Labalenabianca.com, 13 novembre 2020 Al maremoto che viene. Per “Liaisons – In nome del popolo”
Dopo l’apparizione transalpina e statunitense nel 2018, giunge anche in Italia In nome del popolo (Agenzia X, 2020), prima uscita della rivista “Liaisons. Ricerca partigiana transoceanica” dedicata interamente all’emersione dei populismi su scala globale. È dunque una nuova rivista di argomento (geo)politico? No: è piuttosto il tentativo di assumere criticamente entro un discorso politico l’intero spettro del discorso culturale militante. Cosa intendiamo per «cultura militante»? La Balena risponde: quei discorsi che fanno dell’unione di serio atteggiamento critico e linguaggio chiaro e comprensibile il loro punto di forza. Che cioè oppongono a un culturalismo fatto di citazioni e allusioni comunicate da superiore a inferiore l’idea di una cultura inclusiva, popolata di discorsi destinati alla persuasione e al sapere ma in tensione verso un fare pratico–informativo più o meno mediatamente politico. Preambolo forse noioso, ma molto importante quando si parla di progetti editoriali come “Liaisons”: ci dà infatti modo di tenere a mente perché e come determinate testimonianze, posizioni e impostazioni dovrebbero entrare a far parte di un dibattito più ampio rispetto a quello in cui sono state finora recepite. Che cos’è quindi Liaisons? Concretamente, è una rivista in forma di libro nata nel 2017 a cavallo dell’Oceano Atlantico – tra Canada, Stati Uniti e Francia – e ora tradotta da un collettivo italiano. Raccoglie annualmente contributi da ogni dove, con i due soli vincoli della tematica e dell’obiettivo: portare sulle vicende che coinvolgono popolazioni e territori una testimonianza diretta ed estranea a un tipo di discorso «geopolitico». Ossia lontana da un’idea di evento come teatro di ossessivi pronostici sul futuro, nei quali spesso si risolve integralmente lo sforzo del pensiero «di sinistra», sia esso riformista o rivoluzionario. La struttura della rivista, che annovera tra i suoi antesignani alcune pietre miliari del pensiero avanguardista e libertario – dall’Internazionale situazionista a Black Mask e Tiqqun – è la seguente: una serie di saggi, pubblicati anonimamente, propone al lettore di avventurarsi alla scoperta di situazioni spesso trascurate dalla narrazione mainstream. Come si sopravvive in Giappone dopo la catastrofe di Fukushima? Esiste un modo di guardare all’Islamismo come fucina di comunità e radicalità libertarie? Quali lotte hanno affrontato i movimenti sociali sudcoreani dagli anni ’90 a oggi? In nome del popolo testimonia di questo e di altro, con i suoi 10 saggi provenienti da Québec, Russia-Ucraina, Messico, Giappone, Libano, Stati Uniti, Corea del Sud, Francia, Catalogna, Italia. A dimostrazione di una predilezione per l’«ipotesi locale» e quella che potremmo chiamare una «tradizione dei vinti», ovvero di ciò che non è ancora divenuto propriamente storia. Queste innumerevoli voci si appellano al lettore facendo leva su una condizione comune. Non l’oppressione, l’alienazione o lo sfruttamento (secondo un modello di analisi strettamente marxista), quanto piuttosto ciò che ne permette l’esercizio: la nostra comune frammentazione o, per dirla con il Guido Mazzoni dei Destini generali , la «crisi dei legami» contemporanea. Quei legami che “Liaisons” porta fin dentro il nome. “Liaisons” però cerca di andare oltre l’esperienza redazionale e di definire uno «spazio condiviso» per «affinità sotterranee», una «cassa di risonanza» per quell’«umile internazionale» che sorge ovunque all’orizzonte nell’ora in cui il mondo «si presenta, attraverso la sua dissoluzione, sotto forma di una drammatica unità» (p. 15). Quindi non solo espressione o analisi, ma anche pretesto per un incontro e una condivisione, nonché per un ampliamento dei termini del dibattito sulle condizioni del mondo. Ma la tensione che anima “Liaisons” cerca in realtà di oltrepassare la dimensione del puro «dibattito politico», alludendo