Ddonna – la Repubblica, 3 dicembre 2023 Le libertà in ballo
Improvvisi e dirompenti come fulmini, invisibili come ninja. I rave hanno un grande vantaggio sugli apparati di potere che li odiano molto più di quanto li conoscano davvero. Così accade che la stretta introdotta dal governo Meloni a fine 2022 potrebbe paradossalmente dare nuova linfa al movimento, riportandolo alla segretezza clandestina degli anni Novanta.
Allora ci voleva del tempo per accorgersi che, in quell’area abbandonata al largo di Segrate o in quella fabbrica torinese dismessa, migliaia di ragazzi ballavano notte e giorno, con casse a tutto volume che sparavano bassi da far tremare l’aria per chilometri. Quando i primi abitanti cominciavano a infastidirsi, le forze dell’ordine ad avvicinarsi e i media a interessarsene, era già tutto finito.
«L’apparato di controllo negli anni Novanta non sapeva nemmeno cosa fosse un rave party», racconta Pablito el Drito, dj e scrittore che ha contribuito a organizzare i primi raduni in Italia e li ha raccontati in tre libri per Agenzia X. «Quando polizia e carabinieri arrivavano, li si depistava raccontando che era un compleanno, una festa a sorpresa, una specie di concerto». E loro, che non avrebbero avuto problemi a sgomberare case occupate, campi nomadi o centri sociali, di fronte a una festa notturna con migliaia di giovani che ballavano alterati dalla danza e dall’uso di sostanze, non sapevano che fare. C’era tutto il tempo di smontare e ripartire.
«All’inizio convivevano diversi generi musicali – techno, trance, psy-trance, hardcore, reggae, jungle – poi si è imposta la techno nella sua versione più ruvida, veloce, arrabbiata», racconta el Drito, che in Senza chiedere permesso ha ricostruito la storia del movimento in Italia attraverso le testimonianze dei protagonisti e le immagini dei flyer. In assenza di internet, le informazioni viaggiavano su questi pezzi di carta.
Il massimo della tecnologia era un numero di telefono che, terminati gli allestimenti, si attivava, di solito con una segreteria registrata che forniva indicazioni su come arrivare alla festa. Organizzazione e invisibilità erano le parole d’ordine, messe nero su bianco dall’anarchico americano Hakim Bey in Taz, Zone temporaneamente autonome (Shake edizioni).
Poi però sono arrivati internet, le tecnologie di tracciamento, la sorveglianza capillare, e tutto è cambiato. «Con telecamere a ogni angolo della strada, smartphone e social, praticare l’invisibilità è diventato più difficile», racconta Tobia D’Onofrio, autore di Rave New World. L’ultima controcultura (Agenzia X). «Le nuove generazioni spesso non erano del tutto consapevoli di quello che stavano facendo perché non avevano visto nascere il movimento. Così è accaduto che ragazzini di vent’anni ai loro primi rave facessero dirette Facebook: un’assurdità se vuoi mantenere anonimato e invisibilità».
I maggiori rave europei oggi vengono organizzati in collaborazione tra diversi Paesi, durano diversi giorni e richiamano decine di migliaia di persone. Difficile mantenere a lungo la segretezza. «Anche per questo negli ultimi anni lo stigma dei media e la repressione sono aumentate», racconta el Drito, «Il culmine dell’esposizione mediatica in Italia sono stati i due rave dell’estate 2021, che hanno monopolizzato l’attenzione dei media: un segnale di allarme che qualcosa si stava muovendo». Infatti a fine 2022 è arrivato il decreto anti-rave del governo, che prevede pene detentive da tre a sei anni.
Ai raver italiani sono rimaste tre strade: andare in altri Paesi, in discoteca o organizzare rave più piccoli e nascosti, come agli inizi. «Come già accaduto in Gran Bretagna e Francia, ogni volta che le leggi anti-rave sono state inasprite, il movimento si è rafforzato e ha acquisito maggiore coscienza politica», spiega D’Onofrio. «In Italia è accaduto con le parate di protesta “Smash Repression”. Il movimento si era ingrandito a tal punto da perdere la sua identità più politicizzata. Musica e ballo techno si praticano ovunque, anche nel mainstream più commerciale, ma il movimento rave ha altre ragioni di esistere e ora le sta recuperando – dal diritto alla casa alle rivendicazioni del mondo del lavoro, di genere e Lgbtq+, dalla libertà e autodeterminazione dei corpi alla riduzione del danno per uso di sostanze».
Istanze per cui si potrebbe lottare anche in una dimensione riconosciuta e legale. «Ma la festa è un momento di celebrazione, l’apice di esplosione delle energie dell’individuo. Solo nell’underground certe tematiche trovano terreno fertile e quando il movimento si espande il mainstream non può più ignorarle». Lo dimostrano certe esperienze di riduzione del rischio e del danno dall’uso di sostanze nate negli ambienti rave e in seguito riconosciute dalle istituzioni, come Lab57 Infoshock di Bologna, GoodNight di Bergamo e Neutravel di Torino. «Il rave è un baccanale elettrico, una centrifuga sociale neopagana a base di ritmi tribali e ossessivi, necessari per “rompere” con la vita alienante di tutti i giorni, un rito misterioso, futurista e arcaico allo stesso tempo», riassume el Drito, «ma soprattutto, era e resta la cosa giusta da fare».
Nicola BaroniAllora ci voleva del tempo per accorgersi che, in quell’area abbandonata al largo di Segrate o in quella fabbrica torinese dismessa, migliaia di ragazzi ballavano notte e giorno, con casse a tutto volume che sparavano bassi da far tremare l’aria per chilometri. Quando i primi abitanti cominciavano a infastidirsi, le forze dell’ordine ad avvicinarsi e i media a interessarsene, era già tutto finito.
«L’apparato di controllo negli anni Novanta non sapeva nemmeno cosa fosse un rave party», racconta Pablito el Drito, dj e scrittore che ha contribuito a organizzare i primi raduni in Italia e li ha raccontati in tre libri per Agenzia X. «Quando polizia e carabinieri arrivavano, li si depistava raccontando che era un compleanno, una festa a sorpresa, una specie di concerto». E loro, che non avrebbero avuto problemi a sgomberare case occupate, campi nomadi o centri sociali, di fronte a una festa notturna con migliaia di giovani che ballavano alterati dalla danza e dall’uso di sostanze, non sapevano che fare. C’era tutto il tempo di smontare e ripartire.
«All’inizio convivevano diversi generi musicali – techno, trance, psy-trance, hardcore, reggae, jungle – poi si è imposta la techno nella sua versione più ruvida, veloce, arrabbiata», racconta el Drito, che in Senza chiedere permesso ha ricostruito la storia del movimento in Italia attraverso le testimonianze dei protagonisti e le immagini dei flyer. In assenza di internet, le informazioni viaggiavano su questi pezzi di carta.
Il massimo della tecnologia era un numero di telefono che, terminati gli allestimenti, si attivava, di solito con una segreteria registrata che forniva indicazioni su come arrivare alla festa. Organizzazione e invisibilità erano le parole d’ordine, messe nero su bianco dall’anarchico americano Hakim Bey in Taz, Zone temporaneamente autonome (Shake edizioni).
Poi però sono arrivati internet, le tecnologie di tracciamento, la sorveglianza capillare, e tutto è cambiato. «Con telecamere a ogni angolo della strada, smartphone e social, praticare l’invisibilità è diventato più difficile», racconta Tobia D’Onofrio, autore di Rave New World. L’ultima controcultura (Agenzia X). «Le nuove generazioni spesso non erano del tutto consapevoli di quello che stavano facendo perché non avevano visto nascere il movimento. Così è accaduto che ragazzini di vent’anni ai loro primi rave facessero dirette Facebook: un’assurdità se vuoi mantenere anonimato e invisibilità».
I maggiori rave europei oggi vengono organizzati in collaborazione tra diversi Paesi, durano diversi giorni e richiamano decine di migliaia di persone. Difficile mantenere a lungo la segretezza. «Anche per questo negli ultimi anni lo stigma dei media e la repressione sono aumentate», racconta el Drito, «Il culmine dell’esposizione mediatica in Italia sono stati i due rave dell’estate 2021, che hanno monopolizzato l’attenzione dei media: un segnale di allarme che qualcosa si stava muovendo». Infatti a fine 2022 è arrivato il decreto anti-rave del governo, che prevede pene detentive da tre a sei anni.
Ai raver italiani sono rimaste tre strade: andare in altri Paesi, in discoteca o organizzare rave più piccoli e nascosti, come agli inizi. «Come già accaduto in Gran Bretagna e Francia, ogni volta che le leggi anti-rave sono state inasprite, il movimento si è rafforzato e ha acquisito maggiore coscienza politica», spiega D’Onofrio. «In Italia è accaduto con le parate di protesta “Smash Repression”. Il movimento si era ingrandito a tal punto da perdere la sua identità più politicizzata. Musica e ballo techno si praticano ovunque, anche nel mainstream più commerciale, ma il movimento rave ha altre ragioni di esistere e ora le sta recuperando – dal diritto alla casa alle rivendicazioni del mondo del lavoro, di genere e Lgbtq+, dalla libertà e autodeterminazione dei corpi alla riduzione del danno per uso di sostanze».
Istanze per cui si potrebbe lottare anche in una dimensione riconosciuta e legale. «Ma la festa è un momento di celebrazione, l’apice di esplosione delle energie dell’individuo. Solo nell’underground certe tematiche trovano terreno fertile e quando il movimento si espande il mainstream non può più ignorarle». Lo dimostrano certe esperienze di riduzione del rischio e del danno dall’uso di sostanze nate negli ambienti rave e in seguito riconosciute dalle istituzioni, come Lab57 Infoshock di Bologna, GoodNight di Bergamo e Neutravel di Torino. «Il rave è un baccanale elettrico, una centrifuga sociale neopagana a base di ritmi tribali e ossessivi, necessari per “rompere” con la vita alienante di tutti i giorni, un rito misterioso, futurista e arcaico allo stesso tempo», riassume el Drito, «ma soprattutto, era e resta la cosa giusta da fare».
il venerdì di Repubblica, 10 settembre 2021Rave: cosa c’è davvero in ballo?
Dopo il party illegale di Viterbo, la tribù dei “teknusi”. è finita in cronaca nera e sotto processo. Ma c’è chi la difende come una delle ultime controculture rimaste, erede degli hippie anni 60. Viaggio alle origini del movimento, tra musica, droghe e politica
Nemmeno il movimento punk dei più sporchi, brutti e nichilisti ha suscitato tanta preoccupazione, sdegno e panico morale, quanto quello definito per semplificazione “rave”. Forse perché è stato più facile codificare e mercificare il primo che non il secondo, che da fine anni 80 viaggia sottotraccia, si scioglie in rivoli e si ricompone nelle interzone. Quando sparisce, è perché si sta riorganizzando. E c’è soprattutto quando non si vede.
Ogni tanto qualcuno se ne accorge, com’è accaduto in estate per i due free party a Tavolaia e a Valentano, calamite per migliaia di europei, così come per i tifosi gli stadi, per i vacanzieri gli stabilimenti, per la variante Delta gli assembramenti. In particolare lo Space Travel nel Viterbese, seconda edizione, era un Teknival, festival gratuito di musica tekno (più veloce e meno commerciale della techno discotecara) che dura giorni, ospita non uno ma tanti sound system, tribe straniere, proiezioni video, stand, aree ristoro. In pratica, una città che nasce e muore a ritmo di 180 bpm e, volendo, vive in stati alterati di coscienza. Succede lo stesso all’elogiato festival Burning Man nel deserto del Nevada, che però costa un salasso, fa profitto. Nei free party c’è tutto di irregolare ma nulla di improvvisato. L’organizzazione è accurata, il montaggio fulmineo, il luogo segreto. Se lo chiedi ad Alexa, non lo sa. La festa non è autorizzata perché, in quanto illegale, sceglie di occupare e autogestire uno spazio, consapevole di illeciti e conseguenze.
Senza confini
Il fenomeno non nacque come adunata casuale di fattoni senza causa, sebbene ogni volta possa diventarlo, essendo aperta a chiunque. Aveva una matrice politica, legata alla lotta per il diritto alla casa, alla critica verso la società industriale, espressa riusando i suoi scarti, ingombrando di corpi e suono fabbriche dismesse, anche di giorno, negli orari della produzione.
Il basso nella cassa toracica e il ballo allo sfinimento su musica elettronica ipercinetica, senza gerarchie, barriere di classe, razza e sesso: un sogno anarchico, evanescente ma ripetibile che si realizzò in Gran Bretagna nei primi anni Novanta, con le TAZ, Zone Temporaneamente Autonome teorizzate dal filosofo Hakim Bey. Per lui luoghi dove si dissolve l’autorità, sottratti al “gangsterismo territoriale”. degli Stati che tassano e chiudono confini, strategia insurrezionale con l’invisibilità come arte marziale: la conquista di una proprietà è un colpo inferto alle strutture di controllo, poi via prima che se ne rendano conto. Non si sfugge solo alla sorveglianza, ci si afferma sparendo.
In quel tempo sospeso, si realizza un’utopia. Illegale, discutibile come ogni utopia, ma reale finché dura. L’idea piacque a raver e traveller - nomadi per scelta e necessità, dato il caro affitti, le politiche thatcheriane di privatizzazione dei servizi e tagli all’assistenza sociale - che confluirono nei free festival creando microcosmi a zonzo.
Gli Spiral Tribe di Londra furono i demiurghi delle Taz, piazzati negli Altrove con sfilze di sound system e un loro sistema valoriale: no profit; no ego; il dj non è la star ma il nocchiero che conduce da dietro i muri di casse; rispetto dell’ambiente e degli altri; uso responsabile delle droghe. Vista l’affluenza, i free party diventarono un problema per le autorità inglesi. Le repressioni della polizia e il Criminal Justice Act del 1994 non fecero che incrementarli, spingendoli a migrare in Europa, aiutandoli ad attuare la loro vocazione nomade e transnazionale.
Chi sono i teknusi?
I festival Free Tekno, in Italia si registrano dal 1993. Da allora, fra alti (le performance sbalorditive della Mutoid Waste Company) e bassi (le giungle moleste e autodistruttive), la festa va. A Pinerolo nel 2007, i teknusi erano trentamila. Dal 2008, secondo molti, la rivoluzione digitale e l’incremento esponenziale di appuntamenti spuri dove si mescolava di tutto hanno generato un’ondata non in linea con principi e leggi non scritte dei free party. Poi nel 2015, anche grazie a libri come Muro di casse (Laterza, 2015) di Vanni Santoni e Rave New World (Agenzia X, 2018) di Tobia D’Onofrio, pare che ai più giovani sia venuta voglia di ispirarsi all’epoca d’oro della scena.
Quant’è cambiata dagli anni Novanta? Ci racconta D’Onofrio, esperto in materia: “Erano più evidenti le connessioni politiche, con l’attivismo dei centri sociali, la forma di protesta degli street party ripresa dai No Global, ma non sono mai sparite. A livello scenografico, nel rave ci si esprimeva più con la giocoleria, oggi con proiettori e videomapping. La segretezza è la stessa di allora, anche se minacciata dai social. L’evento non va esposto, si comunica con passaparola e flyer. L’attesa delle coordinate, la ricerca del luogo, come in una caccia al tesoro, è parte del rituale. Non è cambiata invece la narrazione tossica che si fa del rave. Eppure è l’unico contesto che si fa carico di contenere i possibili danni provocati dalle sostanze stupefacenti, che si assumono a prescindere dai rave. In loco ci sono team di esperti come Lab 57 che testa le sostanze, fa pronto soccorso medico, informa. Un servizio che dovrebbe esistere ovunque”.
Hippie, punk e Giamaica
Resta difficile inquadrare un movimento pieno di sfumature e contraddizioni, che non ama raccontare sé stesso e richiama trasversalmente emarginati, laureati, sballati, sobri, attivisti, disimpegnati, responsabili, inconsapevoli. “Non ho la pretesa di spiegare la cultura rave. Viaggia su molti livelli, ma di base è antisistema, antifascista, antisessista, ecologista, propone un’esperienza di autogestione e condivisione”. dice D’Onofrio. “Per me è un veicolo di cambiamento, le persone possono crescere e trasformarsi nell’arco di una festa. Il suo livello di apertura permette un’esperienza spirituale. Che sia personale o comunitaria, avviene grazie alla collettività che la tiene in piedi. Lo ritengo uno degli ultimi spazi di libertà rispetto alle norme che regolano i rapporti in società. Ad esempio, le relazioni si basano su fiducia, empatia, e non sul denaro. Per me è un aggiornamento della controcultura hippie in era post-atomica, vicino più di altri alle idee di Kerouac e Burroughs”.
Non va sganciata da altre sottoculture giovanili. Le ha assorbite, rimodellate. Si parla con nostalgia di Woodstock e dei Clash, ma non si riesce ancora a infilare nello stesso quadro, con le dovute differenze, i free party, che hanno attinto alla controcultura hippie (concerti improvvisati, esperienze psichedeliche), al punk (filosofia del fai da te, accessibilità a tutti), alle feste mobili giamaicane (reclamanti lo spazio pubblico con i sound). Tutte spinte nate dal conflitto con la cultura dominante, travasi di energie giovanili. E tutte con le loro droghe di riferimento. Lsd, speed, marijuana. La scena rave, associata alla tecnologia e all’espressione sintetica, optò per l’ecstasy, euforizzante e empatogena.
Piaccia o meno il rave, come scrive in Energy Flash. Viaggio nella cultura rave (Arcana) Simon Reynolds, che firma anche la prefazione del recente Full On. Non-Stop. All Over, libro fotografico sulla cultura rave inglese di Matthew Smith, “è il modo in cui abbiamo reso nostro questo tempo”. Che non è finito. Dice D’Onofrio: “Oggi c’è più controllo, profilazione, addomesticamento, quindi la cultura rave, per le sue radici antagoniste, risulta ancora più contemporanea e, per chi la segue, necessaria”.
di Simona OrlandoNemmeno il movimento punk dei più sporchi, brutti e nichilisti ha suscitato tanta preoccupazione, sdegno e panico morale, quanto quello definito per semplificazione “rave”. Forse perché è stato più facile codificare e mercificare il primo che non il secondo, che da fine anni 80 viaggia sottotraccia, si scioglie in rivoli e si ricompone nelle interzone. Quando sparisce, è perché si sta riorganizzando. E c’è soprattutto quando non si vede.
Ogni tanto qualcuno se ne accorge, com’è accaduto in estate per i due free party a Tavolaia e a Valentano, calamite per migliaia di europei, così come per i tifosi gli stadi, per i vacanzieri gli stabilimenti, per la variante Delta gli assembramenti. In particolare lo Space Travel nel Viterbese, seconda edizione, era un Teknival, festival gratuito di musica tekno (più veloce e meno commerciale della techno discotecara) che dura giorni, ospita non uno ma tanti sound system, tribe straniere, proiezioni video, stand, aree ristoro. In pratica, una città che nasce e muore a ritmo di 180 bpm e, volendo, vive in stati alterati di coscienza. Succede lo stesso all’elogiato festival Burning Man nel deserto del Nevada, che però costa un salasso, fa profitto. Nei free party c’è tutto di irregolare ma nulla di improvvisato. L’organizzazione è accurata, il montaggio fulmineo, il luogo segreto. Se lo chiedi ad Alexa, non lo sa. La festa non è autorizzata perché, in quanto illegale, sceglie di occupare e autogestire uno spazio, consapevole di illeciti e conseguenze.
Senza confini
Il fenomeno non nacque come adunata casuale di fattoni senza causa, sebbene ogni volta possa diventarlo, essendo aperta a chiunque. Aveva una matrice politica, legata alla lotta per il diritto alla casa, alla critica verso la società industriale, espressa riusando i suoi scarti, ingombrando di corpi e suono fabbriche dismesse, anche di giorno, negli orari della produzione.
Il basso nella cassa toracica e il ballo allo sfinimento su musica elettronica ipercinetica, senza gerarchie, barriere di classe, razza e sesso: un sogno anarchico, evanescente ma ripetibile che si realizzò in Gran Bretagna nei primi anni Novanta, con le TAZ, Zone Temporaneamente Autonome teorizzate dal filosofo Hakim Bey. Per lui luoghi dove si dissolve l’autorità, sottratti al “gangsterismo territoriale”. degli Stati che tassano e chiudono confini, strategia insurrezionale con l’invisibilità come arte marziale: la conquista di una proprietà è un colpo inferto alle strutture di controllo, poi via prima che se ne rendano conto. Non si sfugge solo alla sorveglianza, ci si afferma sparendo.
In quel tempo sospeso, si realizza un’utopia. Illegale, discutibile come ogni utopia, ma reale finché dura. L’idea piacque a raver e traveller - nomadi per scelta e necessità, dato il caro affitti, le politiche thatcheriane di privatizzazione dei servizi e tagli all’assistenza sociale - che confluirono nei free festival creando microcosmi a zonzo.
Gli Spiral Tribe di Londra furono i demiurghi delle Taz, piazzati negli Altrove con sfilze di sound system e un loro sistema valoriale: no profit; no ego; il dj non è la star ma il nocchiero che conduce da dietro i muri di casse; rispetto dell’ambiente e degli altri; uso responsabile delle droghe. Vista l’affluenza, i free party diventarono un problema per le autorità inglesi. Le repressioni della polizia e il Criminal Justice Act del 1994 non fecero che incrementarli, spingendoli a migrare in Europa, aiutandoli ad attuare la loro vocazione nomade e transnazionale.
