe Pipitone, anche noto come u.net. Ha scritto diversi libri ed è bravissimo a farlo. L’ultimo si intitola Stand 4 what e parla della reazione della scena hip hop americana alle azioni politiche del presidente Trump. In questo periodo, anche da noi, alcuni musicisti, prima non schierati, stanno contestando Salvini e la Lega. Pure “Rolling Stone Italia” ha dedicato una copertina e diverse pagine del giornale, del sito e molti post sui social, ad una campagna contro l’attuale ministro degli Interni. Ho chiesto a u.net un personale punto di vista su questo, facendo anche un parallelismo con gli Stati Uniti.

Molto spesso si pensa alla musica in quanto tale. E basta. Ma l’ascoltatore medio non da peso a quanto possa influenzare le mode di una generazione, farle da sottofondo, condizionare le menti o raccontare un’epoca. Stand 4 what parla di uno dei periodi neri della storia americana: quella governata da Trump. Come è stato vissuto il passaggio di consegne, nella scena hip hop, tra Obama e Trump?
Negli ultimi anni c’è una sorta di rinascita delle arti e della politica di base nera negli Stati Uniti. La realtà contemporanea, la speranza rivelatasi illusione di un’America post razziale, il livello di marginalizzazione e repressione attuato nei confronti della popolazione di colore, non possono più esser nascosti né ignorati.
È il sogno infranto di un’integrazione mai davvero realizzata che si scontra con la realtà di una società incapace di fare i conti con la propria memoria.
E se durante il primo mandato di Barack Obama, nonostante le perplessità di alcuni intellettuali, artisti e militanti, rispetto alla distanza tra le sue aspirazioni ideali e la politica liberista in realtà attuata, non vi fu una forte opposizione nera, durante il secondo quadriennio, le tensioni sociali e politiche sono venute a galla con voci critiche sempre più assordanti. È stato il presidente del dialogo con il mondo musulmano, ma è anche il presidente che ha autorizzato l’uccisione attraverso i droni in Pakistan, Siria e Iraq. È stato il primo presidente afroamericano, paladino dei diritti civili per gli omosessuali, ma il suo secondo mandato è stato caratterizzato da violenti scontri tra polizia e comunità di colore. È stato il presidente che ha fatto ripartire un’economia in profonda crisi, ma la sua riforma sanitaria non sta dando i frutti sperati. Proprio dal 2012 con l’inizio del secondo mandato di Obama, una nuova generazione di artisti neri ha iniziato a produrre storie in linea con la dura realtà.
Anche a livello artistico abbiamo assistito a un’evoluzione simile, dalle canzoni, film e libri a sostegno di Barack Obama a una sorta di golden age della musica di protesta, dalla speranza in un cambiamento all’aggravarsi della violenza e della polarizzazione sociale. Con l’elezione di Trump, proteste e manifestazioni sono aumentate. Agent Orange, infatti, ha reso subito evidente l’intenzione di voler eliminare tutte le paure dei bianchi sulla pelle di migranti, musulmani, donne, neri e di tutti coloro che non “meritano di vivere il sogno americano”.
Questo tipo di rivendicazioni, questo sound della dissidenza nera, la nuova ondata di musica di protesta cattura, cristallizzandola, la catastrofe razziale del ventunesimo secolo: il complesso carcerario industriale, la disuguaglianza della ricchezza a livello globale, il razzismo elevato a sistema, il duro sfruttamento di donne e bambini.
Il genio artistico di Bey, Kendrick, Joey Badass, Vic Mensa, David Banner, Killer Mike, Common, Talib Kweli, Yasiin Bey, Kamasi Washington e D’Angelo ha prodotto le prime strutture di un immaginario dissidente di cui l’America nera ha un’esigenza enorme per continuare a credere in un cambiamento possibile, per continuare a opporsi a pratiche criminali e razziste e continuare a riaffermare l’importanza della vita nera, Black Lives Matter…

Una considerazione: Kanye West che supporta Trump è un po’ come un meridionale che vota la Lega o c’è qualcosa di più secondo te?
