Italia contemporanea, 2009, n. 254Rileggere gli anni ’80 attraverso l’attivismo radicale
Come suggerisce anche il sottotitolo, l’oggetto del libro di Beppe De Sario, giovane storico delle culture e dei movimenti, è l’attivismo radicale degli anni ottanta, raccontato attraverso le storie di tre diversi spazi urbani in cui “produttori e diffusori di pratiche culturali e giovanili” si fecero altresì promotori di eterogenee forme di attivismo politico. Si tratta del quartiere romano di Centocelle e del centro sociale di zona Forte Prenestino; dello spazio urbano milanese, distribuito inizialmente su diversi luoghi di aggregazione giovanile di stile soprattutto punk e postpunk e infine coincidente con il quartiere ticinese intorno al centro sociale Conchetta, alla libreria Calusca City Light e alla cooperativa editoriale Shake di via Bligny; e in ultimo dello spazio urbano torinese, legato al centro di incontro di via Vanchiglia e riconfiguratosi alla fine del decennio attorno al centro sociale anarchico di El Paso. Il libro però non esaurisce il suo significato nel racconto di queste tre storie, seppure di per sé interessanti e originali nell’ambito della storiografia sui movimenti, come avremo modo di vedere.
L’autore cerca infatti anche di gettare uno sguardo diverso sulla storia degli anni ottanta, il cui carattere dominante di decennio segnato dal successo di un progetto neoliberista e da un ripiegamento culturale totalmente staccato dall’“oggetto anni settanta”, viene messo profondamente in discussione sulla base delle memorie e delle esperienze compiute dai soggetti protagonisti di queste storie. A mutare il profilo del decennio sono le testimonianze orali e la lettura di una specifica memoria generazionale, quella dei giovani dei settanta e degli ottanta, che viene letta come “scoperta e formazione personale”, “affermazione di soggettività” e “capovolgimento della tradizione” e inserita in un discorso complessivo sulle vie eterogenee e frammentarie di un processo di politicizzazione senza garanzie, alla cui natura caotica si deve la difficoltà, almeno fino a oggi, di raccoglierne le memorie e riportarne in luce il vissuto. Dal punto di vista metodologico a dare struttura al discorso di De Sario è in larga parte la trama dell’“intersoggettività”, quell’intrecciarsi di esperienze individuali e collettive correlato all’emergere dei fili delle memorie, alla luce del quale la ricostruzione storica appare come un prisma di esperienze, ognuna diversa dall’altra ma al tempo stesso parte integrante della rappresentazione complessiva. Ne risultano un quadro affascinante, sfaccettato e non privo di contraddizioni tra una scena controculturale e l’altra e un’immagine del decennio assai più controversa di quella comunemente accettata.
La valorizzazione della storia orale è senz’altro un metodo di narrazione congeniale all’oggetto in questione, l’attivismo radicale, di cui il Sessantotto è stato in termini di scontro di soggettività, desideri e progetti utopici il precedente storico originario. Ha scritto Luisa Passerini, che si è occupata di Sessantotto anche in quest’ottica, che “i movimenti di quell’anno rivendicarono il diritto degli individui e dei gruppi a essere soggetti delle azioni e delle decisioni della propria vita, qualunque attività scegliessero di intraprendere […]” (Luisa Passerini, Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 72.). E la ricerca di De Sario punta proprio a mettere in luce come la ricerca di processi controegemonici nel solco di ambienti underground, legati a specifiche realtà urbane, abbia favorito la crescita e la trasformazione esistenziale dell’individuo, attraverso il distacco dalla generazione dei padri e il confronto con la generazione del radicalismo precedente. L’epoca di questo passaggio esistenziale è calcolato lungo il percorso delle esperienze compiute in un arco di tempo che va dal 1977 circa al 1990-1994.
Diversamente dal Sessantotto, l’attivismo dei giovani che vivono la transizione tra gli anni settanta e gli ottanta abbandona l’antagonismo dualistico per scegliere forme diverse di agonismo controegemonico, così come abbandona lo spazio politico organizzato e il messaggio universalistico per operare sulla strada, lo “spazio utopico” dove si consumano specifiche esperienze di politicizzazione quali l’occupazione di spazi sociali, l’autoproduzione musicale, l’editoria indipendente. Come sottolinea l’autore, i frammentati movimenti degli anni ottanta sono basati sulle esperienze e non su poste in gioco socio-economiche. Per questo si rivelano come un bacino di atti individuali e collettivi dalle grandi potenzialità espressive sul piano culturale, tramite l’invenzione di nuove pratiche giovanili, stili di vita e forme dell’immaginario, da intendersi come strumenti di proiezione di processi di identificazione. A popolare le storie di De Sario sono infatti diversi movimenti giovanili come i punk, nelle sue varie declinazioni punk fashion, punk anarchici, cyberpunk, gli skinhead, i “tamarri”, i “fioruccini”, ma anche gruppi musicali per cui la musica diventa non solo modo di fare narrazione del proprio presente, ma anche “ricerca di una diversa politicità dell’espressione di sé”, l’occasione per “una combinazione mobile di persone e gruppi uniti dalla medesima attitudine” in quella realtà ideale, deterritorializzata e transnazionale che in gergo viene definita la scena.
Le tre realtà descritte sono ognuna molto diversa dall’altra, a dimostrazione del fatto che nell’attivismo degli anni ottanta non c’era un modo unico di fare politica e c’era altresì un rapporto molteplice con la tradizione delle pratiche politiche del decennio precedente. In linea generale, osserva l’autore, “negli ’80 si è realizzato un doppio movimento, per il quale le culture dei giovani hanno avuto accesso a una memoria – magari rimossa e non del tutto consapevole – della politica del decennio precedente, e insieme hanno realizzato genealogie composite e performance della tradizione stessa”. Rispetto alle lotte di fine anni settanta emerge dalle interviste una memoria spesso “ossimorica”, come la definisce l’autore, che si muove tra la rimozione della sconfitta personale e l’atto quasi catartico del ricordo, l’uno in funzione dell’altra e che deve la sua difficoltà espressiva anche a quella mancata riflessione collettiva sul decennio di cui ha recentemente scritto Giovanni Moro (Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007).
A Roma la scena dell’attivismo radicale coagulatasi attorno al centro sociale di Forte Prenestino, occupato durante la festa del “non lavoro” del 1° maggio 1986 sull’onda di un movimento di occupazioni esteso ad altri spazi romani, vede fondersi le pratiche degli ex militanti settantasettini con le esperienze dei giovani coatti, dei punk, degli skin e dei freak del quartiere, secondo un processo di contaminazione e di incontro di generazioni e stili di vita, realizzato non senza conflitti. Obiettivo di partenza di questa scena era stata l’occupazione di uno spazio pubblico, la riappropriazione di un bene della città intesa come momento del conflitto sociale in corso nel territorio urbano metropolitano. Il movimento delle occupazioni aveva interessato in quella fase diverse città italiane, come si vede anche dal caso di Torino e Milano, al punto che nel 1989 era stato organizzato a Milano, tra il 23 e il 24 settembre 1989, un convegno nazionale sulle nuove esperienze di autogestione giovanile, pensato anche in risposta allo sgombero di agosto del noto centro sociale milanese del Leoncavallo. Anche a Milano si trova traccia dell’incontro-scontro delle esperienze degli anni settanta con il movimento punk degli anni ottanta. A favorirlo è l’appropriazione di uno spazio tra il 1984 e il 1988, da parte di alcuni giovani punk, reduci dall’esperienza dell’occupazione del centro sociale Virus di via Correggio 18, presso la libreria Calusca, aperta tra il 1971 e il 1972 da Primo Moroni, in breve diventata il più importante centro milanese delle controculture degli anni settanta.
