www.storiesofmigrantwomen.com, 29 agosto 2019 Smagliature
Smagliature digitali è, nella descrizione delle sue stesse curatrici, un@ cyborg transfemminista queer che guarda attraverso un caleidoscopio. Un libro incarnato fatto delle pratiche e delle riflessioni dell* autor* che lo hanno scritto. Dopo essere stato presentato e discusso in varie città italiane, in spazi ibridi, librerie, collettivi di non una di meno, associazioni LGBTIQ+ è diventato una performance che assembla le voci di tutt* l* autor*, un esperimento di narrazione divergente che racconta come muta la relazione tra corpi e tecnologie.
Carlotta Cossutta, Valentina Greco, Arianna Mainardi e Stefania Voli sono transfemministe, ricercatrici precarie in discipline diverse, studiano i corpi, le sessualità e le tecnologie. Entrano e escono dagli stretti margini dell’accademia, mescolando teoria e pratica politica. Vivono tra Milano e Bologna – ma più spesso sui treni – colmando le distanze fisiche nelle piattaforme digitali. Hanno curato la collettanea Smagliature Digitali. Corpi, generi e tecnologie, Agenzia X, 2018.
SMAGLIATURE DIGITALI HACKERARE LA DRAMMATURGIA DA UNA PROSPETTIVA TRANSFEMMINISTA
Performance a due voci
Voce 1: Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer. Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che guarda attraverso un caleidoscopio. Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che si rifiuta di giocare a testa o croce.
Voce 2: Quali dovrebbero essere i metodi discorsivi del transfemminismo?
Voce 1: Una scrittura femminista dovrebbe includere, oltre ai testi, blog, performance, aggiornamenti di stato, graffi e tatuaggi, lesioni vaginali (lesioni protesiche).
Voce 2: Smagliature digitali
Voce 1: Creiamo un nuovo linguaggio alternativo (che dia nuovi nomi ai corpi e alle esperienze), ma allo stesso tempo decostruiamolo, mettiamolo costantemente in discussione. Il linguaggio diventa una pratica potente eppure volatile, una volatilità che non è disorganizzata bensì dis/organizzazione necessaria alle fluidità, complessità e contestualità delle identità e delle esperienze, in particolare trans, non binarie e queer.
Voce 2: L’innovazione tecno-scientifica deve essere collegata a un pensiero teorico e politico collettivo nel quale donne, queer e persone di genere non conforme giochino un ruolo senza precedenti. Bisogna re-impiegare le tecnologie esistenti e inventare nuovi strumenti cognitivi e materiali al servizio di fini comuni. Bisogna insiste(re) ferocemente sulla possibilità di un cambiamento sociale su larga scala per tutta la nostra stirpe aliena.
Voce 1: Come parlare di tecnologia quando sappiamo che la costruzione sociale del genere, del sesso e delle pratiche passa da una programmazione a codice chiuso e che, anche se lo apriamo, lo liberiamo e lo rendiamo esplicito, la maggior parte del codice riaperto torna a chiudersi a causa dell’industrializzazione selvaggia, del desiderio di sposarsi, della moda, degli ospedali, del carcere?
Voce 2: Una tecnologia transfemminista valorizzerà l’analfabetismo nella sua funzione improduttiva per l’industria, come un modo per percorrere strade impensate per la produttività e la rapidità, come una forma di resistenza.
Una tecnologia transfemminista ci dice che “binarism is for computer”
Voce 1: Cercare tracce di resistenza, seppur minime, nelle condotte individuali (e collettive) di chi agisce nelle e attraverso le tecnologie digitali, senza immaginare un soggetto resistente, ma tenendo gli sguardi aperti per individuarne l’emersione, anche in forme inedite e collettive.
Voce 2: Corpo e tecnologia non sono mai stati così ibridi, il confine tra corpo singolo, collettivo e tecnologie digitali viene frammentato per produrre resistenza.
Voce 1: Una relazione transfemminista con la tecnologia non può non dare visibilità allo spazio della soggettività e del corpo, perché proprio questi sono gli elementi al centro delle trame del potere e della gerarchizzazione. Il tecnotransfemminismo troverà linguaggi e percorsi di apprendimento che non diano semplicemente una mano di bianco alle tecnologie, ma le facciano funzionare in modo permanente se non funzionano o giungano a effetti in grado di decostruire la macchinazione originaria del sistema.
Voce 2: Una tecnologia transfemminista non ha paura né delle macchine né dell’autoesplorazione del corpo, per sapere cosa c’è dentro, cosa c’è nella cervice e oltre. Una tecnologia transfemminista sarà un esercizio collettivo e sistematico di perdita di paura, una ricerca per conoscere come si connettono i cavi (culturali o meccanici) all’interno delle scatole rappresentate dai nostri corpi o dai notebook. Una tecnologia transfemminista si prenderà gioco dell’obsolescenza programmata del corpo per programmare l’obsolescenza del genere, e allo stesso modo palperà le macchine, riutilizzerà i componenti, saprà come aprire il portatile o conoscere i piaceri anali.
Voce 1: Il corpo è un’invenzione. Produco e riproduco numerosi Io, li incarno e contemporaneamente nessuno di essi è me, nessuno di essi mi descrive completamente. È un’espropriazione che non va considerata una perdita, ma una risorsa.
Voce 2: Assumere che il corpo diventi un progetto (sia esso individuale o collettivo), significa accettare che il suo aspetto, la sua dimensione e le sue componenti siano potenzialmente soggette alla volontà di trasformazione, gestione e manutenzione da parte di chi quel corpo lo abita, lo attraversa, lo hackera.
Voce 1: Questo archivio è in realtà un corpo, o meglio, questo archivio è il mio corpo. Questo è l’archivio grazie al quale sono cresciuto come persona, come militante e come artista.
Voce 2: Pensiamo il corpo-spazio nei termini di una somateca, ossia come un archivio di finzioni politiche vive che in nessun modo possono costituire un unico corpus. Le tecnologie occupano oggi una superficie molto ampia di questo archivio, per gli ineluttabili, poiché voluti ma anche subiti, legami che i nostri corpi hanno intessuto con esse.
Voce 1: E questa enfasi sui corpi e sui loro posizionamenti è fondamentale per non cadere nella tentazione di vedere nelle tecnologie delle utopie già in atto.
Voce 2: La sfida è quella di non distogliere lo sguardo dai lati oscuri degli schermi digitali e provare a smontarli o ad abitarli a partire da sé, senza nessuna illusione di un progresso che conduca necessariamente a delle sorti migliori.
Voce 1: In quali modi i corpi possono usare la tecnologia e non essere usati da questa?
Voce 2: Il corpo ha una memoria, non bisogna andare troppo lontano, una tecnologia transfemminista porta incisa sulla carne la reclusione di Angela Davis, la caccia alle streghe, le trans morte in una qualsiasi frontiera, nelle loro case. Un corpo transtecnofemminista conosce l’ingiustizia e la violazione, conosce e convive con la precarietà delle macchine (che sono nel suo corpo). Il corpo cyborg va inteso come un corpo segnato, attraversato dalla lotta di classe, dalla xenofobia e dal razzismo.
Voce 1: Ciò comporta innanzitutto il superamento (nei nostri modi di pensare e nei nostri quadri di interpretazione) dell’idea che esistano solo due corpi standard e facilmente identificabili, e il riconoscimento di uno spettro di diversità nelle corporeità, sensibilità e piaceri. In parallelo, si pone la necessità di modificare i nostri linguaggi quando interagiamo con altru, attuando una degenderizzazione e rigenderizzazione della sessualità e dei sessi per includere tale spettro di diversità, sia corporea sia identitaria.
Voce 2: L’esperienza trans smaschera il fatto che il nesso binario corpo-sesso-genere influenza non solo i discorsi intorno ai soggetti sessuati, ma anche gli stessi processi organizzativi intorno alla sessualità.
Voce 1: L’identità è anche un risultato temporaneo delle relazioni che intrecciamo, una performance nel contesto del quotidiano, che può variare, trovare nuove strade e nuovi gesti.
Voce 2: Per identità non consideriamo qualcosa di acquisito e immutabile, né un processo solipsistico che dipende solo da ognuna di noi. Io non costruisco la mia identità da sol*, ma in un continuo scambio.
Voce 1: Dal forno a microonde, al telefono, alla pillola anticoncezionale, alla robotica e ai software, la tecnologia ha un ruolo nella strutturazione dei ruoli sociali, e l’emarginazione delle soggettività che non aderiscono alla norma cis-etero-bianca da parte della comunità tecnologica ha una profonda influenza sul contenuto, il design, la tecnica e l’uso di artefatti tecnologici.
Voce 2: Le tecnologie sono un oggetto conteso, attraversato da tensioni e ambivalenze, in cui vi è lo spazio per processi politici di soggettivazione.
Voce 1: Chiunque sia statu ritenutu “innaturale” a fronte delle norme biologiche dominanti, chiunque abbia sperimentato le ingiustizie compiute in nome dell’ordine naturale, si renderà conto che il culto della “natura” non ha nulla da offrirci e da offrire.
Voce 2: È proprio evitando di parlare di sessualità da una prospettiva trans che si corre il rischio di avallare la mancanza di un immaginario socioculturale autoprodotto (e alternativo a quello cis-eteropatriarcale): l’unico davvero capace di permettere alle persone trans di riconoscersi e di essere riconosciute come soggetti desideranti e desiderabili
Voce 1: Viviamo nell’era del bio-info-potenziamento, la mediazione tecnologica è talmente immanente alle nostre vite che è diventato impossibile distinguere confini tra natura e tecnica, desiderio e necessità. Perde sempre più senso la rappresentazione della realtà materiale come polo opposto della realtà virtuale. Viviamo l’epoca della realtà aumentata e investiamo sempre più in ricerca medico- farmaceutica
Voce 2: La vita umana non è un miracolo, ma un’invenzione storico-tecno-politica relativamente recente. Leggi e regolamenti restrittivi incentrati sull’eterosessualità, strategie di marketing e comunicazione imbevute di whiteness, campagne pubblicitarie sature di essenzialismo maternalista vorrebbero mettere a tacere il potenziale sovversivo delle nuove tecnologie della vita. Le mutazioni in corso, tuttavia, sono molteplici e virali, soggettive e collettive, virtuali e materiali: per molte/i sessualità e riproduzione sono territori da esplorare fuori dai confini dei sessi, dei generi e delle relazioni prestabilite.
Voce 1: Abbiamo bisogno di nuove possibilità concrete di percepire e agire, senza il paraocchi delle identità naturalizzate. In nome del femminismo, la “natura” non sarà più un ricettacolo di ingiustizie o la base per qualsiasi tipo di giustificazione politica! Se la natura è ingiusta, cambiala!
Voce 2: Costruiamo una società in cui i tratti attualmente riuniti sotto la rubrica del genere non possano più fornire una griglia per il funzionamento asimmetrico del potere.
Voce 1: Il ragionamento sui soggetti e sui corpi non può prescindere da una critica al capitalismo, e questa a sua volta non può essere separata dal pensiero (cyborg)femminista, ovvero da una considerazione sul rapporto tra tecnologie e genere.
Voce 2: Il cyborg in quanto corpo-macchina è una figura ibrida, è il meccanismo che fa saltare ogni binario, natura/cultura, umano/ animale, maschio/femmina. È un soggetto che è materialmente incarnato e allo stesso tempo rafforzato da una carica simbolica, e nasce all’interno dello stesso sistema tecnologico che critica, è storicamente contingente e critica la soggettività liberale.
Voce 1: Non si può dimenticare che il cyborg è un essere incarnato e non bisogna cadere nella trappola cartesiana che ci fa dimenticare i nostri corpi per dimenticare i corpi delle minoranze.
Voce 2: La sfida potrebbe essere, in questo senso, quella di portare la propria esperienza incarnata e il proprio sapere situato nei, e attraverso, gli ambienti digitali, per metterne in discussione i dispostivi: se la confessione si nutre della sessualità, infatti, il transfemminismo può offrirci uno strumento per trasformarla in una politica del posizionamento che possa sovvertire le norme di genere (ma non solo) riprodotte anche nel rapporto con le tecnologie digitali.
Voce 1: Come è possibile praticare strategie creative di sovversione degli effetti del controllo e le spinte normalizzanti prodotti dalla pervasività delle tecnologie digitali?
Voce 2: Alcuni degli ambienti digitali in cui siamo immersi non si materializzano come qualcosa di esterno con cui mi posso confrontare, ma le funzioni di controllo attraversano differenti oggetti e strumenti che sono sempre più naturalizzati nella nostra vita di tutti i giorni. Diventa, quindi, più complesso riconoscere le istituzioni e i discorsi verso cui indirizzare la performance.
Voce 1: Indagare concetti come sorveglianza, identità e spazio pubblico nei media digitali per immaginare nuovi spazi creativi di sovversione.
Voce 2: Attraversare i confini significa spesso andare oltre i propri limiti, maturare, scoprire cose nuove. Le immagini che accompagnano questo attraversamento sono di frequente legate a un’idea di seduzione. Il confine è un paesaggio discorsivo in cui coesistono una dimensione normativa e l’esperienza quotidiana. Ragionare sulla sua pervasività significa analizzarlo come una tecnologia che riproduce divisioni sociali, anche attraverso il controllo e il disciplinamento dei corpi.
Voce 1: Ridirigere lo sguardo verso il margine piuttosto che verso il centro, ci permette non solo di vedere i margini ma soprattutto di vedere che sono abitati, che a ogni spazio-centro corrisponde un margine occupato, spazi liberati che possono diventare il terreno in cui edificare l’utopia.
Voce 2: Quando pensiamo creiamo territori. Quando viviamo e ci raccontiamo le nostre esperienze creiamo territori. Ma è soprattutto quando immaginiamo e/o desideriamo che creiamo territori.
Voce 1: Si tratta di un cambiamento epistemologico cruciale: i margini diventano spazi di creazione, di condivisione, di elaborazione di strategie collettive, dei contro- spazi di elaborazione di nuove maniere di guardare il mondo. Il margine come spazio contro egemonico è il luogo della condivisione delle esperienze, delle situazioni, dei percorsi di vita.
Voce 2: Il margine diventa allora lo spazio privilegiato per l’elaborazione di micro politiche di diffusione virale, lo spazio del contrattacco.