Chi sono i teknusi?
I festival Free Tekno, in Italia si registrano dal 1993. Da allora, fra alti (le performance sbalorditive della Mutoid Waste Company) e bassi (le giungle moleste e autodistruttive), la festa va. A Pinerolo nel 2007, i teknusi erano trentamila. Dal 2008, secondo molti, la rivoluzione digitale e l’incremento esponenziale di appuntamenti spuri dove si mescolava di tutto hanno generato un’ondata non in linea con principi e leggi non scritte dei free party. Poi nel 2015, anche grazie a libri come Muro di casse (Laterza, 2015) di Vanni Santoni e Rave New World (Agenzia X, 2018) di Tobia D’Onofrio, pare che ai più giovani sia venuta voglia di ispirarsi all’epoca d’oro della scena.
Quant’è cambiata dagli anni Novanta? Ci racconta D’Onofrio, esperto in materia: “Erano più evidenti le connessioni politiche, con l’attivismo dei centri sociali, la forma di protesta degli street party ripresa dai No Global, ma non sono mai sparite. A livello scenografico, nel rave ci si esprimeva più con la giocoleria, oggi con proiettori e videomapping. La segretezza è la stessa di allora, anche se minacciata dai social. L’evento non va esposto, si comunica con passaparola e flyer. L’attesa delle coordinate, la ricerca del luogo, come in una caccia al tesoro, è parte del rituale. Non è cambiata invece la narrazione tossica che si fa del rave. Eppure è l’unico contesto che si fa carico di contenere i possibili danni provocati dalle sostanze stupefacenti, che si assumono a prescindere dai rave. In loco ci sono team di esperti come Lab 57 che testa le sostanze, fa pronto soccorso medico, informa. Un servizio che dovrebbe esistere ovunque”.
Hippie, punk e Giamaica
Resta difficile inquadrare un movimento pieno di sfumature e contraddizioni, che non ama raccontare sé stesso e richiama trasversalmente emarginati, laureati, sballati, sobri, attivisti, disimpegnati, responsabili, inconsapevoli. “Non ho la pretesa di spiegare la cultura rave. Viaggia su molti livelli, ma di base è antisistema, antifascista, antisessista, ecologista, propone un’esperienza di autogestione e condivisione”. dice D’Onofrio. “Per me è un veicolo di cambiamento, le persone possono crescere e trasformarsi nell’arco di una festa. Il suo livello di apertura permette un’esperienza spirituale. Che sia personale o comunitaria, avviene grazie alla collettività che la tiene in piedi. Lo ritengo uno degli ultimi spazi di libertà rispetto alle norme che regolano i rapporti in società. Ad esempio, le relazioni si basano su fiducia, empatia, e non sul denaro. Per me è un aggiornamento della controcultura hippie in era post-atomica, vicino più di altri alle idee di Kerouac e Burroughs”.
Non va sganciata da altre sottoculture giovanili. Le ha assorbite, rimodellate. Si parla con nostalgia di Woodstock e dei Clash, ma non si riesce ancora a infilare nello stesso quadro, con le dovute differenze, i free party, che hanno attinto alla controcultura hippie (concerti improvvisati, esperienze psichedeliche), al punk (filosofia del fai da te, accessibilità a tutti), alle feste mobili giamaicane (reclamanti lo spazio pubblico con i sound). Tutte spinte nate dal conflitto con la cultura dominante, travasi di energie giovanili. E tutte con le loro droghe di riferimento. Lsd, speed, marijuana. La scena rave, associata alla tecnologia e all’espressione sintetica, optò per l’ecstasy, euforizzante e empatogena.
Piaccia o meno il rave, come scrive in Energy Flash. Viaggio nella cultura rave (Arcana) Simon Reynolds, che firma anche la prefazione del recente Full On. Non-Stop. All Over, libro fotografico sulla cultura rave inglese di Matthew Smith, “è il modo in cui abbiamo reso nostro questo tempo”. Che non è finito. Dice D’Onofrio: “Oggi c’è più controllo, profilazione, addomesticamento, quindi la cultura rave, per le sue radici antagoniste, risulta ancora più contemporanea e, per chi la segue, necessaria”.
La Lettura – Corriere della Sera, 22 agosto 2021 Perché i “teknival” seducono i giovani?
«Non ci sono più le feste di una volta». «Il rave è morto!». «Dove sono finiti i valori della free tekno». Litanie, o mantra, che si ripetono ogni anno, almeno finché non rispunta un muro di casse da qualche parte in giro per l’Europa. E certo è che l’Italia dei rave non vedeva un’estate come quella del 2021 da molti anni.
Prima c’è stato Bordel23, a Tavolaia in provincia di Pisa, in cui crew storiche come Kernel Panik, Drop’in Caravan, Sono Pirate Unit, Trackerz e Revolt99 hanno fatto ballare seimila persone per quasi una settimana, dal 2 all’8 luglio. Poi il Teknival Space Travel, appuntamento europeo – c’erano crew anche da Francia, Repubblica Ceca e Spagna – spuntato nei pressi di Pitigliano, al confine con il Lazio, Toscana e Umbria, dove i muri di casse erano addirittura una ventina, senza contare le centinaia di stand gastronomici e di artigianato, tirato su in una notte e scomparso nel nulla dopo una settimana di balli ininterrotti: il teknival era cominciato venerdì 13 agosto e sarebbe dovuto durare fino al 23, ma l’annegamento di Gianluca Santiago, inglese di 24 anni, nel lago di Mezzano nei pressi della festa (sebbene non compreso nel suo perimetro, il territorio è quello del comune di Valentano) e un discreto numero di denunce, ha persuaso gli organizzatori a smontare anzitempo.
Il territorio italiano non vedeva eventi di questa portata da molti anni: si può evocare lo storico teknival di Pinerolo (Torino) dell’estate 2007, quello nel Pavese l’anno precedente o quello nell’ex base Nato di Bassano del Grappa nel 2001. Ancora maggiore, dunque, l’impressione che ha destato il Bordel23 e lo Space Travel, considerata anche la capacità ingegneristica degli organizzatori: oltre ai ragguardevoli impianti audio, gli stage erano dotati di aree bar, laser show, videomapping in 3D, zone chill-out e spazi per la ristorazione attrezzati con forni a legna, spine e friggitorie.
Vale la pena capire cos’è successo nel frattempo, dato che questo ritorno in pompa magna segue un lungo riflusso, il cui inizio si può datare intorno al 2008 e di cui si è cominciata a vedere la fine dal 2015. Tra i primi anni Zero e il 2008, infatti, la cultura free party (questo il termine corretto, laddove rave in dica in realtà i primi eventi inglesi anni Novanta, a base di musica acid house) da nicchia sotterranea è diventata fenomeno di massa, con eventi di migliaia di persone, prima piuttosto rari, che sono cominciati a spuntare con una certa frequenza. La conseguenza è stata l’afflusso di masse di persone che con la cultura free tekno e i suoi valori libertari poco avevano a che spartire, e quindi episodi di violenza, alcolismo molesto e abuso di sostanze diverse da quelle tradizionalmente utilizzate dai raver.
L’utopia tekno free, nata dall’incrocio tra il nomadismo degli hippie, il do it yourself del punk e l’idea di «festa mobile» dei soundsystem reggae, si fondava su entactogeni come l’Mdma (sintetizzata dalla pianta di sassofrasso, la sostanza ha una storia d’uso come coadiuvante alla psicoterapia), psichedelici com L’Lsd e dissociativi come la ketamina, m droghe pesanti come crack ed eroina erano bandite. Dal 2008 il quadro cambia: le droghe pesanti si vendono eccome; al chiuso dei camper si intuiscono sempre più spesso ragazzi alle prese con le bottigliette con cui si fuma il crack, le strutture di riduzione del danno si ritrovano a distribuire siringhe sterili, e anche le classiche bottigliette d’acqua iniziano a lasciare sempre più il campo ai superalcolici. Qualcuno comincia a sentirsi male, a volte finisce in tragedia – un ragazzo muore per un mix di sostanze e alcol a Segrate nel 2008; una ragazza nel Salento l’anno successivo – e stigma e repressione crescono di conseguenza. In parallelo a questo, il clima stesso dei free party peggiora: se un tempo si vedevano spettacoli di pirotecnica, sculture create con materiali riciclati, artigianato e acrobati, e anche i generi musicali presenti erano piuttosto variati, negli «anni bui» tra il 2008 e il 2015 le feste sono sovente costituite soltanto da un muro che spara tribe tekno (uno dei generi più duri e veloci nello spettro della musica elettronica) a ogni ora del giorno e della notte.
Non è allora un caso se proprio in quel periodo diversi raver si spostano sui festival goa, eventi in cui si paga il biglietto, non c’è rischio di sgombero e la musica suonata è la psytrance, mentre altri… si chiudono in casa a scrivere: la percezione diffusa era che il movimento rave fosse finito e che fosse dunque venuto il momento di fare il punto, di storicizzare.
Fino ad allora esisteva un solo libro italiano sul tema, Free party di Francesco Macarone Palmieri, uscito nel 2002 per Meltemi e dedicato per lo più alla primissima scena romana. Nel 2015 escono, oltre a Muro di casse, firmato da chi scrive (Laterza), Rave new world di Tobia D’Onofrio (Agenzia X), saggio d’impronta sociologica che traccia una storia completa del primo decennio di cultura rave e Tekno Free Doom di Syd B. (NoBook), romanzo-reportage intimista tra free party e teknival. Nel 2017 è la volta di Once were ravers, per Agenzia X, autofiction del dj Pablito el Drito, che pubblicherà per lo stesso editore anche, nel 2018, serie di interviste ai protagonisti italiano. Nel 2020 arrivano il saggio antropologico Lo spettro di Dionisio nell’underground di Matteo Colombani (Mimesis) e Mutate or die di Rote Zora (Agenzia X), che racconta l’epopea dei Mutoid Waste Company, storica tribù di costruttori di strutture e mezzi «mutanti». Inevitabile, lo stesso anno, anche la ristampa, da parte delle edizioni ShaKe, di T.A.Z. – Zone temporaneamente autonome del filosofo Hakim Bey, la bibbia teorica del movimento, cos’ come quella, nel 2021, per Jouvence, del classico saggio Dallo sciamano ail raver dell’etnologo Georges Lapassade. Quest’anno è arrivato anche il fumetto, em=""> di Roberto Grossi (Coconino), che racconta di nuovo gli albori della scena tekno romana.
Viene il dubbio, a vedere il livello di sviluppo tecnico e tecnologico di installazioni e stand all’ultimo teknival ma anche l’atteggiamento dei partecipanti, che le nuove generazioni di raver, cresciute nel mito di feste di cui avevano letto solo nei libri, abbia introiettato proprio quei valori della free tekno che la generazione successiva ai fondatori aveva perduto (c’erano addirittura sacchi pe la differenziata!). Di certo, di fronte a uno spettacolo strabiliante come quello offerto da un teknival (le narrazioni superficiali sbattono sempre un paradosso: perché migliaia di persone dovrebbero fare migliaia di chilometri per qualcosa di brutto?), è difficile immaginare che i più giovani possano andarsene da lì senza il desiderio di replicare l’esperienza.
Così, tra alti e bassi, e nonostante incidenti e repressione, ka free tekno viene a dirci che è qui per restare: forse non più controcultura in senso pieno (chi ha mai visto una controcultura che dura trent’anni invece di cinque?) ma di certo ormai prassi dell’aggregazione giovanile, al pari di concerti e altri raduni.
Tale passaggio non deve tuttavia fare dimenticare la specificità del free party: a un contesto di totale libertà, deve corrispondere anche un’assunzione – quella sì, radicale – di responsabilità individuale.
di Vanni SantoniPrima c’è stato Bordel23, a Tavolaia in provincia di Pisa, in cui crew storiche come Kernel Panik, Drop’in Caravan, Sono Pirate Unit, Trackerz e Revolt99 hanno fatto ballare seimila persone per quasi una settimana, dal 2 all’8 luglio. Poi il Teknival Space Travel, appuntamento europeo – c’erano crew anche da Francia, Repubblica Ceca e Spagna – spuntato nei pressi di Pitigliano, al confine con il Lazio, Toscana e Umbria, dove i muri di casse erano addirittura una ventina, senza contare le centinaia di stand gastronomici e di artigianato, tirato su in una notte e scomparso nel nulla dopo una settimana di balli ininterrotti: il teknival era cominciato venerdì 13 agosto e sarebbe dovuto durare fino al 23, ma l’annegamento di Gianluca Santiago, inglese di 24 anni, nel lago di Mezzano nei pressi della festa (sebbene non compreso nel suo perimetro, il territorio è quello del comune di Valentano) e un discreto numero di denunce, ha persuaso gli organizzatori a smontare anzitempo.
Il territorio italiano non vedeva eventi di questa portata da molti anni: si può evocare lo storico teknival di Pinerolo (Torino) dell’estate 2007, quello nel Pavese l’anno precedente o quello nell’ex base Nato di Bassano del Grappa nel 2001. Ancora maggiore, dunque, l’impressione che ha destato il Bordel23 e lo Space Travel, considerata anche la capacità ingegneristica degli organizzatori: oltre ai ragguardevoli impianti audio, gli stage erano dotati di aree bar, laser show, videomapping in 3D, zone chill-out e spazi per la ristorazione attrezzati con forni a legna, spine e friggitorie.
Vale la pena capire cos’è successo nel frattempo, dato che questo ritorno in pompa magna segue un lungo riflusso, il cui inizio si può datare intorno al 2008 e di cui si è cominciata a vedere la fine dal 2015. Tra i primi anni Zero e il 2008, infatti, la cultura free party (questo il termine corretto, laddove rave in dica in realtà i primi eventi inglesi anni Novanta, a base di musica acid house) da nicchia sotterranea è diventata fenomeno di massa, con eventi di migliaia di persone, prima piuttosto rari, che sono cominciati a spuntare con una certa frequenza. La conseguenza è stata l’afflusso di masse di persone che con la cultura free tekno e i suoi valori libertari poco avevano a che spartire, e quindi episodi di violenza, alcolismo molesto e abuso di sostanze diverse da quelle tradizionalmente utilizzate dai raver.
L’utopia tekno free, nata dall’incrocio tra il nomadismo degli hippie, il do it yourself del punk e l’idea di «festa mobile» dei soundsystem reggae, si fondava su entactogeni come l’Mdma (sintetizzata dalla pianta di sassofrasso, la sostanza ha una storia d’uso come coadiuvante alla psicoterapia), psichedelici com L’Lsd e dissociativi come la ketamina, m droghe pesanti come crack ed eroina erano bandite. Dal 2008 il quadro cambia: le droghe pesanti si vendono eccome; al chiuso dei camper si intuiscono sempre più spesso ragazzi alle prese con le bottigliette con cui si fuma il crack, le strutture di riduzione del danno si ritrovano a distribuire siringhe sterili, e anche le classiche bottigliette d’acqua iniziano a lasciare sempre più il campo ai superalcolici. Qualcuno comincia a sentirsi male, a volte finisce in tragedia – un ragazzo muore per un mix di sostanze e alcol a Segrate nel 2008; una ragazza nel Salento l’anno successivo – e stigma e repressione crescono di conseguenza. In parallelo a questo, il clima stesso dei free party peggiora: se un tempo si vedevano spettacoli di pirotecnica, sculture create con materiali riciclati, artigianato e acrobati, e anche i generi musicali presenti erano piuttosto variati, negli «anni bui» tra il 2008 e il 2015 le feste sono sovente costituite soltanto da un muro che spara tribe tekno (uno dei generi più duri e veloci nello spettro della musica elettronica) a ogni ora del giorno e della notte.
Non è allora un caso se proprio in quel periodo diversi raver si spostano sui festival goa, eventi in cui si paga il biglietto, non c’è rischio di sgombero e la musica suonata è la psytrance, mentre altri… si chiudono in casa a scrivere: la percezione diffusa era che il movimento rave fosse finito e che fosse dunque venuto il momento di fare il punto, di storicizzare.
Fino ad allora esisteva un solo libro italiano sul tema, Free party di Francesco Macarone Palmieri, uscito nel 2002 per Meltemi e dedicato per lo più alla primissima scena romana. Nel 2015 escono, oltre a Muro di casse, firmato da chi scrive (Laterza), Rave new world di Tobia D’Onofrio (Agenzia X), saggio d’impronta sociologica che traccia una storia completa del primo decennio di cultura rave e Tekno Free Doom di Syd B. (NoBook), romanzo-reportage intimista tra free party e teknival. Nel 2017 è la volta di Once were ravers, per Agenzia X, autofiction del dj Pablito el Drito, che pubblicherà per lo stesso editore anche
Viene il dubbio, a vedere il livello di sviluppo tecnico e tecnologico di installazioni e stand all’ultimo teknival ma anche l’atteggiamento dei partecipanti, che le nuove generazioni di raver, cresciute nel mito di feste di cui avevano letto solo nei libri, abbia introiettato proprio quei valori della free tekno che la generazione successiva ai fondatori aveva perduto (c’erano addirittura sacchi pe la differenziata!). Di certo, di fronte a uno spettacolo strabiliante come quello offerto da un teknival (le narrazioni superficiali sbattono sempre un paradosso: perché migliaia di persone dovrebbero fare migliaia di chilometri per qualcosa di brutto?), è difficile immaginare che i più giovani possano andarsene da lì senza il desiderio di replicare l’esperienza.
Così, tra alti e bassi, e nonostante incidenti e repressione, ka free tekno viene a dirci che è qui per restare: forse non più controcultura in senso pieno (chi ha mai visto una controcultura che dura trent’anni invece di cinque?) ma di certo ormai prassi dell’aggregazione giovanile, al pari di concerti e altri raduni.
Tale passaggio non deve tuttavia fare dimenticare la specificità del free party: a un contesto di totale libertà, deve corrispondere anche un’assunzione – quella sì, radicale – di responsabilità individuale.
Film Tv Rewind, ottobre 2019 Berlinunderground
Mentre in tutto l’occidente imperversano nuove tendenze della musica elettronica, a Berlino est gli ascolti sono spesso clandestini. Finché nel 1984 un film sulla break dance, Beat Street, non viene sbloccato dalla STASI perché considerato “anti imperialista”. È la prima scossa che porterà la città a riunirsi musicalmente, fino a diventare una delle capitali internazionali della dance e della techno.
[…]
Parallelamente, un’altra tendenza si muoveva oltreoceano: la techno di Detroit. Ai campionamenti acustici si sostituivano i sintetizzatori, scompariva il soul per lasciare spazio a suoni freddi e fantascientifici, calibrati per ridefinire i sentimenti che fabbriche e altri luoghi spersonalizzanti potevano evocare. Erano comunque generi destinati negli Usa a minoranze sociali, nere e omosessuali, come scrive Tobia D’Onofrio nel suo libro Rave new world. L’ultima controcultura (Agenzia X). L’approdo di queste musiche in Europa, spiega D’Onofrio, aveva però portato a un salto diverso, che andava oltre lo scenario statunitense e poteva intendersi come un’evoluzione dallo stato di subcultura a quello di controcultura. Da nicchia dei party americani, questa dance edonista e tecnologica diventa in Europa uno strumento di rivalsa politica, un’enorme moda giovanile sotterranea. In Inghilterra, nel 1988, in seguito alla recessione economica e alla dura politica di Margaret Thatcher, spopolava tra i giovani l’acid house, unita al consumo di ecstasy, in un movimento rave in grande espansione. La techno, invece, s’insinuava lentamente nelle pieghe di una Berlino pre-89, in bilico tra industrial, post punk e mondi in disgregazione.
[…]
di Matteo Bailo[…]
Parallelamente, un’altra tendenza si muoveva oltreoceano: la techno di Detroit. Ai campionamenti acustici si sostituivano i sintetizzatori, scompariva il soul per lasciare spazio a suoni freddi e fantascientifici, calibrati per ridefinire i sentimenti che fabbriche e altri luoghi spersonalizzanti potevano evocare. Erano comunque generi destinati negli Usa a minoranze sociali, nere e omosessuali, come scrive Tobia D’Onofrio nel suo libro Rave new world. L’ultima controcultura (Agenzia X). L’approdo di queste musiche in Europa, spiega D’Onofrio, aveva però portato a un salto diverso, che andava oltre lo scenario statunitense e poteva intendersi come un’evoluzione dallo stato di subcultura a quello di controcultura. Da nicchia dei party americani, questa dance edonista e tecnologica diventa in Europa uno strumento di rivalsa politica, un’enorme moda giovanile sotterranea. In Inghilterra, nel 1988, in seguito alla recessione economica e alla dura politica di Margaret Thatcher, spopolava tra i giovani l’acid house, unita al consumo di ecstasy, in un movimento rave in grande espansione. La techno, invece, s’insinuava lentamente nelle pieghe di una Berlino pre-89, in bilico tra industrial, post punk e mondi in disgregazione.
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Prima Pagina di Radio 3, 15 maggio 2019 Europa: scenari futuri
Tobia D'Onofrio è un antropologo che da anni lavora sulla ritualità che caratterizza i rave party. I contenuti della sua ricerca, edita da Agenzia X, è al centro di un articolo pubblicato su "A-Rivista Anarchica".
