www.ilcantastoriemilano.info, 7 novembre 2012Nella tana del drago. Anomalie narrative al Giambellino
Il titolo di questo volume di testimonianze raccolte dal Collettivo Dynamoscopio e che è frutto del progetto immaginariesplorazioni è tratto da una famosa canzone di Giorgio Gaber: “Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamava drago, gli amici al bar del Giambellino diceva c’era un mago”.
Il Cerutti un personaggio di fantasia, ma molto verosimile, che è anche diventato il simbolo di un intero quartiere.
Si tratta di un lavoro di ricerca e documentazione che attraverso i ricordi e i racconti di abitanti del quartiere Giambellino a Milano, elaborati in forma narrativa, ne ricostruiscono la storia e l’identità. È un indagine a tutto campo, con prospettive diverse, ma tutte riconducibili ad unico corpus che ricompone frammenti di vita e di socialità. La tana del drago appunto, storie di chi non l’ha mai lasciata e di chi se ne è allontanato per poi tornare in una sorta di attrazione fatale. Accanto a loro i “nuovi arrivati”, gli immigrati di ultima generazione che nel quartiere hanno trovato un luogo di convivenza anche se non privo di contraddizioni e contrasti.
Il Giambellino, nella periferia sud – ovest di Milano, nasce a metà degli anni Venti del Novecento e in pochi anni molte fabbriche insediano i loro stabilimenti, poco prima della seconda Guerra Mondiale vengono costruite numerose case popolari. Il quartiere assume una connotazione prevalentemente operaia con la presenza di quella che viene chiamata in milanese la “ligera”, cioè la piccola malavita. Una zona per certi versi anticonformista rispetto al resto della metropoli dove convivono varie esperienze, una sorta di laboratorio sociale: dal progetto di autocostruzione di case distrutte dai bombardamenti, alla scuola Rinascita dove si sperimentarono metodi di insegnamento innovativi.
Ma il Giambellino è stato anche il quartiere dove è nato e ha mosso i primi passi il famoso bandito Renato Vallanzasca e dove, negli anni Settanta, si sono formati i primi nuclei delle Brigate Rosse a Milano. Negli anni Ottanta, nel pieno di quello che viene comunemente chiamato “riflusso” il quartiere divenne una delle principali piazze di spaccio di droga di Milano e non solo. Poi negli anni Novanta l’arrivo di una forte immigrazione extraeuropea, che, anche grazie al lavoro di numerose associazioni, pur con qualche difficoltà, ha trovato cittadinanza nella tana del drago.
Nelle 320 pagine del libro si susseguono le narrazioni che ricostruiscono quasi un secolo di storia del Giambellino, raccolte dagli abitanti di ogni età, vicende in parte drammatiche, che molti vorrebbero far dimenticare, ma che oggi più che mai è necessario documentare e ricordare.
Un lavoro condotto attraverso le fonti orali con estrema attenzione e serietà, una metodologia molto interessante così descritta da Marco Philopat, che è stato il coordinatore del lavoro.” “... a differenza della maggior parte dei documenti di cui si avvalgono gli storici accademici, le fonti orali devono passare attraverso una serie di procedimenti specifici che derivano da un lento processo di formazione ed immedesimazione nel contesto di studio (…) abbiamo scelto di lavorare su rapporti relazionali complessi, in cui la comunicazione avveniva sotto forma di scambio di sguardi, di domande e risposte che viaggiavano non necessariamente in una sola direzione. L’ordine del giorno della ricerca si è intrecciato con l’ordine del giorno dei narratori e alle volte ciò che si desiderava sapere non coincideva affatto con quello che le persone intervistate desideravano raccontare. Il risultato è che l’agenda dello studio è stata radicalmente trasformata giorno dopo giorno.
Raccogliere fonti orali è in primo luogo un’arte dell’ascolto che va ben oltre la tecnica della semplice intervista e spesso quelli che si ritengono i confini prestabiliti dalle domande sono da travalicare per lasciare spazio allo scorrere del discorso, con l’intento di far emergere le conoscenze più imprevedibili...”
Il Cerutti un personaggio di fantasia, ma molto verosimile, che è anche diventato il simbolo di un intero quartiere.