Voce 1: Spazio, come femminismo, come corpo, è plurale, anche quando lo si legge al singolare.
Voce 2: “Le strade libere le fanno le donne che le attraversano” non è uno slogan, è un progetto, un pensiero che si incarna, e vale anche per le strade elettroniche.
Voce 1: Io chiedo una tecnologia transfemminista che crei i suoi spazi di sicurezza, nella città e nella rete. Chiedo server liberi, senza censura, nei quali non si debbano dissimulare i contenuti né autocensurare i video. Chiedo di organizzarci per ottenerlo.
Voce 2: Dove non c’è consenso c’è violenza, anche nella sfera digitale.
Voce 1: Anche le tecnologie sono engendered. In particolare le tecnologie di informazione e comunicazione, sia del punto di vista della produzione sia da quello della loro fruizione, si sviluppano in relazione con il genere, una relazione in cui l’una influenza l’altro e viceversa.
Voce 2: Contro la sorveglianza e la chiusura nel privato supportato da tecnologie securitarie non possiamo che rivendicare l’apertura e la condivisione, anche degli strumenti tecnici, per evitare la riproduzione di gerarchie che continuano a correre sulla linea del genere e della razzializzazione. Ma anche la necessità di spazi opachi, non visibili, non mostrati.
Voce 1: La tecnologia è sempre il prodotto di un’organizzazione sociale della quale mira a riprodurre i rapporti di potere e le categorizzazioni, e il gesto di decostruirla è un gesto politico proprio perché spezza questa catena di riproduzioni inserendo variazioni, consapevolezza, posizionamenti e materialità.
Voce 2: Rinunciare a utilizzare gli strumenti del padrone, quindi, non significa rinunciare alla tecnica, ma all’organizzazione dalla quale è prodotta e che ricrea.
Voce 1: La società cambia solo se cambiano i rapporti di subordinazione e questo non può che partire dalle soggettività oppresse o escluse, dai margini, dalle maglie che non tengono: dalle smagliature.
Voce 2: Non ci sottraiamo al dolore, non vogliamo essere eroine, lo attraversiamo.
Voce 1: I nostri corpi-spazi sono vulnerabili, li proteggiamo, li rifiutiamo, li travestiamo, li spogliamo, li occupiamo, li lasciamo.
Voce 2: È proprio in questa esplosione dei plurali negata dall’eteronormatività che abita il transfemminismo queer.
Carlotta Cossutta, Valentina Greco, Arianna Mainardi e Stefania Voli sono transfemministe, ricercatrici precarie in discipline diverse, studiano i corpi, le sessualità e le tecnologie. Entrano e escono dagli stretti margini dell’accademia, mescolando teoria e pratica politica. Vivono tra Milano e Bologna – ma più spesso sui treni – colmando le distanze fisiche nelle piattaforme digitali. Hanno curato la collettanea Smagliature Digitali. Corpi, generi e tecnologie, Agenzia X, 2018.
SMAGLIATURE DIGITALI HACKERARE LA DRAMMATURGIA DA UNA PROSPETTIVA TRANSFEMMINISTA
Performance a due voci
Voce 1: Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer. Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che guarda attraverso un caleidoscopio. Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che si rifiuta di giocare a testa o croce.
Voce 2: Quali dovrebbero essere i metodi discorsivi del transfemminismo?
Voce 1: Una scrittura femminista dovrebbe includere, oltre ai testi, blog, performance, aggiornamenti di stato, graffi e tatuaggi, lesioni vaginali (lesioni protesiche).
Voce 2: Smagliature digitali
Voce 1: Creiamo un nuovo linguaggio alternativo (che dia nuovi nomi ai corpi e alle esperienze), ma allo stesso tempo decostruiamolo, mettiamolo costantemente in discussione. Il linguaggio diventa una pratica potente eppure volatile, una volatilità che non è disorganizzata bensì dis/organizzazione necessaria alle fluidità, complessità e contestualità delle identità e delle esperienze, in particolare trans, non binarie e queer.
Voce 2: L’innovazione tecno-scientifica deve essere collegata a un pensiero teorico e politico collettivo nel quale donne, queer e persone di genere non conforme giochino un ruolo senza precedenti. Bisogna re-impiegare le tecnologie esistenti e inventare nuovi strumenti cognitivi e materiali al servizio di fini comuni. Bisogna insiste(re) ferocemente sulla possibilità di un cambiamento sociale su larga scala per tutta la nostra stirpe aliena.
Voce 1: Come parlare di tecnologia quando sappiamo che la costruzione sociale del genere, del sesso e delle pratiche passa da una programmazione a codice chiuso e che, anche se lo apriamo, lo liberiamo e lo rendiamo esplicito, la maggior parte del codice riaperto torna a chiudersi a causa dell’industrializzazione selvaggia, del desiderio di sposarsi, della moda, degli ospedali, del carcere?
Voce 2: Una tecnologia transfemminista valorizzerà l’analfabetismo nella sua funzione improduttiva per l’industria, come un modo per percorrere strade impensate per la produttività e la rapidità, come una forma di resistenza.
Una tecnologia transfemminista ci dice che “binarism is for computer”
Voce 1: Cercare tracce di resistenza, seppur minime, nelle condotte individuali (e collettive) di chi agisce nelle e attraverso le tecnologie digitali, senza immaginare un soggetto resistente, ma tenendo gli sguardi aperti per individuarne l’emersione, anche in forme inedite e collettive.
Voce 2: Corpo e tecnologia non sono mai stati così ibridi, il confine tra corpo singolo, collettivo e tecnologie digitali viene frammentato per produrre resistenza.
Voce 1: Una relazione transfemminista con la tecnologia non può non dare visibilità allo spazio della soggettività e del corpo, perché proprio questi sono gli elementi al centro delle trame del potere e della gerarchizzazione. Il tecnotransfemminismo troverà linguaggi e percorsi di apprendimento che non diano semplicemente una mano di bianco alle tecnologie, ma le facciano funzionare in modo permanente se non funzionano o giungano a effetti in grado di decostruire la macchinazione originaria del sistema.
Voce 2: Una tecnologia transfemminista non ha paura né delle macchine né dell’autoesplorazione del corpo, per sapere cosa c’è dentro, cosa c’è nella cervice e oltre. Una tecnologia transfemminista sarà un esercizio collettivo e sistematico di perdita di paura, una ricerca per conoscere come si connettono i cavi (culturali o meccanici) all’interno delle scatole rappresentate dai nostri corpi o dai notebook. Una tecnologia transfemminista si prenderà gioco dell’obsolescenza programmata del corpo per programmare l’obsolescenza del genere, e allo stesso modo palperà le macchine, riutilizzerà i componenti, saprà come aprire il portatile o conoscere i piaceri anali.
Voce 1: Il corpo è un’invenzione. Produco e riproduco numerosi Io, li incarno e contemporaneamente nessuno di essi è me, nessuno di essi mi descrive completamente. È un’espropriazione che non va considerata una perdita, ma una risorsa.
Voce 2: Assumere che il corpo diventi un progetto (sia esso individuale o collettivo), significa accettare che il suo aspetto, la sua dimensione e le sue componenti siano potenzialmente soggette alla volontà di trasformazione, gestione e manutenzione da parte di chi quel corpo lo abita, lo attraversa, lo hackera.
Voce 1: Questo archivio è in realtà un corpo, o meglio, questo archivio è il mio corpo. Questo è l’archivio grazie al quale sono cresciuto come persona, come militante e come artista.
Voce 2: Pensiamo il corpo-spazio nei termini di una somateca, ossia come un archivio di finzioni politiche vive che in nessun modo possono costituire un unico corpus. Le tecnologie occupano oggi una superficie molto ampia di questo archivio, per gli ineluttabili, poiché voluti ma anche subiti, legami che i nostri corpi hanno intessuto con esse.
Voce 1: E questa enfasi sui corpi e sui loro posizionamenti è fondamentale per non cadere nella tentazione di vedere nelle tecnologie delle utopie già in atto.
Voce 2: La sfida è quella di non distogliere lo sguardo dai lati oscuri degli schermi digitali e provare a smontarli o ad abitarli a partire da sé, senza nessuna illusione di un progresso che conduca necessariamente a delle sorti migliori.
Voce 1: In quali modi i corpi possono usare la tecnologia e non essere usati da questa?
Voce 2: Il corpo ha una memoria, non bisogna andare troppo lontano, una tecnologia transfemminista porta incisa sulla carne la reclusione di Angela Davis, la caccia alle streghe, le trans morte in una qualsiasi frontiera, nelle loro case. Un corpo transtecnofemminista conosce l’ingiustizia e la violazione, conosce e convive con la precarietà delle macchine (che sono nel suo corpo). Il corpo cyborg va inteso come un corpo segnato, attraversato dalla lotta di classe, dalla xenofobia e dal razzismo.
Voce 1: Ciò comporta innanzitutto il superamento (nei nostri modi di pensare e nei nostri quadri di interpretazione) dell’idea che esistano solo due corpi standard e facilmente identificabili, e il riconoscimento di uno spettro di diversità nelle corporeità, sensibilità e piaceri. In parallelo, si pone la necessità di modificare i nostri linguaggi quando interagiamo con altru, attuando una degenderizzazione e rigenderizzazione della sessualità e dei sessi per includere tale spettro di diversità, sia corporea sia identitaria.
Voce 2: L’esperienza trans smaschera il fatto che il nesso binario corpo-sesso-genere influenza non solo i discorsi intorno ai soggetti sessuati, ma anche gli stessi processi organizzativi intorno alla sessualità.
Voce 1: L’identità è anche un risultato temporaneo delle relazioni che intrecciamo, una performance nel contesto del quotidiano, che può variare, trovare nuove strade e nuovi gesti.
Voce 2: Per identità non consideriamo qualcosa di acquisito e immutabile, né un processo solipsistico che dipende solo da ognuna di noi. Io non costruisco la mia identità da sol*, ma in un continuo scambio.
Voce 1: Dal forno a microonde, al telefono, alla pillola anticoncezionale, alla robotica e ai software, la tecnologia ha un ruolo nella strutturazione dei ruoli sociali, e l’emarginazione delle soggettività che non aderiscono alla norma cis-etero-bianca da parte della comunità tecnologica ha una profonda influenza sul contenuto, il design, la tecnica e l’uso di artefatti tecnologici.
Voce 2: Le tecnologie sono un oggetto conteso, attraversato da tensioni e ambivalenze, in cui vi è lo spazio per processi politici di soggettivazione.
Voce 1: Chiunque sia statu ritenutu “innaturale” a fronte delle norme biologiche dominanti, chiunque abbia sperimentato le ingiustizie compiute in nome dell’ordine naturale, si renderà conto che il culto della “natura” non ha nulla da offrirci e da offrire.
Voce 2: È proprio evitando di parlare di sessualità da una prospettiva trans che si corre il rischio di avallare la mancanza di un immaginario socioculturale autoprodotto (e alternativo a quello cis-eteropatriarcale): l’unico davvero capace di permettere alle persone trans di riconoscersi e di essere riconosciute come soggetti desideranti e desiderabili
Voce 1: Viviamo nell’era del bio-info-potenziamento, la mediazione tecnologica è talmente immanente alle nostre vite che è diventato impossibile distinguere confini tra natura e tecnica, desiderio e necessità. Perde sempre più senso la rappresentazione della realtà materiale come polo opposto della realtà virtuale. Viviamo l’epoca della realtà aumentata e investiamo sempre più in ricerca medico- farmaceutica
Voce 2: La vita umana non è un miracolo, ma un’invenzione storico-tecno-politica relativamente recente. Leggi e regolamenti restrittivi incentrati sull’eterosessualità, strategie di marketing e comunicazione imbevute di whiteness, campagne pubblicitarie sature di essenzialismo maternalista vorrebbero mettere a tacere il potenziale sovversivo delle nuove tecnologie della vita. Le mutazioni in corso, tuttavia, sono molteplici e virali, soggettive e collettive, virtuali e materiali: per molte/i sessualità e riproduzione sono territori da esplorare fuori dai confini dei sessi, dei generi e delle relazioni prestabilite.
Voce 1: Abbiamo bisogno di nuove possibilità concrete di percepire e agire, senza il paraocchi delle identità naturalizzate. In nome del femminismo, la “natura” non sarà più un ricettacolo di ingiustizie o la base per qualsiasi tipo di giustificazione politica! Se la natura è ingiusta, cambiala!
Voce 2: Costruiamo una società in cui i tratti attualmente riuniti sotto la rubrica del genere non possano più fornire una griglia per il funzionamento asimmetrico del potere.
Voce 1: Il ragionamento sui soggetti e sui corpi non può prescindere da una critica al capitalismo, e questa a sua volta non può essere separata dal pensiero (cyborg)femminista, ovvero da una considerazione sul rapporto tra tecnologie e genere.
Voce 2: Il cyborg in quanto corpo-macchina è una figura ibrida, è il meccanismo che fa saltare ogni binario, natura/cultura, umano/ animale, maschio/femmina. È un soggetto che è materialmente incarnato e allo stesso tempo rafforzato da una carica simbolica, e nasce all’interno dello stesso sistema tecnologico che critica, è storicamente contingente e critica la soggettività liberale.
Voce 1: Non si può dimenticare che il cyborg è un essere incarnato e non bisogna cadere nella trappola cartesiana che ci fa dimenticare i nostri corpi per dimenticare i corpi delle minoranze.
Voce 2: La sfida potrebbe essere, in questo senso, quella di portare la propria esperienza incarnata e il proprio sapere situato nei, e attraverso, gli ambienti digitali, per metterne in discussione i dispostivi: se la confessione si nutre della sessualità, infatti, il transfemminismo può offrirci uno strumento per trasformarla in una politica del posizionamento che possa sovvertire le norme di genere (ma non solo) riprodotte anche nel rapporto con le tecnologie digitali.
Voce 1: Come è possibile praticare strategie creative di sovversione degli effetti del controllo e le spinte normalizzanti prodotti dalla pervasività delle tecnologie digitali?
Voce 2: Alcuni degli ambienti digitali in cui siamo immersi non si materializzano come qualcosa di esterno con cui mi posso confrontare, ma le funzioni di controllo attraversano differenti oggetti e strumenti che sono sempre più naturalizzati nella nostra vita di tutti i giorni. Diventa, quindi, più complesso riconoscere le istituzioni e i discorsi verso cui indirizzare la performance.
