Pulp, gennaio/febbraio 2013Intervista a Claudio Morandini
Un estratto dalla lunga intervista in cui si parla del Sangue del tiranno, a cura di Umberto RossiParto dal Sangue del tiranno: in questo romanzo descrivi (con cognizione di causa, oserei dire) la decomposizione di un’università di provincia, ed è inevitabile pensare che stia andando in putrefazione non solo il piccolo ateneo nel quale si svolge la vicenda, ma in generale, per sineddoche, l’intera cultura italiana. Ci sto leggendo troppo?
Dietro a questo romanzo c’era un progetto di collana cui rifarsi, un’idea militante di denuncia dei mali del Paese. Per rispettare questo assunto ho costruito un ambiente chiuso e autoreferenziale e vi ho ambientato una vicenda che si rifacesse, più di quanto avrei fatto se fossi stato lasciato libero di muovermi, a mali e vizi reali: è stato il mio avvicinamento più marcato non alla realtà, ma alla cronaca – più di così non riesco. Perciò, la tentazione di leggere il pretenzioso e cadente ateneo di provincia come una sorta di paradigma di una situazione più generale è forte, e credo di averci messo del mio, nel dosare dettagli legati alla quotidianità e allusioni di impronta più letteraria. Non entro in un’università da molti anni, ma lettori che vi lavorano mi hanno confermato che sì, il mondo universitario è così, se non peggio, che tiranni e lacchè vi albergano, e che il ripiego di molti dinanzi a tutto ciò è davvero un cinismo di maniera, un’indifferenza egoistica. Non so se tutto l’ambiente accademico sia così disperatamente scollato – spero di no. E non voglio credere che il mondo della cultura sia così infettato da piaggeria, rivalità, invidie, ripicche e altre piccinerie – se lo è, lo è perché così è il mondo, ma da quassù godo di una vista sfocata sui grandi sistemi e le grandi organizzazioni, e posso solo lavorare di immaginazione sulla base di qualche indiscrezione. Comunque, decomposizione e putrefazione, come le definisci tu, sono potenti motori di storie, in qualsiasi ambiente e in qualsiasi epoca. Nel romanzo che racconta tutto ciò io credo davvero – assai meno nella narrativa che si impegna a denunciare il male, o che crede di indicare possibili vie d’uscita.
Mentre leggevo Il sangue del tiranno riuscivo a visualizzarlo come una di quelle amarissime commedie all’italiana dove si rideva per non piangere. Penso a Un borghese piccolo piccolo oppure a C’eravamo tanto amati... la scrittura quasi cinematografica di questo romanzo breve è deliberatamente tale? Pensavi a un eventuale sbocco filmico?
Ecco, non avevo proprio in mente il cinema, anche se l’idea del tiranno odioso da eliminare fisicamente mi è venuta riguardando Les diaboliques di Clouzot. Detto tra noi, troppi oggi pensano in termini cinematografici quando scrivono, e questo non mi sembra un arricchimento del testo letterario, piuttosto una resa, visti anche i film gonfi di cliché che circolano oggi. Probabilmente il carattere cinematografico del Sangue del tiranno nasce dal rispetto (parziale, e vissuto anche con qualche disagio e resistenza da parte mia) dei canoni del noir, un genere che con il cinema ha forti legami. Io, per la verità, ho sviluppato certe scene, soprattutto quelle dialogate, pensandole in termini teatrali. I frequenti duetti dell’io narrante professor Villani con il collega Calandrone sono nate proprio così. Che poi il romanzino possa essere pensato anche con una destinazione cinematografica mi fa piacere – per dire, il Claudio Gora de La donna della domenica o il repellente Romolo Valli nel Un borghese piccolo piccolo sarebbero perfetti: farsa e tragedia mescolate assieme fino a non essere più districabili; untuosità di voce e di gesti, e corpi che attraverso disturbi anche schifosi esternano un malessere profondo. [...]