Si tratta di un lavoro di ricerca e documentazione che attraverso i ricordi e i racconti di abitanti del quartiere Giambellino a Milano, elaborati in forma narrativa, ne ricostruiscono la storia e l’identità. È un indagine a tutto campo, con prospettive diverse, ma tutte riconducibili ad unico corpus che ricompone frammenti di vita e di socialità. La tana del drago appunto, storie di chi non l’ha mai lasciata e di chi se ne è allontanato per poi tornare in una sorta di attrazione fatale. Accanto a loro i “nuovi arrivati”, gli immigrati di ultima generazione che nel quartiere hanno trovato un luogo di convivenza anche se non privo di contraddizioni e contrasti.
Il Giambellino, nella periferia sud – ovest di Milano, nasce a metà degli anni Venti del Novecento e in pochi anni molte fabbriche insediano i loro stabilimenti, poco prima della seconda Guerra Mondiale vengono costruite numerose case popolari. Il quartiere assume una connotazione prevalentemente operaia con la presenza di quella che viene chiamata in milanese la “ligera”, cioè la piccola malavita. Una zona per certi versi anticonformista rispetto al resto della metropoli dove convivono varie esperienze, una sorta di laboratorio sociale: dal progetto di autocostruzione di case distrutte dai bombardamenti, alla scuola Rinascita dove si sperimentarono metodi di insegnamento innovativi.
Ma il Giambellino è stato anche il quartiere dove è nato e ha mosso i primi passi il famoso bandito Renato Vallanzasca e dove, negli anni Settanta, si sono formati i primi nuclei delle Brigate Rosse a Milano. Negli anni Ottanta, nel pieno di quello che viene comunemente chiamato “riflusso” il quartiere divenne una delle principali piazze di spaccio di droga di Milano e non solo. Poi negli anni Novanta l’arrivo di una forte immigrazione extraeuropea, che, anche grazie al lavoro di numerose associazioni, pur con qualche difficoltà, ha trovato cittadinanza nella tana del drago.
Nelle 320 pagine del libro si susseguono le narrazioni che ricostruiscono quasi un secolo di storia del Giambellino, raccolte dagli abitanti di ogni età, vicende in parte drammatiche, che molti vorrebbero far dimenticare, ma che oggi più che mai è necessario documentare e ricordare.
Un lavoro condotto attraverso le fonti orali con estrema attenzione e serietà, una metodologia molto interessante così descritta da Marco Philopat, che è stato il coordinatore del lavoro.” “... a differenza della maggior parte dei documenti di cui si avvalgono gli storici accademici, le fonti orali devono passare attraverso una serie di procedimenti specifici che derivano da un lento processo di formazione ed immedesimazione nel contesto di studio (…) abbiamo scelto di lavorare su rapporti relazionali complessi, in cui la comunicazione avveniva sotto forma di scambio di sguardi, di domande e risposte che viaggiavano non necessariamente in una sola direzione. L’ordine del giorno della ricerca si è intrecciato con l’ordine del giorno dei narratori e alle volte ciò che si desiderava sapere non coincideva affatto con quello che le persone intervistate desideravano raccontare. Il risultato è che l’agenda dello studio è stata radicalmente trasformata giorno dopo giorno.
Raccogliere fonti orali è in primo luogo un’arte dell’ascolto che va ben oltre la tecnica della semplice intervista e spesso quelli che si ritengono i confini prestabiliti dalle domande sono da travalicare per lasciare spazio allo scorrere del discorso, con l’intento di far emergere le conoscenze più imprevedibili...”