Voce 1: Indagare concetti come sorveglianza, identità e spazio pubblico nei media digitali per immaginare nuovi spazi creativi di sovversione.
Voce 2: Attraversare i confini significa spesso andare oltre i propri limiti, maturare, scoprire cose nuove. Le immagini che accompagnano questo attraversamento sono di frequente legate a un’idea di seduzione. Il confine è un paesaggio discorsivo in cui coesistono una dimensione normativa e l’esperienza quotidiana. Ragionare sulla sua pervasività significa analizzarlo come una tecnologia che riproduce divisioni sociali, anche attraverso il controllo e il disciplinamento dei corpi.
Voce 1: Ridirigere lo sguardo verso il margine piuttosto che verso il centro, ci permette non solo di vedere i margini ma soprattutto di vedere che sono abitati, che a ogni spazio-centro corrisponde un margine occupato, spazi liberati che possono diventare il terreno in cui edificare l’utopia.
Voce 2: Quando pensiamo creiamo territori. Quando viviamo e ci raccontiamo le nostre esperienze creiamo territori. Ma è soprattutto quando immaginiamo e/o desideriamo che creiamo territori.
Voce 1: Si tratta di un cambiamento epistemologico cruciale: i margini diventano spazi di creazione, di condivisione, di elaborazione di strategie collettive, dei contro- spazi di elaborazione di nuove maniere di guardare il mondo. Il margine come spazio contro egemonico è il luogo della condivisione delle esperienze, delle situazioni, dei percorsi di vita.
Voce 2: Il margine diventa allora lo spazio privilegiato per l’elaborazione di micro politiche di diffusione virale, lo spazio del contrattacco.
Voce 1: Spazio, come femminismo, come corpo, è plurale, anche quando lo si legge al singolare.
Voce 2: “Le strade libere le fanno le donne che le attraversano” non è uno slogan, è un progetto, un pensiero che si incarna, e vale anche per le strade elettroniche.
Voce 1: Io chiedo una tecnologia transfemminista che crei i suoi spazi di sicurezza, nella città e nella rete. Chiedo server liberi, senza censura, nei quali non si debbano dissimulare i contenuti né autocensurare i video. Chiedo di organizzarci per ottenerlo.
Voce 2: Dove non c’è consenso c’è violenza, anche nella sfera digitale.
Voce 1: Anche le tecnologie sono engendered. In particolare le tecnologie di informazione e comunicazione, sia del punto di vista della produzione sia da quello della loro fruizione, si sviluppano in relazione con il genere, una relazione in cui l’una influenza l’altro e viceversa.
Voce 2: Contro la sorveglianza e la chiusura nel privato supportato da tecnologie securitarie non possiamo che rivendicare l’apertura e la condivisione, anche degli strumenti tecnici, per evitare la riproduzione di gerarchie che continuano a correre sulla linea del genere e della razzializzazione. Ma anche la necessità di spazi opachi, non visibili, non mostrati.
Voce 1: La tecnologia è sempre il prodotto di un’organizzazione sociale della quale mira a riprodurre i rapporti di potere e le categorizzazioni, e il gesto di decostruirla è un gesto politico proprio perché spezza questa catena di riproduzioni inserendo variazioni, consapevolezza, posizionamenti e materialità.
Voce 2: Rinunciare a utilizzare gli strumenti del padrone, quindi, non significa rinunciare alla tecnica, ma all’organizzazione dalla quale è prodotta e che ricrea.
Voce 1: La società cambia solo se cambiano i rapporti di subordinazione e questo non può che partire dalle soggettività oppresse o escluse, dai margini, dalle maglie che non tengono: dalle smagliature.
Voce 2: Non ci sottraiamo al dolore, non vogliamo essere eroine, lo attraversiamo.
Voce 1: I nostri corpi-spazi sono vulnerabili, li proteggiamo, li rifiutiamo, li travestiamo, li spogliamo, li occupiamo, li lasciamo.
Voce 2: È proprio in questa esplosione dei plurali negata dall’eteronormatività che abita il transfemminismo queer.
digicult.it, novembre 2018 Smagliature digitali (Digital Stretch Marks)
Smagliature digitali (Digital Stretch Marks) is a book curated by Carlotta Cossutta, Valentina Greco, Arianna Mainardi and Stefania Voli, which has been published in 2018 by Agenzia X, a publishing house from Milan. “This book is a transfeminist queer cyborg looking through a kaleidoscope”. That is how the curators of the book have defined their collective creation in the introduction to the volume. The book consists of a series of essays, all of which address various aspects of technologies, from different points of view, using instruments from different disciplines. All of the contributions take into consideration the controversial and ambivalent nature of this phenomenon, all of them place bodies and experiences at the center and are informed by such methodologies as intersectionality and gender studies.
Already in the introduction to the volume, the curators reveal some of the contradictions of technologies that will be explored further in the rest of the book. What do technologies represent: an instrument, a possibility that should be taken or rather a danger to our autonomy and self-determination? The curators quote Brunella Casalini and Federico Zappino: “critically observing the contradictions of technologies as well as of the current balance of power does not necessarily mean condemning technologies”. With this quote, the authors raise the following questions which will serve as a key for interpreting the entire volume: which are the possible ways, while addressing technologies critically, of subverting the mechanisms of power that the latter represent? Which practices should be put in place in order to take possession of technologies, to redefine and transform them by placing our bodies and experiences at the center?
The authors of the eleven essays do not provide any definitive answers, however, they introduce the most important problems, they map the contradictions, raise new questions and inspire us to reflect on the reality, often dystopian, that we live in. In fact, several essays build upon the threatening and potentially and factually dangerous nature of the existing uses of digital technologies. Nevertheless, all of the essays also explore the transformative potential of the technologies. In her essay Virtual Interfaces if Biotechnical Reproduction Angela Balzano focuses on how new technologies of life, such as IVF, are currently being used in order to reinstate an essentialist matrix (idea) of mother-woman, even though such technologies have an enormous potential in terms of exploration “outside of predetermined sexes and genders”.
It is very interesting how this and other essays in the collection reintroduce a wider notion of technologies: the conversation is not limited to digital technologies, there are also technologies of life or, for example, in the case of Anna Casaglia’s contribution, technologies of violence. In Borders, Bodies and Violence the author explores a genre of pornography that narrates the border as a place of violence. The genre is based on non-consensual sexual intercourses between American men working at the Mexican border and Latin women that are trying to cross it.
This phenomenon symbolizes racial and gender stereotypes as well as the mechanisms of power imbalance. Another essay, Surveillance, Subjectivity and Public Space, also presents a critical analysis of one of the products of technological development, techniques of surveillance, which nowadays are being used as instruments of control with the excuse of providing safety. Not only do the authors of the essay identify the problem, they also suggest forms and practices of resistance, possible ways of subverting the effects of control that has been imposed on us.
Technofeminism. Notes on transfeminist technology (version 0.3) uses anticapitalistic critique to imagine an anticapitalistic technology, rebellious, subjective and “improper”. Building on the critical issues of technologies, the book eventually brings together the practices of reconfiguration and overturning, informed by a view towards the future, and creates new imagery, out of the system. From the practices of dis/organization of sexuality by means of making one’s own sex-toys, aimed at exploration of the bodies and spaces in-between, a story told by Ludovico Virtù, to Rachele Borghi’s reflections on center and border and on the fundamental role the body has in transformative processes, the book presents us with potential models for re-appropriating technologies, of hacking the existing and pre-determined ways of using them.
An extremely future-oriented imagery is also present in Xenofeminism: a Politics for Alienation, published in the book as well as in Elisa Virgili’s essay, If I was a rich girl, Three Manifestos that help reinvent the relationship between gender, technology and capital, an important and clever comment on the Cyborg Manifesto, Accelerationist Manifesto and Xenofeminist Manifesto.
The book also includes examples of possible “improper” ways of using technologies in order to tell the queer stories outside of a binary and heteronormative logic, as in case of a digital performance-editorial by Eva Kunin and Transcybogllera, a project that tells us about queer art and politics in Spain, created by Diego Marchante “Genderhacker”, or in order to challenge the patriarchal system and its effects as in case of a cyberfeminist action obiezionerespinta.info, a platform that gives women the possibility to locate and oppose conscientious objectors all over Italy.
But how are the elements actually connected? There are multiple concepts that unite the puzzle pieces in Digital Stretch Marks and here are just a few of them: body, experience, empathy, transformation, overturning, re-appropriation, dystopia, utopia, imagination. Imagination. In one of her essays Rebecca Solnit once wrote that the failure to use imagination could very well be one of the main reasons for the disasters we are currently dealing with (the author mostly talks about climate change). Way too often in the history of humanity the inability to imagine the potentially destructive effects of certain actions has contributed to major catastrophes.
The book Smagliature Digitali (Digital Stretch Marks) provides catastrophic and dystopian scenarios, the invaluable contributions make us more aware of invisible, hidden systems of power and oppression, but another merit of the book is the fact that it is not merely an enumeration of things that can possibly go wrong: there is space left for creating new imagery of the future in which there is place for everyone. Historically, imagination and politics have always been considered incompatible; this book though provides us with many inspiring and visionary testimonies and proposes imagery/imagination as an indispensable instrument of a political struggle.
by Anna GorchakovskayaAlready in the introduction to the volume, the curators reveal some of the contradictions of technologies that will be explored further in the rest of the book. What do technologies represent: an instrument, a possibility that should be taken or rather a danger to our autonomy and self-determination? The curators quote Brunella Casalini and Federico Zappino: “critically observing the contradictions of technologies as well as of the current balance of power does not necessarily mean condemning technologies”. With this quote, the authors raise the following questions which will serve as a key for interpreting the entire volume: which are the possible ways, while addressing technologies critically, of subverting the mechanisms of power that the latter represent? Which practices should be put in place in order to take possession of technologies, to redefine and transform them by placing our bodies and experiences at the center?
The authors of the eleven essays do not provide any definitive answers, however, they introduce the most important problems, they map the contradictions, raise new questions and inspire us to reflect on the reality, often dystopian, that we live in. In fact, several essays build upon the threatening and potentially and factually dangerous nature of the existing uses of digital technologies. Nevertheless, all of the essays also explore the transformative potential of the technologies. In her essay Virtual Interfaces if Biotechnical Reproduction Angela Balzano focuses on how new technologies of life, such as IVF, are currently being used in order to reinstate an essentialist matrix (idea) of mother-woman, even though such technologies have an enormous potential in terms of exploration “outside of predetermined sexes and genders”.
It is very interesting how this and other essays in the collection reintroduce a wider notion of technologies: the conversation is not limited to digital technologies, there are also technologies of life or, for example, in the case of Anna Casaglia’s contribution, technologies of violence. In Borders, Bodies and Violence the author explores a genre of pornography that narrates the border as a place of violence. The genre is based on non-consensual sexual intercourses between American men working at the Mexican border and Latin women that are trying to cross it.
This phenomenon symbolizes racial and gender stereotypes as well as the mechanisms of power imbalance. Another essay, Surveillance, Subjectivity and Public Space, also presents a critical analysis of one of the products of technological development, techniques of surveillance, which nowadays are being used as instruments of control with the excuse of providing safety. Not only do the authors of the essay identify the problem, they also suggest forms and practices of resistance, possible ways of subverting the effects of control that has been imposed on us.
Technofeminism. Notes on transfeminist technology (version 0.3) uses anticapitalistic critique to imagine an anticapitalistic technology, rebellious, subjective and “improper”. Building on the critical issues of technologies, the book eventually brings together the practices of reconfiguration and overturning, informed by a view towards the future, and creates new imagery, out of the system. From the practices of dis/organization of sexuality by means of making one’s own sex-toys, aimed at exploration of the bodies and spaces in-between, a story told by Ludovico Virtù, to Rachele Borghi’s reflections on center and border and on the fundamental role the body has in transformative processes, the book presents us with potential models for re-appropriating technologies, of hacking the existing and pre-determined ways of using them.
An extremely future-oriented imagery is also present in Xenofeminism: a Politics for Alienation, published in the book as well as in Elisa Virgili’s essay, If I was a rich girl, Three Manifestos that help reinvent the relationship between gender, technology and capital, an important and clever comment on the Cyborg Manifesto, Accelerationist Manifesto and Xenofeminist Manifesto.
The book also includes examples of possible “improper” ways of using technologies in order to tell the queer stories outside of a binary and heteronormative logic, as in case of a digital performance-editorial by Eva Kunin and Transcybogllera, a project that tells us about queer art and politics in Spain, created by Diego Marchante “Genderhacker”, or in order to challenge the patriarchal system and its effects as in case of a cyberfeminist action obiezionerespinta.info, a platform that gives women the possibility to locate and oppose conscientious objectors all over Italy.
But how are the elements actually connected? There are multiple concepts that unite the puzzle pieces in Digital Stretch Marks and here are just a few of them: body, experience, empathy, transformation, overturning, re-appropriation, dystopia, utopia, imagination. Imagination. In one of her essays Rebecca Solnit once wrote that the failure to use imagination could very well be one of the main reasons for the disasters we are currently dealing with (the author mostly talks about climate change). Way too often in the history of humanity the inability to imagine the potentially destructive effects of certain actions has contributed to major catastrophes.
The book Smagliature Digitali (Digital Stretch Marks) provides catastrophic and dystopian scenarios, the invaluable contributions make us more aware of invisible, hidden systems of power and oppression, but another merit of the book is the fact that it is not merely an enumeration of things that can possibly go wrong: there is space left for creating new imagery of the future in which there is place for everyone. Historically, imagination and politics have always been considered incompatible; this book though provides us with many inspiring and visionary testimonies and proposes imagery/imagination as an indispensable instrument of a political struggle.
www.dinamopress.it, 12 ottobre 2018 Smagliature digitali
Partendo dalla critica all’idea che la tecnologia, così come la vita, siano ambiti neutrali, Carlotta Cossutta, Valentina Greco, Arianna Mainardi e Stefania Voli, attraverso una serie di testi e di casi studio mostrano come per criticare politicamente questi ambiti occorra superare ogni tipo di binarismo e individualismo.