piuttosto a modi della prassi che non esiteremmo a definire rivoluzionari, con un’enfasi su sperimentazioni collettive, forme di vita in comune, condivisione di esperienze politicizzate – dalle lotte locali ai riot fino al microdosing… Lo fa attraverso uno stile che riflette sulla scrittura come momento che segue e precede queste sperimentazioni, programmaticamente lontana da ogni specialismo ma attenta alle più disparate forme del sapere, tentativo di sguardo d’insieme operativo. È per questo che vale la pena di avventurarsi nella lettura di questi saggi apparsi «già» due anni fa – un’eternità, per la narrazione politica. E non solo per questo sguardo gettato oltre il loro tempo, e che contribuisce alla loro «attualità», ma per la testimonianza che portano su una discontinuità. “Liaisons” segnala infatti la permanenza di nodi irrisolti nella struttura dell’epoca, di bivi possibili nell’andamento dei fatti, di una storia parallela sotterranea di cui si fa storiografia, contro l’idea di uno «sviluppo storico del mondo» che procede inesorabile lungo il suo solco. Ogni evento è descritto attraverso la sua contingenza, libero da quelle briglie della necessità (storica, appunto) che ci impediscono di dire l’alterità radicale, e quindi anche la lotta contro il penoso stato di questo mondo. Tre interventi su tutti paiono esprimere al meglio questa intensità: Trittico americano (U.S.A.), Il popolo dell’apocalisse (Francia) e Decomporre il Giappone. Quest’ultimo ci mostra in presa diretta cosa voglia dire abitare letteralmente la fine del mondo dopo la catastrofe nucleare di Fukushima; i primi due, invece – composti giocoforza prima dell’esplosione dei Gilets Jaunes e delle rivolte partite da Minneapolis lo scorso maggio –, recano le tracce di altre «fini del mondo». Ma anche i prodromi di questi movimenti, sotto forma di tensione inespressa. Una tensione che si esplicita in tre momenti: la rimodulazione del conflitto tra popolo e società, questione centrale della politica moderna; la sensibilità per il tema dell’apocalisse permanente, che porta gli estensori degli articoli a scorgere dentro ciò che si muove contro i governi un’occasione per riparare il mondo, e non una forma di distruzione delegittimante; e, infine, la speculare questione dell’inizio, quindi della genesi di un mondo altro, di cosa sia e di come possa avere luogo. Se l’Occidente resta tuttora una direzione generalizzata del mondo più che un luogo concreto, è perché la sua è una mitologia della reinvenzione, ossia dell’incontro tra i suoi pionieri e un luogo, una temporalità o una prospettiva all’interno dei quali «poter immaginare da capo chi essere e cosa diventare» (p. 136). Il Nuovo Mondo, la Rivoluzione Francese, l’Energia Nucleare sono alcuni di questi contraddittori paradigmi, archetipi della liberazione e della governamentalità. Utopia e distopia, genesi e apocalisse si tangono, permettendo di comprendere un fatto essenziale: ciò che va combattuto non è tanto un ordine sociale o statale, ma ciò che quest’ordine ha ancora di rivoluzionario. Lo stesso discorso vale per la parola popolo, che vede contrapposte una nozione restauratrice, che riattiva la facoltà di includere ed escludere dalla cittadinanza, e una tendenza che i curatori del libro definiscono destituente. Il termine, troppo trascurato dal dibattito politico contemporaneo, è un’altra chiave di lettura del volume: si riferisce alla necessità di deporre tutto ciò che nel presente organizza i nostri modi relazionali, le nostre parole, lo spazio di ciò che riteniamo possibile. Destituire significa pensare strategicamente la propria fine come soggetti di questo tempo, attaccare la propria complicità con le strutture oppressive. Qualcuno ricorderà forse l’anatema scagliato contro questa corrente di pensiero da Ventura sulle pagine di «Esprit» prima e ne La guerra di tutti poi, proponendone una trafila genealogica tutta accademia anni Zero e tacciandola di «romanticismo politico irresponsabile, dunque