di Umberto RossiDietro a questo romanzo c’era un progetto di collana cui rifarsi, un’idea militante di denuncia dei mali del Paese. Per rispettare questo assunto ho costruito un ambiente chiuso e autoreferenziale e vi ho ambientato una vicenda che si rifacesse, più di quanto avrei fatto se fossi stato lasciato libero di muovermi, a mali e vizi reali: è stato il mio avvicinamento più marcato non alla realtà, ma alla cronaca – più di così non riesco. Perciò, la tentazione di leggere il pretenzioso e cadente ateneo di provincia come una sorta di paradigma di una situazione più generale è forte, e credo di averci messo del mio, nel dosare dettagli legati alla quotidianità e allusioni di impronta più letteraria. Non entro in un’università da molti anni, ma lettori che vi lavorano mi hanno confermato che sì, il mondo universitario è così, se non peggio, che tiranni e lacchè vi albergano, e che il ripiego di molti dinanzi a tutto ciò è davvero un cinismo di maniera, un’indifferenza egoistica. Non so se tutto l’ambiente accademico sia così disperatamente scollato – spero di no. E non voglio credere che il mondo della cultura sia così infettato da piaggeria, rivalità, invidie, ripicche e altre piccinerie – se lo è, lo è perché così è il mondo, ma da quassù godo di una vista sfocata sui grandi sistemi e le grandi organizzazioni, e posso solo lavorare di immaginazione sulla base di qualche indiscrezione. Comunque, decomposizione e putrefazione, come le definisci tu, sono potenti motori di storie, in qualsiasi ambiente e in qualsiasi epoca. Nel romanzo che racconta tutto ciò io credo davvero – assai meno nella narrativa che si impegna a denunciare il male, o che crede di indicare possibili vie d’uscita.
Mentre leggevo Il sangue del tiranno riuscivo a visualizzarlo come una di quelle amarissime commedie all’italiana dove si rideva per non piangere. Penso a Un borghese piccolo piccolo oppure a C’eravamo tanto amati... la scrittura quasi cinematografica di questo romanzo breve è deliberatamente tale? Pensavi a un eventuale sbocco filmico?
Ecco, non avevo proprio in mente il cinema, anche se l’idea del tiranno odioso da eliminare fisicamente mi è venuta riguardando Les diaboliques di Clouzot. Detto tra noi, troppi oggi pensano in termini cinematografici quando scrivono, e questo non mi sembra un arricchimento del testo letterario, piuttosto una resa, visti anche i film gonfi di cliché che circolano oggi. Probabilmente il carattere cinematografico del Sangue del tiranno nasce dal rispetto (parziale, e vissuto anche con qualche disagio e resistenza da parte mia) dei canoni del noir, un genere che con il cinema ha forti legami. Io, per la verità, ho sviluppato certe scene, soprattutto quelle dialogate, pensandole in termini teatrali. I frequenti duetti dell’io narrante professor Villani con il collega Calandrone sono nate proprio così. Che poi il romanzino possa essere pensato anche con una destinazione cinematografica mi fa piacere – per dire, il Claudio Gora de La donna della domenica o il repellente Romolo Valli nel Un borghese piccolo piccolo sarebbero perfetti: farsa e tragedia mescolate assieme fino a non essere più districabili; untuosità di voce e di gesti, e corpi che attraverso disturbi anche schifosi esternano un malessere profondo. [...]
Il Grandevetro n. 212, settembre/dicembre 2012Classicità di un contemporaneo
Il sangue del tiranno ha, in ambito di narrativa contemporanea, tre precedenti illustri con cui misurarsi. Il primo è Tutte le anime, di Javier Marias, ambientato nell’università di Oxford; struttura chiusa che, come nell’università raccontata da Morandini, diventa il mondo con le cui complesse declinazioni il protagonista deve vedersela; il secondo è Vergogna, di J.M Coetzee, dove in ambito universitario scatta il corto circuito esistenziale che obbliga il protagonista a lasciare l’insegnamento e a ritirarsi presso la figlia, che lavora in una clinica per cani morenti, in un territorio segnato dalla violenza (anche nel libro di Morandini c’è un docente che si è ritirato in campagna e alleva cani randagi); il terzo riferimento – inevitabile, data la piega giallo/noir assunta dalla narrazione – è col Friedrich Dürrenmatt di Un requiem per il romanzo giallo, perché con quel libro, vero grado zero del genere, nessuno, che voglia percorrere certi territori narrativi, può esimersi ormai dal fare i conti.