L’universo intero tagliato in due e solo in due. In questo sistema di conoscenza tutto ha un diritto e un rovescio. Siamo l’umano o l’animale. L’uomo o la donna. Il vivo o il morto. Siamo il colonizzatore e il colonizzato. L’organismo o la macchina. Siamo stati divisi per norma. Tagliati in due. E poi costretti a scegliere una delle nostre parti. Quello che denominiamo soggettività non è altro che la cicatrice lasciata dal taglio della molteplicità che avremmo potuto essere.
Paul B. Preciado
Le smagliature nella loro definizione biomedica sono cicatrici permanenti che derivano dalla rottura delle fibre elastiche della pelle. Queste rotture avvengono a causa di cambiamenti considerati traumatici per il corpo.
Allungarsi, allargarsi, restringersi, cambiare forma. Sono eventi il più delle volte inevitabili, e spesso desiderabili nel corso di un’esistenza. Attraverso questi fenomeni passano storie pulsanti, deviazioni di cammino, cadute, fulgide riprese. Crescere, dimagrire, ingrassare, dimagrire ancora. La fisarmonica dei corpi è suonata da soffi di gioia e disperazione, la sua musica è in grado di modificare il corso della storia. Le striature della pelle sono il riflesso di questo.
Eppure se dovessimo attenerci alla mera descrizione scientifica non vedremmo altro che il risultato di un malfunzionamento del tessuto epidermico. La traccia di un errore biologico.
Cosa succede quando rovesciamo il punto di vista con cui guardiamo ciò che si presenta come oggettivo?
È questo il grande interrogativo che attraversa la raccolta critica di saggi Smagliature digitali.
Le quattro curatrici ci conducono per mano nel presente del dibattito transfemminista sulle tecnologie, e ci gettano nel vortice delle sfide future. L’ordine discorsivo e tecnologico è prodotto dai rapporti di potere che strutturano il vivere comune. Questo dominio tende a perpetuarsi lasciando ai margini, invisibilizzando o reprimendo, i soggetti e le condotte che incarnano altri mondi possibili.
Emerge l’urgenza di hackerare il sistema operativo del potere a partire da pratiche che proprio dal margine muovono per svelare l’oppressione della norma, la dittatura del normale.
La tecnologia e i conflitti. Due elementi senza i quali, come dicono nell’introduzione le stesse curatrici, questo libro non esisterebbe. È grazie alla tecnologia infatti che quattro attiviste e ricercatrici precarie hanno potuto rimanere in contatto, comunicare, e ragionare insieme su questa antologia, pur muovendosi ognuna nel mappamondo su traiettorie instabili e divergenti.
Ma è anche e soprattutto dentro i movimenti di lotta transfemministi che questo libro trova la sua origine. Le maree che stanno inondando le strade del mondo e dell’Italia, scontrandosi ovunque con una rinnovata carica oppressiva dell’ordine patriarcale. Dentro le assemblee e le piazze di Non Una Di Meno, si sono incontrate e contaminate alcune delle parole e pratiche che delineano Smagliature digitali.
I concetti di natura, bios, e di tecnologia, techné ci vengono generalmente presentati come neutri. Ma soprattutto separati e contrapposti. Se però abbandoniamo la visuale frontale posizionandoci alle estremità, intercapedini, vediamo che non solo il confine tra natura e tecnica è ogni giorno più labile, ma anche che entrambe sono socialmente prodotte e dunque possono essere attraversate e trasformate dai conflitti. I corpi non sono portatori di destini biologici ma spazi politici, tecnomodificati e modificabili. Ma se la tecnologia può essere uno strumento di liberazione dalla tirannia della natura, può rivelarsi anche un ripetitore di violenza molto efficace, in quanto esprime relazioni di potere, l’affermazione del modello dominante, maschile eterosessuale e bianco, lo stesso che la programma.
Possono dunque i moderni strumenti tecnologici pensati e sviluppati come normalizzanti, essere stravolti negli intenti? Se la tecnologia è incubatrice di rapporti di potere, decostruirla è un atto politico. Ma come? I testi e i case studies raccolti dalle curatrici ci offrono diversi esempi di questi approcci possibili, uniti da un intento comune: porsi innanzitutto fuori e oltre qualsiasi binarismo, natura e tecnica, uomo donna, online offline.
Si parte dagli appunti per una tecnologia transfemminista di Lucia Egana Rojas, si continua riflettendo su come dis/organizzare la sessualità attraverso la pratica del “fai da te” partendo dall’esperienza degli workshop di autoproduzione di sex toys raccontati da Ludovico Virtù.
Ci si addentra nelle maglie della riproduzione biotech con Balzano e nelle normazioni della maternità veicolate da interfacce digitali apparentemente neutre, si analizzano con Virgili i manifesti cyborg, accelerazionistae xenofemminista come percorsi stratificati che deviano dal binarismo imposto e immaginato tra corpo e tecnologia, si arriva poi alla frontiera fra USA e Messico a individuare come il confine sia esso stesso una tecnologia che agisce sulla rappresentazione della sessualità, on e offline. Ricerche diversissime, sperimentali, disorganiche, interrotte e riallacciate, che scelgono di situarsi su quel margine, sulla striatura, fra soggettività incontenibili e sistema tecnonormativizzante.
In mezzo a queste ricerche, a rompere un ulteriore binarismo, quello fra ricerca e attivismo, il collettivo Zarra Bonheur, e le sue esperienze di contaminazione radicale di spazi fisici ed epistemologici. Tra le forme di riappropriazione tecnologica per intenti emancipatori troviamo l’esperienza di Obiezione Respinta che prende lo schema dello storytelling solipsistico 4.0 e lo trasforma in reticolato di sorellanza che predispone all’azione collettiva, l’esperimento Eva Kunin che usa l’editoria e i codici digitali per inventare attraversamenti urbani e ridisegnare geografie, e il grande lavoro di Transcyborgllera, con il primo archivio artistico, storico e politico queer, ipertestuale e in continuo divenire. E infine l’apertura di un interrogativo sul rapporto tra io, privacy e forme di controllo, nell’era della perpetua autoesposizione social, trattata nell’ultimo saggio di Cossutta e Mainardi. Azioni eterogenee ma unite dal tratto comune di essere andate oltre facili tecnoentusiasmi e obsoleti primitivismi, di aver cercato trovato e dilatato uno spiraglio fra le maglie precostituite della teknè, tutti esempi di smagliature, alterazioni, riprogrammazioni, possibilità di agire politico offerte da un approccio transfemminista alla relazione fra corpi e tecnologie.
Smagliature quindi che creano spazi, ed è proprio il concetto di spazio è l’elemento che ricorre trasversalmente nel testo. Il corpo come spazio abitato da desideri, la rete come spazio di emersione di rotture e alleanze, le città come spazi da risignificare con saperi ed esperienze collettive. Concetto oggi più che mai importante visto l’attacco istituzionale proprio agli spazi, fisici e virtuali, femministi e antirazzisti.
Ma c’è anche un altro concetto che è sempre presente tra le pagine di questa raccolta e, a differenza del primo, non viene spesso nominato esplicitamente. Il fil rouge di Smagliature digitali è forse ancora più che lo spazio, l’agire. Tanto dai saggi che dai case studies, infatti, emerge come il solo rovesciamento possibile, di natura e tecnologia, come dispositivi di disciplinamento e sfruttamento, avviene nello stesso momento in cui si agisce, si produce o si rappresenta un’alternativa. Il margine, prima passivamente abitato diviene, se agito in quanto tale, una posizione di attacco. Per questo i movimenti di massa transfemministi, ma anche gli incontri, i presidi, le danze, che proliferano nei territori sono matasse energetiche in grado di dirottare gli algoritmi, e infestare i binarismi.
C’è invece un concetto assente nell’antologia, un’assenza che appare del tutto voluta, insita nello spirito del libro, e cioè l’intento di collocarsi fuori dal dibattito tra tecnoentusiasti e primitivisti. Questo grande assente è il concetto di tristezza. Tristezza è il nome che attribuiamo all’emozione del corpo isolato. Oggi la virtualità assume una porzione sempre più ampia del nostro tempo vita, e una parte molto consistente della nostra attività relazionale avviene in assenza di corpo. Dove restano questi corpi mentre siamo online? E cosa sentono? Nella miriade di interazioni virtuali sembra di non essere mai soli, mentre i corpi come involucri e accidenti si contraggono in se stessi, nei loro percorsi guidati della solitudine familiare quotidiana.
Smagliature digitali ci pone di fronte alla necessità di decostruire il potere tecnologico, individuarne i meccanismi di sfruttamento e rivoltarne l’intento. A questo vorremmo aggiungere un altro piccolo tassello in un dibattito già ricchissimo e appassionante. Confrontiamoci anche sulla “tristezza”, in attesa di parole migliori per definirla, del corpo isolato, che è anche la tristezza delle città svuotate di luoghi di socialità trasversale. È ancora dentro la tecnologia e i suoi strumenti che si può trovare una risposta? Nella ricerca di ponti e alleanze fra esperienze digitali e in carne ed ossa, c’è forse anche spazio per ripensare il rapporto tra sensorialità e politica.
di Shendi Veli e Viviana RamazzottiL’universo intero tagliato in due e solo in due. In questo sistema di conoscenza tutto ha un diritto e un rovescio. Siamo l’umano o l’animale. L’uomo o la donna. Il vivo o il morto. Siamo il colonizzatore e il colonizzato. L’organismo o la macchina. Siamo stati divisi per norma. Tagliati in due. E poi costretti a scegliere una delle nostre parti. Quello che denominiamo soggettività non è altro che la cicatrice lasciata dal taglio della molteplicità che avremmo potuto essere.
Paul B. Preciado
Le smagliature nella loro definizione biomedica sono cicatrici permanenti che derivano dalla rottura delle fibre elastiche della pelle. Queste rotture avvengono a causa di cambiamenti considerati traumatici per il corpo.
Allungarsi, allargarsi, restringersi, cambiare forma. Sono eventi il più delle volte inevitabili, e spesso desiderabili nel corso di un’esistenza. Attraverso questi fenomeni passano storie pulsanti, deviazioni di cammino, cadute, fulgide riprese. Crescere, dimagrire, ingrassare, dimagrire ancora. La fisarmonica dei corpi è suonata da soffi di gioia e disperazione, la sua musica è in grado di modificare il corso della storia. Le striature della pelle sono il riflesso di questo.
Eppure se dovessimo attenerci alla mera descrizione scientifica non vedremmo altro che il risultato di un malfunzionamento del tessuto epidermico. La traccia di un errore biologico.
Cosa succede quando rovesciamo il punto di vista con cui guardiamo ciò che si presenta come oggettivo?
È questo il grande interrogativo che attraversa la raccolta critica di saggi Smagliature digitali.
Le quattro curatrici ci conducono per mano nel presente del dibattito transfemminista sulle tecnologie, e ci gettano nel vortice delle sfide future. L’ordine discorsivo e tecnologico è prodotto dai rapporti di potere che strutturano il vivere comune. Questo dominio tende a perpetuarsi lasciando ai margini, invisibilizzando o reprimendo, i soggetti e le condotte che incarnano altri mondi possibili.
Emerge l’urgenza di hackerare il sistema operativo del potere a partire da pratiche che proprio dal margine muovono per svelare l’oppressione della norma, la dittatura del normale.
La tecnologia e i conflitti. Due elementi senza i quali, come dicono nell’introduzione le stesse curatrici, questo libro non esisterebbe. È grazie alla tecnologia infatti che quattro attiviste e ricercatrici precarie hanno potuto rimanere in contatto, comunicare, e ragionare insieme su questa antologia, pur muovendosi ognuna nel mappamondo su traiettorie instabili e divergenti.
Ma è anche e soprattutto dentro i movimenti di lotta transfemministi che questo libro trova la sua origine. Le maree che stanno inondando le strade del mondo e dell’Italia, scontrandosi ovunque con una rinnovata carica oppressiva dell’ordine patriarcale. Dentro le assemblee e le piazze di Non Una Di Meno, si sono incontrate e contaminate alcune delle parole e pratiche che delineano Smagliature digitali.
I concetti di natura, bios, e di tecnologia, techné ci vengono generalmente presentati come neutri. Ma soprattutto separati e contrapposti. Se però abbandoniamo la visuale frontale posizionandoci alle estremità, intercapedini, vediamo che non solo il confine tra natura e tecnica è ogni giorno più labile, ma anche che entrambe sono socialmente prodotte e dunque possono essere attraversate e trasformate dai conflitti. I corpi non sono portatori di destini biologici ma spazi politici, tecnomodificati e modificabili. Ma se la tecnologia può essere uno strumento di liberazione dalla tirannia della natura, può rivelarsi anche un ripetitore di violenza molto efficace, in quanto esprime relazioni di potere, l’affermazione del modello dominante, maschile eterosessuale e bianco, lo stesso che la programma.
Possono dunque i moderni strumenti tecnologici pensati e sviluppati come normalizzanti, essere stravolti negli intenti? Se la tecnologia è incubatrice di rapporti di potere, decostruirla è un atto politico. Ma come? I testi e i case studies raccolti dalle curatrici ci offrono diversi esempi di questi approcci possibili, uniti da un intento comune: porsi innanzitutto fuori e oltre qualsiasi binarismo, natura e tecnica, uomo donna, online offline.
Si parte dagli appunti per una tecnologia transfemminista di Lucia Egana Rojas, si continua riflettendo su come dis/organizzare la sessualità attraverso la pratica del “fai da te” partendo dall’esperienza degli workshop di autoproduzione di sex toys raccontati da Ludovico Virtù.
Ci si addentra nelle maglie della riproduzione biotech con Balzano e nelle normazioni della maternità veicolate da interfacce digitali apparentemente neutre, si analizzano con Virgili i manifesti cyborg, accelerazionistae xenofemminista come percorsi stratificati che deviano dal binarismo imposto e immaginato tra corpo e tecnologia, si arriva poi alla frontiera fra USA e Messico a individuare come il confine sia esso stesso una tecnologia che agisce sulla rappresentazione della sessualità, on e offline. Ricerche diversissime, sperimentali, disorganiche, interrotte e riallacciate, che scelgono di situarsi su quel margine, sulla striatura, fra soggettività incontenibili e sistema tecnonormativizzante.
