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Spazio comune
che-fare.com, 13 settembre 2023 Un dialogo con Stavros Stavrides
Domani, 14 settembre alle 18.00 a Milano alla Fabbrica del Vapore Le Alleanze dei Corpi inaugura l’edizione 2023 con l’incontro “SPAZIO PUBBLICO – SPAZIO COMUNE Soglie, spazi trasformativi, usi civici: la città come commoning”, una riflessione sulla città a partire dal concetto di spazio comune, sviluppato dall’architetto e sociologo greco Stavros Stavrides, attivista e teorico dei commons, professore alla Scuola di Architettura della National Technical University di Atene (NTUA).
Stavros Stavrides sarà in dialogo con Annalisa Metta, Emanuele Braga, Alessandro Bollo, Marco Minoja ed Elisabetta Consonni, riportando le sue ricerche sui movimenti sociali urbani, sulla giustizia spaziale e sugli spazi di soglia nell’esperienza della metropoli. Tra i suoi libri più recenti, tradotti in molte lingue, Suspended Spaces of Alterity (2010), Towards the City of Thresholds (2010), Common Spaces of Urban Emancipation (2020). Spazio comune è stato recentemente tradotto e pubblicato in Italia da Agenzia X. Emanuele Braga e Maria Paola Zedda lo hanno intervistato intorno a cinque assi abitare; comunità, istituzioni, real estate, ecologie.

ABITARE
Emanuele: Iniziamo con una domanda di rito: come stai? Qui a Milano gli studenti dormono in tenda davanti alle università perché gli affitti delle case sono troppo alti. Il settore privato che dice di fare Social Housing riceve fondi pubblici, per poi preparare studentati di lusso al prezzo di 450 euro al mese per un letto in una camera condivisa. La polizia pochi giorni fa ha sgomberato un palazzo occupato nel quartiere di Nolo. Ci abitavano tutti lavoratori. Commessi, receptionist, riders, muratori. A Milano anche chi ha un lavoro e guadagna più di 1000 euro al mese è costretto a occupare una casa. Figuriamoci chi il lavoro non ce l’ha. Viviamo in una città in cui il costo della vita è del tutto sproporzionato rispetto alla distribuzione di ricchezza per la maggior parte degli abitanti.
Tu hai scritto un libro con Penny Travlou sull’abitare come costruzione di commons, osservando come nel mondo diverse comunità affrontano il problema che abbiamo qui a Milano con strategie di resistenza alternative. Ci spieghi cosa hai scoperto?
Stavros: Il problema degli alloggi è molto sentito anche in Grecia. La finanziarizzazione del mercato immobiliare ha creato un’immensa pressione su coloro che sono indebitati a causa dei mutui immobiliari. Inoltre, l’avanzare della turisticizzazione – soprattutto ad Atene – ha fatto salire alle stelle gli affitti e ha costretto molti a cercare alloggi a prezzi accessibili in quartieri lontani. Le piattaforme tipo Airbnb hanno contribuito notevolmente a questo processo, cambiando il carattere del centro.
Durante la crisi del debito pubblico (che colpisce ancora molto l’economia greca) l’unica organizzazione che forniva alloggi sociali è stata chiusa e il suo capitale è stato utilizzato per pagare parte del debito pubblico, il che, tra l’altro, è ingiusto e socialmente distruttivo.
Pubblicando la raccolta Housing as commons (composta per lo più da articoli commissionati) ci siamo posti l’obiettivo di stabilire una visione dell’alloggio che lo consideri un bene comune da liberare dalle priorità del mercato e dalle scelte di governance neoliberiste. Siamo riusciti a scoprire che in molte parti del mondo si sviluppano importanti lotte per l’abitare con questa prospettiva, implicita o esplicita. Esploriamo quindi casi di progetti abitativi informali che producono infrastrutture e pratiche quotidiane comuni, così come esperienze rilevanti che provengono da cooperative edilizie, squat e lotte per il diritto alla casa. Come concludiamo nella nostra introduzione, “per mantenere il potere trasformativo della comunanza, è importante combinare sempre le esperienze di comunanza con forme di organizzazione sociale che resistano sia al potere del mercato sia al dominio dello Stato”.