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A-Rivista anarchica, maggio 2019 La lotta per il diritto alla festa. Storia del movimento rave
Nell’arco di un trentennio, la scena dei rave e del movimento free tekno ha forgiato nei circuiti underground generi musicali innovativi come jungle, grime, dubstep. Nonostante la natura utopica, questa cultura pirata, tra azione diretta, neotribalismo e cyberpunk, si è concretizzata in un crogiolo di istanze politico-esistenziali, unendo in una danza collettiva sognatori di comunità liberate, sperimentazione artistica, lotte per i diritti dei gay e controvertici.
Il libro di Tobia D’Onofrio, Rave new world (Agenzia X, nuova edizione 2018) raccoglie le testimonianze e gli spunti più interessanti degli studiosi e dei protagonisti a livello internazionale, offrendo al lettore un’inedita panoramica storica che include le numerose idee realizzate, i punti critici e le possibili prospettive di una delle ultime controculture. Ci siamo incontrati per discutere quelli che secondo me sono i temi centrali della sua ricerca.
Da antropologo sono molto interessato ai rituali della cultura underground, nel tuo libro analizzi in un interessante paragrafo la ritualizzazione nel mondo raver. Puoi approfondire questa tematica?
Ci sono alcuni rituali che sono necessari affinché la magia della festa rave funzioni al punto di generare nella mente del raver una sorta di epifania, che spesso coincide con l’incontro con la trance, che è un particolare stato alterato di coscienza, un’esperienza totalizzante. Ho scoperto, ad esempio, dopo anni di rave, che è impossibile riprovare le stesse emozioni e sensazioni all’interno di una discoteca. I motivi sono molteplici e legati probabilmente alle aspettative del soggetto, al set and setting, fino alla presenza inibente dei buttafuori, ai drastici orari di chiusura, ma forse il più importante di tutti è che manca la caccia al tesoro per scoprire dov’è la festa segreta: la rituale attesa in compagnia di amici, di sabato sera, il passaparola, il trillo di telefoni, i preparativi, la scelta di vestiti creativi e adatti ad affrontare l’apocalisse, la carovana di macchine e camion tra le campagne o nelle zone industriali, la ricerca sempre inebriante del capannone in cui si terrà la festa, il tutto vissuto con l’imprevisto sempre dietro l’angolo. Questa parte del rituale rave è quella fondamentale in cui la coscienza inizia a destrutturarsi, predisponendosi al salto nella trance che avverrà più tardi sulla pista da ballo. Ma andando a scavare ancora più in profondità, potremmo dire che tutto, nello spazio rave, viene poi ritualizzato: l’assunzione di sostanze psicoattive diviene spesso e volentieri una cerimonia collettiva di piccoli gruppi di affinità; montare il sound system e le scenografie è anch’esso un rituale a cui è dedita la tribù che organizza la festa; ripulire lo spazio dall’immondizia alla fine del party è un altro momento collettivo intenso che di solito coinvolge buona parte dei partecipanti e aiuta nella ristrutturazione della coscienza; la danza liberatoria sotto il muro di casse è quasi sempre una celebrazione tra amici ci e creature simili consapevoli di condividere un mondo segreto “altro”, precluso ai più.
Quali sono gli antenati di questo movimento? Ci sono dei riferimenti? Ci puoi fare una panoramica quasi archeologica?
Partendo dall’esplosione della acid house inglese di fine anni ‘80, che rappresenta la miccia che ha fatto esplodere il fenomeno rave per come lo conosciamo oggi, si può procedere a ritroso, sempre nel Regno Unito, incontrando i free festival organizzati nelle campagne dai traveller nomadi, che dagli anni ‘70 fino al 1985, ogni estate si riunivano per settimane attorno al circolo dei megaliti di Stonehenge, danzando al ritmo della psichedelia ipnotica degli Hawkwind e del punk rock di Clash e Crass. Poi troviamo alcune emanazioni della cultura punk/industrial dei primi anni ‘80 e infine la nascita di house e techno in America negli anni ‘70, fino a risalire ai primi circoli privati di musica disco. Stiamo parlando di musica con presenza di beat ripetitivi, ideale per ricercare la trance nel ballo e a questo punto includerei nell’elenco alcuni festival anni ‘60 a base di musica beat/rock psichedelica. Tornando ancora indietro nei decenni, fino agli anni ‘50 in Salento incontriamo la tradizione del tarantismo che ruotava attorno al ballo della pizzica, una sorta di danza di possessione che coinvolgeva intere comunità, anche qui per giorni. In altre parti del globo si ritrovano cerimonie collettive di trance e possessione nelle danze degli Gnawa in Marocco, nello stambeli in Tunisia, nel vudù in varie parti dell’Africa e dell’America, nelle cerimonie tradizionali sudamericane con l’hayahuasca, nella macumba brasiliana e così via fino ad arrivare all’antica Grecia con le celebrazioni dei culti bacchici e dionisiaci e dei cosiddetti Misteri, in particolare quelli eleusini che, a detta di autorevoli testimoni come Platone, Aristotele e Cicerone, duravano per giorni, riunivano migliaia di persone tra musica, danze e sostanze psicoattive. L’iniziato avrebbe dovuto mantenere il segreto su quanto appreso, anche lì una sorta di epifania, ovvero una visione estatica che lo avrebbe liberato dal timore della morte.
Una via d’uscita al sistema
Che influenza hanno avuto la teorizzazione di Hakim Bey e il suo libro TAZ su questi movimenti?
Credo che specialmente nel nostro paese l’influenza sia stata enorme. Già nei primi anni ‘90 in alcune realtà italiane di provincia, lo spazio underground dei centri sociali era già saturo, oppure era già stato in qualche modo neutralizzato dal sistema, al punto da non rappresentare più una reale alternativa. Per un adolescente alla ricerca di avventure, invece, con in mente l’idea di un totale drop-out dalla società, l’idea di una forza collettiva in grado di dileguarsi e riapparire al momento opportuno era proprio una salvezza, oltre che nuova strategia di lotta. La TAZ rappresentava la via d’uscita da un sistema di repressione che andava a toccare le occupazioni illegali e il camper/casa mobile era la soluzione logistica ideale per chi celebrava il nomadismo psichico, prima ancora che fisico. Si parlava di una scena e una prospettiva internazionaliste. Era, ed è stata per molti, la via della liberazione dal capitalismo globalista. Fu questa la visione rivoluzionaria di Hakim Bey, oltre ad aver annunciato la rivoluzione telematica in arrivo e indicato la strada della lotta per il diritto alla festa. E gli esempi che venivano offerti nel libro come ispirazione non erano niente male: “i raduni tribalisti stile anni Sessanta, i conclavi forestali degli eco-sabotatori, l’idillico Beltane dei neo-pagani, le conferenze anarchiche, i circoli gay fairy… Le feste in affitto di Harlem degli anni Venti, nightclub, banchetti, i vecchi picnic libertari, dovremmo capire che tutte queste sono già “zone liberate”, o almeno potenziali TAZ.
Crescita e commercializzazione
Parlo di movimenti perché non possiamo usare il singolare, concordi? Ci puoi raccontare qualche differenza che si è mossa all’interno della grande casa dei raver?
La frammentazione sociale prodotta dal sistema in cui viviamo non poteva non colpire anche il movimento dei raver. Varie spaccature si sono create nella scena nel corso degli anni, prima di tutto per questioni strettamente musicali, visto il continuo ingresso sulla scena di generi sempre nuovi, dall’hardcore alla jungle, dalla drum’n’bass al dubstep, ognuno che si portava dietro un immaginario ben definito con dei codici di vestiario, di comportamento, eccetera. Il tormentone di questi ultimi anni, per farti un esempio, è quello della divisione techno con la “h” contro tekno con la “k”. Grossomodo, diciamo che la tekno è quella più underground e massimalista dei rave, mentre la techno è quella più hipster e minimale che va per la maggiore nei club. Allo stesso modo, negli anni ‘90 c’era questo neanche troppo celato snobismo da parte dei raver che vivevano su quattro ruote nei confronti dei raver che vivevano in case occupate, considerati meno “tosti”. Fino ai primi anni del duemila, inoltre, la scena era totalmente spersonalizzata e i dj non avevano neanche nomi d’arte. Con la crescita e la commercializzazione del fenomeno, invece, molti hanno cominciato a tenere i piedi in due scarpe e suppongo che l’ingresso del fattore economico/lavorativo non abbia fatto bene al movimento. Anche le droghe hanno creato divisione, penso alla fine degli anni ‘90 quando in Inghilterra alcune tribe tentavano di organizzare party senza ketamina, perché ritenevano che avesse distrutto la vibrazione positiva dell’ecstasy… Infine una grossa spaccatura è quella che ha diviso, seppur non in compartimenti totalmente stagni, la scena dei classici teknival ille-gali (i grossi festival con più sound system che suonano anche generi differenti) da quella dei festival psytrance, o goa-trance, più fricchettona, più solare, se vogliamo, almeno nella scelta delle scenografie e delle musiche, ma forse anche meno nichilista e più “consapevole” in merito all’utilizzo di sostanze.
Tarantismo e ballo della pizzica
Eccoci al tema che non poteva mancare, che rapporto c’è tra sostanze, musica e questa controcultura? Nel tuo testo parli di riduzione del danno...
Per quanto abbia conosciuto molti raver che non fanno uso di droghe, è fuori da ogni dubbio il ruolo fondamentale che queste hanno come acceleratore del processo di trance. Credo che quella dell’approccio responsabile alle sostanze sia un’eredità degli hippy degli anni ‘60. Anche nei party londinesi di fine anni ‘90, in cui si respirava un’atmosfera molto dark e violenta, i banchetti di riduzione del danno con foglietti informativi sulle sostanze, o le cartine al tornasole per testare le pastiglie di ecstasy, erano spesso offerti dai freak del Rainbow Gathering. Sembra paradossale che pratiche salvavita collaudate a livello internazionale siano ancora criminalizzate qui da noi in Italia. Nel libro ho fatto una panoramica insieme a Max del Lab57 di Bologna per evidenziare quanto sia importante la libertà d’informazione in questi contesti. Per fortuna in Italia gruppi di coraggiosi volontari continuano a svolgere un lavoro prezioso almeno sulla scena dei rave illegali.
Come ti sei mosso per la ricerca sul campo? Quanto eri o sei coinvolto in questo movimento? Come hai strutturato le interviste?
Dalla fine degli anni ‘90 sono stato coinvolto nel movimento, specialmente negli anni degli squat londinesi, fino al 2007. Poi mi sono allontanato dalle feste illegali per ricominciare a frequentarle qualche anno fa. Quello che avevo in testa erano anni di ricordi annebbiati e parlare con i vecchi amici è stato il primo passo per riattivare la memoria. Mi ero riaccostato alla musica elettronica dalla porta del giornalismo musicale e la prima intervista la feci ad Alec Empire degli Atari Teenage Riot dopo un concerto a Milano. Gli dissi che volevo scrivere un articolo che raccontava dell’esodo del movimento rave dall’Inghilterra al resto dell’Europa. Poi è rimasto nel cassetto per un annetto, fino a quando ho proposto a Philopat di scrivere un libro con Agenzia X. Così ho iniziato a contattare gli Spiral Tribe e le persone che ritenevo testimoni importanti, a partire dai Mutoid che sono andato a trovare a Santarcangelo, fino al critico Simon Reynolds, raver della prima ora, del quale avevo già il contatto mail per un’intervista di qualche anno prima. Volevo intervistare anche il prof. Piero Fumarola, sociologo e compagno di ricerche di Georges Lapassade, protagonisti della stagione dei rave in Italia che ebbi modo di conoscere in Salento a metà anni ‘90, quando teorizzarono e lanciarono la cosiddetta techno-pizzica. Ma lui mi ha fatto piuttosto da guida spirituale fornendomi consigli preziosi e diversi libri da leggere dalla sua biblioteca. Avevo intenzione di sviscerare ogni aspetto dell’esperienza rave. Ho cercato di coinvolgere molti amici, ma è stato impossibile convincerli tutti a partecipare al libro, anche perché c’è gente che ha cambiato totalmente vita e non ha voglia di guardare indietro.
L’avvento del digitale
Il movimento rave è morto? Se non lo è, cosa è cambiato?
È vivo e vegeto. Ci sono ancora rave bellissimi, non tutti ovviamente, ma purtroppo gli impegni di lavoro non mi permettono di parteciparvi con l’assiduità di un tempo. Molti personaggi della vecchia guardia sono ormai impegnati lavorativamente nei festival di mezzo mondo. I giovani, invece, hanno sempre più sete di feste illegali. Purtroppo a volte è necessario spiegar loro che non dovrebbero postare i video del rave in diretta su facebook. L’avvento del digitale, oltretutto, ha stroncato il fiorente mercato di vinili e cassette autoprodotti. Un limite di molte feste odierne, forse, risiede nel fatto che il format, ormai collaudatissimo, sia una sorta di upgrade potenziato del classico teknival anni ‘90. È un po’ come se non fosse rimasto molto altro da inventare e spesso manca l’aspetto performativo dirompente. Come se lo sguardo fosse comunque volto indietro a ricercare i momenti d’oro, anziché essere proiettato in avanti, a immaginare un nuovo futuro, un rave totalmente altro, folle e imprevedibile, come quando ancora questa controcultura non era stata decodificata.
di Andrea StaidIl libro di Tobia D’Onofrio, Rave new world (Agenzia X, nuova edizione 2018) raccoglie le testimonianze e gli spunti più interessanti degli studiosi e dei protagonisti a livello internazionale, offrendo al lettore un’inedita panoramica storica che include le numerose idee realizzate, i punti critici e le possibili prospettive di una delle ultime controculture. Ci siamo incontrati per discutere quelli che secondo me sono i temi centrali della sua ricerca.
Da antropologo sono molto interessato ai rituali della cultura underground, nel tuo libro analizzi in un interessante paragrafo la ritualizzazione nel mondo raver. Puoi approfondire questa tematica?
Ci sono alcuni rituali che sono necessari affinché la magia della festa rave funzioni al punto di generare nella mente del raver una sorta di epifania, che spesso coincide con l’incontro con la trance, che è un particolare stato alterato di coscienza, un’esperienza totalizzante. Ho scoperto, ad esempio, dopo anni di rave, che è impossibile riprovare le stesse emozioni e sensazioni all’interno di una discoteca. I motivi sono molteplici e legati probabilmente alle aspettative del soggetto, al set and setting, fino alla presenza inibente dei buttafuori, ai drastici orari di chiusura, ma forse il più importante di tutti è che manca la caccia al tesoro per scoprire dov’è la festa segreta: la rituale attesa in compagnia di amici, di sabato sera, il passaparola, il trillo di telefoni, i preparativi, la scelta di vestiti creativi e adatti ad affrontare l’apocalisse, la carovana di macchine e camion tra le campagne o nelle zone industriali, la ricerca sempre inebriante del capannone in cui si terrà la festa, il tutto vissuto con l’imprevisto sempre dietro l’angolo. Questa parte del rituale rave è quella fondamentale in cui la coscienza inizia a destrutturarsi, predisponendosi al salto nella trance che avverrà più tardi sulla pista da ballo. Ma andando a scavare ancora più in profondità, potremmo dire che tutto, nello spazio rave, viene poi ritualizzato: l’assunzione di sostanze psicoattive diviene spesso e volentieri una cerimonia collettiva di piccoli gruppi di affinità; montare il sound system e le scenografie è anch’esso un rituale a cui è dedita la tribù che organizza la festa; ripulire lo spazio dall’immondizia alla fine del party è un altro momento collettivo intenso che di solito coinvolge buona parte dei partecipanti e aiuta nella ristrutturazione della coscienza; la danza liberatoria sotto il muro di casse è quasi sempre una celebrazione tra amici ci e creature simili consapevoli di condividere un mondo segreto “altro”, precluso ai più.
Quali sono gli antenati di questo movimento? Ci sono dei riferimenti? Ci puoi fare una panoramica quasi archeologica?
Partendo dall’esplosione della acid house inglese di fine anni ‘80, che rappresenta la miccia che ha fatto esplodere il fenomeno rave per come lo conosciamo oggi, si può procedere a ritroso, sempre nel Regno Unito, incontrando i free festival organizzati nelle campagne dai traveller nomadi, che dagli anni ‘70 fino al 1985, ogni estate si riunivano per settimane attorno al circolo dei megaliti di Stonehenge, danzando al ritmo della psichedelia ipnotica degli Hawkwind e del punk rock di Clash e Crass. Poi troviamo alcune emanazioni della cultura punk/industrial dei primi anni ‘80 e infine la nascita di house e techno in America negli anni ‘70, fino a risalire ai primi circoli privati di musica disco. Stiamo parlando di musica con presenza di beat ripetitivi, ideale per ricercare la trance nel ballo e a questo punto includerei nell’elenco alcuni festival anni ‘60 a base di musica beat/rock psichedelica. Tornando ancora indietro nei decenni, fino agli anni ‘50 in Salento incontriamo la tradizione del tarantismo che ruotava attorno al ballo della pizzica, una sorta di danza di possessione che coinvolgeva intere comunità, anche qui per giorni. In altre parti del globo si ritrovano cerimonie collettive di trance e possessione nelle danze degli Gnawa in Marocco, nello stambeli in Tunisia, nel vudù in varie parti dell’Africa e dell’America, nelle cerimonie tradizionali sudamericane con l’hayahuasca, nella macumba brasiliana e così via fino ad arrivare all’antica Grecia con le celebrazioni dei culti bacchici e dionisiaci e dei cosiddetti Misteri, in particolare quelli eleusini che, a detta di autorevoli testimoni come Platone, Aristotele e Cicerone, duravano per giorni, riunivano migliaia di persone tra musica, danze e sostanze psicoattive. L’iniziato avrebbe dovuto mantenere il segreto su quanto appreso, anche lì una sorta di epifania, ovvero una visione estatica che lo avrebbe liberato dal timore della morte.
Una via d’uscita al sistema
Che influenza hanno avuto la teorizzazione di Hakim Bey e il suo libro TAZ su questi movimenti?
Credo che specialmente nel nostro paese l’influenza sia stata enorme. Già nei primi anni ‘90 in alcune realtà italiane di provincia, lo spazio underground dei centri sociali era già saturo, oppure era già stato in qualche modo neutralizzato dal sistema, al punto da non rappresentare più una reale alternativa. Per un adolescente alla ricerca di avventure, invece, con in mente l’idea di un totale drop-out dalla società, l’idea di una forza collettiva in grado di dileguarsi e riapparire al momento opportuno era proprio una salvezza, oltre che nuova strategia di lotta. La TAZ rappresentava la via d’uscita da un sistema di repressione che andava a toccare le occupazioni illegali e il camper/casa mobile era la soluzione logistica ideale per chi celebrava il nomadismo psichico, prima ancora che fisico. Si parlava di una scena e una prospettiva internazionaliste. Era, ed è stata per molti, la via della liberazione dal capitalismo globalista. Fu questa la visione rivoluzionaria di Hakim Bey, oltre ad aver annunciato la rivoluzione telematica in arrivo e indicato la strada della lotta per il diritto alla festa. E gli esempi che venivano offerti nel libro come ispirazione non erano niente male: “i raduni tribalisti stile anni Sessanta, i conclavi forestali degli eco-sabotatori, l’idillico Beltane dei neo-pagani, le conferenze anarchiche, i circoli gay fairy… Le feste in affitto di Harlem degli anni Venti, nightclub, banchetti, i vecchi picnic libertari, dovremmo capire che tutte queste sono già “zone liberate”, o almeno potenziali TAZ.
Crescita e commercializzazione
Parlo di movimenti perché non possiamo usare il singolare, concordi? Ci puoi raccontare qualche differenza che si è mossa all’interno della grande casa dei raver?
La frammentazione sociale prodotta dal sistema in cui viviamo non poteva non colpire anche il movimento dei raver. Varie spaccature si sono create nella scena nel corso degli anni, prima di tutto per questioni strettamente musicali, visto il continuo ingresso sulla scena di generi sempre nuovi, dall’hardcore alla jungle, dalla drum’n’bass al dubstep, ognuno che si portava dietro un immaginario ben definito con dei codici di vestiario, di comportamento, eccetera. Il tormentone di questi ultimi anni, per farti un esempio, è quello della divisione techno con la “h” contro tekno con la “k”. Grossomodo, diciamo che la tekno è quella più underground e massimalista dei rave, mentre la techno è quella più hipster e minimale che va per la maggiore nei club. Allo stesso modo, negli anni ‘90 c’era questo neanche troppo celato snobismo da parte dei raver che vivevano su quattro ruote nei confronti dei raver che vivevano in case occupate, considerati meno “tosti”. Fino ai primi anni del duemila, inoltre, la scena era totalmente spersonalizzata e i dj non avevano neanche nomi d’arte. Con la crescita e la commercializzazione del fenomeno, invece, molti hanno cominciato a tenere i piedi in due scarpe e suppongo che l’ingresso del fattore economico/lavorativo non abbia fatto bene al movimento. Anche le droghe hanno creato divisione, penso alla fine degli anni ‘90 quando in Inghilterra alcune tribe tentavano di organizzare party senza ketamina, perché ritenevano che avesse distrutto la vibrazione positiva dell’ecstasy… Infine una grossa spaccatura è quella che ha diviso, seppur non in compartimenti totalmente stagni, la scena dei classici teknival ille-gali (i grossi festival con più sound system che suonano anche generi differenti) da quella dei festival psytrance, o goa-trance, più fricchettona, più solare, se vogliamo, almeno nella scelta delle scenografie e delle musiche, ma forse anche meno nichilista e più “consapevole” in merito all’utilizzo di sostanze.