A metà anni ottanta “la Calusca diventò un catalizzatore di interessi e frequentazioni punk” e altresì il luogo simbolico di partenza di elaborazione di un nuovo progetto culturale con aspirazioni controegemoniche a vasto raggio di cui il centro sociale Conchetta o Cox 18, la Shake Edizioni Underground e la rivista “Decoder” sono stati i principali promotori. Calusca offriva un modello di comunicazione controculturale e i giovani punk e postpunk milanesi pensarono di utilizzarlo per intercettare e decodificare le contraddizioni sociali delle veloci trasformazioni urbane ed esistenziali della loro epoca e rilanciare un messaggio politico. Non a caso, caratteristica della scena milanese, particolarmente sensibile agli aspetti della comunicazione e all’utilizzo dei suoi dispositivi, è stata l’esperienza del cyberpunk, un movimento antagonista che, muovendo dalle suggestioni delle avanguardie della fantascienza anglosassone, da Bruce Sterling a James G. Ballard a William Gibson, attraverso un utilizzo mirato delle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, alla stregua dei primi hacker, puntava a una riflessione e quindi alla divulgazione di una critica strutturale al sistema (Raf Valvola Scelsi, Cyberpunk. Antologia di testi politici, Shake Edizioni Underground, Milano 1990). A farsi portavoce del messaggio di critica alla società in questi termini furono innanzitutto “Decoder. Rivista internazionale underground” e la casa editrice Shake, sorti alla fine del decennio anche su impulso del modello di informazione di Calusca. Sull’importanza dell’esempio fornito da Primo Moroni torna nella sua testimonianza Raf Valvola Scelsi, uno dei fondatori di “Decoder” e della Shake: “è quello che ha formato un’intera generazione per così dire di quadri, usiamo la parola in senso molto ampio e non in senso politico anni ’70, quindi soggetti che sono in grado di intervenire sui processi culturali della città”. Non solo in riferimento alla scena milanese, ma più in generale per tutto l’attivismo radicale italiano, emerge a tratti nell’analisi di De Sario l’importanza del legame con il mondo controculturale tedesco e del nord Europa, aspetto su cui sarebbe senz’altro interessante indagare più a fondo. Tra le testimonianze degli attivisti di Forte Prenestino troviamo infatti chi parla di una “via privilegiata con la Germania” che “sicuramente, dopo l’Italia era la nazione dove il movimento si esprimeva al livello più alto, per cui c’era un rapporto molto stretto”.
Tra le mete di coloro che in quegli anni vivevano i viaggi come un momento di crescita politica oltre che personale, c’erano senz’altro Berlino e Amburgo, dove pratiche di vita alternativa all’interno della cosiddetta Szene avevano assunto forme più radicali che in Italia: “mi ricordo il primo viaggio a Berlino, mi sconvolse, questi avevano messo su degli asili autorganizzati, stavano pensando proprio a un’altra vita, capito?”, afferma un testimone. Per la politicizzazione della scena punk milanese il modello tedesco sembra aver svolto un ruolo anche maggiore: emerge la figura e il ruolo di mediazione culturale svolto da Klaus Maeck, giovane attivista della scena punk di Berlino e regista, oggi coproduttore dei film del regista turco Fathi Akin, autore del film sperimentale cyberpunk Decoder, proiettato per la prima volta in Italia il 28 marzo 1986 presso il club milanese Helter Skelter e a cui ha voluto ispirarsi l’omonima rivista; c’era il Chaos Computer Club di Amburgo, principale centro di attività informatica antagonista tedesca, fondato nel 1984, con cui gli attivisti milanesi furono in stretto contatto in quegli anni; c’erano gli artisti tedeschi del Van Gogh Tv, autori nel 1992 del progetto mediale Piazza virtuale, ossia l’installazione di computer e connessioni via satellite che collegavano in contemporanea cinque continenti e permettevano ai partecipanti all’evento un utilizzo interattivo dei sistemi di comunicazione e di cui fu protagonista anche il gruppo della Shake edizioni con un’installazione presso il centro sociale Cox 18, lo stesso gruppo che avrebbe poi allacciato rapporti anche con gli organizzatori della mostra Documenta di Kassel.
Anche a Torino i rapporti con la Szene non furono meno importanti: tra le mete privilegiate dei concerti dei gruppi punk hardcore torinesi del decennio, i Declino e i Negazione, vengono ricordati i centri sociali AJZ di Bielefeld e il Nox di Berlino. A colpire i giovani punk torinesi in tour erano le realtà “irreplicabili” di Kreuzberg e Schöneberg, in particolare le occupazioni dei Fabriketage, i vecchi edifici industriali ancora presenti nella capitale tedesca, in alcuni casi trasformati in centri sociali, in altri mantenuti come comunità alloggio, le Wohnungsgemeinschaft, alcune ancora oggi presenti. La socializzazione con il mondo tedesco di questa generazione di giovani politicamente attivi attraverso i canali internazionali della Szene e della musica underground è un aspetto delle relazioni culturali – o subculturali – tra Italia e Germania che certamente andrebbe indagato più a fondo, perché, ci sembra, è anche attraverso questi canali e queste esperienze che le ultime generazioni di giovani italiani hanno potuto emanciparsi dal trauma della seconda guerra mondiale come principale luogo della memoria e di socializzazione della cultura italiana con la Germania del dopoguerra.
Ma torniamo all’attivismo radicale torinese. Qui la disillusione per la desertificazione politica creatasi alla fine degli anni settanta, soprattutto in seguito agli effetti del terrorismo, pare aver spinto col tempo i giovani attivisti verso forme di “separatismo culturale”, quasi un tentativo di definirsi come qualcosa di assolutamente altro rispetto alle tragiche esperienze vissute. Non a caso il primo concerto punk autogestito sarebbe stato intitolato “Contro la disperazione urbana”, titolo a cui lo stesso De Sario si ispira per raccontare la crescita di reti sociali alternative tra fine anni settanta e inizio ottanta anche in opposizione a un certo modello di organizzazione politica giudicata ormai passé, sebbene poi la memoria delle lotte condotte in fabbrica nel 1969 e nel 1977 torni di continuo nelle testimonianze dei protagonisti del nuovo radicalismo politico. Come a Milano, anche nella città della Fiat, i luoghi e le esperienze di aggregazione punk, su cui l’autore si concentra di preferenza, sono i centri sociali, il primo nel quartiere Vanchiglia, “un nodo assolutamente centrale in questa mappa giovanile”, e la strada, come i portici di piazza Statuto o alcuni tratti di via Po.
Le pagine più belle del libro, a nostro avviso, si collocano proprio qui, nell’analisi dell’incontro tra il punk ’77, l’hardcore e l’attivismo punkanarchico, come positivo momento di contaminazione e di incontro generazionale, di esperienza politica, professionale ed esistenziale, una sorta di “sfida tra pari” che porterà in qualche modo al superamento del senso di “dramma e riflusso esistenziale” che era seguito al 1977 e al terrorismo. Per questa ragione, l’autore si spinge a paragonare questi movimenti “in quanto a forza e intensità a quella già vissuta nei movimenti radicali” del decennio passato. Ed è da queste pagine che appare con tutta evidenza la funzione politicizzante di esperienze alternative alle vecchie pratiche politiche organizzative dei settanta, quali per esempio quelle musicali, che non solo favoriscono il contatto internazionale attraverso i media, i rapporti diretti, gli scambi di dischi e fanzine, i tour dei gruppi protagonisti, ma che attraverso l’elaborazione o la lettura dei testi musicali, in particolare si fa riferimento a quelli hardcore a cui l’autore attribuisce una speciale “tensione stilistica, culturale ed esistenziale”, producono forme di politicizzazione e processi di identificazione. Nel caso descritto, la politica di chi fa e ascolta l’hardcore è una sorta di “continuum esistenziale” basato su una forte dose di coerenza e fusione tra sfera pubblica e privata, tra soggettività e comportamento esterno, che si esprime nel semplice ascolto di un certo tipo di musica e nella promozione di una certa subcultura musicale fino a portare alla sperimentazione di un nuovo stile di vita. Le testimonianze di questi anni mettono in risalto una chiusura da parte della città verso queste esperienze che, secondo De Sario, è la ragione del modello dell’attivismo radicale torinese, della creazione cioè di quella “interzone”, secondo un termine caro alla letteratura cyberpunk, che sta a indicare uno spazio capace di interfacciarsi sia con la cultura egemone della città, sia con la realtà dell’emarginazione senza essere né l’uno né l’altro, una sorta di terza realtà intercapedine, difficile da individuare e all’interno della quale si svolge l’attività politica antagonista e che ha fatto parlare per Torino e in particolare per la scena che si stringe intorno al centro sociale anarchico di El Paso di un modello di “separatismo culturale”.