COMUNITÀ
Maria Paola: Spazio comune ha come sottotitolo la città come commoning, una definizione che insiste sulla differenza tra commons e commoning ponendo un accento sul processo, su un tempo in divenire, su una progressività e quindi sul tempo delle pratiche. Li definisci in modo mobile, ossia come cantieri collettivi di ibridazioni. Quali tempi per questi spazi?
Stavros: Credo che reclamare il diritto alla città significhi reclamare la città come bene comune, cioè reclamare il potere emancipatorio della creatività collettiva: reclamare la “città come azione”. (per seguire il suggerimento di H. Lefebvre). Lo spazio comune è sia un ambito esplicito del commoning urbano sia uno dei suoi più importanti fattori di formazione. Lo spazio comune accade: viene eseguito piuttosto che stabilito come disposizione spaziale permanente. Ciò significa che gli spazi comuni esistono finché le persone li producono e li mantengono attraverso le pratiche del commoning urbano. Lo spazio comune esprime il potere che ha la condivisione di creare nuove forme di vita in comune. Naturalmente non c’è garanzia che tali spazi mantengano il loro carattere. C’è sempre il pericolo che questi spazi vengano chiusi dalla comunità che li ha inizialmente creati. Credo che la forza del commoning risieda nella porosità che stabilisce nello spazio comune. La porosità dà ai nuovi arrivati l’opportunità di unirsi e di contribuire allo sviluppo del commoning. Gli spazi comuni devono essere eseguiti dalle pratiche delle comunità aperte di commoner.

ISTITUZIONI
Maria Paola: Scrivi “gli spazi comuni sono spazi prodotti nel tentativo di creare un mondo condiviso che ospiti, sostenga, esprima una comunità”. Questo slittamento evidenzia un’importante questione. La differenza tra la proprietà e l’uso. Quali possibilità hanno le istituzioni culturali pubbliche di divenire o essere percepite come spazio comune, senza appropriarsi e usurpare il concetto di bene comune?
Stavros: C’è sempre il rischio di presentare come comuni quegli spazi che sono offerti al pubblico ma che rimangono sotto il controllo di una certa autorità pubblica. Come dimostra l’esempio di Napoli, perché gli spazi comuni rimangano tali è necessario sviluppare forme di autogestione che li sostengano. Il commoning può emergere come un modo di produrre e utilizzare lo spazio urbano distinto dalla logica capitalistica solo finché si confronta sia con le regole imposte dal mercato sia con le premesse della governance capitalistica.

REAL ESTATE
Maria Paola: Dei tuoi scritti mi ha sempre fornito una fonte di ispirazione la relazione tra spazi e pratiche, la riflessione sulla loro interdipendenza, e su come gli spazi siano generativi degli immaginari e di conseguenza delle lotte e delle pratiche di resistenza. L’urbanistica o l’architettura, non solo dal punto di vista teorico, forniscono oggi gli strumenti per la creazione degli spazi di soglia, o almeno per la loro tutela? E dall’altro punto di vista, come liberare, recuperare spazi in una città che imposta la sua pianificazione con un funzionalismo produttivo, mirato alla privatizzazione, al profitto e allo sfruttamento del suolo?
Stavros: Come suggerisco in un articolo pubblicato di recente, “abbiamo bisogno di sforzi per ricollegare l’architettura alle pratiche di condivisione dello spazio. A partire da queste pratiche, gli architetti possono concepire e suggerire modi per incoraggiare e sostenere la comunanza attraverso e nello spazio abitato. Uno scambio reciproco di esperienze, competenze, conoscenze e saggezza acquisite nella pratica tra esperti e abitanti delle città può dare forma ai contorni del commoning urbano” (Stavros Stavrides (2023) Common space creation: can architecture help? (Towards a provisional manifesto), The Journal of Architecture, 28:1, 154-168, DOI: 10.1080/13602365.2023.2179097). Gli spazi comuni di soglia possono essere creati con l’aiuto di esperti (o assistenti tecnici, come li chiamano i movimenti dei senzatetto brasiliani), ma è la lotta della gente comune che può garantire il loro carattere comune e la loro proliferazione nella città.