Il mucchio selvaggio, ottobre 2012Nella tana del drago
Cerutti Gino, il vero nome. Drago per gli amici. Nei bar del gioco delle (tre) carte. Ballata gaberiana per il Giambellino, periferia milanese. Entroterra? Sì, ci può stare: sguardi dalla finestra e poesia lungo i marciapiedi. Messaggio da Parigi: “Paradosso vuole che i posti apparentemente più inabitabili siano i soli a essere in qualche modo abitati”. Difficoltà identitarie, economiche, nel muoversi. Si vive “a zona”, tra immaginari consolidati, a venire e le anomalie del caso. Terreni agricoli sostituiti dall’insediamento delle fabbriche. Terreni agricoli sostituiti dall’insediamento delle fabbriche. La loro chiusura, ragazzi sul muretto con padri pendolari. Rabia, sconforto. Stanziali utopici tra l’attraversare la piazza e vie laterali. L’emergere di anonime creatività. Legali e talvolta illegali, come dire: qui funziona a intermittenza. Nella tana del drago è un significativo “cerca e trova” (dagli anni 20 ai giorni nostri) dove linee di confine scompaiono e appaiono in modo incisivo. La conflittualità operaia del dopoguerra, il fare parte del coro, il nucleo bierre, una casetta verde per non prendere l’autobus, la droga pesante che divora. Gli anni 90, la gente dal mondo e le associazioni che operano sul territorio. Il luogo e il suo immaginando cittadinanze. Jambelico del mondo. Sedimentazioni, mentre tutto si muove.
Libro corale con racconti di opera nel mondo del volontariato, abitanti delle case popolari, immigrati gestori di call center, insegnati della scuola di italiano per stranieri, donne rom e Renato Vallanzasca, ex ragazzo di strada. Tra gli interventi, anche quelli di Marco Philopat (“Il metodo di ricerca scelto si è basato sulla raccolta di fonti orali provenienti da vecchi e nuovi abitanti del Giambellino”) e di Piera Z. che con le sorelle gestisce una storica tabaccheria (“Ricordo che venne ad abitare in piazza Tirana 12 il famoso cantautore Herbert Pagani che forse aveva una sala di registrazione nel caseggiato. Nel nostro bar si faceva vedere spesso con i suoi amici musicisti: i Dik Dik, i Camaleonti, Nada").
di Massimo PirottaLibro corale con racconti di opera nel mondo del volontariato, abitanti delle case popolari, immigrati gestori di call center, insegnati della scuola di italiano per stranieri, donne rom e Renato Vallanzasca, ex ragazzo di strada. Tra gli interventi, anche quelli di Marco Philopat (“Il metodo di ricerca scelto si è basato sulla raccolta di fonti orali provenienti da vecchi e nuovi abitanti del Giambellino”) e di Piera Z. che con le sorelle gestisce una storica tabaccheria (“Ricordo che venne ad abitare in piazza Tirana 12 il famoso cantautore Herbert Pagani che forse aveva una sala di registrazione nel caseggiato. Nel nostro bar si faceva vedere spesso con i suoi amici musicisti: i Dik Dik, i Camaleonti, Nada").
www.lindro.it, settembre 2012Nella tana del drago
«Attraverso un processo immaginativo e analitico di scomposizione e ricomposizione, miriamo a far emergere la complessità culturale dei tessuti urbani marginali, la loro creatività, la loro resilienza», così il collettivo Immaginariesplorazioni, ideato e appoggiato dall’associazione Dynamoscopio presenta il proprio progetto. Resilienza: termine derivato dalla scienza dei materiali che indica la proprietà che alcuni di questi hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a deformazione. In biologia, indica la capacità di un sistema, incluso quello umano, ad esempio quello urbano, di ripristinare la sua condizione di equilibrio a seguito di un intervento perturbatore. Per analogia, la parola è stato presa in prestito dalla psicologia ad indicare la capacità dell’uomo di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzato. È la capacità reattiva delle persone, che permette loro di adattarsi e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita a fronte delle difficoltà. E difatti lo slogan del progetto Immaginariesplorazioni è: «La perdita di un centro mi permette di riposizionarmi nel mondo».
Il collettivo è partito proprio da questo concetto per applicarlo ai territori periferici delle metropoli, anzi delle «cosmopoli», come da loro vengono definite, per studiarne la resilienza attraverso il tempo, quella vitalità tipica di territori in continua mutazione per via, e anche grazie, alla criticità o difficoltà a cui sono sottoposti.