Quanto al confronto con Dürrenmatt, il più scivoloso (superati agevolmente gli altri due), Morandini è abile nello schivare il tranello. Sorta di cauta Penelope, disfa immediatamente ogni accenno di genere che via via dissemina sulla pagina. C’è un delitto, infatti, ma fino alla fine nessuno sa se l’aggressione di cui resta vittima il rettore di un’anonima università italiana potrà essere rubricata alla voce omicidio, perché manca la notizia della di lui morte. C’è un commissario che indaga, in modo troppo umano, forse, se poi alla fine gli viene tolto il caso. C’è un sospettato che sparisce proprio come fanno i sospettati. C’è un finale di nodi al pettine che però non ne scioglie nessuno, giacché si limita a dislocare altrove personaggi restii, anche in altra sede, a liberarsi dei loro vizi.
In tutto il libro non si nomina mai un luogo o un evento capaci di ubicare e datare la vicenda, eppure non abbiamo dubbi ad ambientarla qui, oggi. Perché è proprio di questo che parla Il sangue del tiranno, di qui, oggi. E lo fa con un’ironia spesso vicina al sarcasmo, come nell’episodio del cane che assiste alla lezione tenuta per i soliti quattro gatti. O anche col presentarsi dell’io narrante, al commissario che gli chiede il nome, alla maniera di James Bond: “Villani. Martino Villani”. Lo fa con una serrata critica politica che, senza sbandierare slogan, ben evidenzia il modo in cui la struttura universitaria, metafora della nostra società civile, implode per abbandono, per accidia, per malcostume, per tagli ai finanziamenti, per egoismo, e si decompone fino a puzzare di fiori cimiteriali, di bagni irrespirabili, di documenti e testi che lasciano l’umida cantina in cui sono stipati solo per andare al macero, anziché negli scaffali di una biblioteca. L’amore non regge alla prova della intercambiabilità dei soggetti e la solitudine è l’unico bene condiviso. Più qui e oggi di così?
Un’ultima nota sulla lingua. Dopo Rapsodia su un solo tema (Manni, 2010) e Nora e le ombre (Palomar, 2006), e in attesa di attraversare anche Le larve (Pendragon, 2008), possiamo dire che con Il sangue del tiranno Claudio Morandini conferma di possedere quel dono particolare della scrittura tale per cui fa sembrare facili le cose più difficili. Leggendo ogni sua pagina ci si compiace dell’esistenza della lingua italiana, si sente che nelle sue mani essa è protetta e arricchita; Claudio Morandini è, in questo, sorprendentemente classico, pur abitando a pieno titolo, per i registri adottati e per lo stile, nel contemporaneo. Con lui la lingua fa, e bene, quello che deve: congiunge, allarma, attrae, svela, mette in crisi, aiuta.
di Fabio CiriachiQuanto al confronto con Dürrenmatt, il più scivoloso (superati agevolmente gli altri due), Morandini è abile nello schivare il tranello. Sorta di cauta Penelope, disfa immediatamente ogni accenno di genere che via via dissemina sulla pagina. C’è un delitto, infatti, ma fino alla fine nessuno sa se l’aggressione di cui resta vittima il rettore di un’anonima università italiana potrà essere rubricata alla voce omicidio, perché manca la notizia della di lui morte. C’è un commissario che indaga, in modo troppo umano, forse, se poi alla fine gli viene tolto il caso. C’è un sospettato che sparisce proprio come fanno i sospettati. C’è un finale di nodi al pettine che però non ne scioglie nessuno, giacché si limita a dislocare altrove personaggi restii, anche in altra sede, a liberarsi dei loro vizi.
In tutto il libro non si nomina mai un luogo o un evento capaci di ubicare e datare la vicenda, eppure non abbiamo dubbi ad ambientarla qui, oggi. Perché è proprio di questo che parla Il sangue del tiranno, di qui, oggi. E lo fa con un’ironia spesso vicina al sarcasmo, come nell’episodio del cane che assiste alla lezione tenuta per i soliti quattro gatti. O anche col presentarsi dell’io narrante, al commissario che gli chiede il nome, alla maniera di James Bond: “Villani. Martino Villani”. Lo fa con una serrata critica politica che, senza sbandierare slogan, ben evidenzia il modo in cui la struttura universitaria, metafora della nostra società civile, implode per abbandono, per accidia, per malcostume, per tagli ai finanziamenti, per egoismo, e si decompone fino a puzzare di fiori cimiteriali, di bagni irrespirabili, di documenti e testi che lasciano l’umida cantina in cui sono stipati solo per andare al macero, anziché negli scaffali di una biblioteca. L’amore non regge alla prova della intercambiabilità dei soggetti e la solitudine è l’unico bene condiviso. Più qui e oggi di così?