Inoltre, è importante sviluppare immaginari che si discostino dalle rappresentazioni dominanti dello spazio urbano. Gli spazi possibili possono diventare il mezzo per immaginare e sperimentare forme di organizzazione sociale basate sulla mutualità, l’uguaglianza e l’assistenza inclusiva.

ECOLOGIE
Emanuele: Fra un mese a Milano si terrà Il WCCJ (Congresso mondiale per la giustizia climatica) in cui converranno i principali movimenti per il clima. L’Italia come la Grecia e il resto del Sud dell’Europa negli ultimi anni passa ormai quotidianamente dall’incendio, alle alluvioni ai tornadi con conseguenze catastrofiche per commons come l’acqua, l’ecosistema vegetale e animale, l’agroecologia. Pensi che il movimento per i commons del prossimo decennio sarà protagonista nei movimenti per il clima?
Stavros: Sì, credo di sì. Di recente ho visitato la Colombia e ho incontrato gli attivisti dei movimenti per l’abitare. Sono rimasto davvero stupito dal loro profondo coinvolgimento nelle lotte contro le politiche che hanno creato i catastrofici cambiamenti climatici. Vivendo in condizioni estremamente precarie (con inondazioni e piogge abbondanti che minacciano i loro insediamenti abitativi informali), dicono: Sentiamo il cambiamento climatico nelle nostre lotte per la sopravvivenza quotidiana. Siamo noi più di chiunque altro a poter dire quanto siano distruttive e ingiuste le politiche che sostengono l’“estrattivismo” (incluso l’estrattivismo urbano, cioè l’estrazione di profitti dalla chiusura delle infrastrutture urbane). Le lotte per proteggere la natura e per sostenere forme di convivenza che non minaccino la vita delle generazioni future sono lotte ispirate ai valori e alle esperienze del commoning.
di Maria Paola Zedda e Emanuele Braga
il manifesto, 29 giugno 2022Da Piazza Syntagma al futuro: come nasce una città da condividere
Indagini. Per Agenzia X, «Spazio comune» di Stavros Stavrides, docente all’Università tecnica nazionale di Atene. Una geografia dei movimenti urbani e della riflessione teorica che ne ha guidato i passi

Lo spazio comune quale insieme di relazioni in divenire, prefigurazione di legami sociali diversi, forma di emancipazione collettiva; prerequisito e prodotto allo stesso tempo, il suo principio di trasformazione risiede nel commoning. In particolare nel decennio scorso, le pratiche «del mettere in comune» emerse su scala globale hanno offerto alla vita sociale delle nostre città una prospettiva di apertura, di contro al controllo e alla disciplina che a livello spaziale il neoliberismo continua a esercitare attraverso strategie di recinzione ed enclavismo urbano, fino all’isolamento totale nelle cosiddette gated community.
Esattamente all’indagine di quei processi di connessione, ossia di quelle «pratiche che definiscono e producono beni e servizi da condividere (e grazie alle quali) certi spazi nella città diventano effettivamente comuni», è dedicato Spazio comune. Città come commoning, ora nelle librerie italiane grazie all’editrice milanese Agenzia X (pp. 218, euro 15). L’autore di questo già piccolo classico contemporaneo è Stavros Stavrides, professore di Architettura presso l’Università tecnica nazionale di Atene, con sede nello storico Politecnico, autore prolifico e attivista di lunga data e di larga esperienza.
Il volume fu pubblicato per la prima volta a Londra nel 2016, all’indomani della straordinaria stagione di movimenti sociali di piazza nati a livello transnazionale in risposta alla crisi finanziaria del 2008. A seguito dei severi programmi di salvataggio economico imposti dalla Troika, suo malgrado la Grecia è diventata il paese simbolo della resistenza contro l’austerity, che raggiunse uno dei suoi momenti più alti nella primavera del 2012, quando centinaia di migliaia di aganaktismenoi (indignati in greco) si radunarono spontaneamente a Piazza Syntagma. Stavros Stravides è stato testimone e protagonista diretto dell’occupazione che si sviluppò sotto il Parlamento greco per alcuni mesi; l’eco di quel conflitto e della sua vivacità espressiva e teorica risuona nelle pagine di Spazio comune.