inaccettabile». Ma il concetto di destituzione serpeggia già tra Sorel e di Benjamin, e trova il suo primo effettivo impiego nelle lotte che seguirono il default argentino nel 2001 – in particolare negli scritti del Colectivo Situaciones –, per poi giungere tra le pagine di Agamben e Vinale. Se il ciclo di conflitti iniziato con le primavere arabe aveva visto affermarsi in Europa un’ipotesi istituente, centrata su Podemos e Syriza in particolare, dal fallimento di Tsipras in poi una serie di conflitti comincia a debordare il campo delle rivendicazioni «classiche». Il movimento francese contro la riforma del lavoro, con i suoi cortei scenografici e aggressivi, è il campo entro cui si giocano altre prospettive, altre amicizie e altre temporalità. È anche da qui che prende forma “Liaisons”, che si inserisce tra le fila di chi vede nel «movimento istituente» una sostanziale continuità storica. Rompere senza ricomporre, allora, e affrontare radicalmente la propria alterità: un «altro mondo» non è possibile o da immaginare (pensiero che avalla per contrasto i più cupi scenari senza alternativa di fisheriana memoria), ma va rintracciato e sviluppato nella risonanza dei mondi che già popolano il reale: fare, insomma, con ciò che già c’è. Diceva Sartre settant’anni fa che possiamo sempre fare qualcosa di ciò che è stato fatto di noi. Fosse anche ricercare un orizzonte comune, o una perdita dell’orizzonte. Non è un caso che il secondo numero, da poco apparso in Francia per Éditions Divergences, si intitoli proprio Des horizons brisés – Degli orizzonti infranti. Radunando attorno a sé pensatrici e pensatori di ogni epoca entro un autentico Gotha (come il programma, non come l’annuario!), In nome del popolo lo permette di avvicinare il grande errore e la grande verità di chi prova disagio di fronte allo stato di cose: e cioè che la ricerca ossessiva di un soggetto politico, di una rappresentanza, in breve di una novità nella quale riconoscersi non è un obiettivo, ma piuttosto ciò che impedisce di raggiungerlo. Transoceanismo, quindi, come «maremoto che viene», nuovo modo di intendere l’internazionalismo capace di rompere con una forma mentis fatta di soggetti nazionali da ricomporre verso un’indagine di esperienze locali, che permetta di rintracciare costanti globali di lunga, media e breve durata. Fino a quell’istante in cui si finisce di scrivere e si comincia a vivere.
Di Pannychiscommonware.org, 3 luglio 2020 Liaisons Italia #1: In nome del popolo
Se in In nome del popolo c’è una pretesa, un tentativo, non è certo quello di farsi ammirare per lo sforzo creativo nella scrittura o nel linguaggio, seppur importante, ma quello di essere una bussola in grado di orientarci in quel deserto politico chiamato «Movimento», che in Italia, ormai da troppi anni, è diventato l’apparato che imbriglia qualsiasi tentativo di fuoriuscita dallo stato di cose presenti.
Scrivere, e quindi raccontare, delle storie non è mai un esercizio semplice se non quando si vuole compiacere qualcuno, ma questo libro non vuole compiacere nessuno, anzi. Intrecciando le varie storie contenute nei capitoli del libro, percepiamo l’esistenza di quell’insorgenza viva che gli amanti delle insurrezioni belle e pure non sopportano, perché inorridiscono di fronte allo squarcio che la rivolta apre sul velo di ideologia disincarnata che la Sinistra, anche di movimento, vorrebbe stendere per far tornare i conti alla propria teoria. Tra vari articoli e racconti, di tentativi e fallimenti, qui raccolti si dispiega una rottura, un’interruzione che ci consente di mettere meglio a fuoco la divisione tra nemici e amici, per leggerla nella sua sostanza e non nella forma. Attraverso linguaggi e stili differenti si dà all’intero libro non lo scopo di una sintesi inquadrata in vecchi schemi, o ridotta da finalità altre, ma la funzione di esprimere una molteplicità di «forme e pratiche», per cogliere la realtà nella sua eterogeneità e nelle contraddizioni che la compongono.