Tarantismo e ballo della pizzica
Eccoci al tema che non poteva mancare, che rapporto c’è tra sostanze, musica e questa controcultura? Nel tuo testo parli di riduzione del danno...
Per quanto abbia conosciuto molti raver che non fanno uso di droghe, è fuori da ogni dubbio il ruolo fondamentale che queste hanno come acceleratore del processo di trance. Credo che quella dell’approccio responsabile alle sostanze sia un’eredità degli hippy degli anni ‘60. Anche nei party londinesi di fine anni ‘90, in cui si respirava un’atmosfera molto dark e violenta, i banchetti di riduzione del danno con foglietti informativi sulle sostanze, o le cartine al tornasole per testare le pastiglie di ecstasy, erano spesso offerti dai freak del Rainbow Gathering. Sembra paradossale che pratiche salvavita collaudate a livello internazionale siano ancora criminalizzate qui da noi in Italia. Nel libro ho fatto una panoramica insieme a Max del Lab57 di Bologna per evidenziare quanto sia importante la libertà d’informazione in questi contesti. Per fortuna in Italia gruppi di coraggiosi volontari continuano a svolgere un lavoro prezioso almeno sulla scena dei rave illegali.
Come ti sei mosso per la ricerca sul campo? Quanto eri o sei coinvolto in questo movimento? Come hai strutturato le interviste?
Dalla fine degli anni ‘90 sono stato coinvolto nel movimento, specialmente negli anni degli squat londinesi, fino al 2007. Poi mi sono allontanato dalle feste illegali per ricominciare a frequentarle qualche anno fa. Quello che avevo in testa erano anni di ricordi annebbiati e parlare con i vecchi amici è stato il primo passo per riattivare la memoria. Mi ero riaccostato alla musica elettronica dalla porta del giornalismo musicale e la prima intervista la feci ad Alec Empire degli Atari Teenage Riot dopo un concerto a Milano. Gli dissi che volevo scrivere un articolo che raccontava dell’esodo del movimento rave dall’Inghilterra al resto dell’Europa. Poi è rimasto nel cassetto per un annetto, fino a quando ho proposto a Philopat di scrivere un libro con Agenzia X. Così ho iniziato a contattare gli Spiral Tribe e le persone che ritenevo testimoni importanti, a partire dai Mutoid che sono andato a trovare a Santarcangelo, fino al critico Simon Reynolds, raver della prima ora, del quale avevo già il contatto mail per un’intervista di qualche anno prima. Volevo intervistare anche il prof. Piero Fumarola, sociologo e compagno di ricerche di Georges Lapassade, protagonisti della stagione dei rave in Italia che ebbi modo di conoscere in Salento a metà anni ‘90, quando teorizzarono e lanciarono la cosiddetta techno-pizzica. Ma lui mi ha fatto piuttosto da guida spirituale fornendomi consigli preziosi e diversi libri da leggere dalla sua biblioteca. Avevo intenzione di sviscerare ogni aspetto dell’esperienza rave. Ho cercato di coinvolgere molti amici, ma è stato impossibile convincerli tutti a partecipare al libro, anche perché c’è gente che ha cambiato totalmente vita e non ha voglia di guardare indietro.
L’avvento del digitale
Il movimento rave è morto? Se non lo è, cosa è cambiato?
È vivo e vegeto. Ci sono ancora rave bellissimi, non tutti ovviamente, ma purtroppo gli impegni di lavoro non mi permettono di parteciparvi con l’assiduità di un tempo. Molti personaggi della vecchia guardia sono ormai impegnati lavorativamente nei festival di mezzo mondo. I giovani, invece, hanno sempre più sete di feste illegali. Purtroppo a volte è necessario spiegar loro che non dovrebbero postare i video del rave in diretta su facebook. L’avvento del digitale, oltretutto, ha stroncato il fiorente mercato di vinili e cassette autoprodotti. Un limite di molte feste odierne, forse, risiede nel fatto che il format, ormai collaudatissimo, sia una sorta di upgrade potenziato del classico teknival anni ‘90. È un po’ come se non fosse rimasto molto altro da inventare e spesso manca l’aspetto performativo dirompente. Come se lo sguardo fosse comunque volto indietro a ricercare i momenti d’oro, anziché essere proiettato in avanti, a immaginare un nuovo futuro, un rave totalmente altro, folle e imprevedibile, come quando ancora questa controcultura non era stata decodificata.
Radio Onda d’Urto, 28 aprile 2019 Intervista a Tobia D'Onofrio
Ascolta l’intervista a Tobia D'Onofrio autore di Rave new world. L'ultima controcultura
rebelgirl.radiondadurto.org
di Rebelgirlrebelgirl.radiondadurto.org
Rete due Svizzera, 19 febbraio 2019 Rave new world. L'ultima controcultura
A 35 anni dalla nascita della cultura Rave. Ne parliamo con Tobia D’Onofrio.
www.rsi.ch
di Enrico Biandawww.rsi.ch
Qui comincia (Rai Radio 3), 17 febbraio 2019 Rave new world
Ascolta l’intervista a Tobia D'Onofrio autore di Rave new world. L'ultima controcultura
www.raiplayradio.it
Musiche del giorno: Georg Frideric Händel. Zadok the Priest. HWV 258. Coro dell’Abbazia di Westminster, The English Concert, Simon Preston. Jon Hopkins. A drifting up. Burial. Archangel. Aphex Twin. Z Twig. Edward Elgar. Allegro molto da Quartetto per archi in mi minore op. 83. Mistry Quartet. Strawbs. Heavy Disguise.
In conduzione Arturo Stalteri
Regia e consulenza musicale di Ennio Speranza
www.raiplayradio.it
Musiche del giorno: Georg Frideric Händel. Zadok the Priest. HWV 258. Coro dell’Abbazia di Westminster, The English Concert, Simon Preston. Jon Hopkins. A drifting up. Burial. Archangel. Aphex Twin. Z Twig. Edward Elgar. Allegro molto da Quartetto per archi in mi minore op. 83. Mistry Quartet. Strawbs. Heavy Disguise.
In conduzione Arturo Stalteri
Regia e consulenza musicale di Ennio Speranza
il manifesto, 16 febbraio 2019 Anatomia di un rave
Come nascono i movimenti? “Non c'è dubbio che ogni evento rappresenta per così dire, il ‘foro d'uscita’ di un processo che è avvenuto al di sotto della superficie della società attraverso progressive accumulazioni e, come quei fenomeni tettonici di crisi, come i grandi terremoti, a un certo punto emerge alla superficie in forma di evento. Cioè, non c'è dubbio che ogni evento rappresenta, per certi versi, la spia di processi invisibili accumulatisi nel tempo e poi bruscamente emersi alla superficie. E tuttavia – in questo sta la problematicità del rapporto – gli eventi non sono strettamente riconducibili ai processi: pur esprimendo questi processi, sono anche portatori di un novum, di un qualche elemento che è irriducibile alla serialità storica e che ne spiega l'esplodere lì ed ora. In ogni evento, in sostanza, si esprime una processualità e si esprime una istantaneità del fenomeno: si esprime una ripetitività di atti e di gesti nel tempo e si esprime l'irrompere dell'inedito. Ogni evento, in sostanza, esprime un processo di accumulazione ma anche l'esistenza di un detonatore irriducibile alla semplice processualità”, così mirabilmente scrive Marco Revelli in Le spie ricorrenti del disagio sociale: jacqueries, rivolte urbane, proteste giovanili, subculture della protesta, pubblicato nel volume collettivo Repubblica, Costituzione, trasformazione della società italiana. 1946-1996: percorsi di cittadinanza.
Sono parole che fanno pensare anche al fenomeno dei gilette jaune, a noi servono per chiederci come e perchè nacque il movimento rave. L’uscita di due titoli importanti delle edizioni Agenzia X ci invita a fare un resoconto della cultura rave a oltre trentacinque anni dai suoi inizi. I due testi sono entrambi necessari e trattano l’argomento in maniera diversificata, pur facendo parlare a volte gli stessi protagonisti. I libri in causa sono: la seconda edizione aggiornata e ampliata di Rave new world. L’ultima controcultura (351 pagg, 16 euro) di Tobia D’Onofrio e Rave in Italy. Gli anni novanta raccontati dai protagonisti (237 pagg, 15 euro) di Pablito el Drito, aka Paolo Pistolesi.
Tobia D’Onofrio e Paolo Pistolesi sono due ricercatori autonomi, o “ricercatori coinvolti”, per riprendere la definizione che Rémi Hess usa nella significativa prefazione a Rave new world, due giovani intellettuali, che nelle loro argomentazioni passano senza difficoltà dalle ultime tendenze della musica elettronica alle ricerche sociologiche e filosofiche. Appassionati delle controculture sociali e musicali, quello che colpisce nei loro racconti è la cognizione degli argomenti e la loro contestualizzazione dei momenti storici specifici. Entrambi sono degli attivisti politico-culturali, D’Onofrio è un giornalista musicale, allievo dell’indimenticabile sociologo Pietro Fumarola, che con altri compagni cura l’importantissimo Archivio e biblioteca dedicati ad Antonio Caronia, ospitati alla cascina autogestita Torchiera Senz’Acqua di Milano (sia l’archivio – con riviste e libri introvabili, tra cui la collezione della mitica rivista “Un’ambigua utopia” – sia il centro sociale meriterebbero un articolo a sé per l’importanza e la continuità della proposta culturale). Pistolesi, storico di formazione, redattore di MilanoX, scrittore e libraio a Milano, è un dj sperimentale, animatore di ReXistenz, etichetta autogestita e anonima, senza marchio, che – come suggerisce il nome – tiene assieme scenari musicali cronemberghiani e radicalità politica.
Diversità e complementarietà dei due libri. Il libro di Tobia ha un’estensione storica e internazionale del fenomeno rave – la nascita della musica techno tra Chicago e Detroit, la nascita del movimento in Inghilterra, fino alle ramificazioni e alle trasformazioni odierne con un interessantissimo capitolo dedicato alla Palestina; una visione etnologica, con i capitoli dedicati alla trance e al rapporto con la pizzica che, grazie a Dj War, Sud Sound System, l’apporto teorico di Pietro Fumarola, etc, ha vivacizzato e vivificato la cultura salentina. Ideale per chi non ha vissuto il movimento rave – di cui lascia emergere un’interpretazione – e voglia avere una panoramica delle culture di riferimento. Il testo è denso di riferimenti, interventi e interviste, dal critico Simon Reynolds a Valerio Mattioli, da Spiral Tribe a Chris Liberator ai Mutoid, tribù di scultori sociali cyberpunk.
Invece nel libro di Pablo le interpretazioni sono 32, cioè una diversa dall’altra a seconda del testimone che racconta la scena. Quello che accomuna le interpretazioni e sorprende è la densità creativa che quel movimento ha prodotto. Dalle quattro città prese in esame: Roma, Bologna, Torino, Milano, emergono figure notevoli della visionarietà creativa musicale contemporanea, a iniziare dal plagiarsita Dj Balli (impedibile anche il suo Frankenstein goes to holocaust. Mostri sonori, hypper mash-up, audio espropri) passando per Anna Bolena, Max Durante, Luciano Lamanna, Fire at work, Andrea Benedetti, Okapi e i gemelli d'Arcangelo. Il libro di Pablo storicizza quello che è stato il periodo d’oro del movimento in Italia, ne spiega l’essenza, la parte più bella, i momenti chiave, ma lascia che il quadro venga fuori dal racconto dei protagonisti.
Pablo, a fine 2017, ha pubblicato un romanzo sugli stessi temi, si tratta di Once were ravers (sempre Agenzia X), dove i protagonisti viaggiano tra feste, riti, dissipazioni e droghe, tra Firenze, Viareggio, Milano e Bologna, tra i capannoni industriali abbandonati dalla produzione fordista. Era già la fase calante del movimento rave, prima e dopo il G8 di Genova, evento che fa da spartiacque percettivo tra “altro mondo possibile” e spaesamento. Ambientato ai tempi in cui i rave erano un nuovo modo di riappropriarsi di spazi abbandonati, ne racconta lo spirito senza cadere in idealizzazioni. Sballo, musica, sentirsi parte di un tutto, vivere fuori da orari e regole imposti; ma anche down da post-party, domande esistenziali, paranoia e contraddizioni. Un romanzo neorealista dopato, o alter/realista, che racconta con umorismo il reale e l’immaginario, il sogno e l’allucinato, da leggere assieme a Muro di casse, il romanzo di Vanni Santoni, l’altro classico della narrazione raver italiana.
Reynolds, in Energy Flash (altro testo sul tema, dedicato alla scena inglese), scrive: “nonostante la sua natura escapista, l’esperienza rave mi ha realmente politicizzato, inducendomi a riflettere profondamente su questioni di razza, genere, classe e tecnologia”. Non a caso, in alcuni appuntamenti si distribuivano dei volantini con queste indicazioni su cos’è un rave: affronto alla proprietà privata attraverso l'occupazione di spazi abbandonati delle grandi città e la loro autogestione temporanea; attacco alle forme di produzione commerciale delle discoteche, al valore del denaro, ai rapporti sociopolitici di dominio; negazione del dj visto come “star” dell'evento; autoproduzione come concetto di massa, dalla produzione stessa della musica alla creazione di una vera e propria microeconomia alternativa, compreso il baratto; approccio allo sconosciuto con empatia; sperimentazione di stati di coscienza diversi da quello tipico della quotidianità lavorativa (con o senza l'uso di sostanze); ricerca di una consapevolezza comune, grazie alla messa in rete e della condivisione di conoscenze su un uso creativo e sovversivo della tecnologia; uguaglianza nelle diversità, al di fuori, e, dalla politica tradizionale.
Vanni Santoni, nell’introduzione a Rave new world, giustamente sottolinea la natura nomade della controcultura rave: “In un momento come questo, di fronte al rigurgito dei più rivoltanti nazionalismi, tale aspetto della cultura rave è quello su cui vale maggiormente la pena di soffermarsi […] nasce e si diffonde con la forza che l’ha caratterizzata proprio a causa di tale elemento, capace negli anni di ribaltare il tavolo da gioco e trasformare gli attacchi in spinte proiettive”.
Intervista a Tobia D’Onofrio e Pablito el Drito
Raccontare la cultura rave a oltre trentacinque anni dalla sua nascita, questa è l’idea alla base dei libri di cui parlaimo in queste pagine, ne abbiamo discusso con gli autori.
Com’è nato il movimento rave?
Tobia D’Onofrio Difficile rispondere, posso dire, ripensando ai suoi inizi in Italia, che la cosa bella della nascita del movimento rave è stata la sensazione che tutto fosse fluido, in mutazione: ai primi rave si potevano trovare i punk, alcuni hippy e freak, i cyberpunk, le posse, altre componenti meno definite, che poi in qualche modo si amalgameranno per formare qualcosa di diverso, ma non c’era una coscienza di cosa fosse il fenomeno in sé, né tantomeno la consapevolezza che si stava diventando sempre di più, anche se si vedeva crescere l’interesse per questi eventi di tipo nuovo. La sensazione di un movimento che si sta creando senza codificazioni, senza cristallizzazioni e l’estrema libertà di partecipazione erano le caratteristiche del movimento nascente. Per esempio non c’era ancora il cliché dell’abbigliamento del raver con le scarpe da skate, i dreadlocks, etc. Ai rave c’era più libertà che in una festa in un centro sociale, la differenza in fondo era quella tra taz e paz, tra zone temporaneamente autonome (così come teorizzate da Hakim Bey, uno dei riferimenti della cultura rave) e zone permanentemente autonome. In un luogo più strutturato e codificato è più facile ripetersi, in un luogo in fieri le potenzialità sono “infinite”.
Pablito el Drito La situazione di espansione ed evoluzione si sommava a una voluta anonimità, l’essere anonimo è un'altra delle caratteristiche del movimento rave nel suo stadio iniziale. Non si sapeva chi organizzava il rave, non si sapeva chi suonasse, c’era addirittura la possibilità di proporre il proprio live-set. C’era una forte esigenza di affermare una zona esterna alle dinamiche imposte dalle istanze economiche, amministrative e istituzionali che regolano la quotidianità dello spazio “pubblico” e di chi lo attraversa. Ma ci fu una sordità e rigidità – almeno iniziale – da parte del movimento dei centri sociali verso la musica tecno, inoltre l’idea di zone temporanee di sperimentazione oltre le codificazioni spingeva alcune frange a rompere con le tradizionali occupazioni. A questo si va a sommare l’arrivo in Italia delle tribe dall’Inghilterra, dopo la repressione del Criminal Justice Act, che scardinano ulteriormente gli schemi politici. In Italia le tribe trovano un’altra cultura politica antagonista dal cui confronto nasceranno esperienze positive.
Qual è la differenza tra cultura rave e le controculture che l’hanno preceduta? È solo una fusione degli elementi psichelici, cyber, punk ecc… o una propria originalità?
Pablito el Drito Certamente la techno è la musica che permette di mettere il corpo al centro della festa, mentre nelle altre musiche c’è sempre il palco, il corpo è sempre quello delle star che si esibiscono, mentre nel rave il corpo diventa plurimo, è quello dei corpi che ballano a oltranza. La centralità del corpo e la lunga durata delle feste sono tra le caratteristiche principali dei rave. L’originalità della musica techno in quel momento è data dal legame tra la musica nera, il funk e il soul, e l’elettronica. È l’ultima musica che non si guarda indietro – la famosa retromania, individuata da Simon Reynolds – ma guarda avanti verso una utopia musicale fantascientifica in un futuro possibile.
Tobia D’Onofrio Penso che una delle caratteristiche principali del rave sia quella individuata da Georges Lapassade, ossia la centralità del ballo estatico. Anche molte feste hippy e giovanili degli anni sessanta settanta nei migliori casi si trasformavano in festa trance, ma nei rave c’è una tabula rasa di tutto il resto e il fine ultimo diventa la ricerca dell’estasi attraverso la musica e il ballo, la festa. Certo ci sono il do it yourself del punk, le autoproduzioni, la cultura psichedelica e l’approccio consapevole alle sostanze, il nomadismo, ma la centralità è quella della festa. Si ritorna a qualcosa di primitivo, si ritorna a parlare di Dioniso, dei misteri di Eleusi, di sciamanesimo, per andare a scoprire quello che è il senso ultimo della festa. Una festa fuori dal comune per il raver è tutto. I rave hanno cambiato le persone proprio perché dopo aver vissuto esperienze così forti dal punto di vista emozionale, il tuo sguardo sul mondo non può più essere lo stesso. A questo proposito c’è ancora dibattito sul rave “politico”. Ci sono stati dei momenti politicizzati nella storia dei rave, soprattutto nel periodo del movimento altermondialista, ma bisogna anche dire che la maggior parte di quelli che vi partecipavano avevano un interesse prevalentemente edonistico, ciò non toglie però che l’esperienza vissuta non abbia prodotto cambiamenti importanti. Molta gente ha contestualizzato a posteriori le esperienze dei rave, andando a costruire il puzzle che dà sostanza culturale e politica. Non credo dunque all’idea dei rave “consapevoli” ad ogni costo, ma credo nella festa selvaggia e autogestita che agisce a livello subliminale nell’esperienza dei partecipanti.
Qual è stata la contaminazione con i movimenti politici tout-court?
Pablito el Drito Nelle street rave parade, penso a quella di Bologna o alla MayDay di Milano, nei Pride, certi aspetti della cultura rave si sono travasati. E anche la contaminazione politica tra le tribe nomadi inglesi e i centri sociali italiani c’è stata, proprio Tobia a conclusione del suo libro ci racconta della nascita dei social centre inglesi dopo la scoperta di quelli italiani. Ma penso ci sia stata una ibridazione positiva che ha modificato i paradigmi del fare comunicazione, del fare musica, del fare politica. I centri sociali avevano le loro ragioni, ma i raver avevano capito che tra la discoteca e gli spazi liberati dei centri sociali c’era un’alternativa che era appunto quella del nomadismo, delle taz.
Tobia D’Onofrio Il fenomeno rave è continuato negli anni con le sue modificazioni spesso dovute a cambiamenti socio-politici e ha influenzato altri movimenti con la pratica dell’azione diretta. Teniamo presente che nell’arco di vent’anni la società è radicalmente cambiata, per fare un esempio la densità di telecamere che ci controllano oggi è paurosa e dove non arrivano le telecamere arriva la tracciabilità dei telefonini, proprio per questo il desiderio di momenti liberatori soprattutto da parte dei giovani è fisiologicico. Tutto sta nell’interpretare questi bisogni e aspettare che da momenti di liberazione nascano desideri di libertà più articolate. Libri come i nostri sono strumenti che si spera vadano a ispirare ragazzi che non hanno potuto conoscere gli inizi del movimento.