Muovendosi all’interno di una variegata geografia di movimenti urbani, Stavrides riferisce dei progetti di edilizia sociale in Unione sovietica, delle reti di trasporto informali in Kenya, dei senzatetto in Brasile e nelle città dell’America Latina, degli squatter in Grecia, Turchia ed Egitto; racconta di un’Atene meno contemporanea – il caso del complesso abitativo di Alexandras Prosfygica, costruito negli anni 1933-35 per accogliere i profughi provenienti dall’Asia minore -, fino all’analisi di proficui esperimenti di autogoverno locale e di democrazia partecipativa quali il Chiapas e il Rojava.
Altrettanto articolata è la cornice concettuale: partendo dalla tradizione lefebvriana del diritto alla città, Stavrides attraversa la biopolitica di Foucault, la soggettivizzazione politica di Negri e Hardt, lo stato di eccezione di Agamben e Schmitt, le città porose di Walter Benjamin, i boulevard parigini di Haussmann, confrontandosi allo stesso tempo con intellettuali e studiosi come Bourdieu, Castells, Turner, Rancière, Sennet, Zibechi, Harvey, Holloway. L’autore impreziosisce questo quadro teorico con l’idea di «spazialità della soglia», ossia «una spazialità di passaggi che collega separando e separa collegando» e che si presenta come «una opportunità di infinite aperture, senza le quali il bene comune è destinato ad estinguersi».
Punti di connessione tra esterno e interno, tra entrata e uscita, gli spazi di soglia trascendono le recinzioni e creano le condizioni per ricevere nuovi commoners; nella loro produzione e nel loro utilizzo fiorisce l’inventiva collettiva, in un processo continuo di ridefinizione reciproca tra spazio, pratiche e soggetti coinvolti.
Il pregio di Spazio comune sta nel riuscire ancora a stimolare il dibattito sui beni comuni che, vuoi per sopraggiunte e mutate emergenze sociali, ha subìto dove una battuta di arresto, dove una generalizzazione/banalizzazione di contenuti rispetto al potenziale espresso circa un decennio fa. Guai a ridurre il valore del commoning a una forma di sostentamento, avvisa Stavrides, prendendo le distanze da un certo economicismo; attenzione parimenti al voler attribuire a esso una soluzione formale, ammonisce ancora il professore greco, tenendosi alla larga dalla tentazione di interpretazioni giuridiche in equilibrio tra diritto pubblico e privato.
Pervadendo ogni forma di vita, i commons semmai distruggono i confini formali conosciuti e mettono in discussione lo status stesso di proprietà, perché è solo «dentro, contro e al di là del capitalismo» – per dirla con un’espressione presa a prestito da John Holloway – che essi realizzano una forma attiva di relazione sociale. Ed è proprio grazie alla radicalità di tale prospettiva che Stavrides riesce a gettare la riflessione sui beni comuni oltre l’ostacolo della dialettica tra diritto e politica, restituendo loro una dimensione politica, partecipativa e trasformativa, ancora di grande attualità.
di Monia Cappuccini
effimera.org, maggio 2022 Spazio Comune. Città come commoning
Credo sia molto importante proporre al dibattito italiano questo contributo di Stavros Stavrides soprattutto in un periodo dove, dopo una grande appassionata stagione d’amore sui beni comuni, in Italia sembra ora esservi meno interesse. Eppure, in piena guerra, e senza nessuna prospettiva all’orizzonte che la crisi ambientale e sociale possa essere affrontata dagli strumenti in mano al potere, il comune e le sue derivazioni (commons, commoning, beni comuni) sono e rimangono tematiche centrali per pensare a e agire attraverso una trasformazione sociale emancipatrice dalle forme di dominio che riproducono il capitalismo.