A Milano la scelta cade sul Giambellino, periferia che ha fatto la storia della città, e che a molteplici «stress» è stata indubbiamente sottoposta ed è sopravvissuta, rinforzata. La ricerca, antropologica, etnografica, artistica, è durata ufficialmente quattro mesi ma in realtà è frutto del lavoro collettivo di più di un anno, e ha dato alla luce un libro, Nella tana del drago (Agenzia X) e un film Entroterra Giambellino (Lab 80 Film), che sono stati presentati giovedì 20 alla libreria Gogol e Co. in via Savona a Milano. Per arrivare a questo risultato sono stati interpellati tutti gli archivi pubblici e istituzionali, ma non in modo tradizionale, uno dei curatori del progetto spiega: «abbiamo chiesto all’ archivio di svelare il suo lato poetico», rievocando cioè, dai dati e dai fatti, la vitalità creativa della realtà. Ma soprattutto sono state raccolte testimonianze orali della gente di quartiere, da chi al Giambellino ci vive da decenni e ricorda ancora quando era un agglomerato di cascine lontano dal centro, ai più giovani. E proprio ai più giovani il collettivo ha voluto coinvolgere; oltre che da artisti e professionisti già affermati (antropologi, sociologi, registi, scrittori, fotografi, urbanisti…) hanno collaborato una trentina di giovani compresi fra i 30 e i 18 anni, abitanti del quartiere ma anche artisti e ricercatori in antropologia e etnografia. Scopo delle loro esplorazioni: mettere in luce la ricchezza e la complessità culturale di un territorio urbano «a margine».
Giambellino è stato scelto perchè, «tessuto connettivo», come viene definito nel libro, ha raccolto e messo in relazione realtà originariamente lontane, dai rimpatriati da tutta europa, come gli emigrati italiani di ritorno dalla Francia, alle comunità immigrate di oggi, molteplici etnie, arabi, sudamericani, cinesi, rumeni. Ma non solo, è stato un luogo in continua ebollizione, nel bene e nel male, teatro di situazioni cruciali, o critiche, ma mai «neutre» o insignificanti: i suoi archivi traboccano di storia. È stato il cuore del movimento operaio negli anni ’50 e ’60, ne ha vissuto la nascita, intellettuali e lavoratori si incontravano qui, nelle cantine e nelle case ; ha visto crescere la “libera”, la microcriminalità milanese, Renato Vallanzasca è cresciuto qui, e Morlacchi racconta le prime riunioni delle brigate rosse in Piazza Tirana, alla Trattoria Bersagliera o nella biblioteca di via Odazio. Ha dovuto superare capitoli molto neri, come il boom di tossicodipendenza degli anni ’70 e ’80, quando era diventato centro di spaccio di eroina a livello europeo, cosa che ha letteralmente falciato la vita di tanti ragazzi. Ma proprio per la criticità delle situazioni, Giambellino è stato lo scenario di realtà sociali e di coesione fra le più attive ed efficaci della città. E c’è infine la storia che si portano dietro le comunità di oggi, e che continuano a fabbricare qui, storia ibrida e feconda.
Il collettivo, di cui fa parte l’etnologo e scrittore Philopat, uno dei promotori dell’iniziativa, nato proprio in Giambellino, ha voluto fissare la storia del quartiere, non ancora scritta, in una forma che potesse rimanere, ma senza limitarsi a un mero assemblamento di fatti. Ha voluto mescolarlo all’arte e crearne una poetica, un nuovo modo di fare storia e antropologia e il risultato è molto interessante. Entroterra Giambellino è un film ibrido, fra documentario e narrazione poetica, e ha una bellezza molto particolare, somiglia a un flusso di coscienza interiore, e allo stesso tempo non rinuncia al realismo: le voci che ascoltiamo sono quelle autentiche degli abitanti, cha raccontano il loro modo di vivere il quartiere, la loro «casa»; ma si sovrappongono a un flusso di immagini che riesce a dare una sensazione di forte intimità visiva, e il risultato ha qualcosa di visionario, a tratti perfino onirico. In questo senso, possiamo dire che l’obiettivo del progetto è stato centrato: coniugare ricerca e arte, rendere allo spazio urbano la sua poetica, il suo potenziale evocativo.