Di afroamericani conservatori che sostengono Trump sin dalla sua campagna presidenziale, ce ne sono molti, tutti conservatori da tempo. Per quanto riguarda il supporto di Kanye West per il 45° credo che molto dipenda dallo stato di salute mentale del soggetto in questione. Credo che Kanye debba ricominciare a prendere le sue pilloline o prima o poi arriverà persino a negare lo schiavismo… ops l’ha già fatto! Ecco prova ulteriore di quanto ho scritto.

In Italia, politicamente, non siamo messi tanto meglio. Tempo fa intervistai Kento, Kiave e Piotta. C’era “Rolling Stone Italia” che sosteneva che da noi il rap impegnato non esisteva più. Loro sono un esempio del contrario. Eppure ora la stessa rivista afferma che la tendenza stia cambiando o debba farlo. Ha pubblicato un articolo nel numero di Maggio, 2018 intitolato La Nuova “Bella Ciao” l’ha scritta Ghali, a firma di Giovanni Robertini. Lo fa nel nuovo numero, schierandosi contro Salvini già in copertina e raccogliendo supporto di artisti (non solo musicali) tra cui anche alcuni rapper. Secondo te questo nuovo movimento rivoluzionario ha terreno fertile nella nostra Italia reduce dal ventennio di Berlusconi e da governi non eletti dal popolo che hanno allontanato i giovani dalla politica?
L’America odierna è l’esempio più adatto per risponderti. Da quando un nuovo movimento politico giovanile di base ha iniziato a far ribollire le strade sia delle metropoli che della suburbia americana per opporsi al razzismo e alla violenza della polizia, una nuova ondata di arte di protesta è emersa in modo prepotente dall’underground al mainstream. Perché un Movimento sia efficace servono attivisti. Perché un Movimento sia capillare servono artisti capaci di articolarne le idee. Nel corso degli ultimi anni alcuni artisti hanno parlato, manifestato, cantato a sostegno del Movimento: da personaggi come Killer Mike e Talib Kweli ormai considerati portavoce del Movimento ad artisti ‘non conscious’ come David Banner e T. I. che hanno iniziato a dar visibilità alle rivendicazioni di BLM, proprio come stanno facendo Joey Badass e Vic Mensa, tra i pochi rappresentanti della nuova scena. D’altronde il politico e l’artistico sono due istanze di uno stesso Movimento e operano al meglio quando si integrano a vicenda. Gli attivisti ispirano i testi degli artisti che, a loro volta, ne diffondono le idee.
Questo per dire che finché in Italia non nascerà un nuovo movimento politico capace di articolare una nuova visione del futuro non avremo mai nulla di rivoluzionario nemmeno a livello artistico. Ci saranno artisti e canzoni, necessari ed indispensabili, le cui rivendicazioni rimarranno slegate le une dalle altre, rappresentando semplicemente la sensibilità di questo o quell’artista nei confronti di un tema politico o sociale. Senza alcuna malinconia rispetto a ciò che è stato, voglio ricordare ai più giovani come questo sia accaduto negli anni novanta in italia; un movimento antagonista forte ha prodotto un movimento artistico forte e radicale, con la sconfitta del primo abbiamo assistito all’implosione del secondo.
Detto questo, per quanto riguarda RS preferisco stendere un velo pietoso, sia sugli articoli pubblicati che per la scelta di campo fatta con l’ultima copertina. Comunque prima di esprimere un giudizio, vorrei seguire le prossime uscite della rivista per capire se sia l’inizio di una sorta di campagna o si tratti solo di una singola copertina, che darebbe l’impressione di mero opportunismo.

In quest’ottica, i 99 Posse o gli Assalti Frontali potrebbero stare ai Public Enemy, tanto quanto Ghali a…
…forse Joey Badass!
di Carmine Errico
Lacasadelrap.com, 8 luglio 2018 Il potenziale della marginalità: lo scenario Urban di Stand 4 what, il nuovo libro di u.net
Con Stand 4 what. Razza, rap e attivismo nell’America di Trump, il ricercatore di storia e cultura afroamericana Giuseppe Pipitone, conosciuto come anche come “u.net”, torna con un testo appassionante che fa muovere alla riflessione e all’approfondimento di temi e di problematiche impegnate, edito per AgenziaX.