Del libro di Beppe De Sario si consiglia la lettura non solo per quello che spiega sui modi di fare politica dell’attivismo radicale nella fase calante della parabola dei movimenti degli anni settanta, ma perché al termine della narrazione si arriva a pensare che gli anni ottanta siano stati anche qualcos’altro rispetto a quello che solitamente intendiamo, di assai meno compatto e teleologicamente improntato all’affermazione di un modello culturale e politico che oggi appare come vincente.
di Fiammetta BalestracciL’autore cerca infatti anche di gettare uno sguardo diverso sulla storia degli anni ottanta, il cui carattere dominante di decennio segnato dal successo di un progetto neoliberista e da un ripiegamento culturale totalmente staccato dall’“oggetto anni settanta”, viene messo profondamente in discussione sulla base delle memorie e delle esperienze compiute dai soggetti protagonisti di queste storie. A mutare il profilo del decennio sono le testimonianze orali e la lettura di una specifica memoria generazionale, quella dei giovani dei settanta e degli ottanta, che viene letta come “scoperta e formazione personale”, “affermazione di soggettività” e “capovolgimento della tradizione” e inserita in un discorso complessivo sulle vie eterogenee e frammentarie di un processo di politicizzazione senza garanzie, alla cui natura caotica si deve la difficoltà, almeno fino a oggi, di raccoglierne le memorie e riportarne in luce il vissuto. Dal punto di vista metodologico a dare struttura al discorso di De Sario è in larga parte la trama dell’“intersoggettività”, quell’intrecciarsi di esperienze individuali e collettive correlato all’emergere dei fili delle memorie, alla luce del quale la ricostruzione storica appare come un prisma di esperienze, ognuna diversa dall’altra ma al tempo stesso parte integrante della rappresentazione complessiva. Ne risultano un quadro affascinante, sfaccettato e non privo di contraddizioni tra una scena controculturale e l’altra e un’immagine del decennio assai più controversa di quella comunemente accettata.
La valorizzazione della storia orale è senz’altro un metodo di narrazione congeniale all’oggetto in questione, l’attivismo radicale, di cui il Sessantotto è stato in termini di scontro di soggettività, desideri e progetti utopici il precedente storico originario. Ha scritto Luisa Passerini, che si è occupata di Sessantotto anche in quest’ottica, che “i movimenti di quell’anno rivendicarono il diritto degli individui e dei gruppi a essere soggetti delle azioni e delle decisioni della propria vita, qualunque attività scegliessero di intraprendere […]” (Luisa Passerini, Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 72.). E la ricerca di De Sario punta proprio a mettere in luce come la ricerca di processi controegemonici nel solco di ambienti underground, legati a specifiche realtà urbane, abbia favorito la crescita e la trasformazione esistenziale dell’individuo, attraverso il distacco dalla generazione dei padri e il confronto con la generazione del radicalismo precedente. L’epoca di questo passaggio esistenziale è calcolato lungo il percorso delle esperienze compiute in un arco di tempo che va dal 1977 circa al 1990-1994.
Diversamente dal Sessantotto, l’attivismo dei giovani che vivono la transizione tra gli anni settanta e gli ottanta abbandona l’antagonismo dualistico per scegliere forme diverse di agonismo controegemonico, così come abbandona lo spazio politico organizzato e il messaggio universalistico per operare sulla strada, lo “spazio utopico” dove si consumano specifiche esperienze di politicizzazione quali l’occupazione di spazi sociali, l’autoproduzione musicale, l’editoria indipendente. Come sottolinea l’autore, i frammentati movimenti degli anni ottanta sono basati sulle esperienze e non su poste in gioco socio-economiche. Per questo si rivelano come un bacino di atti individuali e collettivi dalle grandi potenzialità espressive sul piano culturale, tramite l’invenzione di nuove pratiche giovanili, stili di vita e forme dell’immaginario, da intendersi come strumenti di proiezione di processi di identificazione. A popolare le storie di De Sario sono infatti diversi movimenti giovanili come i punk, nelle sue varie declinazioni punk fashion, punk anarchici, cyberpunk, gli skinhead, i “tamarri”, i “fioruccini”, ma anche gruppi musicali per cui la musica diventa non solo modo di fare narrazione del proprio presente, ma anche “ricerca di una diversa politicità dell’espressione di sé”, l’occasione per “una combinazione mobile di persone e gruppi uniti dalla medesima attitudine” in quella realtà ideale, deterritorializzata e transnazionale che in gergo viene definita la scena.
Le tre realtà descritte sono ognuna molto diversa dall’altra, a dimostrazione del fatto che nell’attivismo degli anni ottanta non c’era un modo unico di fare politica e c’era altresì un rapporto molteplice con la tradizione delle pratiche politiche del decennio precedente. In linea generale, osserva l’autore, “negli ’80 si è realizzato un doppio movimento, per il quale le culture dei giovani hanno avuto accesso a una memoria – magari rimossa e non del tutto consapevole – della politica del decennio precedente, e insieme hanno realizzato genealogie composite e performance della tradizione stessa”. Rispetto alle lotte di fine anni settanta emerge dalle interviste una memoria spesso “ossimorica”, come la definisce l’autore, che si muove tra la rimozione della sconfitta personale e l’atto quasi catartico del ricordo, l’uno in funzione dell’altra e che deve la sua difficoltà espressiva anche a quella mancata riflessione collettiva sul decennio di cui ha recentemente scritto Giovanni Moro (Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007).
A Roma la scena dell’attivismo radicale coagulatasi attorno al centro sociale di Forte Prenestino, occupato durante la festa del “non lavoro” del 1° maggio 1986 sull’onda di un movimento di occupazioni esteso ad altri spazi romani, vede fondersi le pratiche degli ex militanti settantasettini con le esperienze dei giovani coatti, dei punk, degli skin e dei freak del quartiere, secondo un processo di contaminazione e di incontro di generazioni e stili di vita, realizzato non senza conflitti. Obiettivo di partenza di questa scena era stata l’occupazione di uno spazio pubblico, la riappropriazione di un bene della città intesa come momento del conflitto sociale in corso nel territorio urbano metropolitano. Il movimento delle occupazioni aveva interessato in quella fase diverse città italiane, come si vede anche dal caso di Torino e Milano, al punto che nel 1989 era stato organizzato a Milano, tra il 23 e il 24 settembre 1989, un convegno nazionale sulle nuove esperienze di autogestione giovanile, pensato anche in risposta allo sgombero di agosto del noto centro sociale milanese del Leoncavallo. Anche a Milano si trova traccia dell’incontro-scontro delle esperienze degli anni settanta con il movimento punk degli anni ottanta. A favorirlo è l’appropriazione di uno spazio tra il 1984 e il 1988, da parte di alcuni giovani punk, reduci dall’esperienza dell’occupazione del centro sociale Virus di via Correggio 18, presso la libreria Calusca, aperta tra il 1971 e il 1972 da Primo Moroni, in breve diventata il più importante centro milanese delle controculture degli anni settanta.
A metà anni ottanta “la Calusca diventò un catalizzatore di interessi e frequentazioni punk” e altresì il luogo simbolico di partenza di elaborazione di un nuovo progetto culturale con aspirazioni controegemoniche a vasto raggio di cui il centro sociale Conchetta o Cox 18, la Shake Edizioni Underground e la rivista “Decoder” sono stati i principali promotori. Calusca offriva un modello di comunicazione controculturale e i giovani punk e postpunk milanesi pensarono di utilizzarlo per intercettare e decodificare le contraddizioni sociali delle veloci trasformazioni urbane ed esistenziali della loro epoca e rilanciare un messaggio politico. Non a caso, caratteristica della scena milanese, particolarmente sensibile agli aspetti della comunicazione e all’utilizzo dei suoi dispositivi, è stata l’esperienza del cyberpunk, un movimento antagonista che, muovendo dalle suggestioni delle avanguardie della fantascienza anglosassone, da Bruce Sterling a James G. Ballard a William Gibson, attraverso un utilizzo mirato delle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, alla stregua dei primi hacker, puntava a una riflessione e quindi alla divulgazione di una critica strutturale al sistema (Raf Valvola Scelsi, Cyberpunk. Antologia di testi politici, Shake Edizioni Underground, Milano 1990). A farsi portavoce del messaggio di critica alla società in questi termini furono innanzitutto “Decoder. Rivista internazionale underground” e la casa editrice Shake, sorti alla fine del decennio anche su impulso del modello di informazione di Calusca. Sull’importanza dell’esempio fornito da Primo Moroni torna nella sua testimonianza Raf Valvola Scelsi, uno dei fondatori di “Decoder” e della Shake: “è quello che ha formato un’intera generazione per così dire di quadri, usiamo la parola in senso molto ampio e non in senso politico anni ’70, quindi soggetti che sono in grado di intervenire sui processi culturali della città”. Non solo in riferimento alla scena milanese, ma più in generale per tutto l’attivismo radicale italiano, emerge a tratti nell’analisi di De Sario l’importanza del legame con il mondo controculturale tedesco e del nord Europa, aspetto su cui sarebbe senz’altro interessante indagare più a fondo. Tra le testimonianze degli attivisti di Forte Prenestino troviamo infatti chi parla di una “via privilegiata con la Germania” che “sicuramente, dopo l’Italia era la nazione dove il movimento si esprimeva al livello più alto, per cui c’era un rapporto molto stretto”.