Il libro, Nella tana del drago (il drago è quel Gino Cerruti della canzone di Gaber, chiamato così dagli amici del bar, «Il suo nome era Cerruti Gino, ma lo chiamavano Drago…») raccoglie le più varie testimonianze degli abitanti attuali del quartiere, ed è una tangibile prova di questa complessità e ricchezza che il collettivo ha voluto mettere in luce. C’è Vallanzasca che nel capitolo “Il carrellot”, racconta la sua infanzia e adolescenza, o Morlacchi che in “La Famiglia Morlacchi”, racconta la nascita delle Brigate Rosse, c’è Philopat, scrittore, etnografo e simbolo del movimento punk italiano degli anni 70, che svela perchè ha lasciato il Giambellino e del perché è tornato ne “L’anomalia del drago”.
Ma oltre ai capitoli dei più noti sfilano personaggi dei più diversi, gente comune che ha fatto la storia del quartiere, tasselli di un mosaico di parole e vissuti che delinea il ritratto di un quartiere in incessante metamorfosi da un secolo. Una volontaria racconta l’esperienza delle comunità di accoglienza ai malati di Aids durante gli anni dell’eroina, uno storico abitante del quartiere, Lori, racconta dell’esperienza dell’autogestione del civico 146 di via Giambellino, un professore di geografia umana racconta la sua infanzia e gli effetti del boom economico sul quartiere e sulla la città, nella concezione delle proprietà, degli spazi, e sui rapporti umani. E poi anche una donna rom, un giovane senegalese, tabaccaie, ragazzi di quartiere, volontari. L’esplorazione si apre a 160 gradi, e, se si può definire tale un’esperienza aperta e mutevole, completa. La scelta di lasciare le testimonianze autentiche nel loro linguaggio, riportandone il tono senza alterarle, senza pulirle, è proprio di un approccio antropologico e ci porta un po’ del sapore del quartiere. L’ordine cronologico è sparso, si passa dagli anni ’20 ai ’90 per tornare al dopoguerra e anche questo approccio è riuscito, perchè se il libro si può leggere in modo sparso e non consequenziale, o selettivo, vuol dire che ognuno può fare un’esperienza diversa e personale del Giambellino e della sua storia, e così l’idea di metamorfosi e movimento, lenti attraverso le quali immaginarie esplorazioni vuole restituire il luogo, sono rispettate.
Fra tante pubblicazioni di cui non si sente la necessità, Nella tana del drago era necessaria, storicamente e artisticamente necessaria, per restituire, e allo stesso tempo fissare, a Milano un tassello imprescindibile della sua storia e della sua identità; speriamo che l’avventura di questi artisti antropologi di geografie umane non si fermi qui, ma si apra anche ad altre periferie.
Una piccola anteprima, per chi non è riuscito ad esserci da Gogol & Company giovedì 20, il 29 settembre il Giambellino scala la vetta più alta di Milano! Ci si vede a 185slm... Rimanete in ascolto!
di Caterina VarennaIl collettivo è partito proprio da questo concetto per applicarlo ai territori periferici delle metropoli, anzi delle «cosmopoli», come da loro vengono definite, per studiarne la resilienza attraverso il tempo, quella vitalità tipica di territori in continua mutazione per via, e anche grazie, alla criticità o difficoltà a cui sono sottoposti.
A Milano la scelta cade sul Giambellino, periferia che ha fatto la storia della città, e che a molteplici «stress» è stata indubbiamente sottoposta ed è sopravvissuta, rinforzata. La ricerca, antropologica, etnografica, artistica, è durata ufficialmente quattro mesi ma in realtà è frutto del lavoro collettivo di più di un anno, e ha dato alla luce un libro, Nella tana del drago (Agenzia X) e un film Entroterra Giambellino (Lab 80 Film), che sono stati presentati giovedì 20 alla libreria Gogol e Co. in via Savona a Milano. Per arrivare a questo risultato sono stati interpellati tutti gli archivi pubblici e istituzionali, ma non in modo tradizionale, uno dei curatori del progetto spiega: «abbiamo chiesto all’ archivio di svelare il suo lato poetico», rievocando cioè, dai dati e dai fatti, la vitalità creativa della realtà. Ma soprattutto sono state raccolte testimonianze orali della gente di quartiere, da chi al Giambellino ci vive da decenni e ricorda ancora quando era un agglomerato di cascine lontano dal centro, ai più giovani. E proprio ai più giovani il collettivo ha voluto coinvolgere; oltre che da artisti e professionisti già affermati (antropologi, sociologi, registi, scrittori, fotografi, urbanisti…) hanno collaborato una trentina di giovani compresi fra i 30 e i 18 anni, abitanti del quartiere ma anche artisti e ricercatori in antropologia e etnografia. Scopo delle loro esplorazioni: mettere in luce la ricchezza e la complessità culturale di un territorio urbano «a margine».