Dopo essersi concentrato su Bigger than hip hop (2006) sugli sviluppi della scena hip hop americana, aver fatto poi un avvincente excursus in Renegades of funk (2008) sulle radici della cultura hip hop e aver quindi tratteggiato il passaggio dell’hip hop dall’underground al mainstream in Louder than a bomb (2012), l’autore mette in luce dinamiche, contrasti, presenze, rivendicazioni culturali e dibattici politici della black culture nell’America di Trump.
Come in precedenza, una raccolta di saggi di voci diverse evidenziano i processi della società americana. Ad esempio: la profonda disillusione in Obama, accolto prima con ottimismo, speranza e spirito utopistico – tant’è, che nella notte del suo insediamento «il 69% dei neri interpellati della Cnn pensava, che “la visione di Martin Luther King fosse stata raggiunta”.» ( u.net, 2018, p. 34, cit. dell’autore) – e dopo con cupo disincanto. Sono analizzati, poi, il perdurare delle brutalità operate dalla polizia verso le minoranze e in particolare verso la popolazione afroamericana, la strumentalizzazione e la mal informazione perpetrata dai media televisivi versus le manifestazioni e le proteste dei movimenti, che si battono per porre l’accento sulla questione razziale e LGBTQ. L’analisi passa, quindi, a considerare le forme di ri-segregazione (U. net, 2018, p. 83). Per cui le città, centri di mescolamento quotidiano, sono anche il luogo di limitazioni di opportunità di interazione tra strati sociali diversi. Questo fenomeno, meglio noto come gentrification (u. net, 2018, pp. 82- 91), emerge in particolare a livello scolastico.
Ne deriva che “città-mondo”, come Oakland ad esempio, molto eterogenee, dinamiche e creative a loro interno contengono, ricorda Marc Augé (2014, p.57), «ogni altro genere di divisione». La divisione più evidente è quella economica; la ricchezza, così come il potere politico sono concentrati nelle grandi metropoli, nelle mani di poche comunità, mentre «la povertà tutto intorno» (u.net, p. 83), su gruppi poveri e marginalizzati.
Un fenomeno simile accade in Europa, ad esempio nelle banlieue parigine. Queste dinamiche discriminatorie e segregatici, scrivono Sean Reardon e Kendra Bischoff (2016), indeboliscono l’empatia sociale e portano ad una contrazione degli investimenti in programmi sociali a sostegno della classe media (u. net, p. 88).
Viste queste tensioni interne, il «mondo-città» (M. Augé, 2007, p. 13) diviene “il teatro” e lo sfondo abituale di disagi, di soprusi, di criminalizzazioni, e discriminazioni razziste nei confronti delle persone appartenenti alle minoranze. Ciò è ben incarnato ad esempio, nei video This Is America di Childish Gambino, o in Alright di Kendrick Lamar, oppure Warzone di T.I. Infatti, nei quartieri, nei sobborghi e nelle aree periferiche, come ad esempio l’area metropolitana di St. Louis, oppure Baltimora, Cleveland e Detroit, certe categorie di persone sono criminalizzate e incarcerate più di altre. Ciò dipende da una serie di deprivazioni di sicurezze economiche e sociali che possono, come una “profezia che si auto-avvera”- portare a compiere degli illeciti. Gli illeciti, però, come dichiara Boots Riley, non sono dovuti a «cattive attitudini o carenze culturali» dei poveri e delle minoranze (u. net, 2018, p. 159), ma ad una necessità di sopravvivenza, da una necessità di migliore le proprie chances, una necessità di esprimere il proprio potenziale personale. Il disagio per le proprie possibilità di vita limitate, infatti, può portare al disadattamento; quest’ultimo alla devianza. Tuttavia, essa non è esclusivamente di segno negativo, ossia orientata alla rottura delle norme/regole sociali e dei vicoli etici e quindi alla delinquenza.