Un’ultima nota sulla lingua. Dopo Rapsodia su un solo tema (Manni, 2010) e Nora e le ombre (Palomar, 2006), e in attesa di attraversare anche Le larve (Pendragon, 2008), possiamo dire che con Il sangue del tiranno Claudio Morandini conferma di possedere quel dono particolare della scrittura tale per cui fa sembrare facili le cose più difficili. Leggendo ogni sua pagina ci si compiace dell’esistenza della lingua italiana, si sente che nelle sue mani essa è protetta e arricchita; Claudio Morandini è, in questo, sorprendentemente classico, pur abitando a pieno titolo, per i registri adottati e per lo stile, nel contemporaneo. Con lui la lingua fa, e bene, quello che deve: congiunge, allarma, attrae, svela, mette in crisi, aiuta.
www.paradisodegliorchi.com, 14 luglio 2011Il sangue del tiranno
Dai finestroni luridi di smog si notano le masse asimmetriche di acciaio che fuoriescono in diagonale dal vecchio complesso in mattone dell’ospedale, come costole dopo un incidente spaventoso. Ecco la bizzarria profumatamente pagata, lungamente realizzata: morfologie metalliche, aggressive, che avrebbero dovuto suggerire un’idea di contemporaneità e invece si stanno ricoprendo di ruggine, piantine, nidi, cacate di uccelli e di gatti. Una modernità nata già cadente e scricchiolante, che durante le giornate di vento sibila e ulula e oscilla pericolosamente, e qui e là già transennata, rattoppata alla meno peggio, come se nessuno avesse previsto un piano di manutenzione ordinaria.
Questo è il teatro del delitto, un antico ospedale trasformato in post moderno ateneo. Scenario già agghiacciante di per sé, ma non nuovo per chi ha la ventura di lavorare oggi nei servizi pubblici, in cui il decadimento ambientale fa da specchio al degrado delle istituzioni.
Il registro dell’ironia e dell’assurdo è il più adatto a trattare il tema, e purtroppo anche il più realistico. È la nostra quotidianità: la strategia dello sfascio tenacemente perseguita in Italia in questi sciagurati anni. È questo il vero delitto di cui si parla. D’accordo, c’è un’aggressione, c’è del sangue, e c’è notizia di altre persone misteriosamente assassinate. C’è perfino un poliziotto che diligentemente indaga. Ma i veri assassini sono altrove, e il vero delitto non è il singolo gesto violento, ma una prassi, non meno violenta, capillarmente diffusa.
Così questa storia, i cui personaggi sono nello stesso tempo tipici e unici, si fa leggere come un apologo senza perdere la sua valenza narrativa.
Il tiranno di cui si tratta è un vecchio rettore, malato e inetto, ma deciso a non abbandonare la poltrona. Personaggio emblematico, intorno al quale ruotano i docenti dell’ateneo, ormai ridotti a figure caricaturali, perché se è vero che il sonno della ragione genera mostri, è anche vero che il sonno delle istituzioni genera una massa di frustrati e malati di mente.
Ognuno ha cercato una sua personale via di fuga: c’è il “cincinnato” che si è ritirato in campagna ad accudire cani randagi, c’è la bigotta che difende i crocifissi, c’è il professore che se la spassa con le giovani allieve, e c’è quello che si dedica in modo maniacale a ideare piani per l’eliminazione fisica del rettore.
Mi porta alla scalinata che si inerpica pretenziosa dall’androne principale al primo piano. Mi costringe a percorrerla.
“Vedi? Gradini ripidi. E tirati a lucido.”
“Che vuoi fare, spingerlo giù il vecchio?”
“Sai quanto è incerto sulle gambe. Non dovrebbe essere impossibile...
(…)
“E se invece delle scale prendesse l’ascensore? Non è improbabile, viste le sue condizioni.”
Calandrone mi guarda stranito. “Sei uno stronzo” conclude. “Devi sempre rovinare tutto.”
La scrittura è brillante, veloce, come il testo di una commedia, e infatti se si volesse farne una rappresentazione non ci sarebbe molto da cambiare. Tanto più che a un certo punto Morandini esce dallo schema del romanzo per entrare nel teatro dell’assurdo, e in questo salto si racchiude, a seconda dei punti di vista, la genialità e il limite di questo libro.
di Giovanna RepettoQuesto è il teatro del delitto, un antico ospedale trasformato in post moderno ateneo. Scenario già agghiacciante di per sé, ma non nuovo per chi ha la ventura di lavorare oggi nei servizi pubblici, in cui il decadimento ambientale fa da specchio al degrado delle istituzioni.