Giambellino è stato scelto perchè, «tessuto connettivo», come viene definito nel libro, ha raccolto e messo in relazione realtà originariamente lontane, dai rimpatriati da tutta europa, come gli emigrati italiani di ritorno dalla Francia, alle comunità immigrate di oggi, molteplici etnie, arabi, sudamericani, cinesi, rumeni. Ma non solo, è stato un luogo in continua ebollizione, nel bene e nel male, teatro di situazioni cruciali, o critiche, ma mai «neutre» o insignificanti: i suoi archivi traboccano di storia. È stato il cuore del movimento operaio negli anni ’50 e ’60, ne ha vissuto la nascita, intellettuali e lavoratori si incontravano qui, nelle cantine e nelle case ; ha visto crescere la “libera”, la microcriminalità milanese, Renato Vallanzasca è cresciuto qui, e Morlacchi racconta le prime riunioni delle brigate rosse in Piazza Tirana, alla Trattoria Bersagliera o nella biblioteca di via Odazio. Ha dovuto superare capitoli molto neri, come il boom di tossicodipendenza degli anni ’70 e ’80, quando era diventato centro di spaccio di eroina a livello europeo, cosa che ha letteralmente falciato la vita di tanti ragazzi. Ma proprio per la criticità delle situazioni, Giambellino è stato lo scenario di realtà sociali e di coesione fra le più attive ed efficaci della città. E c’è infine la storia che si portano dietro le comunità di oggi, e che continuano a fabbricare qui, storia ibrida e feconda.
Il collettivo, di cui fa parte l’etnologo e scrittore Philopat, uno dei promotori dell’iniziativa, nato proprio in Giambellino, ha voluto fissare la storia del quartiere, non ancora scritta, in una forma che potesse rimanere, ma senza limitarsi a un mero assemblamento di fatti. Ha voluto mescolarlo all’arte e crearne una poetica, un nuovo modo di fare storia e antropologia e il risultato è molto interessante. Entroterra Giambellino è un film ibrido, fra documentario e narrazione poetica, e ha una bellezza molto particolare, somiglia a un flusso di coscienza interiore, e allo stesso tempo non rinuncia al realismo: le voci che ascoltiamo sono quelle autentiche degli abitanti, cha raccontano il loro modo di vivere il quartiere, la loro «casa»; ma si sovrappongono a un flusso di immagini che riesce a dare una sensazione di forte intimità visiva, e il risultato ha qualcosa di visionario, a tratti perfino onirico. In questo senso, possiamo dire che l’obiettivo del progetto è stato centrato: coniugare ricerca e arte, rendere allo spazio urbano la sua poetica, il suo potenziale evocativo.
Il libro, Nella tana del drago (il drago è quel Gino Cerruti della canzone di Gaber, chiamato così dagli amici del bar, «Il suo nome era Cerruti Gino, ma lo chiamavano Drago…») raccoglie le più varie testimonianze degli abitanti attuali del quartiere, ed è una tangibile prova di questa complessità e ricchezza che il collettivo ha voluto mettere in luce. C’è Vallanzasca che nel capitolo “Il carrellot”, racconta la sua infanzia e adolescenza, o Morlacchi che in “La Famiglia Morlacchi”, racconta la nascita delle Brigate Rosse, c’è Philopat, scrittore, etnografo e simbolo del movimento punk italiano degli anni 70, che svela perchè ha lasciato il Giambellino e del perché è tornato ne “L’anomalia del drago”.