In mezzo a queste ricerche, a rompere un ulteriore binarismo, quello fra ricerca e attivismo, il collettivo Zarra Bonheur, e le sue esperienze di contaminazione radicale di spazi fisici ed epistemologici. Tra le forme di riappropriazione tecnologica per intenti emancipatori troviamo l’esperienza di Obiezione Respinta che prende lo schema dello storytelling solipsistico 4.0 e lo trasforma in reticolato di sorellanza che predispone all’azione collettiva, l’esperimento Eva Kunin che usa l’editoria e i codici digitali per inventare attraversamenti urbani e ridisegnare geografie, e il grande lavoro di Transcyborgllera, con il primo archivio artistico, storico e politico queer, ipertestuale e in continuo divenire. E infine l’apertura di un interrogativo sul rapporto tra io, privacy e forme di controllo, nell’era della perpetua autoesposizione social, trattata nell’ultimo saggio di Cossutta e Mainardi. Azioni eterogenee ma unite dal tratto comune di essere andate oltre facili tecnoentusiasmi e obsoleti primitivismi, di aver cercato trovato e dilatato uno spiraglio fra le maglie precostituite della teknè, tutti esempi di smagliature, alterazioni, riprogrammazioni, possibilità di agire politico offerte da un approccio transfemminista alla relazione fra corpi e tecnologie.
Smagliature quindi che creano spazi, ed è proprio il concetto di spazio è l’elemento che ricorre trasversalmente nel testo. Il corpo come spazio abitato da desideri, la rete come spazio di emersione di rotture e alleanze, le città come spazi da risignificare con saperi ed esperienze collettive. Concetto oggi più che mai importante visto l’attacco istituzionale proprio agli spazi, fisici e virtuali, femministi e antirazzisti.
Ma c’è anche un altro concetto che è sempre presente tra le pagine di questa raccolta e, a differenza del primo, non viene spesso nominato esplicitamente. Il fil rouge di Smagliature digitali è forse ancora più che lo spazio, l’agire. Tanto dai saggi che dai case studies, infatti, emerge come il solo rovesciamento possibile, di natura e tecnologia, come dispositivi di disciplinamento e sfruttamento, avviene nello stesso momento in cui si agisce, si produce o si rappresenta un’alternativa. Il margine, prima passivamente abitato diviene, se agito in quanto tale, una posizione di attacco. Per questo i movimenti di massa transfemministi, ma anche gli incontri, i presidi, le danze, che proliferano nei territori sono matasse energetiche in grado di dirottare gli algoritmi, e infestare i binarismi.
C’è invece un concetto assente nell’antologia, un’assenza che appare del tutto voluta, insita nello spirito del libro, e cioè l’intento di collocarsi fuori dal dibattito tra tecnoentusiasti e primitivisti. Questo grande assente è il concetto di tristezza. Tristezza è il nome che attribuiamo all’emozione del corpo isolato. Oggi la virtualità assume una porzione sempre più ampia del nostro tempo vita, e una parte molto consistente della nostra attività relazionale avviene in assenza di corpo. Dove restano questi corpi mentre siamo online? E cosa sentono? Nella miriade di interazioni virtuali sembra di non essere mai soli, mentre i corpi come involucri e accidenti si contraggono in se stessi, nei loro percorsi guidati della solitudine familiare quotidiana.
Smagliature digitali ci pone di fronte alla necessità di decostruire il potere tecnologico, individuarne i meccanismi di sfruttamento e rivoltarne l’intento. A questo vorremmo aggiungere un altro piccolo tassello in un dibattito già ricchissimo e appassionante. Confrontiamoci anche sulla “tristezza”, in attesa di parole migliori per definirla, del corpo isolato, che è anche la tristezza delle città svuotate di luoghi di socialità trasversale. È ancora dentro la tecnologia e i suoi strumenti che si può trovare una risposta? Nella ricerca di ponti e alleanze fra esperienze digitali e in carne ed ossa, c’è forse anche spazio per ripensare il rapporto tra sensorialità e politica.
milanoinmovimento.com, 2 luglio 2018 Smagliature digitali – Un viaggio, tra teoria e pratica, nella nuova ondata femminista
Smagliature digitali nasce da una relazione analogica e digitale tra quattro autrici che, oltre a essere attiviste, femministe e ricercatrici, vivono l’intersezione tra le tecnologie e i corpi come un punto di partenza per confrontare i propri saperi situati. Il libro, sin dalle sue prime pagine, esprime anche un’esigenza, forse più nascosta ma non meno importante, ossia quella di condividere con un pubblico più ampio le riflessioni emerse ai margini per creare le condizioni di un dibattito che non può prescindere dalla lettura di alcuni scritti ancora poco diffusi in Italia, se non in ambito accademico.
Stiamo assistendo e vivendo, non senza un certo piacere, l’emergere di un nuova ondata di femminismo che si è resa più visibile a partire dal movimento Non una di Meno, nato in Argentina nel 2015, e diffusosi in Italia pochi mesi dopo. Si parla di quarta ondata perché ciò che lo distingue dai movimenti precedenti è innanzitutto un maggiore approccio inclusivo e intersezionale che vede dialogare, non senza grande sforzo di mediazione, femminismo storico, centri anti-violenza, collettivi femministi di nuova generazione, collettivi transfemministi e queer e collettivi legati ai centri sociali. Ma ciò che la caratterizza di più e la differenzia rispetto alle precedenti esperienze, è la relazione con le tecnologie digitali, a partire dai mezzi di mobilitazione utilizzati, in particolare i social network e internet per organizzare gli interventi nelle strade, per la comunicazione di gruppo, e per diffondere il messaggio oltre i confini dell’attivismo.
Le pagine del libro ci accompagnano in un viaggio a cavallo tra la produzione teorica, riflessioni personali e sperimentazioni pratiche di un femminismo contemporaneo che potenzia la sua capacità di crescita attraverso l’utilizzo di strumenti digitali, e allo stesso tempo riesce a guardare con capacità critica quegli stessi strumenti tecnologici di cui fa uso.
In questo contesto lo sguardo delle curatrici, transfemminista e queer, diventa una prospettiva privilegiata perché più ricettiva nell’individuare la complessità del presente. Così come la semplificazione binaria che divide maschi e femmine nasconde una costruzione sociale arbitraria che adatta i corpi all’ordine sociale stabilito; allo stesso modo la relazione che abbiamo con le tecnologie diventa trasparente, quasi scontata, da farci dimenticare la sua genealogia e i passi che ci hanno portato fino a qui; ancora di più oggi che siamo equipaggiati volontariamente di un mini computer portatile, sempre connesso alla rete, dotato di sensori che inviano costantemente dati sui nostri comportamenti, dati biometrici e ambientali, a cui qualcuno, prima o poi darà un senso.
Tra i vari capitoli del libro, particolarmente centrale la comparazione tra i tre manifesti che hanno ripensato il rapporto tra corpo, lavoro e tecnologia e che negli anni hanno creato accesi dibattiti in vari contesti, fornendo alcune parole chiave per aiutarci a ri-orientare il nostro immaginarci il futuro per decidere come agire nel presente. Tradotto e uscito in italiano nel 1995, il Manifesto Cyborg di Donna Haraway (1985), è uno dei primi esempi in cui si riflette come i corpi femminili possono usare la tecnologia invece di farsi usare da essa a partire dalla consapevolezza che la realtà della vita moderna è caratterizzata da una relazione così intima tra persone e tecnologia che non è più possibile dire dove finiamo noi e dove iniziano le macchine. Ispirato dalle intuizioni di fine millennio del filosofo inglese Nick Land, il Manifesto per un politica accelerazionista pubblicato nel 2013 da Alex Williams e Nick Srnicek propone di intensificare l’automazione del lavoro, così che siano robot a svolgere le occupazioni più alienanti e ripetitive, e superare la nostalgia per un’età dell’oro del capitalismo “dove il lavoratore (maschio) otteneva uno standard di vita minimo e sicuro, in cambio di una noia mortificante e di repressione sociale. Tale sistema si appoggiava a una gerarchia internazionale fatta di colonie, imperi, e periferie sottosviluppate; una gerarchia nazionale di razzismo e sessismo; e una rigida gerarchia familiare di sottomissione femminile”. Sino ad arrivare al Manifesto Xenofemminista di Labora Cubonkis (2015), collettivo di teoriche, artiste e ricercatrici, che raccoglie l’eredità di entrambe i manifesti e si spinge anche oltre.
Ed è però nel terzo capitolo attraverso il racconto di un workshop di autocostruzione di sex-toy per trans che risulta evidente come nello spazio della creazione, nel contatto diretto con le pratiche dell’hacking, il rapporto con la tecnologia diventa un processo più trasformativo, di costruzione di consapevolezza. È importante notare come questo non accada solo nel contesto dello spettro delle corporeità trans, ma è valido in presenza di qualsiasi tipo di diversità e mette al centro l’individuo e le sue possibilità nella vita quotidiana in relazione con la tecnologia. I processi di apprendimento orizzontali diventano pratiche politiche di empowerment, dove i corpi non sono passivi fruitori di tecnologia ma attivi creatori di dispositivi che ri-significano le relazioni.
Se “Dal forno a microonde, al telefono, alla pillola anticoncezionale, alla robotica e ai software, la tecnologia ha un ruolo nella strutturazione dei ruoli sociali, e l’emarginazione delle soggettività che non aderiscono alla norma cis-etero-bianca da parte della comunità tecnologica ha una profonda influenza sul contenuto, il design, la tecnica e l’uso di artefatti tecnologici.” (p.11); allora la capacità di ri-appropriarsi delle competenze tecnologiche assume tutto un altro significato perché diventa luogo in cui iniziare a costruire una società possibile.
Le smagliature sono una metafora che riesce a rappresentare le inconsistenze, le fessure, gli strappi, i glitch che sempre più spesso vediamo emergere dalla narrazione del progresso tecnologico mainstream che vuole sembrare uniforme, lineare intrecciata e sostenuta dai rapporti di subordinazione che tengono insieme la società. Quell’esperienza forzatamente frictionless, senza attrito e senza sforzo, a cui tende lo storytelling di tutte le tecnologie si rivela invece fatta di corpi, la cui pelle non tiene più, perché la sua elasticità è stata forzata da eventi che l’hanno spinta ai limiti della sua resistenza rivelando spazi attraverso cui le relazioni di potere possono essere contestate.
Smagliature digitali diventa quindi una raccolta indispensabile perché guarda alle teorie e pratiche del più recente passato per ripensare la nostra azione presente e futura alla luce di una percezione della tecnologia che stiamo facendo diventare permeabile alle necessità di corpi consapevoli.
di Zoe RomanoStiamo assistendo e vivendo, non senza un certo piacere, l’emergere di un nuova ondata di femminismo che si è resa più visibile a partire dal movimento Non una di Meno, nato in Argentina nel 2015, e diffusosi in Italia pochi mesi dopo. Si parla di quarta ondata perché ciò che lo distingue dai movimenti precedenti è innanzitutto un maggiore approccio inclusivo e intersezionale che vede dialogare, non senza grande sforzo di mediazione, femminismo storico, centri anti-violenza, collettivi femministi di nuova generazione, collettivi transfemministi e queer e collettivi legati ai centri sociali. Ma ciò che la caratterizza di più e la differenzia rispetto alle precedenti esperienze, è la relazione con le tecnologie digitali, a partire dai mezzi di mobilitazione utilizzati, in particolare i social network e internet per organizzare gli interventi nelle strade, per la comunicazione di gruppo, e per diffondere il messaggio oltre i confini dell’attivismo.
Le pagine del libro ci accompagnano in un viaggio a cavallo tra la produzione teorica, riflessioni personali e sperimentazioni pratiche di un femminismo contemporaneo che potenzia la sua capacità di crescita attraverso l’utilizzo di strumenti digitali, e allo stesso tempo riesce a guardare con capacità critica quegli stessi strumenti tecnologici di cui fa uso.
In questo contesto lo sguardo delle curatrici, transfemminista e queer, diventa una prospettiva privilegiata perché più ricettiva nell’individuare la complessità del presente. Così come la semplificazione binaria che divide maschi e femmine nasconde una costruzione sociale arbitraria che adatta i corpi all’ordine sociale stabilito; allo stesso modo la relazione che abbiamo con le tecnologie diventa trasparente, quasi scontata, da farci dimenticare la sua genealogia e i passi che ci hanno portato fino a qui; ancora di più oggi che siamo equipaggiati volontariamente di un mini computer portatile, sempre connesso alla rete, dotato di sensori che inviano costantemente dati sui nostri comportamenti, dati biometrici e ambientali, a cui qualcuno, prima o poi darà un senso.
Tra i vari capitoli del libro, particolarmente centrale la comparazione tra i tre manifesti che hanno ripensato il rapporto tra corpo, lavoro e tecnologia e che negli anni hanno creato accesi dibattiti in vari contesti, fornendo alcune parole chiave per aiutarci a ri-orientare il nostro immaginarci il futuro per decidere come agire nel presente. Tradotto e uscito in italiano nel 1995, il Manifesto Cyborg di Donna Haraway (1985), è uno dei primi esempi in cui si riflette come i corpi femminili possono usare la tecnologia invece di farsi usare da essa a partire dalla consapevolezza che la realtà della vita moderna è caratterizzata da una relazione così intima tra persone e tecnologia che non è più possibile dire dove finiamo noi e dove iniziano le macchine. Ispirato dalle intuizioni di fine millennio del filosofo inglese Nick Land, il Manifesto per un politica accelerazionista pubblicato nel 2013 da Alex Williams e Nick Srnicek propone di intensificare l’automazione del lavoro, così che siano robot a svolgere le occupazioni più alienanti e ripetitive, e superare la nostalgia per un’età dell’oro del capitalismo “dove il lavoratore (maschio) otteneva uno standard di vita minimo e sicuro, in cambio di una noia mortificante e di repressione sociale. Tale sistema si appoggiava a una gerarchia internazionale fatta di colonie, imperi, e periferie sottosviluppate; una gerarchia nazionale di razzismo e sessismo; e una rigida gerarchia familiare di sottomissione femminile”. Sino ad arrivare al Manifesto Xenofemminista di Labora Cubonkis (2015), collettivo di teoriche, artiste e ricercatrici, che raccoglie l’eredità di entrambe i manifesti e si spinge anche oltre.