Il deserto in cui siamo immersi ci soffoca e ci rende sempre meno ipotizzabile la possibilità di una sua fine, tuttavia rivolte lontane nello spazio ma quanto mai vicine per sensibilità ci rimandano gli echi di qualcosa di vivo. Questi testi ci aprono uno spiraglio nel presente e ci consentono di tirare una boccata d’ossigeno. Rovesciando i concetti di «globale» e «locale», tanto cari alla logica capitalista, affiora la tensione tra quei territori che con «forme di resistenza specifiche» danno vita a delle oasi che, pur vivendo nel deserto, lo combattono senza riconciliarsi con esso.
Un altro aspetto significativo del testo è la scelta di leggere gli eventi alla luce di quel fenomeno, chiamato populismo, che ha investito negli ultimi anni il terreno della politica. Se «i populismi sono il prisma attraverso cui il tempo si riconfigura», serve studiarli e capirli cercando di evitare di farsi intrappolare nella diatriba tra chi definisce i populisti come criptofascisti e chi invece pensa, o ha pensato, di potersi appropriare di questa etichetta per tentare goffamente di trasformare l’espressione politica del populismo in qualcosa di più «antagonista».
Il populismo è un sintomo dell’atteggiamento di rifiuto verso l’azione delle istituzioni democratiche e liberali, e risponde in maniera disordinata e caotica, ma legittima, ai processi di impoverimento che hanno investito il ceto medio e le classi popolari dal 2008 ad oggi: per questo è necessario individuare nei comportamenti populisti, e non nell’espressione politica, quell’ambiguità che può essere usata per individuare nodi di rifiuto e tendenze e aprire un possibile spazio di trasformazione dell’esistente. Sottrarli al campo del nemico per costruire il nostro.
E allora serve rileggere il Trittico americano, oggi più che mai, per poter decifrare cosa succede al di là dell’Atlantico tra un nuovo Starbucks in costruzione e un commissariato di polizia in fiamme. Le ultime elezioni statunitensi hanno sancito lo stravolgimento della politica della rappresentanza per come è stata pensata fino ad oggi. La capacità dei due grandi partiti, democratico e repubblicano, di assorbire, in senso elettorale, il potenziale trasformativo dei vari movimenti sociali sorti nell’ultimo decennio – Occupy Wall Street come anche il Tea Party – ha fatto sì che affiorassero nuove possibilità politiche per il paese. Ciò è avvenuto a spese delle forme organizzative e dell’agenda istituzionale di entrambi gli schieramenti, ricalibrati dagli stessi partiti in risposta alla vittoria di Trump e allo scontro tra Clinton e Sanders alle primarie democratiche. Questo è il nodo da sciogliere: nel suo stravolgimento, che ha accelerato il processo di esclusione di molte persone dalla sfera politica, il sistema politico americano ha assunto abbastanza forza da poter fare a meno di gran parte della popolazione?
I movimenti di estrema sinistra hanno risposto con la scommessa di organizzarsi attorno a coloro che sono rimasti senza lavoro e speranze dopo il crollo finanziario del 2008, individuando questi esclusi come soggetto politico di riferimento. Nella rottura del contratto sociale, che teneva unito sotto la bandiera dell’«American Dream» quel crogiuolo di etnie e popolazioni diverse, ossia gli Stati Uniti, si intravede la scintilla che ha infiammato la prateria americana da New York a Los Angeles passando (e partendo) da Minneapolis. Nella fine di quel sogno si radica la rabbia e la frustrazione di moltissime soggettività, che hanno trovato una valvola di sfogo nel voto populista, e quindi reazionario.
L’elezione di Trump alla Casa Bianca è il risultato di una retorica che è riuscita «a coniugare frustrazione e impotenza del popolo» per dirigerle contro una minoranza, sia essa etnica, politica o religiosa. Tuttavia, il meccanismo con cui Trump ha governato e governa ad oggi viene sabotato dalla forza, dall'immaginario e dal discorso del movimento che da più di un mese sta debordando nelle strade delle città statunitensi e non solo, scatenato dalla mediatizzazione dell’uccisione di George Floyd. Le organizzazioni che hanno saputo lavorare su un terreno completamente avverso, sia alle forze della destra reazionaria sia a quelle della sinistra riformista, hanno creato strumenti e saperi, per la messa in discussione dell’intero apparato poliziesco, individuando la violenza di questo come le fondamenta strutturali dell’oppressione della popolazione afroamericana. Ne è un buon esempio pratico l’MDP150, progetto che nasce a Minneapolis e che, attraverso la progettazione di strategie pratiche locali, mira allo smantellamento del dipartimento di polizia della città. Nella nazione in cui Trump sembrava poter governare indiscusso è sorto un processo che tiene viva la possibilità concreta di abolire la polizia.