Tra le mete di coloro che in quegli anni vivevano i viaggi come un momento di crescita politica oltre che personale, c’erano senz’altro Berlino e Amburgo, dove pratiche di vita alternativa all’interno della cosiddetta Szene avevano assunto forme più radicali che in Italia: “mi ricordo il primo viaggio a Berlino, mi sconvolse, questi avevano messo su degli asili autorganizzati, stavano pensando proprio a un’altra vita, capito?”, afferma un testimone. Per la politicizzazione della scena punk milanese il modello tedesco sembra aver svolto un ruolo anche maggiore: emerge la figura e il ruolo di mediazione culturale svolto da Klaus Maeck, giovane attivista della scena punk di Berlino e regista, oggi coproduttore dei film del regista turco Fathi Akin, autore del film sperimentale cyberpunk Decoder, proiettato per la prima volta in Italia il 28 marzo 1986 presso il club milanese Helter Skelter e a cui ha voluto ispirarsi l’omonima rivista; c’era il Chaos Computer Club di Amburgo, principale centro di attività informatica antagonista tedesca, fondato nel 1984, con cui gli attivisti milanesi furono in stretto contatto in quegli anni; c’erano gli artisti tedeschi del Van Gogh Tv, autori nel 1992 del progetto mediale Piazza virtuale, ossia l’installazione di computer e connessioni via satellite che collegavano in contemporanea cinque continenti e permettevano ai partecipanti all’evento un utilizzo interattivo dei sistemi di comunicazione e di cui fu protagonista anche il gruppo della Shake edizioni con un’installazione presso il centro sociale Cox 18, lo stesso gruppo che avrebbe poi allacciato rapporti anche con gli organizzatori della mostra Documenta di Kassel.
Anche a Torino i rapporti con la Szene non furono meno importanti: tra le mete privilegiate dei concerti dei gruppi punk hardcore torinesi del decennio, i Declino e i Negazione, vengono ricordati i centri sociali AJZ di Bielefeld e il Nox di Berlino. A colpire i giovani punk torinesi in tour erano le realtà “irreplicabili” di Kreuzberg e Schöneberg, in particolare le occupazioni dei Fabriketage, i vecchi edifici industriali ancora presenti nella capitale tedesca, in alcuni casi trasformati in centri sociali, in altri mantenuti come comunità alloggio, le Wohnungsgemeinschaft, alcune ancora oggi presenti. La socializzazione con il mondo tedesco di questa generazione di giovani politicamente attivi attraverso i canali internazionali della Szene e della musica underground è un aspetto delle relazioni culturali – o subculturali – tra Italia e Germania che certamente andrebbe indagato più a fondo, perché, ci sembra, è anche attraverso questi canali e queste esperienze che le ultime generazioni di giovani italiani hanno potuto emanciparsi dal trauma della seconda guerra mondiale come principale luogo della memoria e di socializzazione della cultura italiana con la Germania del dopoguerra.
Ma torniamo all’attivismo radicale torinese. Qui la disillusione per la desertificazione politica creatasi alla fine degli anni settanta, soprattutto in seguito agli effetti del terrorismo, pare aver spinto col tempo i giovani attivisti verso forme di “separatismo culturale”, quasi un tentativo di definirsi come qualcosa di assolutamente altro rispetto alle tragiche esperienze vissute. Non a caso il primo concerto punk autogestito sarebbe stato intitolato “Contro la disperazione urbana”, titolo a cui lo stesso De Sario si ispira per raccontare la crescita di reti sociali alternative tra fine anni settanta e inizio ottanta anche in opposizione a un certo modello di organizzazione politica giudicata ormai passé, sebbene poi la memoria delle lotte condotte in fabbrica nel 1969 e nel 1977 torni di continuo nelle testimonianze dei protagonisti del nuovo radicalismo politico. Come a Milano, anche nella città della Fiat, i luoghi e le esperienze di aggregazione punk, su cui l’autore si concentra di preferenza, sono i centri sociali, il primo nel quartiere Vanchiglia, “un nodo assolutamente centrale in questa mappa giovanile”, e la strada, come i portici di piazza Statuto o alcuni tratti di via Po.
Le pagine più belle del libro, a nostro avviso, si collocano proprio qui, nell’analisi dell’incontro tra il punk ’77, l’hardcore e l’attivismo punkanarchico, come positivo momento di contaminazione e di incontro generazionale, di esperienza politica, professionale ed esistenziale, una sorta di “sfida tra pari” che porterà in qualche modo al superamento del senso di “dramma e riflusso esistenziale” che era seguito al 1977 e al terrorismo. Per questa ragione, l’autore si spinge a paragonare questi movimenti “in quanto a forza e intensità a quella già vissuta nei movimenti radicali” del decennio passato. Ed è da queste pagine che appare con tutta evidenza la funzione politicizzante di esperienze alternative alle vecchie pratiche politiche organizzative dei settanta, quali per esempio quelle musicali, che non solo favoriscono il contatto internazionale attraverso i media, i rapporti diretti, gli scambi di dischi e fanzine, i tour dei gruppi protagonisti, ma che attraverso l’elaborazione o la lettura dei testi musicali, in particolare si fa riferimento a quelli hardcore a cui l’autore attribuisce una speciale “tensione stilistica, culturale ed esistenziale”, producono forme di politicizzazione e processi di identificazione. Nel caso descritto, la politica di chi fa e ascolta l’hardcore è una sorta di “continuum esistenziale” basato su una forte dose di coerenza e fusione tra sfera pubblica e privata, tra soggettività e comportamento esterno, che si esprime nel semplice ascolto di un certo tipo di musica e nella promozione di una certa subcultura musicale fino a portare alla sperimentazione di un nuovo stile di vita. Le testimonianze di questi anni mettono in risalto una chiusura da parte della città verso queste esperienze che, secondo De Sario, è la ragione del modello dell’attivismo radicale torinese, della creazione cioè di quella “interzone”, secondo un termine caro alla letteratura cyberpunk, che sta a indicare uno spazio capace di interfacciarsi sia con la cultura egemone della città, sia con la realtà dell’emarginazione senza essere né l’uno né l’altro, una sorta di terza realtà intercapedine, difficile da individuare e all’interno della quale si svolge l’attività politica antagonista e che ha fatto parlare per Torino e in particolare per la scena che si stringe intorno al centro sociale anarchico di El Paso di un modello di “separatismo culturale”.
Del libro di Beppe De Sario si consiglia la lettura non solo per quello che spiega sui modi di fare politica dell’attivismo radicale nella fase calante della parabola dei movimenti degli anni settanta, ma perché al termine della narrazione si arriva a pensare che gli anni ottanta siano stati anche qualcos’altro rispetto a quello che solitamente intendiamo, di assai meno compatto e teleologicamente improntato all’affermazione di un modello culturale e politico che oggi appare come vincente.
www.kathodik.it, marzo 2009Resistenze innaturali
L’autore si avvale efficacemente e con disinvoltura di fonti di vario genere, si muove e valica di continuo i confini delle varie discipline (storia, antropologia, sociologia, studi culturali) abbandonando riserve e preclusioni tipiche di certa storiografia accademica. L’oggetto del suo lavoro sono gli anni Ottanta nella storia dell’Italia repubblicana attraverso il mutamento delle forme di conflitto e di rappresentanza della condizione giovanile. Un intento utile e prezioso che ha in primo luogo il merito di sdoganare quel decennio facendone oggetto specifico di riflessione e di ricostruzione storica, mollando quindi (cosa non facile) la consuetudine della frequentazione del ’68 e degli anni Settanta.
Il risultato significativo e conclusivo, che invece qui anticipo, di questa ricerca è che se si guarda la storia dagli anni Ottanta la periodizzazione 1968-1977, relativa alla stagione dei movimenti, alla quale spesso siamo abituati a far riferimento, non appare più così scontata e acquisita. Il movimento del ’77 in particolare non è più l’epilogo finale di una ricca stagione di movimenti e di conflittualità, la fiammata che chiude l’incendio. Piuttosto esso appare come l’inizio di una nuova periodizzazione, un farsi, uno sviluppo che troverà esisti e agganci nelle culture giovanili punk degli immediati anni seguenti. In quest’ottica la distanza dal ’68 è enorme. Quel periodo è veramente finito, appartiene a una storia passata, mentre gli anni Ottanta acquisiscono una loro autonomia e le trasformazioni sociali in corso appaiono molto più vicine al nostro presente che non il decennio che l’ha preceduto.
Nel fare questa meritevole operazione di “sganciamento” l’autore è costretto a ingaggiare un’ultima “battaglia” per liberarsi definitivamente dalle influenze dei movimenti degli anni settanta che ancora, a vario titolo e modalità, si riscontrano nel modo di agire e di operare delle nuove forme del conflitto. Questa transizione è raccontata molto bene esponendo tre casi esemplari: le vicende romane e del centro sociale Prenestino, quelle milanesi dell’attivismo culturale punk e post punk e quelle del punk torinese. Tutte esperienze che si intersecano e fanno i conti, differenziandosi tra le varie città, col lascito dei movimenti degli anni Settanta e del loro modo di fare politica e cultura.