Stavros Stavrides, architetto e attivista, è Professore di progettazione e teoria dell’architettura presso la Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, dove insegna corsi di laurea in progettazione abitativa, nonché un corso post-laurea sul significato dell’esperienza metropolitana. La sua ricerca è attualmente focalizzata su forme di emancipazione delle pratiche spaziali e spazi di condivisione. Questo suo Spazio comune è la traduzione di Common Space il primo libro pubblicato nel 2016 nella serie In common che dirigo per Zed book (ora Bloomsbury), una serie che ha prodotto importanti riflessioni sui commons come strumento di superamento del capitalismo. Il libro problematizza lo spazio nella città come bene comune nel contesto della città delle enclave recintate e dominate dal potere. Basandosi sulla tradizione lefebvriana che vede lo spazio come prodotto sociale e impegnandosi con teorici come Foucault, Hardt & Negri, Zibechi, Turner e Rancière tra altri, Stavros Stavrides attinge a molti esempi contemporanei di lotte e messa in comune di spazi e risorse per riflettere sul significato che il fare in comune (o commoning) assume per l’emancipazione dal dominio del capitale nella città contemporanea. Stavrides indaga il potenziale emergente dalla resistenza e le alternative create dagli abitanti della città identificando nel commoning la fucina di nuove soggettività e di relazioni spaziali organizzate in reti aperte che aprono comunità ai nuovi arrivati, a dal quale emergono nuove possibilità e nuove regole di condivisione.
In questa recensione mi preme evocare alcuni importanti aspetti delle lenti teoriche e interpretative proposte dal libro, soprattutto nei primi due capitoli, lasciando al lettore la scoperta di come queste lenti siano state ispirate da, e allo stesso tempo illuminano le, svariate pratiche discusse nei restanti capitoli sulla questione dell’abitare, della comunalizzazione delle strade, delle lotte della stagione delle occupazione delle piazze, delle comunità indigene Zapatiste tra altre. In particolare, in questi capitoli Stavrides discute un’esperienza collettiva di porosità urbana in un complesso di edilizia popolare di Atene costruito nel 1935 per accogliere rifugiati dall’Asia Minore, l’edilizia sociale, il rapporto tra commoning urbano e movimenti sociali, le strade come sito potenziale del commoning e contro la retorica della gentrificazione e del traffico razionalizzato, le piazze occupate e la costituzione di una soggettività collettiva e un senso del “noi”.
Ma è nei primi due capitoli che si concentra il nocciolo dell’impianto interpretativo del libro, che apre con uno sguardo alla città contemporanea, ai suoi spazi, a come questi vengono definiti e articolati attraverso i meccanismi del potere. In breve, la città si presenta di primo acchito come un arcipelago di enclave, di spazi recintati, in un mare urbano che coordina il loro operare. In questa topologia, la città e pervasa dalle tre forme di potere che Foucault analizza nella loro successione storica, il potere sovrano, il potere disciplinare e quello securitario. Nella città contemporanea però questi tre modelli di potere esistono come forme coesistenti, e come tali ordinano la spazio regolandolo. Il potere sovrano è quello che definisce nettamente le enclave urbane, che le distinguono in modo tale da tendere “ad essere mondi isolati”, il cui ordine spaziale “è garantito da regole che si applicano esclusivamente all’interno dell’enclave stessa” (p. 24). Il potere sovrano qui si attua attraverso un potere amministrativo “che prescrive obblighi e modelli di comportamento, definendo così le caratteristiche degli abitanti, temporanei o permanenti che siano.” Non fatichiamo a comprendere le distinzioni di queste enclave: condomini, gated communities, ma anche centri commerciali, uffici statali o di compagnie private, scuole, università, ospedali e cosi via, nella misura in cui appunto esse sono definite dal suddetto potere sovrano in quanto potere amministrativo. Costruendo su Agamben, poiché