Soprattutto a chi è cresciuto dopo Genova 2001 e ha deciso di mettersi in cammino per provare un altro modo di vivere e quindi di lottare, la rivista «Liaison» permette di immergersi nelle storie di un mondo in continua dispersione: nei frammenti che entrano in risonanza percepiamo la possibilità di un nuovo modo di far politica, lontani dalla tranquillità di una prassi ormai abitudinaria, che riproduce le stesse pratiche da troppo tempo e si limita alla gestione del presente e delle vite vogliamo provare a dischiudere nuove vie e nuovi immaginari.
Mettere in contatto questi frammenti, dunque, è un’urgenza, per poter costruire «un discorso trasversale a diversi continenti», perché da lì possiamo partire, perché così possiamo sognare e pensare di poter formulare, finalmente, delle «ipotesi rivoluzionarie contestualizzate che possano risuonare a migliaia di chilometri».
di Alessio ResenterraScrivere, e quindi raccontare, delle storie non è mai un esercizio semplice se non quando si vuole compiacere qualcuno, ma questo libro non vuole compiacere nessuno, anzi. Intrecciando le varie storie contenute nei capitoli del libro, percepiamo l’esistenza di quell’insorgenza viva che gli amanti delle insurrezioni belle e pure non sopportano, perché inorridiscono di fronte allo squarcio che la rivolta apre sul velo di ideologia disincarnata che la Sinistra, anche di movimento, vorrebbe stendere per far tornare i conti alla propria teoria. Tra vari articoli e racconti, di tentativi e fallimenti, qui raccolti si dispiega una rottura, un’interruzione che ci consente di mettere meglio a fuoco la divisione tra nemici e amici, per leggerla nella sua sostanza e non nella forma. Attraverso linguaggi e stili differenti si dà all’intero libro non lo scopo di una sintesi inquadrata in vecchi schemi, o ridotta da finalità altre, ma la funzione di esprimere una molteplicità di «forme e pratiche», per cogliere la realtà nella sua eterogeneità e nelle contraddizioni che la compongono.
Il deserto in cui siamo immersi ci soffoca e ci rende sempre meno ipotizzabile la possibilità di una sua fine, tuttavia rivolte lontane nello spazio ma quanto mai vicine per sensibilità ci rimandano gli echi di qualcosa di vivo. Questi testi ci aprono uno spiraglio nel presente e ci consentono di tirare una boccata d’ossigeno. Rovesciando i concetti di «globale» e «locale», tanto cari alla logica capitalista, affiora la tensione tra quei territori che con «forme di resistenza specifiche» danno vita a delle oasi che, pur vivendo nel deserto, lo combattono senza riconciliarsi con esso.
Un altro aspetto significativo del testo è la scelta di leggere gli eventi alla luce di quel fenomeno, chiamato populismo, che ha investito negli ultimi anni il terreno della politica. Se «i populismi sono il prisma attraverso cui il tempo si riconfigura», serve studiarli e capirli cercando di evitare di farsi intrappolare nella diatriba tra chi definisce i populisti come criptofascisti e chi invece pensa, o ha pensato, di potersi appropriare di questa etichetta per tentare goffamente di trasformare l’espressione politica del populismo in qualcosa di più «antagonista».
Il populismo è un sintomo dell’atteggiamento di rifiuto verso l’azione delle istituzioni democratiche e liberali, e risponde in maniera disordinata e caotica, ma legittima, ai processi di impoverimento che hanno investito il ceto medio e le classi popolari dal 2008 ad oggi: per questo è necessario individuare nei comportamenti populisti, e non nell’espressione politica, quell’ambiguità che può essere usata per individuare nodi di rifiuto e tendenze e aprire un possibile spazio di trasformazione dell’esistente. Sottrarli al campo del nemico per costruire il nostro.