Il registro dell’ironia e dell’assurdo è il più adatto a trattare il tema, e purtroppo anche il più realistico. È la nostra quotidianità: la strategia dello sfascio tenacemente perseguita in Italia in questi sciagurati anni. È questo il vero delitto di cui si parla. D’accordo, c’è un’aggressione, c’è del sangue, e c’è notizia di altre persone misteriosamente assassinate. C’è perfino un poliziotto che diligentemente indaga. Ma i veri assassini sono altrove, e il vero delitto non è il singolo gesto violento, ma una prassi, non meno violenta, capillarmente diffusa.
Così questa storia, i cui personaggi sono nello stesso tempo tipici e unici, si fa leggere come un apologo senza perdere la sua valenza narrativa.
Il tiranno di cui si tratta è un vecchio rettore, malato e inetto, ma deciso a non abbandonare la poltrona. Personaggio emblematico, intorno al quale ruotano i docenti dell’ateneo, ormai ridotti a figure caricaturali, perché se è vero che il sonno della ragione genera mostri, è anche vero che il sonno delle istituzioni genera una massa di frustrati e malati di mente.
Ognuno ha cercato una sua personale via di fuga: c’è il “cincinnato” che si è ritirato in campagna ad accudire cani randagi, c’è la bigotta che difende i crocifissi, c’è il professore che se la spassa con le giovani allieve, e c’è quello che si dedica in modo maniacale a ideare piani per l’eliminazione fisica del rettore.
Mi porta alla scalinata che si inerpica pretenziosa dall’androne principale al primo piano. Mi costringe a percorrerla.
“Vedi? Gradini ripidi. E tirati a lucido.”
“Che vuoi fare, spingerlo giù il vecchio?”
“Sai quanto è incerto sulle gambe. Non dovrebbe essere impossibile...
(…)
“E se invece delle scale prendesse l’ascensore? Non è improbabile, viste le sue condizioni.”
Calandrone mi guarda stranito. “Sei uno stronzo” conclude. “Devi sempre rovinare tutto.”
La scrittura è brillante, veloce, come il testo di una commedia, e infatti se si volesse farne una rappresentazione non ci sarebbe molto da cambiare. Tanto più che a un certo punto Morandini esce dallo schema del romanzo per entrare nel teatro dell’assurdo, e in questo salto si racchiude, a seconda dei punti di vista, la genialità e il limite di questo libro.
http://nottedinebbiainpianura.blogspot.com, 7 luglio 2011Il sangue del tiranno
Agenzia X (casa editrice diretta da Marco Philopat) ha da poco inaugurato la collana Inchiostro Rosso-Noir di Rivolta, diretta da Matteo Di Giulio. La particolarità di questa collana è quella di presentare opere che coniugano le atmosfere noir con l’impegno politico e sociale, attraverso la narrazione inquieta e inquietante della confusa contemporaneità italiana.
E per i tipi di questa collana è da poco uscito Il sangue del tiranno, di Claudio Morandini.
Quando si leggono le opere di Morandini non ci si deve semplicemente fermare al dispiegarsi dell\'intreccio. Molte sono le metaletture e tanti gli elementi sottotraccia che questo Autore riesce sapientemente a celare sotto la superficie delle sue storie. E Il sangue del tiranno non fa eccezione. Il noir, la suspense, il mistero, presenti in questo romanzo, sono, per Morandini, dei pretesti, degli strumenti, quasi degli escamotages per mezzo dei quali far passare un messaggio più profondo. Strutture architettoniche apparentemente indistruttibili che nascondono un lento e inesorabile collasso degli elementi. Corridoi e uffici che lasciano trasparire, nel loro irrimediabile decadimento, l’avvento terribile di una inevitabile desertificazione. Desertificazione che, a partire dagli elementi, dalle strutture, si estende, come una metastasi, fino alle anime. Docenti e ricercatori universitari preda delle meschinità più oscure. Studenti che vagano come spettri svuotati, spinti dal nulla o, nel migliore dei casi, dalla violenza gratuita. Uomini politici che rappresentano un\'Italietta senza rimedio. In una università di provincia che, come una cattedrale costruita nel deserto, si staglia al di sopra di una cittadina dalla quale non proviene nessuna voce, nessuna vitalità. Su tutto e tutti regna un rettore/dittatore; sorta di carognesco ritratto di autocrate da basso impero ravennate. Lui stesso non immune da un male che lo sta uccidendo lentamente, mentre si odono gli echi, apparentemente lontani e tuttavia sempre più vicini, di un complotto a livello nazionale che si sta sviluppando con una serie di misteriosi omicidi di rettori e docenti universitari. Claudio Morandini ha saputo descrivere un universo dickiano, un universo che collassa e cade a pezzi. Un universo che si staglia come paradigma ammonitore di una preoccupante deriva sociale. Speriamo rimanga almeno qualcuno in grado di poter lanciare l\'ubikiano grido d\'allarme: “Io sono vivo, voi siete morti”.