le autorità giuridiche di ogni enclave (i managers, i presidi, i direttori e via dicendo) possono controllare ambiti di competenza statale attraverso un sistema di regole, queste enclave si presentano come “forme spaziali di uno stato di eccezione” (p. 25) uno stato di eccezione la cui finalità “è una sorta di ragione di governo incentrata sull’efficienza, piuttosto che sui diritti” (p. 26) e che è normalizzato attraverso la ripetizione delle abitudini quotidiane all’interno dell’enclave i cui abitanti tendono ad accettare come una naturale procedura amministrativa. È nella ripetizione quotidiana di quest’ultima che troviamo il potere disciplinare, il quale complementa il potere sovrano della definizione dei confini delle enclave, con la definizione delle caratteristiche dei suoi utenti attraverso la collocazione e classificazione dei soggetti “non solo come soggetti di diritto... ma come membri di una specifica articolazione sociale che si riproduce attraverso le attività quotidiane” (pp. 27-28). Sappiamo da Foucault che il potere disciplinare normalizza attraverso la capacità di vedere senza essere visto (come nel modello del Panottico), una capacità moltiplicata dalle tecniche di sorveglianza odierne sia dentro le enclavi che fuori, nel mare dell’arcipelago urbano. Ma questo mare, “sebbene appaia come ordinato dalle regole del traffico e dalle pianificazione della circolazione” (p. 30) è anche minacciato in forme e modi intrinsecamente imprevedibili. A fronte di questa continua tensione con l’imprevedibile minaccia all’ordine, riusciamo a comprendere come le ragioni dello sviluppo capitalistico urbano legate alle opportunità di profitto e accumulazione, siano allo stesso tempo informate dalla necessità di mantenere e riprodurre quest’ordine di potere. Lo si vede per esempio nei progetti di gentrificazione, dove si programma la vita e la riproduzione, ma anche si rendono visibili i lati più nascosti alla sorveglianza, o i grandi progetti legati ai mega-eventi, o alla recinzione di aree dello spazio pubblico per costruire nuove strade o centri commerciali, tutte queste istanze di annessione di parti del mare urbano a nuove enclave. E quando queste forme di recinzioni non sono sufficienti a racchiudere la vita urbana, e conseguentemente a normalizzarla, allora ecco che si utilizza la terza forma di potere, quella che passa attraverso il meccanismo di sicurezza, che interpreta una realtà altamente complessa al fine di intercettare atti e comportamenti indesiderati, come per esempio il controllo d’identità alla ricerca di “immigrati irregolari” da parte della polizia dentro il mare urbano. Ma la realtà urbana, non è un dato statico, è in continuo movimento, e la pianificazione volta alla normalizzazione del mare urbano “deve sempre riadattare le sue ambizioni, perché la realtà spesso sfugge ai modelli che cerca di imporre” (p. 32) e “la flessibilità del meccanismo di sicurezza si basa soprattutto sulla sua capacità di apprendere dall’eccezione, incorporandola utilizzandola per riadattare modelli e previsioni” (p. 34). E qui il lavoro di Lefebre sulla ritmanalisi diventa importante perché le ritmicità della vita sociale “possono modellare i meccanismi di controllo, ma possono anche dare forma a pratiche che superano le regoli dominanti” (p. 33).
È su questo sfondo della città come arcipelago di enclave, di spazi recintati prodotti dal potere in continuo tentativo di recuperare forme eccedenti, che si dipana il concetto del commoning produttore di spazi soglia, quest’ultimo forse l’aspetto chiave dell’analisi di Stravides. Ogni enclave infatti è un mondo in comune, strutture o forse, come preferisco interpretarli, sistemi sociali emogeneizzanti di razionalità e abitudini. Ma entro il medesimo processo sistemico che li riproduce risiede anche la possibilità di trasformarli in altri mondi in comune, mondi di commoning, cioè mondi “caratterizzati da modi di condivisione inclusivi e da forme di partecipazione attiva alla decisione sulle regole che li reggono”, mondi aperti sull’esterno.