Pablito el Drito I nostri libri sono rivolti a questi ragazzi, che nella lettura e nelle presentazioni possono confrontarsi su temi scivolosi. Per esempio, il movimento è nato come radicale utopista libertario, però in certi frangenti può prendere – come è successo – una piega anarcocapitalista con quelli che organizzano i concerti per fare soldi, una contraddizione che c’è sempre stata. Recentemente è avvenuto un fatto inquietante. Un centro sociale occupato è stato a sua volta occupato per una festa rave, provocando molti problemi agli attivisti del centro, che nei giorni successivi hanno dovuto subire una dura repressione. In un momento come questo, dove nel pacchetto sicurezza del governo ci sono parti durissime dedicate alle occupazioni, forse sarebbe il caso che le zone temporaneamente autonome (i ravers) dialoghino con le zone permanentemente autonome (gli attivisti) come forme di autodifesa da questo governo nero. Invece si creano situazioni di conflitto che sono deleterie e non facili da ricomporre.
Pur sapendo che può essere limitativo, potreste fare un elenco – ad uso dei “non addetti ai lavori” – di dieci musicisti o musiche significative del movimento rave?
Pablito el Drito Dreadzone, Fight the power; Orbital, Satan; The Infiltrator, The extraction; Mad Mike, Acid rain; D’arcangelo, Diagram VI; Zion Train, Babylon’s burning; Aphex Twin, Elephant song; Curley, Dancing with the devil; M Lory D, Road hog; Dj Scud, Are you down (with the underground)? .
Tobia D’Onofrio Evitando nomi sconosciuti direi The KLF, Prodigy, Aphex Twin, The Orb, Spiral Tribe, Goldie, Autechre, Dizzee Rascal, The Streets, Sleaford Mods.
di Marc TibaldiSono parole che fanno pensare anche al fenomeno dei gilette jaune, a noi servono per chiederci come e perchè nacque il movimento rave. L’uscita di due titoli importanti delle edizioni Agenzia X ci invita a fare un resoconto della cultura rave a oltre trentacinque anni dai suoi inizi. I due testi sono entrambi necessari e trattano l’argomento in maniera diversificata, pur facendo parlare a volte gli stessi protagonisti. I libri in causa sono: la seconda edizione aggiornata e ampliata di Rave new world. L’ultima controcultura (351 pagg, 16 euro) di Tobia D’Onofrio e Rave in Italy. Gli anni novanta raccontati dai protagonisti (237 pagg, 15 euro) di Pablito el Drito, aka Paolo Pistolesi.
Tobia D’Onofrio e Paolo Pistolesi sono due ricercatori autonomi, o “ricercatori coinvolti”, per riprendere la definizione che Rémi Hess usa nella significativa prefazione a Rave new world, due giovani intellettuali, che nelle loro argomentazioni passano senza difficoltà dalle ultime tendenze della musica elettronica alle ricerche sociologiche e filosofiche. Appassionati delle controculture sociali e musicali, quello che colpisce nei loro racconti è la cognizione degli argomenti e la loro contestualizzazione dei momenti storici specifici. Entrambi sono degli attivisti politico-culturali, D’Onofrio è un giornalista musicale, allievo dell’indimenticabile sociologo Pietro Fumarola, che con altri compagni cura l’importantissimo Archivio e biblioteca dedicati ad Antonio Caronia, ospitati alla cascina autogestita Torchiera Senz’Acqua di Milano (sia l’archivio – con riviste e libri introvabili, tra cui la collezione della mitica rivista “Un’ambigua utopia” – sia il centro sociale meriterebbero un articolo a sé per l’importanza e la continuità della proposta culturale). Pistolesi, storico di formazione, redattore di MilanoX, scrittore e libraio a Milano, è un dj sperimentale, animatore di ReXistenz, etichetta autogestita e anonima, senza marchio, che – come suggerisce il nome – tiene assieme scenari musicali cronemberghiani e radicalità politica.
Diversità e complementarietà dei due libri. Il libro di Tobia ha un’estensione storica e internazionale del fenomeno rave – la nascita della musica techno tra Chicago e Detroit, la nascita del movimento in Inghilterra, fino alle ramificazioni e alle trasformazioni odierne con un interessantissimo capitolo dedicato alla Palestina; una visione etnologica, con i capitoli dedicati alla trance e al rapporto con la pizzica che, grazie a Dj War, Sud Sound System, l’apporto teorico di Pietro Fumarola, etc, ha vivacizzato e vivificato la cultura salentina. Ideale per chi non ha vissuto il movimento rave – di cui lascia emergere un’interpretazione – e voglia avere una panoramica delle culture di riferimento. Il testo è denso di riferimenti, interventi e interviste, dal critico Simon Reynolds a Valerio Mattioli, da Spiral Tribe a Chris Liberator ai Mutoid, tribù di scultori sociali cyberpunk.
Invece nel libro di Pablo le interpretazioni sono 32, cioè una diversa dall’altra a seconda del testimone che racconta la scena. Quello che accomuna le interpretazioni e sorprende è la densità creativa che quel movimento ha prodotto. Dalle quattro città prese in esame: Roma, Bologna, Torino, Milano, emergono figure notevoli della visionarietà creativa musicale contemporanea, a iniziare dal plagiarsita Dj Balli (impedibile anche il suo Frankenstein goes to holocaust. Mostri sonori, hypper mash-up, audio espropri) passando per Anna Bolena, Max Durante, Luciano Lamanna, Fire at work, Andrea Benedetti, Okapi e i gemelli d'Arcangelo. Il libro di Pablo storicizza quello che è stato il periodo d’oro del movimento in Italia, ne spiega l’essenza, la parte più bella, i momenti chiave, ma lascia che il quadro venga fuori dal racconto dei protagonisti.
Pablo, a fine 2017, ha pubblicato un romanzo sugli stessi temi, si tratta di Once were ravers (sempre Agenzia X), dove i protagonisti viaggiano tra feste, riti, dissipazioni e droghe, tra Firenze, Viareggio, Milano e Bologna, tra i capannoni industriali abbandonati dalla produzione fordista. Era già la fase calante del movimento rave, prima e dopo il G8 di Genova, evento che fa da spartiacque percettivo tra “altro mondo possibile” e spaesamento. Ambientato ai tempi in cui i rave erano un nuovo modo di riappropriarsi di spazi abbandonati, ne racconta lo spirito senza cadere in idealizzazioni. Sballo, musica, sentirsi parte di un tutto, vivere fuori da orari e regole imposti; ma anche down da post-party, domande esistenziali, paranoia e contraddizioni. Un romanzo neorealista dopato, o alter/realista, che racconta con umorismo il reale e l’immaginario, il sogno e l’allucinato, da leggere assieme a Muro di casse, il romanzo di Vanni Santoni, l’altro classico della narrazione raver italiana.
Reynolds, in Energy Flash (altro testo sul tema, dedicato alla scena inglese), scrive: “nonostante la sua natura escapista, l’esperienza rave mi ha realmente politicizzato, inducendomi a riflettere profondamente su questioni di razza, genere, classe e tecnologia”. Non a caso, in alcuni appuntamenti si distribuivano dei volantini con queste indicazioni su cos’è un rave: affronto alla proprietà privata attraverso l'occupazione di spazi abbandonati delle grandi città e la loro autogestione temporanea; attacco alle forme di produzione commerciale delle discoteche, al valore del denaro, ai rapporti sociopolitici di dominio; negazione del dj visto come “star” dell'evento; autoproduzione come concetto di massa, dalla produzione stessa della musica alla creazione di una vera e propria microeconomia alternativa, compreso il baratto; approccio allo sconosciuto con empatia; sperimentazione di stati di coscienza diversi da quello tipico della quotidianità lavorativa (con o senza l'uso di sostanze); ricerca di una consapevolezza comune, grazie alla messa in rete e della condivisione di conoscenze su un uso creativo e sovversivo della tecnologia; uguaglianza nelle diversità, al di fuori, e, dalla politica tradizionale.
Vanni Santoni, nell’introduzione a Rave new world, giustamente sottolinea la natura nomade della controcultura rave: “In un momento come questo, di fronte al rigurgito dei più rivoltanti nazionalismi, tale aspetto della cultura rave è quello su cui vale maggiormente la pena di soffermarsi […] nasce e si diffonde con la forza che l’ha caratterizzata proprio a causa di tale elemento, capace negli anni di ribaltare il tavolo da gioco e trasformare gli attacchi in spinte proiettive”.
Intervista a Tobia D’Onofrio e Pablito el Drito
Raccontare la cultura rave a oltre trentacinque anni dalla sua nascita, questa è l’idea alla base dei libri di cui parlaimo in queste pagine, ne abbiamo discusso con gli autori.
Com’è nato il movimento rave?
Tobia D’Onofrio Difficile rispondere, posso dire, ripensando ai suoi inizi in Italia, che la cosa bella della nascita del movimento rave è stata la sensazione che tutto fosse fluido, in mutazione: ai primi rave si potevano trovare i punk, alcuni hippy e freak, i cyberpunk, le posse, altre componenti meno definite, che poi in qualche modo si amalgameranno per formare qualcosa di diverso, ma non c’era una coscienza di cosa fosse il fenomeno in sé, né tantomeno la consapevolezza che si stava diventando sempre di più, anche se si vedeva crescere l’interesse per questi eventi di tipo nuovo. La sensazione di un movimento che si sta creando senza codificazioni, senza cristallizzazioni e l’estrema libertà di partecipazione erano le caratteristiche del movimento nascente. Per esempio non c’era ancora il cliché dell’abbigliamento del raver con le scarpe da skate, i dreadlocks, etc. Ai rave c’era più libertà che in una festa in un centro sociale, la differenza in fondo era quella tra taz e paz, tra zone temporaneamente autonome (così come teorizzate da Hakim Bey, uno dei riferimenti della cultura rave) e zone permanentemente autonome. In un luogo più strutturato e codificato è più facile ripetersi, in un luogo in fieri le potenzialità sono “infinite”.
Pablito el Drito La situazione di espansione ed evoluzione si sommava a una voluta anonimità, l’essere anonimo è un'altra delle caratteristiche del movimento rave nel suo stadio iniziale. Non si sapeva chi organizzava il rave, non si sapeva chi suonasse, c’era addirittura la possibilità di proporre il proprio live-set. C’era una forte esigenza di affermare una zona esterna alle dinamiche imposte dalle istanze economiche, amministrative e istituzionali che regolano la quotidianità dello spazio “pubblico” e di chi lo attraversa. Ma ci fu una sordità e rigidità – almeno iniziale – da parte del movimento dei centri sociali verso la musica tecno, inoltre l’idea di zone temporanee di sperimentazione oltre le codificazioni spingeva alcune frange a rompere con le tradizionali occupazioni. A questo si va a sommare l’arrivo in Italia delle tribe dall’Inghilterra, dopo la repressione del Criminal Justice Act, che scardinano ulteriormente gli schemi politici. In Italia le tribe trovano un’altra cultura politica antagonista dal cui confronto nasceranno esperienze positive.
Qual è la differenza tra cultura rave e le controculture che l’hanno preceduta? È solo una fusione degli elementi psichelici, cyber, punk ecc… o una propria originalità?
Pablito el Drito Certamente la techno è la musica che permette di mettere il corpo al centro della festa, mentre nelle altre musiche c’è sempre il palco, il corpo è sempre quello delle star che si esibiscono, mentre nel rave il corpo diventa plurimo, è quello dei corpi che ballano a oltranza. La centralità del corpo e la lunga durata delle feste sono tra le caratteristiche principali dei rave. L’originalità della musica techno in quel momento è data dal legame tra la musica nera, il funk e il soul, e l’elettronica. È l’ultima musica che non si guarda indietro – la famosa retromania, individuata da Simon Reynolds – ma guarda avanti verso una utopia musicale fantascientifica in un futuro possibile.
Tobia D’Onofrio Penso che una delle caratteristiche principali del rave sia quella individuata da Georges Lapassade, ossia la centralità del ballo estatico. Anche molte feste hippy e giovanili degli anni sessanta settanta nei migliori casi si trasformavano in festa trance, ma nei rave c’è una tabula rasa di tutto il resto e il fine ultimo diventa la ricerca dell’estasi attraverso la musica e il ballo, la festa. Certo ci sono il do it yourself del punk, le autoproduzioni, la cultura psichedelica e l’approccio consapevole alle sostanze, il nomadismo, ma la centralità è quella della festa. Si ritorna a qualcosa di primitivo, si ritorna a parlare di Dioniso, dei misteri di Eleusi, di sciamanesimo, per andare a scoprire quello che è il senso ultimo della festa. Una festa fuori dal comune per il raver è tutto. I rave hanno cambiato le persone proprio perché dopo aver vissuto esperienze così forti dal punto di vista emozionale, il tuo sguardo sul mondo non può più essere lo stesso. A questo proposito c’è ancora dibattito sul rave “politico”. Ci sono stati dei momenti politicizzati nella storia dei rave, soprattutto nel periodo del movimento altermondialista, ma bisogna anche dire che la maggior parte di quelli che vi partecipavano avevano un interesse prevalentemente edonistico, ciò non toglie però che l’esperienza vissuta non abbia prodotto cambiamenti importanti. Molta gente ha contestualizzato a posteriori le esperienze dei rave, andando a costruire il puzzle che dà sostanza culturale e politica. Non credo dunque all’idea dei rave “consapevoli” ad ogni costo, ma credo nella festa selvaggia e autogestita che agisce a livello subliminale nell’esperienza dei partecipanti.
Qual è stata la contaminazione con i movimenti politici tout-court?
Pablito el Drito Nelle street rave parade, penso a quella di Bologna o alla MayDay di Milano, nei Pride, certi aspetti della cultura rave si sono travasati. E anche la contaminazione politica tra le tribe nomadi inglesi e i centri sociali italiani c’è stata, proprio Tobia a conclusione del suo libro ci racconta della nascita dei social centre inglesi dopo la scoperta di quelli italiani. Ma penso ci sia stata una ibridazione positiva che ha modificato i paradigmi del fare comunicazione, del fare musica, del fare politica. I centri sociali avevano le loro ragioni, ma i raver avevano capito che tra la discoteca e gli spazi liberati dei centri sociali c’era un’alternativa che era appunto quella del nomadismo, delle taz.
Tobia D’Onofrio Il fenomeno rave è continuato negli anni con le sue modificazioni spesso dovute a cambiamenti socio-politici e ha influenzato altri movimenti con la pratica dell’azione diretta. Teniamo presente che nell’arco di vent’anni la società è radicalmente cambiata, per fare un esempio la densità di telecamere che ci controllano oggi è paurosa e dove non arrivano le telecamere arriva la tracciabilità dei telefonini, proprio per questo il desiderio di momenti liberatori soprattutto da parte dei giovani è fisiologicico. Tutto sta nell’interpretare questi bisogni e aspettare che da momenti di liberazione nascano desideri di libertà più articolate. Libri come i nostri sono strumenti che si spera vadano a ispirare ragazzi che non hanno potuto conoscere gli inizi del movimento.
Pablito el Drito I nostri libri sono rivolti a questi ragazzi, che nella lettura e nelle presentazioni possono confrontarsi su temi scivolosi. Per esempio, il movimento è nato come radicale utopista libertario, però in certi frangenti può prendere – come è successo – una piega anarcocapitalista con quelli che organizzano i concerti per fare soldi, una contraddizione che c’è sempre stata. Recentemente è avvenuto un fatto inquietante. Un centro sociale occupato è stato a sua volta occupato per una festa rave, provocando molti problemi agli attivisti del centro, che nei giorni successivi hanno dovuto subire una dura repressione. In un momento come questo, dove nel pacchetto sicurezza del governo ci sono parti durissime dedicate alle occupazioni, forse sarebbe il caso che le zone temporaneamente autonome (i ravers) dialoghino con le zone permanentemente autonome (gli attivisti) come forme di autodifesa da questo governo nero. Invece si creano situazioni di conflitto che sono deleterie e non facili da ricomporre.
Pur sapendo che può essere limitativo, potreste fare un elenco – ad uso dei “non addetti ai lavori” – di dieci musicisti o musiche significative del movimento rave?
Pablito el Drito Dreadzone, Fight the power; Orbital, Satan; The Infiltrator, The extraction; Mad Mike, Acid rain; D’arcangelo, Diagram VI; Zion Train, Babylon’s burning; Aphex Twin, Elephant song; Curley, Dancing with the devil; M Lory D, Road hog; Dj Scud, Are you down (with the underground)? .
Tobia D’Onofrio Evitando nomi sconosciuti direi The KLF, Prodigy, Aphex Twin, The Orb, Spiral Tribe, Goldie, Autechre, Dizzee Rascal, The Streets, Sleaford Mods.
Il Foglio, 29 gennaio 2019 I club di Berlino come il Berghaine e la sottocultura che il mainstream non conosce
[…] chi cerca una prospettiva sulle evoluzioni e le implicazioni sociali del ballo farà allora bene a guardare indietro, non solo in termini storici, ma anche editoriali: è di questi giorni la riedizione, con capitoli aggiuntivi e nuovi apparati iconografici, di "Rave New World" del giornalista musicale Tobia D'Onofrio (Agenzia X), saggio cruciale che indaga il primo quarto di secolo del mondo dei free party identificando in modo molto efficace la sua natura di fenomeno culturale prettamente e specificamente europeo […]
di Vanni SantoniVenerdì di Repubblica, 9 novembre 2018 Rave new world. Edizione aggiornata
Dopo la rivoluzione hippie e quella punk, i rave. Ultima vera controcultura secondo questo libro diventato un classico, ora in edizione aggiornata. Le feste mobili a base di techno sono indagate con un metodo che unisce antropologia del rito, sociologia pop e testimonianze dei protagonisti.
di e.ma.Robinson di Repubblica, 30 settembre 2018 Rave new world. L’ultima controcultura
Un libro monumentale che offre una panoramica storica ma anche le interviste ai protagonisti dagli Spiral Tribe ai Mutoid.
Il manifesto, 7 gennaio 2017 L’ultima controcultura
Il rave come ultima controcultura: non una provocazione ma una verità, alla fine, logica. È questa la conclusione a cui si arriva leggendo Rave new world, il bel libro di Tobia D’Onofrio. In circa trecento pagine, tra interviste e digressioni, attraverso una struttura in tre parti – questi i titoli: «Il gioco della mente», attraverso elementi teorici, precedenti storici, approfondimento sulla scena italiana; «Il corpo rivoluzionario», tra lettura sociopolitica e situazione contemporanea; «Lo spirito immortale», tra antropologia applicata al mondo rave e considerazioni finali – l’autore riesce nel miracolo di scrivere un libro efficacemente divulgativo per coloro che non conoscono per nulla l’argomento (chi scrive qui è uno di questi), estendendo il discorso sul rave alla trama storica e sociologica di quei fatti e movimenti che hanno intersecato e trasformato l’esperienza, e allo stesso tempo produce un racconto tanto informativo nei dati quanto appassionante nel tono, qualcosa che in fondo solo un testimone interno alle vicende saprebbe dare – un testimone che, ovviamente, sia anche un buon narratore (e D’Onofrio lo è).
In sintesi, su tratta di un lavoro che vale sicuramente come introduzione al tema.
Andando invece più nello specifico nella lettura, si potrebbe focalizzare l’attenzione su come l’autore rende la materia trattata. Prendiamo allora tre passaggi rappresentativi.
Per il primo capitolo la scelta potrebbe senza dubbio cadere sul focus sull’Italia e in particolare alle pagine dedicate ai Mutoid Waste Company, «una tribù che ha incarnato l’essenza della cultura rave» dal momento che «le feste organizzate da questo collettivo anarcopunk hanno folgorato chiunque vi abbia partecipato e possono essere considerate l’archetipo del rave: set illegali allestiti in scenari urbani degradati, musica tribale di matrice prevalentemente elettronica, teatro di strada radicale in stile Living Theatre, body art, surreali mezzi di locomozione fantascientifici, costumi, sculture e scenografie d’ispirazione techno-punk, terrificanti mostri di rottami che si muovono sputando fuoco».
Insomma, un esempio che vale come sineddoche, per indicare un modo e mondo di indipendenza sociale.
Per il secondo capitolo il passaggio potrebbe essere sulle affinità culturali tra movimento rave e le prime insurrezioni no global, una situazione che D’Onofrio ricostruisce spostando l’attenzione sulla scena inglese degli anni Novanta, a partire dall’«esempio affascinante di quello strano fenomeno post-Thatcher chiamato Reclaim the Streets, le cui pratiche di street party sarebbero state imitate nel mondo durante i futuri Global Day of Action», e facendo «notare che nel primo strutturarsi del movimento il network britannico ebbe un ruolo cruciale».
In questo caso, l’accento cadrebbe sulle radici politiche antagoniste nella cultura rave. Infine, per il terzo capitolo, il riferimento può essere la parte dedicata alla lettura antropologica del «rito rave», attraverso le ricerche di studiosi come Georges Lapassade e Pietro Fumarola, analizzandone le possibilità performative inesauribili, cioè quelle liminali.
Indipendenza, antagonismo, liminalità: parafrasando una celebre formula, tre tratti che sembrano caratterizzare quanto letto in questo libro come, forse, trama di «storie temporaneamente autonome», cioè ancora possibili, aperte, per tutti.
di Gianluca PulsoniIn sintesi, su tratta di un lavoro che vale sicuramente come introduzione al tema.
Andando invece più nello specifico nella lettura, si potrebbe focalizzare l’attenzione su come l’autore rende la materia trattata. Prendiamo allora tre passaggi rappresentativi.