Ed è però nel terzo capitolo attraverso il racconto di un workshop di autocostruzione di sex-toy per trans che risulta evidente come nello spazio della creazione, nel contatto diretto con le pratiche dell’hacking, il rapporto con la tecnologia diventa un processo più trasformativo, di costruzione di consapevolezza. È importante notare come questo non accada solo nel contesto dello spettro delle corporeità trans, ma è valido in presenza di qualsiasi tipo di diversità e mette al centro l’individuo e le sue possibilità nella vita quotidiana in relazione con la tecnologia. I processi di apprendimento orizzontali diventano pratiche politiche di empowerment, dove i corpi non sono passivi fruitori di tecnologia ma attivi creatori di dispositivi che ri-significano le relazioni.
Se “Dal forno a microonde, al telefono, alla pillola anticoncezionale, alla robotica e ai software, la tecnologia ha un ruolo nella strutturazione dei ruoli sociali, e l’emarginazione delle soggettività che non aderiscono alla norma cis-etero-bianca da parte della comunità tecnologica ha una profonda influenza sul contenuto, il design, la tecnica e l’uso di artefatti tecnologici.” (p.11); allora la capacità di ri-appropriarsi delle competenze tecnologiche assume tutto un altro significato perché diventa luogo in cui iniziare a costruire una società possibile.
Le smagliature sono una metafora che riesce a rappresentare le inconsistenze, le fessure, gli strappi, i glitch che sempre più spesso vediamo emergere dalla narrazione del progresso tecnologico mainstream che vuole sembrare uniforme, lineare intrecciata e sostenuta dai rapporti di subordinazione che tengono insieme la società. Quell’esperienza forzatamente frictionless, senza attrito e senza sforzo, a cui tende lo storytelling di tutte le tecnologie si rivela invece fatta di corpi, la cui pelle non tiene più, perché la sua elasticità è stata forzata da eventi che l’hanno spinta ai limiti della sua resistenza rivelando spazi attraverso cui le relazioni di potere possono essere contestate.
Smagliature digitali diventa quindi una raccolta indispensabile perché guarda alle teorie e pratiche del più recente passato per ripensare la nostra azione presente e futura alla luce di una percezione della tecnologia che stiamo facendo diventare permeabile alle necessità di corpi consapevoli.
Effimera.org, 13 giugno 2018 Dove i margini non sono confini
Pubblichiamo un estratto dalla ottima introduzione al libro Smagliature digitali. Corpi, generi, tecnologie (Agenzia X Edizioni, Milano 2018), scritta dalle quattro curatrici. “Nelle riflessioni sulla relazione tra corpi e tecnologie si pone spesso l’accento sui processi di disincarnazione, di smaterializzazione, da un lato con i toni dell’entusiasmo, dall’altro con quelli della catastrofe”. “Questo libro è invece incarnato, si sottrae al binarismo, si insinua negli spazi in beetween, là dove i margini non sono confini”. Gli interventi raccolti nel testo “provano a elaborare nuove teorie e pratiche di critica radicale al tecnocapitalismo, uniti da un filo conduttore: smascherare i dispositivi di potere e i loro complicati intrecci”.***
Le riflessioni sulla relazione tra corpi/tecnologie/cyber-spazi si concentrano spesso sui processi di disincarnazione, di smaterializzazione, da un lato coi toni dell’entusiasmo, dall’altro coi toni della catastrofe, “oscillano tra deliri d’onnipotenza e paranoie d’impotenza totale”,[1] ma “guardare criticamente alle contraddizioni della tecnica, nonché ai rapporti di forza del presente, non necessariamente coincide con una condanna della tecnica”.[2] Sono posizioni polarizzate, che tendono, volutamente, ad annullare tutto quello che si trova in mezzo. Concreto vs Astratto, Fisico vs Virtuale, Spazio vs Cyberspazio, sono tutte medaglie a due facce, sono la dimostrazione di quanto sia difficile uscire dalla coazione a pensare per poli opposti.
“Binarism is for computer” recitava una scritta nera su un cartello fucsia alla manifestazione bolognese di Non Una di Meno dell’8 marzo 2018. Ma il pensiero binario è riposante, dà l’impressione di fare una scelta, è come un’opzione Tutto Incluso, fa sentire corretti e, forse ancora più importante, fa sentire sorretti.
Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che si rifiuta di giocare a testa o croce.
[…]
Se “nella cultura dominante il sistema operativo di default è Windows, la sessualità di default è bianca, monogama, monoparentale, l’abitudine è una nicchia di mercato”, scrive Lucia Egaña Rojas, solo strumenti conoscitivi che possano aiutarci a riconoscere e sfidare le gerarchie e i sistemi di potere impliciti in un sistema di pensiero polarizzato e dicotomico possono condurci verso “una tecnologia transfemminista (che) si fonda sull’irripetibilità del piccolo gesto, sulla serendipità e sulla casualità”.[3] Mettere in discussione le categorie e gli strumenti attraverso i quali si osserva il mondo per comprendere le nuove relazioni tra corpi, generi e tecnologie, apre una serie di questioni epistemologiche di ridefinizione del rapporto tra sapere e tecnologia. In questa direzione Haraway[4] contesta il concetto di oggettività, insistendo sulla necessità di riconoscere come parziale ogni punto di vista. La riflessione femminista sulla costruzione del sapere rivendica, infatti, una pratica consapevole in cui le “storie personali” siano utilizzate come strumento per illuminare le scelte teoriche, dove le differenze siano considerate dimensioni relazionali e non connaturate, dove ai corpi sia riconosciuta consapevolezza sociale e culturale. Da dove parlano, dunque, le autoru di questo libro? A partire dal concetto centrale nell’epistemologia femminista per cui il soggetto è situato in un determinato contesto, e di conseguenza il sapere sviluppato è un sapere incarnato, le autoru di questo libro sviluppano un sapere intorno a, e con, le tecnologie che si nutre prima di tutto di corpi e delle esperienze. Dando vita, così, a un processo di costruzione di conoscenza incarnato, in movimento, che ridefinisce i confini tra margine e centro, sfidando rassicuranti dicotomie di pensiero e pratica.
[…]
“Le strade libere le fanno le donne che le attraversano” non è uno slogan, è un progetto, un pensiero che si incarna, e vale anche per le strade elettroniche. Si può leggere “Gli spazi, compresi quelli cyber, li fanno le soggettività fuorinorma che li attraversano”, implica riconoscere che anche gli spazi non sono univoci, si trasformano e, soprattutto, si possono trasformare.
Da un punto di vista transfemminista il corpo stesso diventa uno spazio, “il corpo è un luogo dove la performance prende vita e ha un valore di strumento di resistenza e di rottura delle norme che regolano gli spazi pubblici. In questa prospettiva il corpo può diventare uno strumento di trasgressione delle norme sociali dominanti in un determinato spazio”.[5]
Il corpo è spazio biopolitico per eccellenza, è luogo che definisce luoghi, su di esso si agisce la violenza della norma, attraverso di esso si agisce il cambiamento.
Il corpo ri/crea lo spazio che attraversa, cambia i suoi connotati. Parafrasando un passaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie: Se lo conoscessi come lo conosco io non parleresti di LUI. Parleresti di LORO.[6]
Spazio, come femminismo, come corpo, è plurale, anche quando lo si legge al singolare. Pensiamo il corpo-spazio nei termini di una somateca (Preciado), ossia come un archivio di finzioni politiche vive che in nessun modo possono costituire un unico corpus. Le tecnologie digitali occupano oggi una superficie molto ampia di questo archivio, per gli ineluttabili, poiché voluti ma anche subiti, legami che i nostri corpi hanno intessuto con esse.
“Questo archivio è in realtà un corpo, o meglio, questo archivio è il mio corpo. […] Questo mio corpo-archivio, non è apparso dal nulla, la sua esistenza sarebbe stata impossibile senza il riconoscimento della genealogia di altrx dissidenti del genere e della sessualità”.[7]
Tuttavia, questo spazio-archivio subisce continue trasformazioni e “se il “cyberspazio” un tempo offriva la promessa di sfuggire alle costrizioni delle categorie identitarie essenzialiste, il clima dei social media contemporanei ha oscillato con forza nella direzione opposta ed è diventato un teatro dove ci si prostra continuamente all’altare dell’identità”.[8]
La tecnologia è sempre il prodotto di un’organizzazione sociale della quale mira a riprodurre i rapporti di potere e le categorizzazioni, e il gesto di decostruirla è un gesto politico proprio perché spezza questa catena di riproduzioni inserendo variazioni, consapevolezza, posizionamenti e materialità. Rinunciare a utilizzare gli strumenti del padrone, quindi, non significa rinunciare alla tecnica, ma all’organizzazione dalla quale è prodotta e che ricrea. Per questo è fondamentale tenere conto dell’invito di Rachele Borghi e Zarra Bonheur a rivolgere lo sguardo verso il margine più che verso il centro, verso gli usi impropri delle tecnologie più che verso il loro sviluppo lineare, perché questo “ci permette non solo di vedere i margini ma soprattutto di vedere che sono abitati, che ad ogni spazio-centro corrisponde un margine occupato, spazi liberati che possono diventare il terreno in cui edificare l’utopia”.[9]
Nei vari interventi di questo testo, significativamente, i margini e i confini sono indagati in molti aspetti diversi: da quelli tra il corpo e le tecnologie e quelli molto concreti degli spazi urbani (come nell’esperienza di un ebook che diventa passeggiata di Eva Kunin), fino a quelli tra gli Stati. Anna Casaglia, ad esempio, ci parla del confine tra Messico e Stati Uniti come di un luogo di sessualizzazione e di riproduzione di immaginari, mettendo in luce come “attraversare i confini significa spesso andare oltre i propri limiti, maturare, scoprire cose nuove, e le immagini che accompagnano questo attraversamento sono di frequente legate a un’idea di seduzione. […]”.[10]
[…]
Parlare del rapporto corpi-tecnologie-genere, significa situarsi esattamente all’interno di tale spazio di mostruosità e abiezione. Significa occuparsi di tutto ciò che sconvolge, snatura, riarticola e rende visibili i legami normativi – generalmente dati come scontati – tra la specificità biologica del corpo umano genderamente differenziato, i ruoli sociali e gli status che una particolare conformazione corporea è presupposta introiettare. È questa una prospettiva che, in altre parole, mette a tema il rapporto soggettivamente vissuto tra la percezione di genere, le aspettative sociali ad esso correlate e i meccanismi culturali che lavorano per sostenere o contrastare specifiche configurazioni gendered. Situarsi dall’interno di tale rapporto indica anche la possibilità di una comprensione diversa dei significati e delle rappresentazioni dei corpi narrati come “legittimi”: questioni a prima vista teoriche che tuttavia hanno conseguenze concrete sulle condizioni di vivibilità delle soggettività.
Nel lavoro di boicottaggio del sistema dualistico dei generi, sono centrali le nuove tecnologie, mezzi materiali e discorsivi capaci di fornire tanto l’accesso agli script di genere, quanto le chiavi per la sottrazione da questi.
Il corpo si rivela lo spazio attraverso cui le relazioni di potere possono venire contestate o confermate e nel quale i significati simbolici e culturali che gli individui assegnano ai loro stessi corpi (e ai corpi altrui) si scontrano o si convalidano a contatto con i valori e le norme attraverso cui un’intera società pensa i corpi.
[…]
Sono le esperienze tecno_trans_femministe che portano alla luce l’indissolubilità del rapporto esistente tra soma – il corpo, come costrutto culturale intellegibile – e technè – le tecniche nelle quali e attraverso le quali i corpi prendono forma, si trasformano e si (ri)posizionano. Le biotecnologie di mutazione del corpo trans, così come i dispositivi atti alla produzione del piacere per e attraverso quegli stessi corpi, non sono dunque mere “protesi” artificiali, installate su corpi “naturali” ma – proprio perché bio – sono il corpo stesso.
[…]
I contributi che si trovano in questo testo, ci dicono che le esperienze tecno_trans_femministe sono capaci di rivelare il funzionamento dei sistemi e delle istituzioni che producono contemporaneamente possibilità di vivibilità per alcuni soggetti mentre le precludono ad altri; esplicitano dimensioni problematiche che investono il rapporto tra corpi e tecnologie (basti pensare agli sviluppi relativi alla fecondazione in vitro, al trapianto di organi, all’ingegneria genetica), rendendo sempre più evidente la labilità dei confini dei corpi e la loro stessa duttilità. Non di meno, il divenire risorsa economica del corpo nell’attuale contesto neo-liberista – proprio come conseguenza dello sviluppo delle biotecnologie, delle industrie farmaceutiche e del piacere – ne ha portato alla luce nuove possibilità e contraddizioni, a partire dal suo essere spazio di creazione di significati e, al tempo stesso, significante culturale e sociale.
[…]
Come mette in luce Elisa Virgili “corpo e tecnologia non sono mai stati così ibridi, il confine tra corpo singolo, collettivo e tecnologie digitali viene frammentato per produrre resistenza”.[11] I corpi, quindi, diventano porosi ed emerge in maniera più chiara l’artificialità delle distinzioni sessuali e di genere grazie alla possibilità di modificarle attraverso diverse tecnologie. Ma i corpi si portano dietro anche la storia delle loro oppressioni e, come sostiene Lucía Egaña Rojas, “il corpo ha una memoria, non bisogna andare troppo lontano, una tecnologia transfemminista porta incisa sulla carne la reclusione di Angela Davis, la caccia alle streghe, le trans morte in una qualsiasi frontiera, nelle loro case. […] La tecnologia è materiale. Non è un’astrazione. Nella Silicon Valley la banda larga sorvola i tetti delle maquiladoras. La tecnologia è un fatto geologico, colmo di strati sovrapposti a formare disegni strutturali a partire da cataclismi, cicatrici e piogge dorate”.[12] Non soltanto, quindi, la tecnologia permette di ripensare i corpi, ma i corpi stessi sottolineano la materialità della tecnologia, della sua storia e delle sue applicazioni. Angela Balzano, ad esempio, ci mostra i lati oscuri delle tecnologie riproduttive, che reificano i desideri di genitorialità e finiscono per rivolgersi soltanto alle potenziali madri: “riaffiora così la retorica della sacralità della riproduzione, anche ai tempi dell’intersezione tra dispostivi informatici e mercati bio-tech: ma superare la natura in nome del miracolo della vita, insistendo a senso unico sul “sogno della maternità”, non vuol dire riproporci, con mezzi nuovi, la vecchia ricetta essenzialista della donna-madre?”.[13]
E questa enfasi sui corpi e sui loro posizionamenti è fondamentale per non cadere nella tentazione di vedere nelle tecnologie delle utopie già in atto.