L’uso del verbo “to common” nella sua forma continua “commoning” era in auge nel medioevo inglese, poi divenuto desueto, e infine “riscoperto” dallo storico Peter Linebaugh nel suo saggio The Magna Carta Manifesto del 2009 e da allora il suo uso è esploso nella letteratura sui commons in lingua anglosassone. È stato tradotto nel libro di Stavrides come “l’atto del mettere in comune”. Personalmente, preferisco tradurlo con “fare in comune” per tutta una serie di ragioni, la principale perché, come ho discusso nel mio Omnia Sunt Communia (2017, Zed books) esso è in fondo una forma di lavoro sociale che contrasta largamente con il lavoro astratto e sfruttato del capitalismo, una forma di lavoro sociale dove sono gli attori stessi del dispendio lavorativo a definire la “misura delle cose” della loro produzione collettiva, cioè a definire collettivamente il cosa, il quanto, il quando, il perché, il come e il chi della produzione sociale. Nel libro di Stavrides questa dimensione del commoning inteso sia come lavoro sociale sia come autogoverno della produzione sociale è enunciata (p. 40) ma non sviluppata, mentre invece altri aspetti importanti sono ampiamente trattati. Tuttavia credo che sia importante distinguere chiaramente il termine commoning in generale con un particolare tipo di commoning, quello politicamente importante e fondamentale che per esempio credo si presupponga in Italia nella definizione dei “beni comuni emergenti” (si vedano per esempio i lavori di Giuseppe Micciarelli), cioè a pratiche profondamente democratiche e inclusive che riproducono spazi aperti e porosi. Dovremmo forse trovare un nome per questo tipo di commoning, che so, un fare in comune emancipatore, per distinguerlo da quel fare in comune che Stavrides stesso, e prima di lui Hardt e Negri nel loro riferimento al “comune corrotto” (Commonwealth), ha indicato. In particolare, per Stavrides il commoning “non è necessariamente un processo anti- o post-capitalista: esso infatti può anche sostenere comunità esistenti nella difesa di proprietà collettive, di carattere simbolico o giuridico” nonché “può creare aree di conflitto tra diverse comunità o società” (p. 43). Il problema per noi è identificare il tipo di commoning, di collaborazione, di comunicazione e di cooperazione che “possono sfuggire al comando e all’appropriazione” e distinguerle da quelle che “fanno parte dei processi di dominio e sfruttamento”. Questa distinzione importante che sia e su cui ritorneremo, apre però a un’altra domanda e un’altro livello di complessità su cui credo occorra interrogarsi, e cioè se non sia anche vero che dentro il commoning corrotto non vi sia la presenza di pratiche di conflittualità che possono aprirlo e trasformarlo, così come dentro il commoning “emancipatore”, non vi siano razionalità e pratiche di valore che tendono a chiuderlo e renderlo funzionale al dominio del capitale. È questa una ragione che nel mio Omnia Sunt Communia tratto i commons come sistemi sociali, i quali nella loro specificità, sono sempre inseriti in un ambiente, in un contesto dove il capitale esiste anch’esso come forza sistemica vis-à-vis i commons e il commoning che li riproduce. All’interno della specificità storica del capitalismo di oggi, però la distinzione posta da Stavrides è un importante passo metodologico. La sua risposta alla domande di cosa distingue il commoning appropriato dal comando del capitale a quello situato oltre il capitalismo è che quest’ultimo “si amplia oltre i limiti di qualsiasi comunità in cui pur si radica e si sviluppa; in termini di collaborazione, ciò presuppone necessariamente una comunità di potenziali collaboratori in continua espansione. Sviluppare mezzi e regole per includere nelle pratiche collaborazione, cooperazione e comunicazione del commoning sempre nuovi partecipanti è il prerequisito più importante per superare i limiti che il capitalismo impone sia attraverso recinzioni e privatizzazioni sia attraverso crescenti controlli per il mantenimento del comando capitalista” (p. 44). Questo ampliamento, questa protendersi del commoning verso l’esterno, verso il fare rete e in ultima analisi verso quello che ho chiamato il “boundary commoning” che amplia la scala dei commons, che ne aumenta gli spazi sottratti al capitale, in Stavrides è attuato attraverso istituzioni del commoning nella misura in cui esse seguono tre requisiti: comparabilità, traducibilità ed egualitarismo (o controllo dell’accumulazione del potere).