Per il primo capitolo la scelta potrebbe senza dubbio cadere sul focus sull’Italia e in particolare alle pagine dedicate ai Mutoid Waste Company, «una tribù che ha incarnato l’essenza della cultura rave» dal momento che «le feste organizzate da questo collettivo anarcopunk hanno folgorato chiunque vi abbia partecipato e possono essere considerate l’archetipo del rave: set illegali allestiti in scenari urbani degradati, musica tribale di matrice prevalentemente elettronica, teatro di strada radicale in stile Living Theatre, body art, surreali mezzi di locomozione fantascientifici, costumi, sculture e scenografie d’ispirazione techno-punk, terrificanti mostri di rottami che si muovono sputando fuoco».
Insomma, un esempio che vale come sineddoche, per indicare un modo e mondo di indipendenza sociale.
Per il secondo capitolo il passaggio potrebbe essere sulle affinità culturali tra movimento rave e le prime insurrezioni no global, una situazione che D’Onofrio ricostruisce spostando l’attenzione sulla scena inglese degli anni Novanta, a partire dall’«esempio affascinante di quello strano fenomeno post-Thatcher chiamato Reclaim the Streets, le cui pratiche di street party sarebbero state imitate nel mondo durante i futuri Global Day of Action», e facendo «notare che nel primo strutturarsi del movimento il network britannico ebbe un ruolo cruciale».
In questo caso, l’accento cadrebbe sulle radici politiche antagoniste nella cultura rave. Infine, per il terzo capitolo, il riferimento può essere la parte dedicata alla lettura antropologica del «rito rave», attraverso le ricerche di studiosi come Georges Lapassade e Pietro Fumarola, analizzandone le possibilità performative inesauribili, cioè quelle liminali.
Indipendenza, antagonismo, liminalità: parafrasando una celebre formula, tre tratti che sembrano caratterizzare quanto letto in questo libro come, forse, trama di «storie temporaneamente autonome», cioè ancora possibili, aperte, per tutti.
Blow up, marzo 2016 Rave new world
Sottotitolo L’ultima controcultura, Rave new world è un viaggio appassionato di Tobia D’Onofrio verso quel passato prossimo in cui, per citare le parole dell’introduzione di Valerio Mattioli, “l’utopia significala ribadire lo slancio prometeico del futuro immaginato”, e quindi un lungo tour vissuto in prima persona tra Roma e Londra, Castaneda e Mutoid, arcaismo e tecnologia, tarantismo e hardcore techno, Spiral Tribe e Stay Up Forever, ecstasy e soprattutto ketamina, il nomadismo circense dei teknival, psy, goa e tribal trance, con grandi documentazioni, interviste incrociate, uno studio esperienzial-sociologico nella restituzione del senso di un movimento sotterraneo che ha lasciato tutta una serie di indicazioni da rielaborare.
di Christian ZingalesNuovo Quotidiano di Puglia, 14 dicembre 2015 Rave, alle radici di un fenomeno internazionale
Tobia D’Onofrio ricostruisce la stagione dei rave proibiti. Un percorso storico delle controculture che si sono susseguite dagli anni Settanta agli Ottanta
Qual è stata in ordine cronologico l’ultima controcultura in grado di coinvolgere musica, politica, attivismo e stile di vita? Tobia D’Onofrio, giornalista leccese di stanza a Milano, in Rave new world edito da Agenzia X, parla dall’interno della stagione dei rave party: una spinta inarrestabile capace di unire spontaneamente migliaia di persone in feste “illegali” sparse in tutta Europa e non solo, creando una traccia ed un’impronta pirata, tutt’altro che astratta, ancora lontana dall’esaurirsi.
Se la stagione dei rave inizia nei primi anni Novanta in Gran Bretagna, catalizzando istanze politico-esistenziali, aspiranti comunità liberate, lotte per i diritti e soprattutto tanta sperimentazione elettronica. D’Onofrio traccia il percorso storico della sua ricerca a partire dalle controculture britanniche che si sono susseguite dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. Free festival, movimento hippy, lo scontro nichilista con la cultura punk alla fine dei Settanta ma anche la Summer of love di Ibiza e la conseguente diffusione della musica house.
Ai rave, come sottolineato nelle interviste ai personaggi che hanno animato la scena internazionale raccolte all’interno del libro (Simon Reynolds, Spiral Tribe, Mutoid Waste Company, D’Arcangelo, Dj War, Atari Teenage Riot, Kernel Panik, Tekno Mobil Squad) non si arriva per caso.
Il cammino di questa forma di “festa libertaria”, che intende liberare i vincoli legati alla legge ed alla quotidianità, teorizzato fra le altre cose nel libro T.A.Z. (Zone temporaneamente autonome) del filosofo Hakim Bey, parte da lontano nella storia per poi esplodere e dissolversi nel giro di un decennio, mutando forma e facendo i conti con le pesanti contraddizioni del caso.
Da un lato emergeranno provvedimenti schiaccianti come il Criminal Justice Bill, che vieterà severamente in tutta la Gran Bretagna la possibilità di poter organizzare questi raduni, dall’altro l’enorme crescita incontrollata delle feste ed il relativo libero uso di sostanze stupefacenti all’interno, vedi ad esempio la ketamina, contribuiranno a creare dei cortocircuiti insanabili.
Come facevano diecimila persone a radunarsi in un’area industriale dimessa, magari alla periferia estrema di una metropoli, senza il supporto di alcuna pubblicità legale? Cosa spingeva migliaia di giovani in tutta Europa a radunarsi per giorni interi a ballare e stare insieme? Qual era il clima di queste feste? Quali i personaggi, le aspettative, le ragioni? Qual era la reazione delle comunità locali? Come vivevano questi gruppo di ragazzi?
Cosa resta del fenomeno? Sono tutte domande alle quali il lavoro di Tobia D’Onofrio riesce a dare risposte convincenti. Nel libro, inoltre, viene dato ampio spazio al ruolo strategico del Salento e di alcuni suoi personaggi che, come primo motore di questo stile di vita alternativo, prima ancora delle migliaia di turisti, durante la bella stagione, appena due decenni fa, attirava nelle nostre pinete carovane di raver e traveller da tutta Europa.
di Ennio CiottaQual è stata in ordine cronologico l’ultima controcultura in grado di coinvolgere musica, politica, attivismo e stile di vita? Tobia D’Onofrio, giornalista leccese di stanza a Milano, in Rave new world edito da Agenzia X, parla dall’interno della stagione dei rave party: una spinta inarrestabile capace di unire spontaneamente migliaia di persone in feste “illegali” sparse in tutta Europa e non solo, creando una traccia ed un’impronta pirata, tutt’altro che astratta, ancora lontana dall’esaurirsi.
Se la stagione dei rave inizia nei primi anni Novanta in Gran Bretagna, catalizzando istanze politico-esistenziali, aspiranti comunità liberate, lotte per i diritti e soprattutto tanta sperimentazione elettronica. D’Onofrio traccia il percorso storico della sua ricerca a partire dalle controculture britanniche che si sono susseguite dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. Free festival, movimento hippy, lo scontro nichilista con la cultura punk alla fine dei Settanta ma anche la Summer of love di Ibiza e la conseguente diffusione della musica house.
Ai rave, come sottolineato nelle interviste ai personaggi che hanno animato la scena internazionale raccolte all’interno del libro (Simon Reynolds, Spiral Tribe, Mutoid Waste Company, D’Arcangelo, Dj War, Atari Teenage Riot, Kernel Panik, Tekno Mobil Squad) non si arriva per caso.
Il cammino di questa forma di “festa libertaria”, che intende liberare i vincoli legati alla legge ed alla quotidianità, teorizzato fra le altre cose nel libro T.A.Z. (Zone temporaneamente autonome) del filosofo Hakim Bey, parte da lontano nella storia per poi esplodere e dissolversi nel giro di un decennio, mutando forma e facendo i conti con le pesanti contraddizioni del caso.
Da un lato emergeranno provvedimenti schiaccianti come il Criminal Justice Bill, che vieterà severamente in tutta la Gran Bretagna la possibilità di poter organizzare questi raduni, dall’altro l’enorme crescita incontrollata delle feste ed il relativo libero uso di sostanze stupefacenti all’interno, vedi ad esempio la ketamina, contribuiranno a creare dei cortocircuiti insanabili.
Come facevano diecimila persone a radunarsi in un’area industriale dimessa, magari alla periferia estrema di una metropoli, senza il supporto di alcuna pubblicità legale? Cosa spingeva migliaia di giovani in tutta Europa a radunarsi per giorni interi a ballare e stare insieme? Qual era il clima di queste feste? Quali i personaggi, le aspettative, le ragioni? Qual era la reazione delle comunità locali? Come vivevano questi gruppo di ragazzi?
Cosa resta del fenomeno? Sono tutte domande alle quali il lavoro di Tobia D’Onofrio riesce a dare risposte convincenti. Nel libro, inoltre, viene dato ampio spazio al ruolo strategico del Salento e di alcuni suoi personaggi che, come primo motore di questo stile di vita alternativo, prima ancora delle migliaia di turisti, durante la bella stagione, appena due decenni fa, attirava nelle nostre pinete carovane di raver e traveller da tutta Europa.
Coolclub, 9 dicembre 2015 Tobia D’Onofrio. Passato, presente e futuro dei rave party
Qual è stata l’ultima controcultura? Come mai dopo la stagione dei rave non si è più affermata una spinta creativa capace di unire migliaia di persone? Nata negli anni novanta in Gran Bretagna, con un piede nei club e l’altro nell’era cyberpunk, la scena dei rave e del movimento free tekno è stata un’avventura che ha forgiato nei suoi circuiti underground generi musicali innovativi, come hardcore, gabber, jungle, drun’n’bass, grime, dubstep. Nonostante la natura utopica, questo immaginario pirata ha avuto un impatto sulla società tutt’altro che astratto: dalle origini fino agli anni zero si è concretizzato in un crogiolo di istanze politico-esistenziali, unendo spesso trasversalmente, in una danza collettiva, sognatori di comunità liberate, sperimentazione elettronica, lotte per i diritti gay ed esperienze dei controvertici. Parliamo di questo e molto altro con Tobia D’Onofrio, giornalista salentino, collaboratore anche di Xl Repubblica, che ha pubblicato da poco Rave new world (Agenzia X).
Partiamo dall’inizio. Che cos’è un rave?
A questa mi piacerebbe rispondere con le parole di Astrid Fontaine e Carolen Fontana che cito nel libro: “Il rave nella sua essenza è rottura, gioco, trascendenza. Il rave è una festa-transe, un’esperienza di sacro-selvaggio. […] Nel cuore della festa si ricrea il legame sociale. All’interno di una folla eterogenea la festa fa rinascere un accordo, una solidarietà, un valore comune. Essa si oppone all’indifferenza della massa, all’esperienza quotidiana della solitudine dell’uomo che si nega fino a non esistere più. […] I raver non hanno un Dio comune, sono soli nel loro delirio, soli nella loro transe, anche se essa è collettiva. Ma le loro esperienze sono abbastanza vicine da sentirsi insieme, in accordo da poter scambiarsi, essere presenti gli uni agli altri, senza parlare, durante la festa. […] Di fronte a un malessere sociale diffuso, la cui causa non è identificabile, il rave veicola per molti la fede in un’altra realtà possibile, spirituale e non. La festa risponde in questo senso a un eccesso di energia che lo sommerge in alcuni momenti facendo scoppiare il quadro sociale e culturale”.
Come nasce l’idea di scrivere il libro?
Da qualche anno mi girava in testa un articolo che raccontava l’esplosione di un movimento rave a livello internazionale e l’incontro/scontro con l’universo dei centri sociali italiani. Poi ho conosciuto Marco Philopat di Agenzia X e ho capito che potevo scrivere un libro.
Che ruolo ha avuto il Salento nello sviluppo del movimento dei rave?
Diciamo nessuno, a parte il fatto che i Tekno Mobil Squad, una delle prime crew italiane tekno, erano per metà salentini. A Lecce, nel 1995, Matteo metteva dischi techno al centro sociale Stazione Ippica. Qualche anno dopo avrebbe organizzato feste al Livello 57 a Bologna. Bisognerebbe chiedere, al contrario, che ruolo ha avuto il movimento dei rave nello del Salento. I rave e poi i teknival sono arrivati a fine anni ’90 e in realtà non hanno cambiato più di tanto la realtà salentina, perché all’epoca si organizzavano già imponenti dance-hall illegali, anche se la musica era differente. La cultura delle feste illegali, ovvero delle “occupazioni” musicali che duravano per giorni e giorni, era già ben radicata in Salento, anche se oggi sono in pochi a ricordarsene. Oltretutto lo stesso Dj Wr iniziò a suonare musica jungle subito dopo la fuoriuscita dai Sud Sound System, a meta degli anni ’90. In Salento, come a Londra, la cultura rave ha quindi pagato il suo debito nei confronti della cultura giamaicana. Oggi invece niente più dance-hall né rave, tutto è incanalato principalmente in eventi legali. Una solida eredità sopravvive, quindi, anche se la repressione è forte. Ma il legame più profondo del nostro territorio con la scena rave fu scoperto nei primi anni ’90 da due docenti universitari, Piero Fumarola e George Lapassade, che contribuirono a sciogliere i legami più arcani tra la pizzica tradizionale salentina, il taranta-muffin autoctono dei Sud Sound System e la transe estatica dei rave. Furono proprio loro ad inventare il termine techno-pizzica e a lanciare band come i Nidi D’Arac. La riscoperta della pizzica a metà anni ’90 si è innestata proprio su questo terreno artisticamente molto fertile, e tali dinamiche sono spiegate esaustivamente all’interno del libro.
Raccontaci una storia degna di attenzione.
Nel 1998, quando mi trasferii Londra, all’interno di un rave illegale mi sono imbattuto in un banchetto informativo sulle droghe. C’erano volantini dettagliati per ogni sostanza in cui venivano spiegate caratteristiche, precauzioni d’uso, controindicazioni e interazioni con altre droghe e una ragazza offriva persino un test gratuito delle pasticche di ecstasy con delle strane cartine al tornasole che ne verificavano il contenuto. Mi sembrava roba da folletti. Tempo dopo capii che era prassi abbastanza ordinaria in Inghilterra, ma anche in Olanda, per non parlare della Francia, e così via. In Italia invece no. Gli unici che in tempi non sospetti (e in ambito illegale) hanno offerto un servizio di riduzione del danno sono stati i ragazzi del Lab57, al Livello57 di Bologna. Da qualche anno ormai alcune associazioni hanno iniziato a muoversi grazie alle regolamentazioni della comunità europea. Possono effettuare assistenza sanitaria, informare con volantini esplicativi, ma ancora, in Italia, non possono effettuare liberamente i test. Ti rendi conto? Sono passati vent’anni, ma qui siamo particolarmente retrogradi e ignoranti in materia: poi però inorridiamo quando accadono tragedie come quella di quest’estate al Cocoricò...
Quale eredità musicale e sociale ci ha lasciato la scena dei rave?
A livello musicale l’eredità è enorme: pensa a quanto la musica dance ormai influenzi il pop, l’hip hop e tutto l’indie rock, a partire dall’underground più oscuro; e pensa a tutti i Festival rock odierni, che da un certo orario m poi si trasrormano praticamente in superclub. A livello sociale, invece, la cultura rave ha stravolto il modo di pensare e di agire di molti: tra le tifoserie degli hooligan inglesi, nei centri sociali italiani, tra gli attivisti di social forum internazionali; ha addirittura modificato l’assetto di quartieri e città e nel libro si racconta di Ostia. Oggi l’utenza che frequentava i rave negli anni ’90 e nei primi anni del 2000 è stata comunque assorbita dai numerosi bar, club e locali sparsi un po’ per tutta l’Europa in cui si consuma liberamente il rito dionisiaco. Ma il rave illegale in senso stretto torna e ritorna ciclicamente. L’artista inglese Burial qualche anno fa parlava nostalgicamente dei rave che non aveva vissuto in prima persona per motivi anagrafici. Oggi gli italiani Aucan ammettono di essere influenzati dalla scena rave. Probabilmente al più sfugge la percezione di quanto questo movimento sia stato e sia ancora importante. Rave new world racconta le ramificazioni e le implicazioni di una scena rivoluzionaria che ormai si è spinta fino in Palestina.
di Ennio CiottaPartiamo dall’inizio. Che cos’è un rave?
A questa mi piacerebbe rispondere con le parole di Astrid Fontaine e Carolen Fontana che cito nel libro: “Il rave nella sua essenza è rottura, gioco, trascendenza. Il rave è una festa-transe, un’esperienza di sacro-selvaggio. […] Nel cuore della festa si ricrea il legame sociale. All’interno di una folla eterogenea la festa fa rinascere un accordo, una solidarietà, un valore comune. Essa si oppone all’indifferenza della massa, all’esperienza quotidiana della solitudine dell’uomo che si nega fino a non esistere più. […] I raver non hanno un Dio comune, sono soli nel loro delirio, soli nella loro transe, anche se essa è collettiva. Ma le loro esperienze sono abbastanza vicine da sentirsi insieme, in accordo da poter scambiarsi, essere presenti gli uni agli altri, senza parlare, durante la festa. […] Di fronte a un malessere sociale diffuso, la cui causa non è identificabile, il rave veicola per molti la fede in un’altra realtà possibile, spirituale e non. La festa risponde in questo senso a un eccesso di energia che lo sommerge in alcuni momenti facendo scoppiare il quadro sociale e culturale”.
Come nasce l’idea di scrivere il libro?
Da qualche anno mi girava in testa un articolo che raccontava l’esplosione di un movimento rave a livello internazionale e l’incontro/scontro con l’universo dei centri sociali italiani. Poi ho conosciuto Marco Philopat di Agenzia X e ho capito che potevo scrivere un libro.
Che ruolo ha avuto il Salento nello sviluppo del movimento dei rave?
Diciamo nessuno, a parte il fatto che i Tekno Mobil Squad, una delle prime crew italiane tekno, erano per metà salentini. A Lecce, nel 1995, Matteo metteva dischi techno al centro sociale Stazione Ippica. Qualche anno dopo avrebbe organizzato feste al Livello 57 a Bologna. Bisognerebbe chiedere, al contrario, che ruolo ha avuto il movimento dei rave nello del Salento. I rave e poi i teknival sono arrivati a fine anni ’90 e in realtà non hanno cambiato più di tanto la realtà salentina, perché all’epoca si organizzavano già imponenti dance-hall illegali, anche se la musica era differente. La cultura delle feste illegali, ovvero delle “occupazioni” musicali che duravano per giorni e giorni, era già ben radicata in Salento, anche se oggi sono in pochi a ricordarsene. Oltretutto lo stesso Dj Wr iniziò a suonare musica jungle subito dopo la fuoriuscita dai Sud Sound System, a meta degli anni ’90. In Salento, come a Londra, la cultura rave ha quindi pagato il suo debito nei confronti della cultura giamaicana. Oggi invece niente più dance-hall né rave, tutto è incanalato principalmente in eventi legali. Una solida eredità sopravvive, quindi, anche se la repressione è forte. Ma il legame più profondo del nostro territorio con la scena rave fu scoperto nei primi anni ’90 da due docenti universitari, Piero Fumarola e George Lapassade, che contribuirono a sciogliere i legami più arcani tra la pizzica tradizionale salentina, il taranta-muffin autoctono dei Sud Sound System e la transe estatica dei rave. Furono proprio loro ad inventare il termine techno-pizzica e a lanciare band come i Nidi D’Arac. La riscoperta della pizzica a metà anni ’90 si è innestata proprio su questo terreno artisticamente molto fertile, e tali dinamiche sono spiegate esaustivamente all’interno del libro.
Raccontaci una storia degna di attenzione.
Nel 1998, quando mi trasferii Londra, all’interno di un rave illegale mi sono imbattuto in un banchetto informativo sulle droghe. C’erano volantini dettagliati per ogni sostanza in cui venivano spiegate caratteristiche, precauzioni d’uso, controindicazioni e interazioni con altre droghe e una ragazza offriva persino un test gratuito delle pasticche di ecstasy con delle strane cartine al tornasole che ne verificavano il contenuto. Mi sembrava roba da folletti. Tempo dopo capii che era prassi abbastanza ordinaria in Inghilterra, ma anche in Olanda, per non parlare della Francia, e così via. In Italia invece no. Gli unici che in tempi non sospetti (e in ambito illegale) hanno offerto un servizio di riduzione del danno sono stati i ragazzi del Lab57, al Livello57 di Bologna. Da qualche anno ormai alcune associazioni hanno iniziato a muoversi grazie alle regolamentazioni della comunità europea. Possono effettuare assistenza sanitaria, informare con volantini esplicativi, ma ancora, in Italia, non possono effettuare liberamente i test. Ti rendi conto? Sono passati vent’anni, ma qui siamo particolarmente retrogradi e ignoranti in materia: poi però inorridiamo quando accadono tragedie come quella di quest’estate al Cocoricò...
Quale eredità musicale e sociale ci ha lasciato la scena dei rave?