E allora serve rileggere il Trittico americano, oggi più che mai, per poter decifrare cosa succede al di là dell’Atlantico tra un nuovo Starbucks in costruzione e un commissariato di polizia in fiamme. Le ultime elezioni statunitensi hanno sancito lo stravolgimento della politica della rappresentanza per come è stata pensata fino ad oggi. La capacità dei due grandi partiti, democratico e repubblicano, di assorbire, in senso elettorale, il potenziale trasformativo dei vari movimenti sociali sorti nell’ultimo decennio – Occupy Wall Street come anche il Tea Party – ha fatto sì che affiorassero nuove possibilità politiche per il paese. Ciò è avvenuto a spese delle forme organizzative e dell’agenda istituzionale di entrambi gli schieramenti, ricalibrati dagli stessi partiti in risposta alla vittoria di Trump e allo scontro tra Clinton e Sanders alle primarie democratiche. Questo è il nodo da sciogliere: nel suo stravolgimento, che ha accelerato il processo di esclusione di molte persone dalla sfera politica, il sistema politico americano ha assunto abbastanza forza da poter fare a meno di gran parte della popolazione?
I movimenti di estrema sinistra hanno risposto con la scommessa di organizzarsi attorno a coloro che sono rimasti senza lavoro e speranze dopo il crollo finanziario del 2008, individuando questi esclusi come soggetto politico di riferimento. Nella rottura del contratto sociale, che teneva unito sotto la bandiera dell’«American Dream» quel crogiuolo di etnie e popolazioni diverse, ossia gli Stati Uniti, si intravede la scintilla che ha infiammato la prateria americana da New York a Los Angeles passando (e partendo) da Minneapolis. Nella fine di quel sogno si radica la rabbia e la frustrazione di moltissime soggettività, che hanno trovato una valvola di sfogo nel voto populista, e quindi reazionario.
L’elezione di Trump alla Casa Bianca è il risultato di una retorica che è riuscita «a coniugare frustrazione e impotenza del popolo» per dirigerle contro una minoranza, sia essa etnica, politica o religiosa. Tuttavia, il meccanismo con cui Trump ha governato e governa ad oggi viene sabotato dalla forza, dall'immaginario e dal discorso del movimento che da più di un mese sta debordando nelle strade delle città statunitensi e non solo, scatenato dalla mediatizzazione dell’uccisione di George Floyd. Le organizzazioni che hanno saputo lavorare su un terreno completamente avverso, sia alle forze della destra reazionaria sia a quelle della sinistra riformista, hanno creato strumenti e saperi, per la messa in discussione dell’intero apparato poliziesco, individuando la violenza di questo come le fondamenta strutturali dell’oppressione della popolazione afroamericana. Ne è un buon esempio pratico l’MDP150, progetto che nasce a Minneapolis e che, attraverso la progettazione di strategie pratiche locali, mira allo smantellamento del dipartimento di polizia della città. Nella nazione in cui Trump sembrava poter governare indiscusso è sorto un processo che tiene viva la possibilità concreta di abolire la polizia.
Soprattutto a chi è cresciuto dopo Genova 2001 e ha deciso di mettersi in cammino per provare un altro modo di vivere e quindi di lottare, la rivista «Liaison» permette di immergersi nelle storie di un mondo in continua dispersione: nei frammenti che entrano in risonanza percepiamo la possibilità di un nuovo modo di far politica, lontani dalla tranquillità di una prassi ormai abitudinaria, che riproduce le stesse pratiche da troppo tempo e si limita alla gestione del presente e delle vite vogliamo provare a dischiudere nuove vie e nuovi immaginari.