In primo luogo, occorrono istituzioni che permettano la comparabilità tra soggetti e pratiche diverse, moltidudinarie, stabilendo una base di confronto continuo, inventando “forme di collaborazione basate non sull’omogeneizzazione ma sulla molteplicità” (p. 46), evitando tassonomie rigide, e invece facilitando l’incontro tra differenze, e a creare “motivi di consapevolezza reciproca”. Mentre questa comparabilità basata sul riconoscimento costitutivo delle differenze è “la forza motrice dell’espansione del commoning” (p. 47) occorre affiancarla alla traducibilità che “crea il terreno per una negoziazione tra le differenze, senza ridurle a denominatori comuni predeterminati”. Le pratiche di traduzione sono forme di inventiva continua dentro il commoning, creano un mondo comune in cantiere, permettono di intrecciare il riconoscimento reciproco tra soggetti con esperienze diverse, e di stabilire un’avventura intellettuale (Rancière), o forse un commoning cognitivo e affettivo necessario alla costruzione di nuove soggettività collettive. Infine, in terzo luogo, “affinché un’istituzione sia in grado di supportare un’apertura costante dei circuiti di commoning servono dei meccanismi di controllo di ogni potenziale dinamica di accumulazione di potere, sia da parte degli individui che dei gruppi” (p. 49) in modo tale che la condivisione, principio guida dell’autogestione, diventi in questo senso condivisione egualitaria. Stravides suggerisce anche la pratica del dono per ampliare la condivisione egualitaria, un idea di dono che va oltre quella studiata da approcci antropologici e che si basa su obblighi reciproci che eufemizzano asimmetrie di potere, ma forme di dono che “trasgrediscono radicalmente i calcoli centrati sui vantaggi personali o di gruppo” e che possono aprire a “forme di unione e solidarietà nuova” (p. 53).
Attraverso questi tre principi le istituzioni e le pratiche del commoning possono non solo prefigurare una nuova società e una nuova forma di cooperazione sociale, e attraverso le sue dinamiche costruire nuova soggettività, ma anche estenderla dentro l’arcipelago di enclave delle nostre città.
È a questo punto che Stavrides definisce la sua idea centrale di spazio comune come soglia, uno spazio comune che si presenta come poroso verso l’esterno, in continua costruzione attraverso dinamiche inclusive sia interne che esterne e “che vuole arricchire gli scambi tra i propri membri, oltre che quelli con altre comunità” (p. 59). Spazi comuni che contrastano l’urbanità delle enclave. Gli spazi-soglia aprono l’interno verso l’esterno “stabilendo aree intermedie di attraversamento” e quindi “simboleggiano tutta la potenzialità’ della condivisione” regolando e dando senso “agli atti di passaggio” (p. 60), sfuggendo all’ordinamento normalizzante dell’arcipelago delle enclave. Creando senso nella connessione tra dentro e fuori, e quindi fornendo la precondizione della costituzione di nuove sistemi sociali su queste basi, gli spazi-soglia evocano le divinità che gli antichi mettevano sugli usci, o nelle porte della città – si pensi al Giano bifronte dei romani – “proprio perché il passaggio è l’atto che crea la potenziale connessione tra dentro e fuori”. Una connessione che può appunto essere costituente del nuovo, di una nuova società e di nuova soggettività, di una comunità di commoners “come una comunità in grado di sviluppare nei sui membri un sentimento di condivisione di qualità comuni” (63) che nei suoi studi l’antropologo Turner definisce come tipica dei fenomeni liminali quali feste o carnevali, e che crea communitas – distinta dalla comunità in quanto è “un’esperienza collettiva eccezionale che si verifica quando si perdono, si trascurano, si aggirano, si ignorano o persino si sfidano apertamente le forme di distinzione sociale.”(62) È nella creazione di questa communitas turneriana che “una comunità di uguali emerge dalla capacità di definire in modo autonomo una vita in comune” (63). Una città di soglie, è alla fine una città fatta di eterotopie – cioè luoghi dove le differenze si incontrano – e che si presenta come alternativa potenzialmente dirompente e perforante della città delle enclave.
di Massimo De Angelis

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