Accomuna queste esperienze il segno dato dalla crisi, dal fallimento e dalla fine dell’agire politico che trovò la sua espressione già nel movimento del ’77. Gli anni Ottanta e i movimenti ad esso coevi si caratterizzano per una conflittualità che, con termine non sempre appropriato, è stata definita “impolitica”. Col punk il “luogo” primo della politica diventa il proprio corpo che viene usato ostentatamente, nel modo di vestire, di atteggiarsi e di “truccarsi”, per comunicare, prima ancora delle parole, il proprio disagio, la propria ribellione, il proprio separarsi dal mondo circostante. È un modo di essere, uno stato d’animo esposto visibilmente, prima ancora di una critica razionale e politica, è un fatto in sé che non che non ha bisogno di spiegazione e di commenti, si spiega e si commenta da sé.
Nel trattare l’argomento punk in Italia l’autore sottolinea anche gli influssi e le differenze tra esso e quello di altri paesi, principalmente la Gran Bretagna e la Germania. Dà spazio e ragione sociale ad un fenomeno che troppo spesso è stato semplicemente trattato (e liquidato) come fenomeno musicale. La musica certo, come accade spesso nei movimenti giovanili della seconda metà del Novecento, ha avuto un suo ruolo e un suo peso, ma essa ha anche potuto attecchire e vivificarsi perché esisteva un tessuto sociale ricettivo e pronto a farne la sua “icona”, la sua colonna sonora, il suo stile di vita.
di Diego GiachettiIl risultato significativo e conclusivo, che invece qui anticipo, di questa ricerca è che se si guarda la storia dagli anni Ottanta la periodizzazione 1968-1977, relativa alla stagione dei movimenti, alla quale spesso siamo abituati a far riferimento, non appare più così scontata e acquisita. Il movimento del ’77 in particolare non è più l’epilogo finale di una ricca stagione di movimenti e di conflittualità, la fiammata che chiude l’incendio. Piuttosto esso appare come l’inizio di una nuova periodizzazione, un farsi, uno sviluppo che troverà esisti e agganci nelle culture giovanili punk degli immediati anni seguenti. In quest’ottica la distanza dal ’68 è enorme. Quel periodo è veramente finito, appartiene a una storia passata, mentre gli anni Ottanta acquisiscono una loro autonomia e le trasformazioni sociali in corso appaiono molto più vicine al nostro presente che non il decennio che l’ha preceduto.
Nel fare questa meritevole operazione di “sganciamento” l’autore è costretto a ingaggiare un’ultima “battaglia” per liberarsi definitivamente dalle influenze dei movimenti degli anni settanta che ancora, a vario titolo e modalità, si riscontrano nel modo di agire e di operare delle nuove forme del conflitto. Questa transizione è raccontata molto bene esponendo tre casi esemplari: le vicende romane e del centro sociale Prenestino, quelle milanesi dell’attivismo culturale punk e post punk e quelle del punk torinese. Tutte esperienze che si intersecano e fanno i conti, differenziandosi tra le varie città, col lascito dei movimenti degli anni Settanta e del loro modo di fare politica e cultura.
Accomuna queste esperienze il segno dato dalla crisi, dal fallimento e dalla fine dell’agire politico che trovò la sua espressione già nel movimento del ’77. Gli anni Ottanta e i movimenti ad esso coevi si caratterizzano per una conflittualità che, con termine non sempre appropriato, è stata definita “impolitica”. Col punk il “luogo” primo della politica diventa il proprio corpo che viene usato ostentatamente, nel modo di vestire, di atteggiarsi e di “truccarsi”, per comunicare, prima ancora delle parole, il proprio disagio, la propria ribellione, il proprio separarsi dal mondo circostante. È un modo di essere, uno stato d’animo esposto visibilmente, prima ancora di una critica razionale e politica, è un fatto in sé che non che non ha bisogno di spiegazione e di commenti, si spiega e si commenta da sé.
Nel trattare l’argomento punk in Italia l’autore sottolinea anche gli influssi e le differenze tra esso e quello di altri paesi, principalmente la Gran Bretagna e la Germania. Dà spazio e ragione sociale ad un fenomeno che troppo spesso è stato semplicemente trattato (e liquidato) come fenomeno musicale. La musica certo, come accade spesso nei movimenti giovanili della seconda metà del Novecento, ha avuto un suo ruolo e un suo peso, ma essa ha anche potuto attecchire e vivificarsi perché esisteva un tessuto sociale ricettivo e pronto a farne la sua “icona”, la sua colonna sonora, il suo stile di vita.
Blow up, luglio/agosto 2009Resistenze innaturali
I terribili anni '80. Ormai simbolici di ogni sorta di catastrofe. Trionfo del liberismo, caduta delle ideologie, esasperazione del consumismo, frivolezza allo stato dell'arte, yuppies e rampantismo, technopop, paninari, eroina, aids e chi più ne ha più ne metta. Anni difficili, quello sicuramente. Chi ci è cresciuto dentro lo sa. Ma fertili di esperienze quasi necessariamente radicali. Dopo il fallimento dei movimenti dei '70 e della politicizzazione sfrenata dell'esistente, nel decennio del (coatto) riflusso nel privato si costruiscono realtà di avanguardia sociale e artistica. Beppe De Sario analizza, con piglio rigoroso da storico, tre realtà urbane (Roma, Milano, Torino,) tra le più ricche di lavorio underground. VA a cercare i testimoni e prova ad assemblare una storia orale di quegli anni, intrecciando le vicende dei punk, delle occupazioni, delle culture di strada e delle varie forme di sopravvivenza alla “disperazione urbana”. A far da collante a esperienze anche molto diverse, la musica. Soprattutto quella scheggia hardcore che è stata uno degli ultimi fenomeni radicali in cui il nostro piccolo nefasto paese ha avuto qualcosa (di vero, di reale) da dire. L'analisi è dettagliata e tecnica, forse anche troppo. A tratti, soprattutto per la volontà di recuperare l'oralità e l'hic et nunc, avrebbe forse giovato un approccio più “narrative non fiction”con prosa scorrevole, piuttosto che la regolarità (pur non pedante) del saggio duro e puro. Libro interessante, in ogni caso. Che spero riaccenda qualche scintilla in chi c'era e soprattutto in chi no. Perché di capire abbiamo bisogno sempre. Ma di agire, ora, anche di più.
VOTO 6/7
di Fabio DonalisioVOTO 6/7
opinionista.noblogs.org, 28 giugno 2009Resistenze innaturali
Letto da poco, distratto dall'affonnoso personale, prendo spazio per recensire un libro di una casa editrice che a me piace molto, Agenzia X e il loro Resistenze Innaturali di Beppe De Sario. Un libro di storia orale sull'attivismo radicale nell'Italia degli anni '80, attraverso il racconto di 3 esperienze e di 3 città: Forte Prenestino (Roma), Cox 18 (Milano) ed El Paso (Torino).
Cosa resterà degli anni 80 cantava Raf (giusto?!) e ben si confà, visto che queste 3 occupazioni hanno percorso non solo la II metà di quegli anni ma ancora sopravvivono e resistono, nonostante tutto intorno a loro si sia trasformato. Leggendolo vi accorgerete di avere di fronte un libro importante, visto che si parla degli anni 80, gli anni del riflusso, dell'Italia craxiana e soprattutto post '77, una storia troppo spesso schiacciata tra gli anni della rivolta e della lotta armata e gli anni 90, quelli della pantera e dell'esplosione delle occupazioni, storia che invece ho vissuto e che sento mia. Perciò serviva questo libro di De Sario per tirare il filo che unisce quei due decenni di fermento e attivismo, dove si sono poste le basi per i movimenti che poi dopo Genova 2001 sono implosi.
E vi troverete a leggere una gran bella storia, che non ha nulla da invidiare a quelle precedenti o successive. Una storia punk quella degli anni '80, raccontata attraverso le voci dei protagonisti di quegli anni, un lavoro di memoria orale che va a narrare quali erano le reali tensioni giovanili, politiche e sociali; i rapporti tra la vecchia autonomia o le nuove generazioni fortemente influenzate dal punk 77; le prime contaminazioni con il nord europa e l'esperienza degli squat; la lotte eco-pacifiste e la radicalità "autonoma", fortemente influenzate dal recente passato ma allo stesso tempo completamente diversi dai loro "fratelli maggiori". Fa impressione, per me che sono di Roma, leggere delle prime "feste del non lavoro", della comitiva punk-skin di Piazza dei Mirti a Centocelle, dell'occupazione di 23 anni fa del Forte e il racconto del tessuto del quartiere centocelle, motore pulsante di una città profondamente trasformata, e non solo nel centro storico.