Vi è, come ricorda Common, un grande potenziale nelle carceri (u. net, 2018,p. 164). La devianza può essere in positivo e incarnare l’espressione della libertà della persona di andare oltre alle attese nei suoi confronti e alla condizione marginale in cui si trova allo scopo di modificarla, di migliorala (L. Milani, 2006). Così, si oppone ai processi di etichettamento, non solo, come sostiene anche la femminista bell hooks, dimostra come:
«la marginalità non rappresenta necessariamente un luogo di privazione… Può anche essere un ambito per la nascita di […]» un nuovo « spazio di resistenza» (u.net, p. 164).
Da condizioni marginali possono nascere forme di resilienza, nonché di resistenza.
l potenziale, di cui parlava Common, silenziato nelle carceri, quando ha la possibilità di esprimersi nella tensione artistica e nelle consapevolezze attivistiche di qualità, diventa una posizione critica di denuncia circa lo status quo. Pensiamo al film Black Panter, oppure al movimento Black Lives Matter, oppure alla canzone di Kendrick Lamar Alright.
In modi diversi queste sono capaci di congiutivizzare la realtà, u. net a proposito suggerisce:
«Nel profondo di Wakanda giace la domanda esistenziale più importante: “Se non ci avessero ridotti in schiavitù che cosa sarebbe successo?”» (u.net, 2018 ,p. 11).
Si esprime, quindi, con tinte e toni differenti in diverse opere d’ingegno artistico, letterario e cinematografico un movimento di resistenza. In questo, espressioni artistico-culturali anticonformiste, creative, sperimentali e inedite, si saldano all’impegno politico e sociale. Esse diventano, così, miccia e benzina dei contrasti, ma anche del cambiamento che attraversa, nonostante le resistenze bigotte e limitanti, che caratterizzano la società americana.
Resistenze che portano, più o meno consapevolmente e/ o in modo deliberato e violento, a considerare l’attivismo antifascista di sinistra, che cerca di opporsi al razzismo quotidiano (u. net, 2018, p. 177), come estremismo; e l’impegno culturale e artistico è ridotto ad una carnevalata bizzarra ed estrosa non comprensibile. A proposito, pensiamo all’interpretazione che è fatta delle manifestazioni Lgbtq; oppure a Beyoncé al suo omaggio della cultura nera e ai suoi tratti meno compresi e accettati durante il Coachella Festival (u.net, 2018, pp. 243-244).
Questo volume è un insieme di contributi vibranti ed capace d’increspare il pressapochismo con cui si tratta la “diversity” nella quotidianità. Infatti, il lettore è guidato a fare un confronto tra quello avviene nella società americana e quando sta accadendo, facendo i distinguo del caso, con il contesto italiano.
Tuttavia, un’ulteriore consapevolezza che si matura a seguito della lettura del testo considerato è l’importanza della fruizione di opere d’ingegno culturale, artistico-musicale impegnate e l’ascolto attento delle liriche. Esse, contenendo disagio e disadattamento verso una situazione ingiusta e discriminante, sono colme di potenziale sovversivo e stimolano l’empatia sociale verso situazioni più o meno liminali. La presa di posizione contro le dinamiche e i processi della realtà quotidiana, apre, così, degli interstizi al cambiamento sociale e di mentalità, indipendente dalle sue logiche abituali. La cultura hip-hop, infatti, sfida logiche ordinarie, originando un movimento straordinario e globale.
di Cristina Breuza
Rumore, luglio 2018 u.net Stand 4 what
Voto: 8/10
Sesto libro per u.net, studioso di cultura hip hop, storia black e Movimenti americani. Stand 4 what è “una panoramica sulle dinamiche in atto nella comunità nera in America”, scrive l’autore milanese ormai conosciuto anche negli Stati Uniti. La descrizione di nuove pratiche di lotta e vecchi vizi come razzismo, supremazia bianca e marginalità coinvolge sia le azioni collettive di Black Lives Matter sia quelle di singole persone, da artisti musicali mainstream come Beyoncé, T.I., Jay-Z o Childish Gambino, che usano soprattutto i video per mettere in evidenza i lati oscuri del loro Paese, fino a quelli più militanti come Talib Kweli, M1 (Dead Prez) o Jasiri X. Il passaggio da Obama, che ha deluso molti, alla drammatica farsa di Trump ha riacceso l’esigenza di farsi sentire e stare uniti di una gran parte della comunità afroamericana. U.net seleziona fatti, opere e opinioni per raccontare "una nuova rinascita nera", "una nuova fase di coscienza individuale e collettiva". Capitolo dopo capitolo, la descrizione di una realtà preoccupante convive con la presa di coscienza che oltreoceano si stia vivendo “un momento di definizione di nuovi valori personali e politici” che, attualmente, corrisponde a una speranza concreta di cambiamento. Questo perché alle iniziative partite dal basso fanno eco quelle di personaggi quanto mai popolari: “Prima ancora di avere cantato una sola parola, con la sua presenza Beyoncé ha portato in scena la maestosità degli antichi sovrani africani, lo stile dei funerali bayou jazz, il funk afrofuturista anni settanta, la trap dei giorni nostri e il gospel”, scrive u.net descrivendo l’incipit della chiacchierata esibizione al Coachella. Stand 4 whatè un documento che ferma un momento storico ma anche un libro destinato a proseguire nell’attualità afroamericana.