A livello musicale l’eredità è enorme: pensa a quanto la musica dance ormai influenzi il pop, l’hip hop e tutto l’indie rock, a partire dall’underground più oscuro; e pensa a tutti i Festival rock odierni, che da un certo orario m poi si trasrormano praticamente in superclub. A livello sociale, invece, la cultura rave ha stravolto il modo di pensare e di agire di molti: tra le tifoserie degli hooligan inglesi, nei centri sociali italiani, tra gli attivisti di social forum internazionali; ha addirittura modificato l’assetto di quartieri e città e nel libro si racconta di Ostia. Oggi l’utenza che frequentava i rave negli anni ’90 e nei primi anni del 2000 è stata comunque assorbita dai numerosi bar, club e locali sparsi un po’ per tutta l’Europa in cui si consuma liberamente il rito dionisiaco. Ma il rave illegale in senso stretto torna e ritorna ciclicamente. L’artista inglese Burial qualche anno fa parlava nostalgicamente dei rave che non aveva vissuto in prima persona per motivi anagrafici. Oggi gli italiani Aucan ammettono di essere influenzati dalla scena rave. Probabilmente al più sfugge la percezione di quanto questo movimento sia stato e sia ancora importante. Rave new world racconta le ramificazioni e le implicazioni di una scena rivoluzionaria che ormai si è spinta fino in Palestina.
www.justkidsmagazine.it, 3 dicembre 2015 Rave new world
Il principale timore che nutro nei confronti di Rave new world. L’ultima controcultura, è che resti confinato a un pubblico di appassionati, per i quali questo libro di Tobia d’Onofrio non rappresenterà altro che una serie di ricordi e approfondimenti su un movimento di cui conoscono già quasi tutto, avendolo vissuto dall’interno. Una tendenza che ho notato in recensioni come questa e nella (pur interessante) prefazione di Valerio Mattioli.
Sarebbe una bellissima occasione perduta, perché Rave new world, a mio parere, esprime il suo massimo potenziale proprio se indirizzato a chi – come il sottoscritto – a un rave non ci è mai stato, e perfino a chi ha quella conoscenza grossolana e approssimativa del fenomeno suggerita dai mezzi d’informazione dell’epoca, che facevano di tutta l’erba un fascio accomunando club parties e rave illegali nell’unico, approssimativo calderone di “droga + stragi del sabato sera”.
Il punto di forza di questo esaustivo trattato è proprio quello di offrire una prospettiva diversa del movimento rave, ovvero quella di una persona che ne è stato partecipante attivo e ne conosce a menadito quelle implicazioni politiche e sociali che non saranno mai trattate in alcun libro di storia. Tobia d’Onofrio illustra i propositi di sovversione dell’ordine costituito e la matrice anticapitalista dei raver, le radici culturali del fenomeno (che affondano nel rito tribale di festa come modo per esorcizzare la routine quotidiana), il terreno musicale in cui si definisce – e di cui Tobia ha una conoscenza ai limiti dell’autismo – e ovviamente il ruolo della droga, che qui non è il cardine fondamentale del movimento ma ne rappresenta comunque un elemento importante, trattato con un’audacia e una libertà di pensiero a cui forse non siamo più abituati.
Rave new world. L’ultima controcultura è un saggio corale, con interviste ad alcuni dei più importanti rappresentanti del movimento rave (come la Mutoid Waste Company e la Spiral Tribe) e il giusto dosaggio di esperienza personale: l’autore entra in prima persona nella narrazione con gusto, solo quando il suo apporto è fondamentale e arricchisce il filo logico del discorso. Non ultimo, va sottolineato il ruolo delle gallerie fotografiche, che contribuiscono a spiegare il fenomeno come rito di festa collettiva che mette lo spettatore al centro di tutto, come spiega Tobia stesso: “La musica che esce fuori dal nulla, il dj non esiste, invisibile dietro un totem: il muro di casse acustiche. La musica penetra sottopelle e muove le viscere. Nessun palco, nessun performer, tranne il pubblico stesso che incrocia sguardi e passi di danza galleggiando su un’invisibile Jacuzzi in sincronia con la pulsazione dell’universo. La gente stessa è la festa. Il raver è l’unico protagonista. Non c’è alcun fine, nessuno scopo. Soltanto totale libertà d’espressione in condivisione. Uno spazio liberato. Una Zona temporaneamente autonoma”.
Qualcuno potrebbe pensare che se non si è preso parte al movimento rave sarà impossibile capire le parole di Tobia in questo libro edito da Agenzia X. Io, al contrario, sono convinto che proprio chi non sa nulla di quanto sia stato importante questo fenomeno dovrebbe assolutamente leggere Rave new world e consigliarlo a chi è disposto ad aprire la propria mente per superare i preconcetti imposti dai media.
di Claudio DelicatoSarebbe una bellissima occasione perduta, perché Rave new world, a mio parere, esprime il suo massimo potenziale proprio se indirizzato a chi – come il sottoscritto – a un rave non ci è mai stato, e perfino a chi ha quella conoscenza grossolana e approssimativa del fenomeno suggerita dai mezzi d’informazione dell’epoca, che facevano di tutta l’erba un fascio accomunando club parties e rave illegali nell’unico, approssimativo calderone di “droga + stragi del sabato sera”.
Il punto di forza di questo esaustivo trattato è proprio quello di offrire una prospettiva diversa del movimento rave, ovvero quella di una persona che ne è stato partecipante attivo e ne conosce a menadito quelle implicazioni politiche e sociali che non saranno mai trattate in alcun libro di storia. Tobia d’Onofrio illustra i propositi di sovversione dell’ordine costituito e la matrice anticapitalista dei raver, le radici culturali del fenomeno (che affondano nel rito tribale di festa come modo per esorcizzare la routine quotidiana), il terreno musicale in cui si definisce – e di cui Tobia ha una conoscenza ai limiti dell’autismo – e ovviamente il ruolo della droga, che qui non è il cardine fondamentale del movimento ma ne rappresenta comunque un elemento importante, trattato con un’audacia e una libertà di pensiero a cui forse non siamo più abituati.
Rave new world. L’ultima controcultura è un saggio corale, con interviste ad alcuni dei più importanti rappresentanti del movimento rave (come la Mutoid Waste Company e la Spiral Tribe) e il giusto dosaggio di esperienza personale: l’autore entra in prima persona nella narrazione con gusto, solo quando il suo apporto è fondamentale e arricchisce il filo logico del discorso. Non ultimo, va sottolineato il ruolo delle gallerie fotografiche, che contribuiscono a spiegare il fenomeno come rito di festa collettiva che mette lo spettatore al centro di tutto, come spiega Tobia stesso: “La musica che esce fuori dal nulla, il dj non esiste, invisibile dietro un totem: il muro di casse acustiche. La musica penetra sottopelle e muove le viscere. Nessun palco, nessun performer, tranne il pubblico stesso che incrocia sguardi e passi di danza galleggiando su un’invisibile Jacuzzi in sincronia con la pulsazione dell’universo. La gente stessa è la festa. Il raver è l’unico protagonista. Non c’è alcun fine, nessuno scopo. Soltanto totale libertà d’espressione in condivisione. Uno spazio liberato. Una Zona temporaneamente autonoma”.
Qualcuno potrebbe pensare che se non si è preso parte al movimento rave sarà impossibile capire le parole di Tobia in questo libro edito da Agenzia X. Io, al contrario, sono convinto che proprio chi non sa nulla di quanto sia stato importante questo fenomeno dovrebbe assolutamente leggere Rave new world e consigliarlo a chi è disposto ad aprire la propria mente per superare i preconcetti imposti dai media.
Mucchio selvaggio, novembre 2015 Rave new world
Voto: 8
Archeologia industriale, cavalcavia, polvere sul suolo, spazi verdi e “giardinaggi” tribal-danzanti. L’accoglienza è insolita: ci si arrangia in diverse migliaia. Spiriti liberi, in corpo un mix di rabbia e solitudine. La “Comune” e l’empatia, corpi mutanti e consapevoli dell’essere sull’orio del precipizio o sorridenti nello sventolare una t-shirt in cima a un sound-system. Effetto paracadute, techno “mala musica”, individui che “riciclano” recapiti non più mappati e il loro essere (lì). Diffìcilmente il r’n’r potrà essere la colonna portante del XXI secolo. Derive: la chitarra di Hendrix che prende fuoco e il trittico del dosaggio. Approdi: la parata sulla strada (ma non è la banda comunale) e lo spirito edonista e allucinato. Pagine, ricche di citazioni: Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono. (Bertolt Brecht). E poi: il rock racconta esperienze in cui l’ascoltatore può identificarsi: il rave hardcore costruisce insieme all’ascoltatore un’esperienza che contribuisce a creare e modellare un immaginario. (Simon Reynolds).
Nell’era del dubbio permanente, del ticchettio esistenziale e in cui la vita pare sia un resto che qualcuno ti dà, Tobia D’Onofrio eccelle nel ripercorrere scenari, stati d’animo, quel “filo rosso” che va dagli avamposti agli ultimi spazi territorializzati. Interviste (Mutoid Waste Company, Alec Empire ecc.), significative immagini e soprattutto un ripasso pluri-decennale che è un soffio che spinge a eludere controlli: cyberpunk, rituali nel corso del tempo, free festival, raduni “martello”, tecno-paganesimi, idilliaci traveller. L’accurata analisi di stili di vita non convenzionali, danzatori che sono masse eterogenee, provocazioni nichiliste, antiautoritarismo, l’essere elemento alternativo vietato dalla legge (nei fatti, nei proclami, nella criminalizzazione a prescindere). Continua “autonoma”: tra punti critici, druida, trascendentale. Si partecipa: onde di configurazioni connesse o non connesse.
di Massimo PirottaArcheologia industriale, cavalcavia, polvere sul suolo, spazi verdi e “giardinaggi” tribal-danzanti. L’accoglienza è insolita: ci si arrangia in diverse migliaia. Spiriti liberi, in corpo un mix di rabbia e solitudine. La “Comune” e l’empatia, corpi mutanti e consapevoli dell’essere sull’orio del precipizio o sorridenti nello sventolare una t-shirt in cima a un sound-system. Effetto paracadute, techno “mala musica”, individui che “riciclano” recapiti non più mappati e il loro essere (lì). Diffìcilmente il r’n’r potrà essere la colonna portante del XXI secolo. Derive: la chitarra di Hendrix che prende fuoco e il trittico del dosaggio. Approdi: la parata sulla strada (ma non è la banda comunale) e lo spirito edonista e allucinato. Pagine, ricche di citazioni: Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono. (Bertolt Brecht). E poi: il rock racconta esperienze in cui l’ascoltatore può identificarsi: il rave hardcore costruisce insieme all’ascoltatore un’esperienza che contribuisce a creare e modellare un immaginario. (Simon Reynolds).
Nell’era del dubbio permanente, del ticchettio esistenziale e in cui la vita pare sia un resto che qualcuno ti dà, Tobia D’Onofrio eccelle nel ripercorrere scenari, stati d’animo, quel “filo rosso” che va dagli avamposti agli ultimi spazi territorializzati. Interviste (Mutoid Waste Company, Alec Empire ecc.), significative immagini e soprattutto un ripasso pluri-decennale che è un soffio che spinge a eludere controlli: cyberpunk, rituali nel corso del tempo, free festival, raduni “martello”, tecno-paganesimi, idilliaci traveller. L’accurata analisi di stili di vita non convenzionali, danzatori che sono masse eterogenee, provocazioni nichiliste, antiautoritarismo, l’essere elemento alternativo vietato dalla legge (nei fatti, nei proclami, nella criminalizzazione a prescindere). Continua “autonoma”: tra punti critici, druida, trascendentale. Si partecipa: onde di configurazioni connesse o non connesse.
Rumore, novembre 2015 Rave new world
Voto: 9/10
La scena internazionale dei rave, in ordine cronologico l’ultima delle controculture, raccontata in maniera didascalica ed appassionata da Tobia D’Onofrio, giornalista che ha vissuto dall’interno il movimento. Il racconto parte da lontano: dai free festival britannici a cavallo fra gli anni sessanta e gli anni ottanta, passando dalla nascita dei fenomeno Ibiza e della scena acid house, fino ad arrivare agli anni novanta in Gran Bretagna: dove una danza collettiva, mossa da sognatori e da comunità liberate guidati da flyer scritti in codice, infoline e motivazioni politiche e sociali, si radunava come d’incanto sotto un muro di casse nella periferia della città, trasformando le feste in rituali liberatori e la propria vita in un profondo senso d’appartenenza alla scena. Il libro, oltre a raccogliere le interessantissime testimonianze degli studiosi e dei protagonisti della scena – Simon Reynolds, Spiral Tribe, Mutoid Waste Company, D’Arcangelo, Dj War, Atari Teenags Riot, Kernel Panik, Tekno Mobil Squad i quali raccontano dettagliatamente la nascita e l’evoluzione del fenomeno – analizza con cura tutte le connessioni fra musica, trance, dissociazione e uso di sostanze; spiegando la nascita delle derive elettroniche underground come hardcore, jungle, grime, drum’n’bass, gabber, dubstep. L’occasione giusta per cogliere i1 senso di uno stile di vita ad altissimo livello di apertura e libertà in tutte le sue contraddizioni.
di Ennio CiottaLa scena internazionale dei rave, in ordine cronologico l’ultima delle controculture, raccontata in maniera didascalica ed appassionata da Tobia D’Onofrio, giornalista che ha vissuto dall’interno il movimento. Il racconto parte da lontano: dai free festival britannici a cavallo fra gli anni sessanta e gli anni ottanta, passando dalla nascita dei fenomeno Ibiza e della scena acid house, fino ad arrivare agli anni novanta in Gran Bretagna: dove una danza collettiva, mossa da sognatori e da comunità liberate guidati da flyer scritti in codice, infoline e motivazioni politiche e sociali, si radunava come d’incanto sotto un muro di casse nella periferia della città, trasformando le feste in rituali liberatori e la propria vita in un profondo senso d’appartenenza alla scena. Il libro, oltre a raccogliere le interessantissime testimonianze degli studiosi e dei protagonisti della scena – Simon Reynolds, Spiral Tribe, Mutoid Waste Company, D’Arcangelo, Dj War, Atari Teenags Riot, Kernel Panik, Tekno Mobil Squad i quali raccontano dettagliatamente la nascita e l’evoluzione del fenomeno – analizza con cura tutte le connessioni fra musica, trance, dissociazione e uso di sostanze; spiegando la nascita delle derive elettroniche underground come hardcore, jungle, grime, drum’n’bass, gabber, dubstep. L’occasione giusta per cogliere i1 senso di uno stile di vita ad altissimo livello di apertura e libertà in tutte le sue contraddizioni.
http://noisey.vice.com, 15 ottobre 2015 Rave new future
Tutti quelli che in Italia hanno più o meno la mia età, ovvero i nati tra il 1985 e il 1990, hanno avuto pesantemente a che fare con i free party. Anche per contrasto, anche per stabilire una distanza sarcastica col mondo dei “teknoranger”, un rifiuto totale in quanto abitanti di contesti politici e culturali opposti, oppure – al contrario – in quanto critici “dall’interno” delle controculture. Per lo più, però, li abbiamo attraversati in maniera potente, come invito a ritrovare un’intensità duratura e determinante nel godimento, come stimolo eccitante a partecipare a una produzione di cultura. Per quante contraddizioni e ipocrisia contenesse, per quanto fosse limitato, quel mondo rappresentava un’opportunità ricchissima. Oggi riesco solo a pensare che ne abbiamo completamente sprecato le potenzialità, che se pure il movimento è collassato per cause fisiologiche, noi di sicuro non ne abbiamo saputo raccogliere la lezione per farne qualcosa di ulteriore.
Sta comunque di fatto che, quando avevo sedici anni io, si dava per scontato che ogni sabato da qualche parte ci fosse una Festa, un rave, un free party, per non parlare degli occasionali e colossali teknival e delle street parade. Quando non ce ne erano di illegali, ci pensavano i centri sociali, ma quello non era che il palliativo di un’esperienza che, per definizione, doveva essere fatta in luoghi che venivano attraversati solo nell’arco della festa, ai margini della città e fruita da una rete di persone che si erano scambiate le informazioni in maniera diretta. In quei luoghi si sconvolgevano elementi del sistema produttivo (tecnologia di tutti i tipi, rifiuti, luoghi di lavoro abbandonati) nel loro nemico n.1. Bisognava però andarci con una mentalità che era il contrario dell’evasione che si va a cercare nei club, capire che la vita vera, l’energia vera, si riguadagnava perdendosi insieme ad altre migliaia di corpi e coscienze che l’invalicabile muro di casse proteggeva da eventuali scalate gerarchiche.
A chi ha quegli interessi, oggi, tocca in larga parte ricominciare daccapo, e non mi pare casuale che, a distanza di circa vent’anni da quando il fenomeno è arrivato in Italia, si ricominci pesantemente a parlarne. Non è solo una questione di storicizzazione regolare (il famoso riflusso ventennale), c’è invece un’urgenza che non trova più troppi modi concreti di esprimersi. “Io credo che abbiamo un’eccesso di energia che non si può sfogare in nessun in altro modo”, mi dice Tobia D’Onofrio facendo riferimento ad Astrid Fontaine e Caroline Fontana e al loro libro del 1997 Raver, uno dei testi che ha affrontato il mondo dei rave dal punto di vista dell’antropologia culturale, insieme a Dallo sciamano al raver di Georges Lapassade, del 2008. Il libro di Tobia, invece, si intitola Rave New World. L’ultima controcultura, ed è appena uscito per AgenziaX. Cita entrambi i testi che ho appena nominato, e al lavoro di Lapassade deve probabilmente molto di più degli altri. È questo che lo rende molto diverso da altri testi usciti di recente in Italia sull’argomento, a cominciare dal cruciale Free Party. Technoanimia per delinquenza giovanile (2002) di Francesco Macarone Palmieri, per seguire coi più narrativi Tekno Free Doom (Syd B) e Muro Di Casse (Vanni Santoni), usciti entrambi quest’anno.
Rave New World prova sia a differenziarsi che a riassumere la lezione di chi lo ha preceduto, facendo anzitutto una genealogia della cultura dance elettronica, poi interviste a tanti dei protagonisti della scena (di generazioni e provenienze molto diverse, da 69db a Kola dei Kernel Panic ad Alec Empire), provando anche a ricostruire sia l’intertestualità politica del movimento che il suo fondamentale rapporto con lo sballo psicoattivo, profondamente cambiato nel tempo. Oltre a questo, però, Tobia non si è scordato di toccare anche una serie di aspetti che potrebbero essere, a seconda dei punti di vista, il risultato della sovrapposizione di godimento, alterazione psichica e politica, oppure il loro fondamento. L’idea di rave illegale, quindi, come sovversione che nasce dalla necessità di riprendere una libera ritualità collettiva in cui l’individuo non si senta schiacciato ma sublimato, ricostruire una spiritualità fondamentale, fare una critica della separazione per immanentizzare l’assoluto. Se vogliamo chiamarla transe, facciamo pure.
Tobia spiega così il ritorno di interesse: “Tu dici che adesso si sta ricominciando a parlare di rave, io dico che il movimento rave sta cambiando. Da noi non c’è stato ancora il ritorno all’illegale, lo dico nel finale del libro, in Inghilterra ne stanno ricominciando a sentire l’esigenza. Come dice Simon Reynolds, ultimamente si sente molto meno la differenza tra il festival rave e il festival elettronico. In festival come Glastonbury [le cui radici druidico-hippy sono ancora ben piantate a terra, NdR] si sente ancora il bisogno energetico. Da altre parti no. Io sono andato a sentirmi gli Spiral Tribe al completo in un club e ti assicuro che non è la stessa cosa. Eppure anche loro ora stanno ricominciando a suonare agli illegali.”
Un valore aggiunto del libro è, senza dubbio, il funzionare secondo una pluralità di linguaggi; il tono prevalentemente saggistico non impedisce una narrativa personale, un racconto di esperienze dirette e un netto posizionamento politico. In mezzo a ciò, le interviste spezzano il flusso e lanciano suggestioni per argomenti che arriveranno più avanti, o ricompongono idee già apparse, sotto punti di vista nuovi. Il discorso diretto, sia quello dell’autore che degli intervistati, non serve ad altro che a evitare di allontanarsi da quella che è l’essenza del raving: l’esperienza, appunto. L’attraversamento individuale di un tempo che si dilata col tempo e di uno spazio che si espande e comprime a seconda della distanza e della relazione che si stabilisce con il suono e con gli altri corpi, comprese le architetture e i paesaggi – svuotati e poi ri-colmati di senso – in cui i rave si tengono. Anche a fronte dell’impossibilità di rendere a parole quel genere di emozione spirituale caricata a sostanze (chiamiamole per nome: MDMA, Speed, LSD, Ketamina), è importante provare a mettere più il proprio percorso libidinale che il proprio ego dentro il testo.