Tre storie completamente diverse messe a confronto, dall'attivismo culturale del Cox18 fino alla radicalità del "né centro sociale né squat" del torinese El Paso passando per il Forte Prenestino, contenitore di diverse culture giovanili, che ha saputo fondere nel miglior modo e nel pieno rispetto della diversità: il deserto torinese, lo "spazio rifugio" dei quartieri romani, la ricerca di enclave controculturali a Milano. Intorno alla metà degli anni '80 tutte e tre le scene affrontano una fase di crisi, per quanto trasformativa e di crescita. Anche in questo frangente la differenza territoriale e le sue risorse risultano determinanti nel decidere gli itinerari successivi: le tre diaspore giovanili, per quanto collocate nella comune pulsione verso la politicizzazione, si orientanto a un'uscita dai quartieri verso il territorio metropolitano (Roma), presidiano e si ritirano temporaneamente nelle enclave controculturali (Milano) o nella narrativa della chiusura istituzionale e della desolazione urbana (Torino).
Mi raccomando mentre lo leggete, non vi fate prendere da nostalgie o da invidie, erano anni decisamente migliori di questi che stiamo attraversando, più vivi e pulsanti, dove il bisogno di trovare una visione di insieme e di sperimentare batteva nel cuore e nelle pance di tutte quelle generazioni che si sono incrociate, inseguite, a volta con fortuna e altre volte meno, senza però mai smettere di mettersi in discussione.
di opinionistaCosa resterà degli anni 80 cantava Raf (giusto?!) e ben si confà, visto che queste 3 occupazioni hanno percorso non solo la II metà di quegli anni ma ancora sopravvivono e resistono, nonostante tutto intorno a loro si sia trasformato. Leggendolo vi accorgerete di avere di fronte un libro importante, visto che si parla degli anni 80, gli anni del riflusso, dell'Italia craxiana e soprattutto post '77, una storia troppo spesso schiacciata tra gli anni della rivolta e della lotta armata e gli anni 90, quelli della pantera e dell'esplosione delle occupazioni, storia che invece ho vissuto e che sento mia. Perciò serviva questo libro di De Sario per tirare il filo che unisce quei due decenni di fermento e attivismo, dove si sono poste le basi per i movimenti che poi dopo Genova 2001 sono implosi.
E vi troverete a leggere una gran bella storia, che non ha nulla da invidiare a quelle precedenti o successive. Una storia punk quella degli anni '80, raccontata attraverso le voci dei protagonisti di quegli anni, un lavoro di memoria orale che va a narrare quali erano le reali tensioni giovanili, politiche e sociali; i rapporti tra la vecchia autonomia o le nuove generazioni fortemente influenzate dal punk 77; le prime contaminazioni con il nord europa e l'esperienza degli squat; la lotte eco-pacifiste e la radicalità "autonoma", fortemente influenzate dal recente passato ma allo stesso tempo completamente diversi dai loro "fratelli maggiori". Fa impressione, per me che sono di Roma, leggere delle prime "feste del non lavoro", della comitiva punk-skin di Piazza dei Mirti a Centocelle, dell'occupazione di 23 anni fa del Forte e il racconto del tessuto del quartiere centocelle, motore pulsante di una città profondamente trasformata, e non solo nel centro storico.
Tre storie completamente diverse messe a confronto, dall'attivismo culturale del Cox18 fino alla radicalità del "né centro sociale né squat" del torinese El Paso passando per il Forte Prenestino, contenitore di diverse culture giovanili, che ha saputo fondere nel miglior modo e nel pieno rispetto della diversità: il deserto torinese, lo "spazio rifugio" dei quartieri romani, la ricerca di enclave controculturali a Milano. Intorno alla metà degli anni '80 tutte e tre le scene affrontano una fase di crisi, per quanto trasformativa e di crescita. Anche in questo frangente la differenza territoriale e le sue risorse risultano determinanti nel decidere gli itinerari successivi: le tre diaspore giovanili, per quanto collocate nella comune pulsione verso la politicizzazione, si orientanto a un'uscita dai quartieri verso il territorio metropolitano (Roma), presidiano e si ritirano temporaneamente nelle enclave controculturali (Milano) o nella narrativa della chiusura istituzionale e della desolazione urbana (Torino).
Mi raccomando mentre lo leggete, non vi fate prendere da nostalgie o da invidie, erano anni decisamente migliori di questi che stiamo attraversando, più vivi e pulsanti, dove il bisogno di trovare una visione di insieme e di sperimentare batteva nel cuore e nelle pance di tutte quelle generazioni che si sono incrociate, inseguite, a volta con fortuna e altre volte meno, senza però mai smettere di mettersi in discussione.
www.carmillaonline.com, 31 maggio 2009Resistenze innaturali
Resistenze innaturali di Beppe de Sario è un libro importante, denso, ben scritto, che passa in rassegna la storia di tre scene antagoniste italiane degli anni Ottanta. Tre città, tre scenari di resistenza urbana: Roma, Milano e Torino. Più in particolare, tre diversi luoghi di movimento: il forte Prenestino a Roma, il Cox 18 a Milano e El Paso a Torino. Gli anni sono gli Ottanta, ma per essere precisi la ricerca scivola abbondantemente nei primi anni Novanta, quando i centri sociali fanno irruzione nel discorso pubblico e nella scena politica italiana.
Attraverso le testimonianze orali di alcuni protagonisti di quelle esperienze, assieme alla capacità di ricostruire nel dettaglio le tensioni politiche e le contraddizioni di quegli anni, l'autore riesce a connettere la trama di queste esperienze: i rapporti non sempre facili con i militanti degli anni Settanta, sia comunisti sia anarchici; il ruolo fondante della musica, dal ribellismo irruente del punk '77 fino alla politicizzazione dell'anarcopunk e dell'hardcore e del rap. E poi le varie facce delle occupazioni: i centri sociali, le sale prove in comodato d'uso, le autogestioni, gli squat, le case occupate. I luoghi più aperti verso una politica rivolta alle necessità del quartiere e i laboratori dell'utopia, le “zone temporaneamente autonome” dove i pirati si ritirano per lanciare il prossimo assalto contro la città. Un miriade di differenze che sarebbe impossibile riassumere in una recensione.
Avrei potuto recensire Resistenze innaturali segnalando gli strumenti critici (notevoli e affinati, ispirati ai subaltern-studies d'aria anglofona) con cui De Sario ha condotto la sua indagine. Avrei potuto riassumere le tesi di fondo del volume, indicando gli strumenti della ricerca, la metodologia, i risultati raggiunti.
E invece no. Il libro racconta una storia che è stata costruita da tante persone e in parte è anche la mia storia, e la lettura ha sollevato in chi scrive una nebulosa di riflessioni. Se una recensione in certo modo partecipa del senso complessivo di un'opera, queste mie righe, per quanto periferiche all'opera e lontane dall'intenzionalità dell'autore, si inscrivono nella memoria di quegli anni. Cercherò quindi di riflettere brevemente sulla mia esperienza.
Sono cresciuto in provincia, in una zona dell'Italia piuttosto distante dai centri di diffusione delle pratiche di occupazione. La capacità d'irradiazione dei centri sociali si estendeva però anche al di fuori delle zone metropolitane, attraverso una rete estremamente funzionale di contatti postali collegati al giro delle autoproduzioni. Anche se il gruppo delle persone che frequentavo ai tempi del liceo (siamo negli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta) non arrivò mai a occupare, ricevevamo e facevamo circolare un'ampia messe di pubblicazioni. Perlopiù fanzine musicali connesse al punk e all'hardcore, tantissima musica quindi (cassette e vinili), e poi i libri delle edizioni libertarie. Ci arrivavano il punk e le edizioni underground da Torino, da Milano i fumetti del prof. Bad Trip, il cyberpunk e l'America delle pantere nere, da Roma il rap. Quando i centri sociali cominciarono a essere una realtà influente, capace di estendere il suo bacino di influenza, le istituzioni giocarono la carta della legalizzazione, che doveva portare a una forte divisione tra le varie realtà autogestite. Noi ci schierammo con il gruppo di centri sociali contrari alla legalizzazione.