di Angelo RicciE per i tipi di questa collana è da poco uscito Il sangue del tiranno, di Claudio Morandini.
Quando si leggono le opere di Morandini non ci si deve semplicemente fermare al dispiegarsi dell\'intreccio. Molte sono le metaletture e tanti gli elementi sottotraccia che questo Autore riesce sapientemente a celare sotto la superficie delle sue storie. E Il sangue del tiranno non fa eccezione. Il noir, la suspense, il mistero, presenti in questo romanzo, sono, per Morandini, dei pretesti, degli strumenti, quasi degli escamotages per mezzo dei quali far passare un messaggio più profondo. Strutture architettoniche apparentemente indistruttibili che nascondono un lento e inesorabile collasso degli elementi. Corridoi e uffici che lasciano trasparire, nel loro irrimediabile decadimento, l’avvento terribile di una inevitabile desertificazione. Desertificazione che, a partire dagli elementi, dalle strutture, si estende, come una metastasi, fino alle anime. Docenti e ricercatori universitari preda delle meschinità più oscure. Studenti che vagano come spettri svuotati, spinti dal nulla o, nel migliore dei casi, dalla violenza gratuita. Uomini politici che rappresentano un\'Italietta senza rimedio. In una università di provincia che, come una cattedrale costruita nel deserto, si staglia al di sopra di una cittadina dalla quale non proviene nessuna voce, nessuna vitalità. Su tutto e tutti regna un rettore/dittatore; sorta di carognesco ritratto di autocrate da basso impero ravennate. Lui stesso non immune da un male che lo sta uccidendo lentamente, mentre si odono gli echi, apparentemente lontani e tuttavia sempre più vicini, di un complotto a livello nazionale che si sta sviluppando con una serie di misteriosi omicidi di rettori e docenti universitari. Claudio Morandini ha saputo descrivere un universo dickiano, un universo che collassa e cade a pezzi. Un universo che si staglia come paradigma ammonitore di una preoccupante deriva sociale. Speriamo rimanga almeno qualcuno in grado di poter lanciare l\'ubikiano grido d\'allarme: “Io sono vivo, voi siete morti”.
www.carmillaonline.com, 9 giugno 2011Il sangue del tiranno
Comincia a risultare trito il noir edificato attorno alla figura del poliziotto eterodosso (magari ubriacone o fregato dalla vita). Prendiamo atto dello stato di fatto messo in luce dalla distinzione operata da Massimo Carlotto (Dalla crisi al conflitto, in \"il manifesto\", 25 maggio 2011) tra giallo di matrice ottocentesca (crimine individuale risolto da un detective con capacità di decifrazione di indizi) e noir contemporaneo (crimine sociale che opera in reti di illegalità spesso parallele o interallacciate al potere legale). Ci auguriamo però la scomparsa degli uniformati (perlomeno dai noir, che diamine). In questo senso salutiamo con entusiasmo la nuova la collana Inchiostro rosso della casa editrice Agenzia X, che sta proponendo dei noir antagonisti d\'investigazione, col merito di fare a meno della figura – ormai stantia – del poliziotto e del detective (ubriaco, deluso, dogato, ma sempre birro). Auspicando la disseminazione contagiosa di un noir antagonista capace di innestare il saggio e la controinchiesta nel ceppo fruttifero del noir, segnaliamo intanto Il sangue del tiranno, romanzo di Claudio Morandini dalle tinte grottesche, spesso umoristiche, ambientato in una decadente università di provincia.
di Alberto Prunetti e Maria Rosaria BucciTGR Valle d’Aosta, 26 maggio 2011Il sangue del tiranno
GUARDA il servizio del TGR Valle d’Aosta su Il sangue del tiranno