[…]
Certo, “le relazioni con i luoghi, come quelle con le persone, sono costellate da pregiudizi, lacerate da contraddizioni e complicate da opache risposte emotive”,[14] non ci sottraiamo al dolore, non vogliamo essere eroine, lo attraversiamo. I nostri corpi-spazi sono vulnerabili, li proteggiamo, li rifiutiamo, li travestiamo, li spogliamo, li occupiamo, li lasciamo. È proprio in questa esplosione dei plurali negata dall’eteronormatività che abita il transfemminismo queer.
Scrive Lucía Egaña Rojas: “Una tecnologia transfemminista cercherà di superare la vulnerabilità nello spazio pubblico della tecnomeccanica di internet. Google non è uno spazio di sicurezza. I suoi server sono iscritti nella lista degli attrezzi necessari al discorso eteropatriarcale, in un rack blindato. Possiamo entrare e uscire da essi (e il più delle volte ci obbligano a uscire con la forza e senza spiegazioni) perché, in un certo senso, abbiamo sempre vissuto in spazi insicuri, costruendo fortezze collettive e affettive di protezione. Ma io chiedo una tecnologia transfemminista che crei i suoi spazi di sicurezza, nella città e nella rete. Chiedo server liberi, senza censura, nei quali non si debbano dissimulare i contenuti né autocensurare i video. Chiedo di organizzarci per ottenerlo”.[15]
Risponde Laboria Cuboniks: “Intervenire sulle egemonie più chiaramente materiali è tanto importante quanto intervenire sulle egemonie culturali e digitali. Le modifiche all’ambiente costituito riservano alcune delle possibilità più significative nella riconfigurazione degli orizzonti delle donne e dei soggetti queer. In quanto materializzazioni di costellazioni ideologiche, la produzione dello spazio e le decisioni adottate per organizzarlo sono in ultima analisi articolazioni su noi stess* e, reciprocamente, sulle modalità con cui è possibile articolare un noi”.[16]
Le cose sono complesse e per capirle, per spiegarle, per abitarle, quello che ci serve è un pensiero complesso che non sia consolatorio.
Un pensiero stupendo.
NOTE
[1] Paul B. Preciado, La tecnologia cambia i corpi e le coscienze, “Internazionale”, 30 gennaio 2017, https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2017/01/30/tecnolo…
[2] Brunella Casalini, Federico Zappino, Prefazione, in Karin Harrasser, Corpi 2.0. Sulla dilatabilità tecnica dell’Uomo, Firenze, goWare, 2018, p. 171.
[3] Lucía Egaña Rojas, Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3) , infra.
[4] Donna Haraway, “Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective”, Feminist Studies, 14(3),1998, pp. 575-99.
[5] Rachele Borghi e Zarra Bonheur, Appunti dai margini del centro, infra.
[6] “If you knew Time as well as I do said the Hatter, you wouldn’t talk about wasting it. It’s him.”
[7] Diego Marchante “Genderhacker”, Transcyborgllera, infra.
[8] Laboria Cuboniks, Manifesto Xenofemminista, infra.
[9] Rachele Borghi e Zarra Bonheur, Appunti dai margini del centro, infra.
[10] Anna Casaglia, Border Porn e la sessualizzazione delle donne migranti, infra.
[11] Elisa Virgili, If I was a rich girl, infra.
[12] Lucía Egaña Rojas, Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3) , infra.
[13] Angela Balzano, Le interfacce virtuali della riproduzione biotech, infra, p.
[14] Jack Halberstam, In a Queer Time and Place: Transgender Bodies, Subcultural Lives, New York, New York University Press, 2005, p. 22 (traduzione di Valentina Greco).
[15] Lucía Egaña Rojas, Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3) , infra.
[16] Laboria Cuboniks, Manifesto Xenofemminista, infra.
Immagine in apertura: illustrazione della copertina di Valeria Bertolini
di Carlotta Cossutta, Valentina Greco, Arianna Mainardi, Stefania VoliLe riflessioni sulla relazione tra corpi/tecnologie/cyber-spazi si concentrano spesso sui processi di disincarnazione, di smaterializzazione, da un lato coi toni dell’entusiasmo, dall’altro coi toni della catastrofe, “oscillano tra deliri d’onnipotenza e paranoie d’impotenza totale”,[1] ma “guardare criticamente alle contraddizioni della tecnica, nonché ai rapporti di forza del presente, non necessariamente coincide con una condanna della tecnica”.[2] Sono posizioni polarizzate, che tendono, volutamente, ad annullare tutto quello che si trova in mezzo. Concreto vs Astratto, Fisico vs Virtuale, Spazio vs Cyberspazio, sono tutte medaglie a due facce, sono la dimostrazione di quanto sia difficile uscire dalla coazione a pensare per poli opposti.
“Binarism is for computer” recitava una scritta nera su un cartello fucsia alla manifestazione bolognese di Non Una di Meno dell’8 marzo 2018. Ma il pensiero binario è riposante, dà l’impressione di fare una scelta, è come un’opzione Tutto Incluso, fa sentire corretti e, forse ancora più importante, fa sentire sorretti.
Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che si rifiuta di giocare a testa o croce.
[…]
Se “nella cultura dominante il sistema operativo di default è Windows, la sessualità di default è bianca, monogama, monoparentale, l’abitudine è una nicchia di mercato”, scrive Lucia Egaña Rojas, solo strumenti conoscitivi che possano aiutarci a riconoscere e sfidare le gerarchie e i sistemi di potere impliciti in un sistema di pensiero polarizzato e dicotomico possono condurci verso “una tecnologia transfemminista (che) si fonda sull’irripetibilità del piccolo gesto, sulla serendipità e sulla casualità”.[3] Mettere in discussione le categorie e gli strumenti attraverso i quali si osserva il mondo per comprendere le nuove relazioni tra corpi, generi e tecnologie, apre una serie di questioni epistemologiche di ridefinizione del rapporto tra sapere e tecnologia. In questa direzione Haraway[4] contesta il concetto di oggettività, insistendo sulla necessità di riconoscere come parziale ogni punto di vista. La riflessione femminista sulla costruzione del sapere rivendica, infatti, una pratica consapevole in cui le “storie personali” siano utilizzate come strumento per illuminare le scelte teoriche, dove le differenze siano considerate dimensioni relazionali e non connaturate, dove ai corpi sia riconosciuta consapevolezza sociale e culturale. Da dove parlano, dunque, le autoru di questo libro? A partire dal concetto centrale nell’epistemologia femminista per cui il soggetto è situato in un determinato contesto, e di conseguenza il sapere sviluppato è un sapere incarnato, le autoru di questo libro sviluppano un sapere intorno a, e con, le tecnologie che si nutre prima di tutto di corpi e delle esperienze. Dando vita, così, a un processo di costruzione di conoscenza incarnato, in movimento, che ridefinisce i confini tra margine e centro, sfidando rassicuranti dicotomie di pensiero e pratica.
[…]
“Le strade libere le fanno le donne che le attraversano” non è uno slogan, è un progetto, un pensiero che si incarna, e vale anche per le strade elettroniche. Si può leggere “Gli spazi, compresi quelli cyber, li fanno le soggettività fuorinorma che li attraversano”, implica riconoscere che anche gli spazi non sono univoci, si trasformano e, soprattutto, si possono trasformare.
Da un punto di vista transfemminista il corpo stesso diventa uno spazio, “il corpo è un luogo dove la performance prende vita e ha un valore di strumento di resistenza e di rottura delle norme che regolano gli spazi pubblici. In questa prospettiva il corpo può diventare uno strumento di trasgressione delle norme sociali dominanti in un determinato spazio”.[5]
Il corpo è spazio biopolitico per eccellenza, è luogo che definisce luoghi, su di esso si agisce la violenza della norma, attraverso di esso si agisce il cambiamento.
Il corpo ri/crea lo spazio che attraversa, cambia i suoi connotati. Parafrasando un passaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie: Se lo conoscessi come lo conosco io non parleresti di LUI. Parleresti di LORO.[6]
Spazio, come femminismo, come corpo, è plurale, anche quando lo si legge al singolare. Pensiamo il corpo-spazio nei termini di una somateca (Preciado), ossia come un archivio di finzioni politiche vive che in nessun modo possono costituire un unico corpus. Le tecnologie digitali occupano oggi una superficie molto ampia di questo archivio, per gli ineluttabili, poiché voluti ma anche subiti, legami che i nostri corpi hanno intessuto con esse.
“Questo archivio è in realtà un corpo, o meglio, questo archivio è il mio corpo. […] Questo mio corpo-archivio, non è apparso dal nulla, la sua esistenza sarebbe stata impossibile senza il riconoscimento della genealogia di altrx dissidenti del genere e della sessualità”.[7]
Tuttavia, questo spazio-archivio subisce continue trasformazioni e “se il “cyberspazio” un tempo offriva la promessa di sfuggire alle costrizioni delle categorie identitarie essenzialiste, il clima dei social media contemporanei ha oscillato con forza nella direzione opposta ed è diventato un teatro dove ci si prostra continuamente all’altare dell’identità”.[8]
La tecnologia è sempre il prodotto di un’organizzazione sociale della quale mira a riprodurre i rapporti di potere e le categorizzazioni, e il gesto di decostruirla è un gesto politico proprio perché spezza questa catena di riproduzioni inserendo variazioni, consapevolezza, posizionamenti e materialità. Rinunciare a utilizzare gli strumenti del padrone, quindi, non significa rinunciare alla tecnica, ma all’organizzazione dalla quale è prodotta e che ricrea. Per questo è fondamentale tenere conto dell’invito di Rachele Borghi e Zarra Bonheur a rivolgere lo sguardo verso il margine più che verso il centro, verso gli usi impropri delle tecnologie più che verso il loro sviluppo lineare, perché questo “ci permette non solo di vedere i margini ma soprattutto di vedere che sono abitati, che ad ogni spazio-centro corrisponde un margine occupato, spazi liberati che possono diventare il terreno in cui edificare l’utopia”.[9]
Nei vari interventi di questo testo, significativamente, i margini e i confini sono indagati in molti aspetti diversi: da quelli tra il corpo e le tecnologie e quelli molto concreti degli spazi urbani (come nell’esperienza di un ebook che diventa passeggiata di Eva Kunin), fino a quelli tra gli Stati. Anna Casaglia, ad esempio, ci parla del confine tra Messico e Stati Uniti come di un luogo di sessualizzazione e di riproduzione di immaginari, mettendo in luce come “attraversare i confini significa spesso andare oltre i propri limiti, maturare, scoprire cose nuove, e le immagini che accompagnano questo attraversamento sono di frequente legate a un’idea di seduzione. […]”.[10]
[…]
Parlare del rapporto corpi-tecnologie-genere, significa situarsi esattamente all’interno di tale spazio di mostruosità e abiezione. Significa occuparsi di tutto ciò che sconvolge, snatura, riarticola e rende visibili i legami normativi – generalmente dati come scontati – tra la specificità biologica del corpo umano genderamente differenziato, i ruoli sociali e gli status che una particolare conformazione corporea è presupposta introiettare. È questa una prospettiva che, in altre parole, mette a tema il rapporto soggettivamente vissuto tra la percezione di genere, le aspettative sociali ad esso correlate e i meccanismi culturali che lavorano per sostenere o contrastare specifiche configurazioni gendered. Situarsi dall’interno di tale rapporto indica anche la possibilità di una comprensione diversa dei significati e delle rappresentazioni dei corpi narrati come “legittimi”: questioni a prima vista teoriche che tuttavia hanno conseguenze concrete sulle condizioni di vivibilità delle soggettività.
Nel lavoro di boicottaggio del sistema dualistico dei generi, sono centrali le nuove tecnologie, mezzi materiali e discorsivi capaci di fornire tanto l’accesso agli script di genere, quanto le chiavi per la sottrazione da questi.
Il corpo si rivela lo spazio attraverso cui le relazioni di potere possono venire contestate o confermate e nel quale i significati simbolici e culturali che gli individui assegnano ai loro stessi corpi (e ai corpi altrui) si scontrano o si convalidano a contatto con i valori e le norme attraverso cui un’intera società pensa i corpi.
[…]
Sono le esperienze tecno_trans_femministe che portano alla luce l’indissolubilità del rapporto esistente tra soma – il corpo, come costrutto culturale intellegibile – e technè – le tecniche nelle quali e attraverso le quali i corpi prendono forma, si trasformano e si (ri)posizionano. Le biotecnologie di mutazione del corpo trans, così come i dispositivi atti alla produzione del piacere per e attraverso quegli stessi corpi, non sono dunque mere “protesi” artificiali, installate su corpi “naturali” ma – proprio perché bio – sono il corpo stesso.
[…]
I contributi che si trovano in questo testo, ci dicono che le esperienze tecno_trans_femministe sono capaci di rivelare il funzionamento dei sistemi e delle istituzioni che producono contemporaneamente possibilità di vivibilità per alcuni soggetti mentre le precludono ad altri; esplicitano dimensioni problematiche che investono il rapporto tra corpi e tecnologie (basti pensare agli sviluppi relativi alla fecondazione in vitro, al trapianto di organi, all’ingegneria genetica), rendendo sempre più evidente la labilità dei confini dei corpi e la loro stessa duttilità. Non di meno, il divenire risorsa economica del corpo nell’attuale contesto neo-liberista – proprio come conseguenza dello sviluppo delle biotecnologie, delle industrie farmaceutiche e del piacere – ne ha portato alla luce nuove possibilità e contraddizioni, a partire dal suo essere spazio di creazione di significati e, al tempo stesso, significante culturale e sociale.