La musica è stata importante. Sono arrivato ai centri sociali attraverso la musica. Ero rimasto fulminato negli anni del liceo dai Sex Pistols, che mi rivelarono un mondo di ribellione nichilista e mi staccarono dalla lettura della teologia della liberazione sudamericana. La rivolta degli anticristi, per un ateo che leggeva le poesie di Cardenal e agli scritti di Leonardo Boff, si spostò presto sulla sponda dei Crass, un gruppo di punk anarchico con una capacità di critica sociale piuttosto radicale e costruttiva. L'hardcore che mi convinceva di più era quello straight edge, tipo Minor Threat e Fugazi (anche se mi spallava il loro moralismo) ma finii ben presto per ritrovarmi a pogare sotto il palco dei Negu Goriak, la nuova formazione dei Kortatu, dei baschi che mescolavano rap e punk con uno spirito politico piuttosto esplicito. Intanto erano cominciati i miei pellegrinaggi nelle città italiana. Le manifestazioni della Pantera a Roma, la visita per la festa del non lavoro al Forte Prenestino di Roma, dove mi ritrovai a dormire in un umido sotterraneo. E poi i concerti al vecchio CPA di Firenze e alla Giungla di Firenze, quando finii a pogare davanti ai Sick of It All (se la memoria non mi inganna). Milano è una città che mi ha sempre stressato (forse perché l'ho conosciuta perlopiù attraverso le pagine amare di Bianciardi) ma nelle sole due volte che ci sono andato non sono riuscito a uscire dal quartiere ticinese. C'era davvero un'aria di paese in quelle strade, un'atmosfera che tranquillizzava un provinciale come me. E non ci voleva molto per passare dal rifugio dei punkabbestia (dove dormivo al ghiaccio) ai locali più confortevoli del Conchetta, che ospitava la splendida libreria di Primo Moroni.
Di Torino invece mi innamorai. El Paso mi colpì in modo quasi romantico: ricordo la bandiera nera dei pirati che sventolava sul vecchio asilo occupato, un cortiletto pieno di autocostruzioni, una libreria fantastica e punk ovunque, alcuni molto truzzi. Torino non è lontana dalla Francia e oltre a una serie di concerti di gruppi francesi da sballo (grandissimi i Les Sheriff) dal Paso arrivavano le idee e le pratiche situazioniste, via Marsiglia e Parigi. Un giro notevolissimo. L'azione diretta si mescolava con la provocazione dadaista (ricordo la madonnina in piazza che piangeva vino e il tipo vestito da cameriere che consegnò al sindaco un pesce in consiglio comunale subito dopo lo sgombero di una occupazione dicendo “il signore ha ordinato uno sgombro”). Rimbaud, Cravan e Benjamin Péret si scoprivano punk, e la provocazione era all'ordine del giorno. Erano anni in cui le occupazioni a Torino si estendevano e c'erano altre realtà da visitare, come lo splendido Barocchio, una chiesa sconsacrata dove la gente faceva autocostruzione sul serio e il bar era migliore di tanti club. Una realtà che si scontrò ovviamente con le istituzioni e la repressione giudiziaria, di cui il segno più amaro rimane la morte di Baleno e Soledad, ricostruita egregiamente da Tobia Imperato ne Le scarpe degli assassini.
Poche memorie che non riassumono l'effervescenza di quegli anni, né tantomeno la grande capacità di mobilitazione di squat e centri sociali, che rimangono probabilmente in Italia i migliori laboratori di antagonismo sociale. Ci sarebbe molto da dire. La rete dei non sottomessi alla leva, i giri vegetariani, i collettivi editoriali. Una recensione non basta. Chi si è mosso nelle realtà di quegli anni, nella diversità a volte anche marcata delle pratiche e degli orientamenti ideologici, troverà il libro di De Sario bellissimo e stimolante. E sentirà il bisogno di continuare a raccontare quella storia.
di Alberto PrunettiAttraverso le testimonianze orali di alcuni protagonisti di quelle esperienze, assieme alla capacità di ricostruire nel dettaglio le tensioni politiche e le contraddizioni di quegli anni, l'autore riesce a connettere la trama di queste esperienze: i rapporti non sempre facili con i militanti degli anni Settanta, sia comunisti sia anarchici; il ruolo fondante della musica, dal ribellismo irruente del punk '77 fino alla politicizzazione dell'anarcopunk e dell'hardcore e del rap. E poi le varie facce delle occupazioni: i centri sociali, le sale prove in comodato d'uso, le autogestioni, gli squat, le case occupate. I luoghi più aperti verso una politica rivolta alle necessità del quartiere e i laboratori dell'utopia, le “zone temporaneamente autonome” dove i pirati si ritirano per lanciare il prossimo assalto contro la città. Un miriade di differenze che sarebbe impossibile riassumere in una recensione.
Avrei potuto recensire Resistenze innaturali segnalando gli strumenti critici (notevoli e affinati, ispirati ai subaltern-studies d'aria anglofona) con cui De Sario ha condotto la sua indagine. Avrei potuto riassumere le tesi di fondo del volume, indicando gli strumenti della ricerca, la metodologia, i risultati raggiunti.
E invece no. Il libro racconta una storia che è stata costruita da tante persone e in parte è anche la mia storia, e la lettura ha sollevato in chi scrive una nebulosa di riflessioni. Se una recensione in certo modo partecipa del senso complessivo di un'opera, queste mie righe, per quanto periferiche all'opera e lontane dall'intenzionalità dell'autore, si inscrivono nella memoria di quegli anni. Cercherò quindi di riflettere brevemente sulla mia esperienza.
Sono cresciuto in provincia, in una zona dell'Italia piuttosto distante dai centri di diffusione delle pratiche di occupazione. La capacità d'irradiazione dei centri sociali si estendeva però anche al di fuori delle zone metropolitane, attraverso una rete estremamente funzionale di contatti postali collegati al giro delle autoproduzioni. Anche se il gruppo delle persone che frequentavo ai tempi del liceo (siamo negli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta) non arrivò mai a occupare, ricevevamo e facevamo circolare un'ampia messe di pubblicazioni. Perlopiù fanzine musicali connesse al punk e all'hardcore, tantissima musica quindi (cassette e vinili), e poi i libri delle edizioni libertarie. Ci arrivavano il punk e le edizioni underground da Torino, da Milano i fumetti del prof. Bad Trip, il cyberpunk e l'America delle pantere nere, da Roma il rap. Quando i centri sociali cominciarono a essere una realtà influente, capace di estendere il suo bacino di influenza, le istituzioni giocarono la carta della legalizzazione, che doveva portare a una forte divisione tra le varie realtà autogestite. Noi ci schierammo con il gruppo di centri sociali contrari alla legalizzazione.
La musica è stata importante. Sono arrivato ai centri sociali attraverso la musica. Ero rimasto fulminato negli anni del liceo dai Sex Pistols, che mi rivelarono un mondo di ribellione nichilista e mi staccarono dalla lettura della teologia della liberazione sudamericana. La rivolta degli anticristi, per un ateo che leggeva le poesie di Cardenal e agli scritti di Leonardo Boff, si spostò presto sulla sponda dei Crass, un gruppo di punk anarchico con una capacità di critica sociale piuttosto radicale e costruttiva. L'hardcore che mi convinceva di più era quello straight edge, tipo Minor Threat e Fugazi (anche se mi spallava il loro moralismo) ma finii ben presto per ritrovarmi a pogare sotto il palco dei Negu Goriak, la nuova formazione dei Kortatu, dei baschi che mescolavano rap e punk con uno spirito politico piuttosto esplicito. Intanto erano cominciati i miei pellegrinaggi nelle città italiana. Le manifestazioni della Pantera a Roma, la visita per la festa del non lavoro al Forte Prenestino di Roma, dove mi ritrovai a dormire in un umido sotterraneo. E poi i concerti al vecchio CPA di Firenze e alla Giungla di Firenze, quando finii a pogare davanti ai Sick of It All (se la memoria non mi inganna). Milano è una città che mi ha sempre stressato (forse perché l'ho conosciuta perlopiù attraverso le pagine amare di Bianciardi) ma nelle sole due volte che ci sono andato non sono riuscito a uscire dal quartiere ticinese. C'era davvero un'aria di paese in quelle strade, un'atmosfera che tranquillizzava un provinciale come me. E non ci voleva molto per passare dal rifugio dei punkabbestia (dove dormivo al ghiaccio) ai locali più confortevoli del Conchetta, che ospitava la splendida libreria di Primo Moroni.