A differenza di Tobia, io dei Rave ricordo soprattutto la frustrazione che mi davano, il senso di spreco. Per motivi anagrafici ho cominciato a frequentare le feste intorno al 2003/2004, fino a circa il 2008, durante quello che per Vanni Santoni è stato forse il momento di maggiore potenza del movimento, ma che per molti della prima ora, specialmente della scena romana (da Macarone Palmieri al Duka, a Matteo Swaitz) era già una fase “postuma”, di manierismo a ripetizione. Non riesco a dare torto a nessuno dei due fronti: per come l’ho vissuta io e l’hanno vissuta quelli della mia età, ripeto, fu una roba enorme, che coinvolgeva di volta in volta migliaia di persone in tutte le parti d’Italia e in grosse parti d’Europa. Ricordo un proliferare quasi ridicolo di feste, fino a una moltiplicazione incredibile anche all’interno della provincia più sfigata. In questo senso ricordo un’energia notevole, ma per forza di cose ricordo anche una ferocissima banalizzazione del potenziale sovversivo delle feste stesse: da esperimenti di costruzione della Zona Temporaneamente Autonoma, i rave si stavano paradossalmente trasformando in spazi normati, regolati da una serie di convenzioni consumistiche. Avevano già ripiegato su un linguaggio statico, dove i cliché erano molto più forti di qualsiasi apertura all’innovazione e dove forme fiacche di tekno zompettante e facilona la facevano da padrone. Insomma, quelli della mia età erano arrivati già con la pappa pronta e non l'avevano manco voluta rimescolare.
A generare la mia frustrazione era proprio questo, la contraddizione tra le motivazioni e l’articolazione di queste, che poi era la stessa che c’era tra gli slogan e la realtà. “Free” doveva significare soprattutto libertà di sperimentazione, sia nelle dinamiche sociali che nei modi di esprimersi. Invece, per una parte mi pareva che stessimo tutti acriticamente a consumare un pacchetto preconfezionato di significanti estetici, la memoria di qualcosa che era stato grande, fortissimo, e che stava andando in necrosi proprio quando la gente che voleva farne parte era tantissima. Uno spreco pazzesco, appunto. Nel libro, chiunque venga interpellato dice la sua, e insieme compongono un mosaico di concause che, in fondo, sembrano anche tutte correlate. Me lo riassume Tobia: “Nel libro dico la mia, dico che secondo me il grasso che ha iniziato a colare dall’industria discografica ha rovinato il movimento. Luciano Lamanna invece dice che sono state le droghe ad avere la meglio, perché il movimento non diceva ‘eliminiamo le droghe’ ma ‘autogestiamole’. Per quanto mi riguarda, su questo discorso, credo il cambio radicale sia avvenuto nel 2000, nel momento in cui sono state sdoganate le roccette di crack e le stagnole di eroina. È un’opinione personale, altri dicono che invece è stata la ketamina a rovinare la scena. In Inghilterra inizialmente veniva usata alla fine dei party, i problemi sono poi iniziati quando la gente ha voluto portarla ai party.”
Stranamente, in pochi parlano dei cambiamenti più legati alla musica. Quando andavo alle feste volevo sentire musica che avrebbe dovuto asportarmi pezzi di cervello e sostituirli con periferiche psichedeliche, mettendomi alla prova da un punto di vista di ciò che potessi aspettarmi da un’esperienza sonora, e allo stesso tempo darmi una gran botta di energia. Quella che invece trovavo non mi pareva che una vaghissima ombra di un passato glorioso, fatta senza troppo sbattimento da qualcuno che riusciva funzionalmente a sentire solo la cassa. Mi pareva che non le venisse data importanza, così come man mano vedevo che si dava importanza alla trasformazione dello spazio in qualcosa di esteticamente stimolante. Eppure, se proprio non eravamo lì solo per fare quello (ascoltare musica), di sicuro la cura di quegli stimoli era fondamentale. Invece mi pareva che la scusa dell’inclusività (che, non scordiamocelo, era fondamentale) avesse alla lunga reso tutto molto vacuo.
Potete immaginare quanto ho rosicato leggendo i racconti dei vari Mutoid Waste Company e pionieri simili quando parlano del loro modo di intendere l’esperienza totale della festa. Che poi è lo stesso rosicamento che provo ad ascoltare la musica di certe tribe delle origini che, quando sono arrivato io, si era già mostrizzata in una controparte infinitamente più “barattolara”. Tobia è, in fondo, abbastanza d’accordo: “Però parli con la persona sbagliata. Io per esempio in Inghilterra andavo ai party degli Hekate, e li adoravo. Loro facevano roba sperimentale, ma se vai a vedere nei vari forum di raver in cui sono iscritto io, nessuno li può sopportare, anche se sono una tribe storica… Incancrenirsi sul sound non ha giovato e che senso ha? Il bello dei rave era anche la possibilità di creare spazi diversi e scegliere dove andare. Nel libro dico che l’idea era ‘abbiamo sentito della musica pazzesca, mai sentita’… Mi è capitato molte volte stare sotto cassa… per me ora è impossibile definirlo, ma ricordo ad esempio molto bene il capodanno del 2000 con la Sound Conspiracy, quando ad un certo punto ci siamo guardati tutti con gli occhi sbarrati e non capivamo se quella che stavamo ascoltando era musica o veniva da qualche altra parte. Quando ti capita questa cosa è un’emozione che non puoi trovare in altre situazioni. Andare al rave per sentire quello che già sai che sentirai è un controsenso: l’esperienza è tanto più potente quanto più è inedita. Come dice Simon Reynolds, il movimento rave è andato avanti mutando e seguendo i cambiamenti della scena musicale.”
E non solo: in quanto parte di un movimento di resistenza transnazionale, i raver hanno vissuto sulla loro pelle anche l’andamento (va detto) tragico della lotta politica. Negli anni Duemila, se tra chi faceva politica antagonista si respirava un terribile senso di confusione e di ansia, questo stesso nichilismo si andava spesso a riversare sui modo di intendere il godimento, e quindi sulle feste. Ecco allora il progressivo inasprirsi di uno sfascio sempre più politicamente contraddittorio e sempre meno spirituale, che non poteva non generare un’ondata di diffidenza che ha portato il movimento antagonista a non occuparsi più del godimento, perlomeno non per farne più un’arma di deprogrammazione radicale. Per Tobia è molto difficile dividere le cose: “Per chi ha vissuto la cultura rave, anche a livello emozionale era scontato associarla al movimento No Global. La direzione che la politica ha preso ha influenzato sicuramente il movimento. Probabilmente è vero, la repressione post-Genova ha generato ancora più nichilismo. Non ne sono sicuro.”
Ricordo, dopo quello che è successo lo scorso 1° maggio a Milano, di avere discusso con amici che sostenevano che le violenze fossero anche un riflusso del fatto che la storica May Day era da tempo stata trasformata, che il suo carattere edonistico-raver fosse stato cancellato dai movimenti milanesi. Sulle prime non sono stato molto d’accordo. Ripensandoci ora, mi sembra di avere avuto torto io. Certo, non c’è sicuramente una correlazione diretta, però è vero che lo iato completo tra i due movimenti li ha impoveriti entrambi in maniera terminale. È anche oggettivamente chiaro che la diminuitissima attitudine all’occupazione e all’autogestione di spazi abbia indebolito una rete che faceva tesoro di competenze e forze collettive.
Mi accorgo di avere, finora, scritto praticamente solo di cosa ha ucciso i rave. Eppure, per tornare da dove siamo partiti, il fatto che se ne riparli dimostra che non è tardi per rielaborare la lezione dell’ultima controcultura. L’eccesso di energia è tangibile, nei down irrisolti del lunedì mattina e nell’amarezza che anche le trentasei ore di clubbing alla berlinese non riescono a esorcizzare. È vero, come dice Tobia, che si sta tornando agli illegali, che anche “Le teste di serie del movimento” stanno tornando a sentire la necessità di starsene fuori dai club? Forse sì, ma mi pare più rilevante rendersi conto del fatto che mai come ora l’urgenza antagonista è un tutt’uno con la necessità pratica di avere il controllo delle proprie vite. Se la società disciplinare è sempre più invasiva, il “delirio” (rave) diventa un bisogno di tutti. Ma chi se ne fotte dei luoghi comuni che associamo alla parola “raver”, chi se ne fotte delle forme musicali usate e non usate: l’unico patto col passato che andrebbe fatto, sarebbe la promessa di recuperarne l’intensità e, soprattutto, il coraggio insurrezionale.
di Francesco Birsa AlessandriSta comunque di fatto che, quando avevo sedici anni io, si dava per scontato che ogni sabato da qualche parte ci fosse una Festa, un rave, un free party, per non parlare degli occasionali e colossali teknival e delle street parade. Quando non ce ne erano di illegali, ci pensavano i centri sociali, ma quello non era che il palliativo di un’esperienza che, per definizione, doveva essere fatta in luoghi che venivano attraversati solo nell’arco della festa, ai margini della città e fruita da una rete di persone che si erano scambiate le informazioni in maniera diretta. In quei luoghi si sconvolgevano elementi del sistema produttivo (tecnologia di tutti i tipi, rifiuti, luoghi di lavoro abbandonati) nel loro nemico n.1. Bisognava però andarci con una mentalità che era il contrario dell’evasione che si va a cercare nei club, capire che la vita vera, l’energia vera, si riguadagnava perdendosi insieme ad altre migliaia di corpi e coscienze che l’invalicabile muro di casse proteggeva da eventuali scalate gerarchiche.
A chi ha quegli interessi, oggi, tocca in larga parte ricominciare daccapo, e non mi pare casuale che, a distanza di circa vent’anni da quando il fenomeno è arrivato in Italia, si ricominci pesantemente a parlarne. Non è solo una questione di storicizzazione regolare (il famoso riflusso ventennale), c’è invece un’urgenza che non trova più troppi modi concreti di esprimersi. “Io credo che abbiamo un’eccesso di energia che non si può sfogare in nessun in altro modo”, mi dice Tobia D’Onofrio facendo riferimento ad Astrid Fontaine e Caroline Fontana e al loro libro del 1997 Raver, uno dei testi che ha affrontato il mondo dei rave dal punto di vista dell’antropologia culturale, insieme a Dallo sciamano al raver di Georges Lapassade, del 2008. Il libro di Tobia, invece, si intitola Rave New World. L’ultima controcultura, ed è appena uscito per AgenziaX. Cita entrambi i testi che ho appena nominato, e al lavoro di Lapassade deve probabilmente molto di più degli altri. È questo che lo rende molto diverso da altri testi usciti di recente in Italia sull’argomento, a cominciare dal cruciale Free Party. Technoanimia per delinquenza giovanile (2002) di Francesco Macarone Palmieri, per seguire coi più narrativi Tekno Free Doom (Syd B) e Muro Di Casse (Vanni Santoni), usciti entrambi quest’anno.
Rave New World prova sia a differenziarsi che a riassumere la lezione di chi lo ha preceduto, facendo anzitutto una genealogia della cultura dance elettronica, poi interviste a tanti dei protagonisti della scena (di generazioni e provenienze molto diverse, da 69db a Kola dei Kernel Panic ad Alec Empire), provando anche a ricostruire sia l’intertestualità politica del movimento che il suo fondamentale rapporto con lo sballo psicoattivo, profondamente cambiato nel tempo. Oltre a questo, però, Tobia non si è scordato di toccare anche una serie di aspetti che potrebbero essere, a seconda dei punti di vista, il risultato della sovrapposizione di godimento, alterazione psichica e politica, oppure il loro fondamento. L’idea di rave illegale, quindi, come sovversione che nasce dalla necessità di riprendere una libera ritualità collettiva in cui l’individuo non si senta schiacciato ma sublimato, ricostruire una spiritualità fondamentale, fare una critica della separazione per immanentizzare l’assoluto. Se vogliamo chiamarla transe, facciamo pure.
Tobia spiega così il ritorno di interesse: “Tu dici che adesso si sta ricominciando a parlare di rave, io dico che il movimento rave sta cambiando. Da noi non c’è stato ancora il ritorno all’illegale, lo dico nel finale del libro, in Inghilterra ne stanno ricominciando a sentire l’esigenza. Come dice Simon Reynolds, ultimamente si sente molto meno la differenza tra il festival rave e il festival elettronico. In festival come Glastonbury [le cui radici druidico-hippy sono ancora ben piantate a terra, NdR] si sente ancora il bisogno energetico. Da altre parti no. Io sono andato a sentirmi gli Spiral Tribe al completo in un club e ti assicuro che non è la stessa cosa. Eppure anche loro ora stanno ricominciando a suonare agli illegali.”
Un valore aggiunto del libro è, senza dubbio, il funzionare secondo una pluralità di linguaggi; il tono prevalentemente saggistico non impedisce una narrativa personale, un racconto di esperienze dirette e un netto posizionamento politico. In mezzo a ciò, le interviste spezzano il flusso e lanciano suggestioni per argomenti che arriveranno più avanti, o ricompongono idee già apparse, sotto punti di vista nuovi. Il discorso diretto, sia quello dell’autore che degli intervistati, non serve ad altro che a evitare di allontanarsi da quella che è l’essenza del raving: l’esperienza, appunto. L’attraversamento individuale di un tempo che si dilata col tempo e di uno spazio che si espande e comprime a seconda della distanza e della relazione che si stabilisce con il suono e con gli altri corpi, comprese le architetture e i paesaggi – svuotati e poi ri-colmati di senso – in cui i rave si tengono. Anche a fronte dell’impossibilità di rendere a parole quel genere di emozione spirituale caricata a sostanze (chiamiamole per nome: MDMA, Speed, LSD, Ketamina), è importante provare a mettere più il proprio percorso libidinale che il proprio ego dentro il testo.
A differenza di Tobia, io dei Rave ricordo soprattutto la frustrazione che mi davano, il senso di spreco. Per motivi anagrafici ho cominciato a frequentare le feste intorno al 2003/2004, fino a circa il 2008, durante quello che per Vanni Santoni è stato forse il momento di maggiore potenza del movimento, ma che per molti della prima ora, specialmente della scena romana (da Macarone Palmieri al Duka, a Matteo Swaitz) era già una fase “postuma”, di manierismo a ripetizione. Non riesco a dare torto a nessuno dei due fronti: per come l’ho vissuta io e l’hanno vissuta quelli della mia età, ripeto, fu una roba enorme, che coinvolgeva di volta in volta migliaia di persone in tutte le parti d’Italia e in grosse parti d’Europa. Ricordo un proliferare quasi ridicolo di feste, fino a una moltiplicazione incredibile anche all’interno della provincia più sfigata. In questo senso ricordo un’energia notevole, ma per forza di cose ricordo anche una ferocissima banalizzazione del potenziale sovversivo delle feste stesse: da esperimenti di costruzione della Zona Temporaneamente Autonoma, i rave si stavano paradossalmente trasformando in spazi normati, regolati da una serie di convenzioni consumistiche. Avevano già ripiegato su un linguaggio statico, dove i cliché erano molto più forti di qualsiasi apertura all’innovazione e dove forme fiacche di tekno zompettante e facilona la facevano da padrone. Insomma, quelli della mia età erano arrivati già con la pappa pronta e non l'avevano manco voluta rimescolare.
A generare la mia frustrazione era proprio questo, la contraddizione tra le motivazioni e l’articolazione di queste, che poi era la stessa che c’era tra gli slogan e la realtà. “Free” doveva significare soprattutto libertà di sperimentazione, sia nelle dinamiche sociali che nei modi di esprimersi. Invece, per una parte mi pareva che stessimo tutti acriticamente a consumare un pacchetto preconfezionato di significanti estetici, la memoria di qualcosa che era stato grande, fortissimo, e che stava andando in necrosi proprio quando la gente che voleva farne parte era tantissima. Uno spreco pazzesco, appunto. Nel libro, chiunque venga interpellato dice la sua, e insieme compongono un mosaico di concause che, in fondo, sembrano anche tutte correlate. Me lo riassume Tobia: “Nel libro dico la mia, dico che secondo me il grasso che ha iniziato a colare dall’industria discografica ha rovinato il movimento. Luciano Lamanna invece dice che sono state le droghe ad avere la meglio, perché il movimento non diceva ‘eliminiamo le droghe’ ma ‘autogestiamole’. Per quanto mi riguarda, su questo discorso, credo il cambio radicale sia avvenuto nel 2000, nel momento in cui sono state sdoganate le roccette di crack e le stagnole di eroina. È un’opinione personale, altri dicono che invece è stata la ketamina a rovinare la scena. In Inghilterra inizialmente veniva usata alla fine dei party, i problemi sono poi iniziati quando la gente ha voluto portarla ai party.”
Stranamente, in pochi parlano dei cambiamenti più legati alla musica. Quando andavo alle feste volevo sentire musica che avrebbe dovuto asportarmi pezzi di cervello e sostituirli con periferiche psichedeliche, mettendomi alla prova da un punto di vista di ciò che potessi aspettarmi da un’esperienza sonora, e allo stesso tempo darmi una gran botta di energia. Quella che invece trovavo non mi pareva che una vaghissima ombra di un passato glorioso, fatta senza troppo sbattimento da qualcuno che riusciva funzionalmente a sentire solo la cassa. Mi pareva che non le venisse data importanza, così come man mano vedevo che si dava importanza alla trasformazione dello spazio in qualcosa di esteticamente stimolante. Eppure, se proprio non eravamo lì solo per fare quello (ascoltare musica), di sicuro la cura di quegli stimoli era fondamentale. Invece mi pareva che la scusa dell’inclusività (che, non scordiamocelo, era fondamentale) avesse alla lunga reso tutto molto vacuo.
Potete immaginare quanto ho rosicato leggendo i racconti dei vari Mutoid Waste Company e pionieri simili quando parlano del loro modo di intendere l’esperienza totale della festa. Che poi è lo stesso rosicamento che provo ad ascoltare la musica di certe tribe delle origini che, quando sono arrivato io, si era già mostrizzata in una controparte infinitamente più “barattolara”. Tobia è, in fondo, abbastanza d’accordo: “Però parli con la persona sbagliata. Io per esempio in Inghilterra andavo ai party degli Hekate, e li adoravo. Loro facevano roba sperimentale, ma se vai a vedere nei vari forum di raver in cui sono iscritto io, nessuno li può sopportare, anche se sono una tribe storica… Incancrenirsi sul sound non ha giovato e che senso ha? Il bello dei rave era anche la possibilità di creare spazi diversi e scegliere dove andare. Nel libro dico che l’idea era ‘abbiamo sentito della musica pazzesca, mai sentita’… Mi è capitato molte volte stare sotto cassa… per me ora è impossibile definirlo, ma ricordo ad esempio molto bene il capodanno del 2000 con la Sound Conspiracy, quando ad un certo punto ci siamo guardati tutti con gli occhi sbarrati e non capivamo se quella che stavamo ascoltando era musica o veniva da qualche altra parte. Quando ti capita questa cosa è un’emozione che non puoi trovare in altre situazioni. Andare al rave per sentire quello che già sai che sentirai è un controsenso: l’esperienza è tanto più potente quanto più è inedita. Come dice Simon Reynolds, il movimento rave è andato avanti mutando e seguendo i cambiamenti della scena musicale.”
E non solo: in quanto parte di un movimento di resistenza transnazionale, i raver hanno vissuto sulla loro pelle anche l’andamento (va detto) tragico della lotta politica. Negli anni Duemila, se tra chi faceva politica antagonista si respirava un terribile senso di confusione e di ansia, questo stesso nichilismo si andava spesso a riversare sui modo di intendere il godimento, e quindi sulle feste. Ecco allora il progressivo inasprirsi di uno sfascio sempre più politicamente contraddittorio e sempre meno spirituale, che non poteva non generare un’ondata di diffidenza che ha portato il movimento antagonista a non occuparsi più del godimento, perlomeno non per farne più un’arma di deprogrammazione radicale. Per Tobia è molto difficile dividere le cose: “Per chi ha vissuto la cultura rave, anche a livello emozionale era scontato associarla al movimento No Global. La direzione che la politica ha preso ha influenzato sicuramente il movimento. Probabilmente è vero, la repressione post-Genova ha generato ancora più nichilismo. Non ne sono sicuro.”
Ricordo, dopo quello che è successo lo scorso 1° maggio a Milano, di avere discusso con amici che sostenevano che le violenze fossero anche un riflusso del fatto che la storica May Day era da tempo stata trasformata, che il suo carattere edonistico-raver fosse stato cancellato dai movimenti milanesi. Sulle prime non sono stato molto d’accordo. Ripensandoci ora, mi sembra di avere avuto torto io. Certo, non c’è sicuramente una correlazione diretta, però è vero che lo iato completo tra i due movimenti li ha impoveriti entrambi in maniera terminale. È anche oggettivamente chiaro che la diminuitissima attitudine all’occupazione e all’autogestione di spazi abbia indebolito una rete che faceva tesoro di competenze e forze collettive.
Mi accorgo di avere, finora, scritto praticamente solo di cosa ha ucciso i rave. Eppure, per tornare da dove siamo partiti, il fatto che se ne riparli dimostra che non è tardi per rielaborare la lezione dell’ultima controcultura. L’eccesso di energia è tangibile, nei down irrisolti del lunedì mattina e nell’amarezza che anche le trentasei ore di clubbing alla berlinese non riescono a esorcizzare. È vero, come dice Tobia, che si sta tornando agli illegali, che anche “Le teste di serie del movimento” stanno tornando a sentire la necessità di starsene fuori dai club? Forse sì, ma mi pare più rilevante rendersi conto del fatto che mai come ora l’urgenza antagonista è un tutt’uno con la necessità pratica di avere il controllo delle proprie vite. Se la società disciplinare è sempre più invasiva, il “delirio” (rave) diventa un bisogno di tutti. Ma chi se ne fotte dei luoghi comuni che associamo alla parola “raver”, chi se ne fotte delle forme musicali usate e non usate: l’unico patto col passato che andrebbe fatto, sarebbe la promessa di recuperarne l’intensità e, soprattutto, il coraggio insurrezionale.