[…]
Come mette in luce Elisa Virgili “corpo e tecnologia non sono mai stati così ibridi, il confine tra corpo singolo, collettivo e tecnologie digitali viene frammentato per produrre resistenza”.[11] I corpi, quindi, diventano porosi ed emerge in maniera più chiara l’artificialità delle distinzioni sessuali e di genere grazie alla possibilità di modificarle attraverso diverse tecnologie. Ma i corpi si portano dietro anche la storia delle loro oppressioni e, come sostiene Lucía Egaña Rojas, “il corpo ha una memoria, non bisogna andare troppo lontano, una tecnologia transfemminista porta incisa sulla carne la reclusione di Angela Davis, la caccia alle streghe, le trans morte in una qualsiasi frontiera, nelle loro case. […] La tecnologia è materiale. Non è un’astrazione. Nella Silicon Valley la banda larga sorvola i tetti delle maquiladoras. La tecnologia è un fatto geologico, colmo di strati sovrapposti a formare disegni strutturali a partire da cataclismi, cicatrici e piogge dorate”.[12] Non soltanto, quindi, la tecnologia permette di ripensare i corpi, ma i corpi stessi sottolineano la materialità della tecnologia, della sua storia e delle sue applicazioni. Angela Balzano, ad esempio, ci mostra i lati oscuri delle tecnologie riproduttive, che reificano i desideri di genitorialità e finiscono per rivolgersi soltanto alle potenziali madri: “riaffiora così la retorica della sacralità della riproduzione, anche ai tempi dell’intersezione tra dispostivi informatici e mercati bio-tech: ma superare la natura in nome del miracolo della vita, insistendo a senso unico sul “sogno della maternità”, non vuol dire riproporci, con mezzi nuovi, la vecchia ricetta essenzialista della donna-madre?”.[13]
E questa enfasi sui corpi e sui loro posizionamenti è fondamentale per non cadere nella tentazione di vedere nelle tecnologie delle utopie già in atto.
[…]
Certo, “le relazioni con i luoghi, come quelle con le persone, sono costellate da pregiudizi, lacerate da contraddizioni e complicate da opache risposte emotive”,[14] non ci sottraiamo al dolore, non vogliamo essere eroine, lo attraversiamo. I nostri corpi-spazi sono vulnerabili, li proteggiamo, li rifiutiamo, li travestiamo, li spogliamo, li occupiamo, li lasciamo. È proprio in questa esplosione dei plurali negata dall’eteronormatività che abita il transfemminismo queer.
Scrive Lucía Egaña Rojas: “Una tecnologia transfemminista cercherà di superare la vulnerabilità nello spazio pubblico della tecnomeccanica di internet. Google non è uno spazio di sicurezza. I suoi server sono iscritti nella lista degli attrezzi necessari al discorso eteropatriarcale, in un rack blindato. Possiamo entrare e uscire da essi (e il più delle volte ci obbligano a uscire con la forza e senza spiegazioni) perché, in un certo senso, abbiamo sempre vissuto in spazi insicuri, costruendo fortezze collettive e affettive di protezione. Ma io chiedo una tecnologia transfemminista che crei i suoi spazi di sicurezza, nella città e nella rete. Chiedo server liberi, senza censura, nei quali non si debbano dissimulare i contenuti né autocensurare i video. Chiedo di organizzarci per ottenerlo”.[15]
Risponde Laboria Cuboniks: “Intervenire sulle egemonie più chiaramente materiali è tanto importante quanto intervenire sulle egemonie culturali e digitali. Le modifiche all’ambiente costituito riservano alcune delle possibilità più significative nella riconfigurazione degli orizzonti delle donne e dei soggetti queer. In quanto materializzazioni di costellazioni ideologiche, la produzione dello spazio e le decisioni adottate per organizzarlo sono in ultima analisi articolazioni su noi stess* e, reciprocamente, sulle modalità con cui è possibile articolare un noi”.[16]
Le cose sono complesse e per capirle, per spiegarle, per abitarle, quello che ci serve è un pensiero complesso che non sia consolatorio.
Un pensiero stupendo.
NOTE
[1] Paul B. Preciado, La tecnologia cambia i corpi e le coscienze, “Internazionale”, 30 gennaio 2017, https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2017/01/30/tecnolo…
[2] Brunella Casalini, Federico Zappino, Prefazione, in Karin Harrasser, Corpi 2.0. Sulla dilatabilità tecnica dell’Uomo, Firenze, goWare, 2018, p. 171.
[3] Lucía Egaña Rojas, Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3) , infra.
[4] Donna Haraway, “Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective”, Feminist Studies, 14(3),1998, pp. 575-99.
[5] Rachele Borghi e Zarra Bonheur, Appunti dai margini del centro, infra.
[6] “If you knew Time as well as I do said the Hatter, you wouldn’t talk about wasting it. It’s him.”
[7] Diego Marchante “Genderhacker”, Transcyborgllera, infra.
[8] Laboria Cuboniks, Manifesto Xenofemminista, infra.
[9] Rachele Borghi e Zarra Bonheur, Appunti dai margini del centro, infra.
[10] Anna Casaglia, Border Porn e la sessualizzazione delle donne migranti, infra.
[11] Elisa Virgili, If I was a rich girl, infra.
[12] Lucía Egaña Rojas, Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3) , infra.
[13] Angela Balzano, Le interfacce virtuali della riproduzione biotech, infra, p.
[14] Jack Halberstam, In a Queer Time and Place: Transgender Bodies, Subcultural Lives, New York, New York University Press, 2005, p. 22 (traduzione di Valentina Greco).
[15] Lucía Egaña Rojas, Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3) , infra.
[16] Laboria Cuboniks, Manifesto Xenofemminista, infra.
Immagine in apertura: illustrazione della copertina di Valeria Bertolini
Radiocittàdelcapo.it, 8 giugno 2018 Corpi, cyborg e robottoni
Bologna, 4 giu. – La tecnologia incontra i nostri corpi. Non serve arrivare fino in Svezia, dove tremila persone hanno un microchip NFS sottopelle, basta guardare ai progressi nel mondo delle protesi, gli esoscheletri, mani robotiche, occhi bionici oppure quanto usiamo in maniera sempre più frequente dispositivi “indossabili”, occhiali, bracciali, corpetti, che monitorano il nostro stato fisico.
Riflettiamo di queste trasformazioni e del rapporto con la tecnologia, in chiave transfemminista, con Valentina Greco e Arianna Mainardi, autrici con Carlotta Cossutta e Stefania Voli, di Smagliature digitali (AgenziaX) e con Angela Balzano, che ci parla del Manifesto Cyborg di Donna Haraway.
In chiusura facciamo il punto sullo stato di evoluzione dei robot umanoidi con Claudio Simbula, autore di Professione Robot.
di Damiana AguiariRiflettiamo di queste trasformazioni e del rapporto con la tecnologia, in chiave transfemminista, con Valentina Greco e Arianna Mainardi, autrici con Carlotta Cossutta e Stefania Voli, di Smagliature digitali (AgenziaX) e con Angela Balzano, che ci parla del Manifesto Cyborg di Donna Haraway.
In chiusura facciamo il punto sullo stato di evoluzione dei robot umanoidi con Claudio Simbula, autore di Professione Robot.
Letteradonna.it, 29 maggio 2018 Quali sono i pro e i contro di social media e smartphone?
Il punto di vista di due studiose italiane sugli effetti, negativi e positivi, delle nuove tecnologie e dei nuovi mezzi di comunicazione.Social media, smartphone, tablet. Mezzi che utilizziamo tutti i giorni, dalla mattina alla sera, per restare in contatto con amici, parenti e mondo del lavoro. E che hanno radicalmente influenzato una discussione, quella sui legami tra corpi e tecnologie, che esisteva da tempo. Ribaltando assunti che sembravano consolidati, e che invece devono essere ripensati da capo, come hanno fatto le autrici di Smagliature digitali: l'obiettivo del testo è «smascherare i dispositivi di potere e i loro complicati intrecci», come ci raccontano due delle autrici, Carlotta Cossutta e Arianna Mainardi. Perché le tecnologie hanno dei pro e dei contro, e a questi ultimi non si può certo rimediare rinnegando l'innovazione. «La tecnologia non è né giusta né sbagliata. La questione non è disintossicarsi ma abitare con consapevolezza il mondo digitale», spiega Arianna. Mentre per Carlotta la fuga è impossibile, a meno che «non si decida di vivere totalmente isolati. Il corpo è straordinario, consente sia a forme di controllo che di apertura. Con poco possiamo far sì che i bombardamenti non diventino schiaccianti». E allora cerchiamo di capire quali sono le due facce di questa complessa medaglia.
I PROUna voce per le minoranze
Ad esempio, è innegabile che la tecnologia abbia aiutato i movimenti femministi. Senza social, non sarebbe mai esistito #MeToo. Arianna e Carlotta sono d'accordo: la potenza di questi strumenti è innegabile. Per Carlotta, «bisogna ringraziare le tecnologie per la dimensione di questa esperienza. Se avessimo dovuto aspettare i tempi dell’analogico non sarebbe stato possibile». La Cossutta rimarca il concetto, pensando ovviamente al caso Weinstein: «Testimonia una forza delle donne che hanno avuto la forza di prendere parola pubblicamente. Questo ha decretato anche le critiche contro chi ha denunciato, soprattutto in Italia. Ma pensare che storie come queste succedevano anche prima e rimanevano in silenzio è assurdo».
Un difensore della diversità
Tutti noi frequentiamo spazi comuni e di condivisione, come i social network. È proprio qui che nascono i modelli di perfezione che a volte ci sembrano irraggiungibili. Per Arianna non si può essere solo critici: «I social sono una delle risorse di costruzione personale e delle relazioni con gli altri. Non parlerei di influenza perché siamo noi che li utilizziamo. Abbiamo in mano strumenti che ci consentono di formare nuovi modelli meno normativi della femminilità». Anche Carlotta interviene dicendo che tutto questo «Apre a nuovi giochi di cambiamento, come l’esplosione delle modelle curvy che senza i social non avrebbero avuto lo stesso successo. Tuttavia questi luoghi sono pubblici, paragonabili alla strada. Lì dove si possono subire pressioni, commenti maschili non richiesti. Il contesto è molto simile».
I CONTROComandano le big
Le autrici stesse del libro ammettono che il lavoro svolto non sarebbe riuscito senza le opportunità digitali. E allora perché criticare gli strumenti del settore? Interviene Carlotta: «Ciò che è sbagliato è la struttura dei rapporti di potere che danno vita alle tecnologie. Facebook, Instagram, Skype, Twitter, possiamo usarli in tantissimi modi ma questo non toglie che i rapporti economici non siano controllati da noi. Più in generale, tutto questo è sviluppato in laboratorio, un luogo non neutro». Secondo Arianna è giusto anche dare al digitale una lettura diversa: «Bisogna avere gli strumenti per guardare tutto da un’altra prospettiva, costruendo contronarrazioni».
Il megafono del body shaming
I canoni di bellezza che siamo costretti a vedere ogni giorno non smettono di incuriosire gli utenti. Prima arrivavano solo dalla televisione, adesso dappertutto. Ma in rete non si vedono solo impeccabilità, ma anche offese senza limiti. La tendenza abbastanza pericolosa, il body shaming, è parecchio diffusa. Lo scopo è prendere di mira le forme femminili. La Mainardi sostiene che «la rete supporta la diffusione, ma sarebbe giusto ristrutturare il concetto della violazione sulla parità di genere». Della stessa opinione anche la Cossutta, che parla di «chiara violenza femminile. Riguarda categorie di tutte le età e spesso sono colpite le persone LGBT».
di Serena SantoliI PROUna voce per le minoranze
Ad esempio, è innegabile che la tecnologia abbia aiutato i movimenti femministi. Senza social, non sarebbe mai esistito #MeToo. Arianna e Carlotta sono d'accordo: la potenza di questi strumenti è innegabile. Per Carlotta, «bisogna ringraziare le tecnologie per la dimensione di questa esperienza. Se avessimo dovuto aspettare i tempi dell’analogico non sarebbe stato possibile». La Cossutta rimarca il concetto, pensando ovviamente al caso Weinstein: «Testimonia una forza delle donne che hanno avuto la forza di prendere parola pubblicamente. Questo ha decretato anche le critiche contro chi ha denunciato, soprattutto in Italia. Ma pensare che storie come queste succedevano anche prima e rimanevano in silenzio è assurdo».
Un difensore della diversità
Tutti noi frequentiamo spazi comuni e di condivisione, come i social network. È proprio qui che nascono i modelli di perfezione che a volte ci sembrano irraggiungibili. Per Arianna non si può essere solo critici: «I social sono una delle risorse di costruzione personale e delle relazioni con gli altri. Non parlerei di influenza perché siamo noi che li utilizziamo. Abbiamo in mano strumenti che ci consentono di formare nuovi modelli meno normativi della femminilità». Anche Carlotta interviene dicendo che tutto questo «Apre a nuovi giochi di cambiamento, come l’esplosione delle modelle curvy che senza i social non avrebbero avuto lo stesso successo. Tuttavia questi luoghi sono pubblici, paragonabili alla strada. Lì dove si possono subire pressioni, commenti maschili non richiesti. Il contesto è molto simile».
I CONTROComandano le big
Le autrici stesse del libro ammettono che il lavoro svolto non sarebbe riuscito senza le opportunità digitali. E allora perché criticare gli strumenti del settore? Interviene Carlotta: «Ciò che è sbagliato è la struttura dei rapporti di potere che danno vita alle tecnologie. Facebook, Instagram, Skype, Twitter, possiamo usarli in tantissimi modi ma questo non toglie che i rapporti economici non siano controllati da noi. Più in generale, tutto questo è sviluppato in laboratorio, un luogo non neutro». Secondo Arianna è giusto anche dare al digitale una lettura diversa: «Bisogna avere gli strumenti per guardare tutto da un’altra prospettiva, costruendo contronarrazioni».
Il megafono del body shaming
I canoni di bellezza che siamo costretti a vedere ogni giorno non smettono di incuriosire gli utenti. Prima arrivavano solo dalla televisione, adesso dappertutto. Ma in rete non si vedono solo impeccabilità, ma anche offese senza limiti. La tendenza abbastanza pericolosa, il body shaming, è parecchio diffusa. Lo scopo è prendere di mira le forme femminili. La Mainardi sostiene che «la rete supporta la diffusione, ma sarebbe giusto ristrutturare il concetto della violazione sulla parità di genere». Della stessa opinione anche la Cossutta, che parla di «chiara violenza femminile. Riguarda categorie di tutte le età e spesso sono colpite le persone LGBT».