Mettere in contatto questi frammenti, dunque, è un’urgenza, per poter costruire «un discorso trasversale a diversi continenti», perché da lì possiamo partire, perché così possiamo sognare e pensare di poter formulare, finalmente, delle «ipotesi rivoluzionarie contestualizzate che possano risuonare a migliaia di chilometri».
il manifesto, 13 giugno 2020 Cartografie contemporanee e ricerche partigiane
La vivace casa editrice Agenzia X manda in libreria due titoli che – pur senza la volontà degli autori – si compendiano e offrono una interessante lettura critica di questioni centrali nel dibattito politico contemporaneo. Una è l’idea di popolo, l’altra l’idea di confine, unite nelle loro decomposizioni, deterritorializzazioni, nuove e mutate ricomposizioni. Dalla lettura intrecciata emergono stimoli utili per la riflessione e le proposte di lotta. Figure centrali che «agiscono» concretamente queste tematiche sono i migranti, i rifugiati, ma anche gli attivisti antirazzisti e no-border; tutti quelli che per necessità o convinzione politica si possono definire soggettività nomadi, planetarie, cosmopolitiche, singolari e molteplici al tempo stesso.
Confini, mobilità e migrazioni. Una cartografia dello spazio europeo, (pp. 268, euro 15 euro), si apre con una incisiva intervista a Étienne Balibar, realizzata da Lorenzo Navone (curatore del volume) e da Federico Rahola: «Ogni classificazione delle popolazioni è arbitraria. Trovo disgustosa la situazione attuale e ammiro chi si oppone ma soprattutto l’ostinazione e il coraggio straordinario dei migranti», sostiene il filosofo francese.
Quella di Balibar è una considerazione che guida i saggi di J. Anderlini, G. Cometti, P. Cuttitta, J. Eczet, F. Foschini, L. Giliberti, C. Heller, C. Kobelinsky, C. Moatti, L. Pezzani, A. Pian, L. Queirolo Palmas, M. Stierl, S.Tersigni, W. Walters, dedicati all’irrigidimento dei confini interni e alla ridefinizione di quelli esterni, nello spazio europeo, e al carattere paradigmatico della condizione e delle esperienze dei migranti. «Un soggetto il cui continuo movimento nello spazio e nel tempo rappresenta una sfida a questo fenomeno di riconfigurazione delle frontiere, che assumono così la dimensione di uno spazio prismatico continuamente prodotto, ovvero, nella particolare prospettiva ‘trialettica’ suggerita da Henry Lefebvre, la risultante conflittuale tra spazi rappresentati, concepiti e vissuti», scrive Navone.
In nome del popolo. Ricerca partigiana transoceanica (pp. 246, euro 15) è invece il titolo del primo numero della rivista planetaria Liaisons, che contiene dodici saggi non firmati, ma condivisi collettivamente, provenienti da varie parti del mondo. «Siamo nati in un’era di separazioni, alle soglie dell’inabissamento di un secolo stanco. La nostra eredità politica non è figlia di alcun testamento», scrivono gli autori, citando il René Char di Fogli d’Ipnos, e quindi mostrando che pur non avendo genealogie non rinunciano a riferimenti importanti. Liaisons si pone un obiettivo ambizioso: «dar voce a una comune sensibilità, a un certo modo di porsi domande dentro il tempo della fine». E su questo primo numero afferma: «È necessaria un’attenzione alle storie particolari, a come si presentano e ripresentano all’interno di determinati contesti». A partire dai percorsi politici locali, la rivista intesse una trama di prospettive che si allontanano dalle politiche rivendicative e governamentali. Québec, Ucraina, Messico, Giappone, Libano, Stati Uniti, Corea del sud, Francia, Catalogna e Italia, sono i Paesi analizzati.
Senza dubbio i saggi dedicati alla situazione del Québec e della Catalogna sono i più interessanti perché mettono il dito nella piaga del vetusto rapporto lingua-popolo-stato e sull’inutilità, in una logica innovativa e libertaria, di concetti quali «nazioni» e «sovranità». Occorre denaturalizzare questi concetti, situarli nel contesto storico ed economico, chiedersi che cos’è un’identità, come si costituisce. In questa maniera sarà evidente la loro non-originarietà: non sono sempre esistiti, la loro invenzione deve essere smascherata. Basta guardarsi sotto i piedi, l’essere umano non ha radici e se fosse identico a ciò da cui origina avrebbe ben poco da gloriarsene. Le uniche radici umane che ci interessano sono quelle dello sradicato che cerca il contatto continuo con l’aria per purificarsi da tutte le ignominie del particolarismo, del familismo, del tribalismo, del culturalismo differenzialista e di ogni posticcia identità. In altri termini i due titoli riprendono ciò che Giorgio Agamben scriveva in un piccolo libro di molti anni fa a proposito della «comunità che viene»: essere «senza più presupposti né condizioni di appartenenza, esodo irrevocabile dallo Stato, costruzione di un corpo comunicabile».