Di Torino invece mi innamorai. El Paso mi colpì in modo quasi romantico: ricordo la bandiera nera dei pirati che sventolava sul vecchio asilo occupato, un cortiletto pieno di autocostruzioni, una libreria fantastica e punk ovunque, alcuni molto truzzi. Torino non è lontana dalla Francia e oltre a una serie di concerti di gruppi francesi da sballo (grandissimi i Les Sheriff) dal Paso arrivavano le idee e le pratiche situazioniste, via Marsiglia e Parigi. Un giro notevolissimo. L'azione diretta si mescolava con la provocazione dadaista (ricordo la madonnina in piazza che piangeva vino e il tipo vestito da cameriere che consegnò al sindaco un pesce in consiglio comunale subito dopo lo sgombero di una occupazione dicendo “il signore ha ordinato uno sgombro”). Rimbaud, Cravan e Benjamin Péret si scoprivano punk, e la provocazione era all'ordine del giorno. Erano anni in cui le occupazioni a Torino si estendevano e c'erano altre realtà da visitare, come lo splendido Barocchio, una chiesa sconsacrata dove la gente faceva autocostruzione sul serio e il bar era migliore di tanti club. Una realtà che si scontrò ovviamente con le istituzioni e la repressione giudiziaria, di cui il segno più amaro rimane la morte di Baleno e Soledad, ricostruita egregiamente da Tobia Imperato ne Le scarpe degli assassini.
Poche memorie che non riassumono l'effervescenza di quegli anni, né tantomeno la grande capacità di mobilitazione di squat e centri sociali, che rimangono probabilmente in Italia i migliori laboratori di antagonismo sociale. Ci sarebbe molto da dire. La rete dei non sottomessi alla leva, i giri vegetariani, i collettivi editoriali. Una recensione non basta. Chi si è mosso nelle realtà di quegli anni, nella diversità a volte anche marcata delle pratiche e degli orientamenti ideologici, troverà il libro di De Sario bellissimo e stimolante. E sentirà il bisogno di continuare a raccontare quella storia.
Mucchio selvaggio, maggio 2009Chiavi di lettura
Consigliamo caldamente qualche lettura. Agenzia X, meritoria casa editrice, ha recentemente messo in giro Resistenze innaturali di Beppe De Sario e Roma K.O. assemblato da Marco Philopat e da quel figuro quasi leggendario che è il Duka.
Il primo volume è molto puntuale e preciso (seppure un po' legnoso, per il linguaggio troppo accademico, da tesi di laurea) nel ricostruire le basi dei moviemnti antagonisti legati alle realtà di Milano, Roma e Torino, e le scintille creative del clubbing italiano attuale stanno tanto qui quanto nei percorsi pi ufficiali alla Coccoluto; il secondo è assolutamente meraviglioso nel ricreare le suggestioni, le visioni e le nevrosi di queste basi - ed è fondamentale nel far capire che coraggio e follia sono elementi necessari se si vuole davvero creare qualcosa.
di Damir IvicIl primo volume è molto puntuale e preciso (seppure un po' legnoso, per il linguaggio troppo accademico, da tesi di laurea) nel ricostruire le basi dei moviemnti antagonisti legati alle realtà di Milano, Roma e Torino, e le scintille creative del clubbing italiano attuale stanno tanto qui quanto nei percorsi pi ufficiali alla Coccoluto; il secondo è assolutamente meraviglioso nel ricreare le suggestioni, le visioni e le nevrosi di queste basi - ed è fondamentale nel far capire che coraggio e follia sono elementi necessari se si vuole davvero creare qualcosa.
il manifesto, 23 aprile 2009Una messa a fuoco sui laboratori dell'attivismo radicale
Nel lungo inverno degli anni Ottanta, mentre i militanti del precedente e sovversivo decennio si leccavano le dolorose ferite della sconfitta e i socialisti di Bettino Craxi preparavano con metodo il terreno per il berlusconismo, nelle città italiane facevano la comparsa strani luoghi e altrettante strane figure sociali. L'epopea delle culture underground e dell'attivismo radicale degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta del secolo scorso potrebbe cominciare con questo incipit.
Eppure c'è molta verità in questo ipotetico inizio di una storia di alcuni movimenti degli anni Ottanta e Novanta. C'è la sconfitta; ci sono gli elementi dell'avvio di quella “controrivoluzione neoliberista”che, cambiandole di segno, si appropriava delle innovazioni sociale e culturali prodotte dall'“assalto al cielo” degli anni Settanta. Ma delineava anche una mutazione profonda delle città italiane, con le zone desertificate dalla ristrutturazione pronte a ospitare “zone temporaneamente autonome” come i centri sociali. E poi ci sono i punk e le tante “rivolte dello stile”- abbigliamento, musica, forme di vita “alternative” - che invadono i centri cittadini. È a questo milieau che si concentra Beppe De Sario (il saggio sarà presentato oggi a Roma nel centro sociale Forte Prenestino alle ore 18).
La tesi sviluppata da questo giovane ricercatore è presto detta. I movimenti radicale, e aggiungerei giovanili, degli anni Ottanta traggono linfa vitale dalle culture underground e crescono in discontinuità con il pensiero critico del decennio successivo. La musica punk, ovviamente una certa “reinvenzione” dell'attitudine libertaria statunitense, la scelta di “liberare spazi per liberare la mente”. Battistrada di tutto ciò, le esperienza di Forte Prenestino a Roma e del Virus di Milano.
Un libro, dunque, provocatorio, perché prova spiegare esperienze sociali e politiche qualificate come espressione di “marginalità sociale”. Tesi, quest'ultima, già smentita da un'importante inchiesta condotta tra i frequentatori del Leoncavallo alla metà degli anni Novanta, dove emergeva che i frequentatori del centro sociale milanese erano studenti universitari o lavoratori nei settori high-tech o a alto contenuto “di conoscenza”nella città lombarda. Detto ciò, la sottolineatura della discontinuità rispetto ai movimenti degli anni Settanta fatta dall'autore appare apodittica. Il “gioco” tra continuità e discontinuità è sempre molto più complicato. L'attivismo radicale degli anni Ottanta e anni Novanta “reinventa” tradizioni di pensiero critico, prendendo dal passato ciò che ritiene significativo per la propria “politica” e rifiuta ciò che ritiene inutile: ha stabilito cioè le proprie genealogie e linee di continuità con il passato. Con una particolarità, in questo caso: l'attivismo radicale di cui scrive Beppe De Sario è stato un laboratorio per quello che è venuto dopo, compreso l'arcipelago no-global. Tema che però esula da questo libro.
di Benedetto VecchiEppure c'è molta verità in questo ipotetico inizio di una storia di alcuni movimenti degli anni Ottanta e Novanta. C'è la sconfitta; ci sono gli elementi dell'avvio di quella “controrivoluzione neoliberista”che, cambiandole di segno, si appropriava delle innovazioni sociale e culturali prodotte dall'“assalto al cielo” degli anni Settanta. Ma delineava anche una mutazione profonda delle città italiane, con le zone desertificate dalla ristrutturazione pronte a ospitare “zone temporaneamente autonome” come i centri sociali. E poi ci sono i punk e le tante “rivolte dello stile”- abbigliamento, musica, forme di vita “alternative” - che invadono i centri cittadini. È a questo milieau che si concentra Beppe De Sario (il saggio sarà presentato oggi a Roma nel centro sociale Forte Prenestino alle ore 18).
La tesi sviluppata da questo giovane ricercatore è presto detta. I movimenti radicale, e aggiungerei giovanili, degli anni Ottanta traggono linfa vitale dalle culture underground e crescono in discontinuità con il pensiero critico del decennio successivo. La musica punk, ovviamente una certa “reinvenzione” dell'attitudine libertaria statunitense, la scelta di “liberare spazi per liberare la mente”. Battistrada di tutto ciò, le esperienza di Forte Prenestino a Roma e del Virus di Milano.
Un libro, dunque, provocatorio, perché prova spiegare esperienze sociali e politiche qualificate come espressione di “marginalità sociale”. Tesi, quest'ultima, già smentita da un'importante inchiesta condotta tra i frequentatori del Leoncavallo alla metà degli anni Novanta, dove emergeva che i frequentatori del centro sociale milanese erano studenti universitari o lavoratori nei settori high-tech o a alto contenuto “di conoscenza”nella città lombarda. Detto ciò, la sottolineatura della discontinuità rispetto ai movimenti degli anni Settanta fatta dall'autore appare apodittica. Il “gioco” tra continuità e discontinuità è sempre molto più complicato. L'attivismo radicale degli anni Ottanta e anni Novanta “reinventa” tradizioni di pensiero critico, prendendo dal passato ciò che ritiene significativo per la propria “politica” e rifiuta ciò che ritiene inutile: ha stabilito cioè le proprie genealogie e linee di continuità con il passato. Con una particolarità, in questo caso: l'attivismo radicale di cui scrive Beppe De Sario è stato un laboratorio per quello che è venuto dopo, compreso l'arcipelago no-global. Tema che però esula da questo libro.