di Luca Gricinella
lacittanuova.milano.corriere.it, 26 giugno 2016 Trump e afroamericani nel 2018: la denuncia si esprime in musica
Si apre con la frase di Malcolm X “If you don’t stand for something, you fall for everything” e prende in prestito il titolo a una canzone del rapper e attore statunitense Nick Cannon, il libro Stand 4 what. Razza, rap e attivismo nell’America di Trump - uscito il 14 giugno 2018 per Agenzia X - scritto da u.net (www.hiphopreader.it), esperto di cultura hip hop, storia black e movimenti americani e già autore, per la stessa casa editrice, di Renegades of funk, Bigger than hip hop e Louder than a bomb. Con questo suo ultimo lavoro, fin dai primi riferimenti, dimostra l’intenzione di indagare l’odierna condizione degli afroamericani, “mixando” politica e musica. Per studiare come questi due differenti ambiti si incontrino-scontrino a vicenda. E come, soprattutto, il secondo tenti di denunciare-modificare-scardinare il primo, diventando non solo un mezzo per intrattenere ma anche per combattere la crisi - o deriva - in corso. Tornando dunque ad essere uno strumento di lotta e di protesta. Capace di fotografare (senza filtri) la realtà contemporanea. Come fa, per esempio, il rapper statunitense Common, che in Letter To The Free dichiara: “Stiamo ancora fissando negli occhi l’odio, lo stesso odio che dicono renderà di nuovo grande l’America”.
Il volume parte dal presupposto che gli scorsi otto anni di era Obama non abbiano intaccato la crescente polarizzazione politica e sociale degli Stati Uniti, finendo con il consegnare l’amministrazione del Paese nelle mani di Trump: un uomo deciso ad eliminare le paure dei bianchi sulla pelle delle minoranze, considerate indegne di vivere il sogno americano. Per comprendere questo momento storico – e capire non solo quale possa essere l’impatto delle mosse del nuovo presidente ma anche quali strategie di difesa si possano adottare - il libro descrive cosa è accaduto e cosa sta accadendo: quali sono i fatti, quali conseguenze hanno determinato nella produzione culturale e quali percorsi si stanno sviluppando nella ricerca di un nuovo immaginario black.
“Ora siamo di fronte a una nuova fase della coscienza individuale e collettiva nera, un momento di definizione di nuovi valori personali e politici. Una critica radicale alle esperienze passate sta portando alla luce nuovi modi di vivere la propria individualità. Gli anni cinquanta, sessanta e settanta sono l’ispirazione per riprogettare in maniera radicale il movimento, la base da cui immaginare nuovi percorsi sociali, artistici e politici”, scrive l’autore. Che, attraverso una serie di saggi e interviste ai protagonisti della scena hip-hop, individua nel rap una delle più potenti armi “antisistema”. Indicando così una via d’uscita alle problematiche causate dalle politiche neo conservatrici, attraverso le parole e le rime di Common, Kendrick Lamar, Beyoncé, T.I., Nick Cannon, Childish Gambino, Jay-Z e molti altri. Gli stessi cantanti della playlist che chiude il libro, e che ne è la colonna sonora.
di Gabriella Kuruvilla

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