di Marc TibaldiConfini, mobilità e migrazioni. Una cartografia dello spazio europeo, (pp. 268, euro 15 euro), si apre con una incisiva intervista a Étienne Balibar, realizzata da Lorenzo Navone (curatore del volume) e da Federico Rahola: «Ogni classificazione delle popolazioni è arbitraria. Trovo disgustosa la situazione attuale e ammiro chi si oppone ma soprattutto l’ostinazione e il coraggio straordinario dei migranti», sostiene il filosofo francese.
Quella di Balibar è una considerazione che guida i saggi di J. Anderlini, G. Cometti, P. Cuttitta, J. Eczet, F. Foschini, L. Giliberti, C. Heller, C. Kobelinsky, C. Moatti, L. Pezzani, A. Pian, L. Queirolo Palmas, M. Stierl, S.Tersigni, W. Walters, dedicati all’irrigidimento dei confini interni e alla ridefinizione di quelli esterni, nello spazio europeo, e al carattere paradigmatico della condizione e delle esperienze dei migranti. «Un soggetto il cui continuo movimento nello spazio e nel tempo rappresenta una sfida a questo fenomeno di riconfigurazione delle frontiere, che assumono così la dimensione di uno spazio prismatico continuamente prodotto, ovvero, nella particolare prospettiva ‘trialettica’ suggerita da Henry Lefebvre, la risultante conflittuale tra spazi rappresentati, concepiti e vissuti», scrive Navone.
In nome del popolo. Ricerca partigiana transoceanica (pp. 246, euro 15) è invece il titolo del primo numero della rivista planetaria Liaisons, che contiene dodici saggi non firmati, ma condivisi collettivamente, provenienti da varie parti del mondo. «Siamo nati in un’era di separazioni, alle soglie dell’inabissamento di un secolo stanco. La nostra eredità politica non è figlia di alcun testamento», scrivono gli autori, citando il René Char di Fogli d’Ipnos, e quindi mostrando che pur non avendo genealogie non rinunciano a riferimenti importanti. Liaisons si pone un obiettivo ambizioso: «dar voce a una comune sensibilità, a un certo modo di porsi domande dentro il tempo della fine». E su questo primo numero afferma: «È necessaria un’attenzione alle storie particolari, a come si presentano e ripresentano all’interno di determinati contesti». A partire dai percorsi politici locali, la rivista intesse una trama di prospettive che si allontanano dalle politiche rivendicative e governamentali. Québec, Ucraina, Messico, Giappone, Libano, Stati Uniti, Corea del sud, Francia, Catalogna e Italia, sono i Paesi analizzati.
Senza dubbio i saggi dedicati alla situazione del Québec e della Catalogna sono i più interessanti perché mettono il dito nella piaga del vetusto rapporto lingua-popolo-stato e sull’inutilità, in una logica innovativa e libertaria, di concetti quali «nazioni» e «sovranità». Occorre denaturalizzare questi concetti, situarli nel contesto storico ed economico, chiedersi che cos’è un’identità, come si costituisce. In questa maniera sarà evidente la loro non-originarietà: non sono sempre esistiti, la loro invenzione deve essere smascherata. Basta guardarsi sotto i piedi, l’essere umano non ha radici e se fosse identico a ciò da cui origina avrebbe ben poco da gloriarsene. Le uniche radici umane che ci interessano sono quelle dello sradicato che cerca il contatto continuo con l’aria per purificarsi da tutte le ignominie del particolarismo, del familismo, del tribalismo, del culturalismo differenzialista e di ogni posticcia identità. In altri termini i due titoli riprendono ciò che Giorgio Agamben scriveva in un piccolo libro di molti anni fa a proposito della «comunità che viene»: essere «senza più presupposti né condizioni di appartenenza, esodo irrevocabile dallo Stato, costruzione di un corpo comunicabile».