Ma oltre ai capitoli dei più noti sfilano personaggi dei più diversi, gente comune che ha fatto la storia del quartiere, tasselli di un mosaico di parole e vissuti che delinea il ritratto di un quartiere in incessante metamorfosi da un secolo. Una volontaria racconta l’esperienza delle comunità di accoglienza ai malati di Aids durante gli anni dell’eroina, uno storico abitante del quartiere, Lori, racconta dell’esperienza dell’autogestione del civico 146 di via Giambellino, un professore di geografia umana racconta la sua infanzia e gli effetti del boom economico sul quartiere e sulla la città, nella concezione delle proprietà, degli spazi, e sui rapporti umani. E poi anche una donna rom, un giovane senegalese, tabaccaie, ragazzi di quartiere, volontari. L’esplorazione si apre a 160 gradi, e, se si può definire tale un’esperienza aperta e mutevole, completa. La scelta di lasciare le testimonianze autentiche nel loro linguaggio, riportandone il tono senza alterarle, senza pulirle, è proprio di un approccio antropologico e ci porta un po’ del sapore del quartiere. L’ordine cronologico è sparso, si passa dagli anni ’20 ai ’90 per tornare al dopoguerra e anche questo approccio è riuscito, perchè se il libro si può leggere in modo sparso e non consequenziale, o selettivo, vuol dire che ognuno può fare un’esperienza diversa e personale del Giambellino e della sua storia, e così l’idea di metamorfosi e movimento, lenti attraverso le quali immaginarie esplorazioni vuole restituire il luogo, sono rispettate.
Fra tante pubblicazioni di cui non si sente la necessità, Nella tana del drago era necessaria, storicamente e artisticamente necessaria, per restituire, e allo stesso tempo fissare, a Milano un tassello imprescindibile della sua storia e della sua identità; speriamo che l’avventura di questi artisti antropologi di geografie umane non si fermi qui, ma si apra anche ad altre periferie.
Una piccola anteprima, per chi non è riuscito ad esserci da Gogol & Company giovedì 20, il 29 settembre il Giambellino scala la vetta più alta di Milano! Ci si vede a 185slm... Rimanete in ascolto!
http://bugiardino.comunita.unita.it, 14 luglio 2012Nella tana del Giambellino
Il libro: Il Giambellino è un quartiere periferico di Milano costruito tra gli anni venti e trenta del secolo scorso su un terreno agricolo molto fertile. Il rapido insediamento di fabbriche e interi isolati di case popolari lo ha reso un laboratorio sociale e politico a cielo aperto che ha saputo anticipare le trasformazioni urbane e storiche della città. Un progetto che raccoglie le testimonianze, elaborate in forma narrativa, degli abitanti del quartiere di ogni età. La tana come luogo accogliente, contrapposto al drago simbolico delle tante anomalie sperimentate nella zona. Il drago Vallanzasca e quello della conflittualità operaia nel dopoguerra, della contestazione ecclesiale e della rottura con il Pci negli anni sessanta. La costruzione della scuola Rinascita e la fondazione del nucleo storico delle Brigate Rosse. La sconfitta dei movimenti e la chiusura delle fabbriche. L’eroina negli anni ottanta con uno dei mercati dello spaccio più grandi d’Italia. L’Aids e la comparsa delle infinite solitudini degli anni novanta. Infine l’arrivo dei migranti che, insieme alle decine di associazioni attive sul territorio, stanno forse sperimentando un nuovo drago, quello di emergenti pratiche e poetiche di coesione sociale. Il progetto, promosso dall’associazione Dynamoscopio, ha realizzato anche un film: entroterra Giambellino. ISTRUZIONI PER L’USO
Categoria farmacologica: Adattatore urbano e ossigenatore.
Composizione ed eccipienti: Storie di strada. Affreschi di un luogo nel tempo scritti da inquilini di quartiere. Apparato iconografico. Scorci storici. Droga, banditi, miseria, cooperazione, militanza, polvere della strada. Topografia affettiva. Una bella scrittura diversa che lega racconti frutto di esperienze polivalenti, ma tutte convergenti verso la medesima mappatura.
Indicazioni terapeutiche: Disinquina le vie respiratore e cura le malattie psicosomatiche connesse a ubanizzazione e cementificazione.
Consigliato a tutti, benefico per: Chi non affaccia mai alla finestra. Chi si sente limitato nel proprio spazio. Chi non milita perché così è più comodo. Chi ha perso le antiche geografie né riconosce le moderne architetture.
Controindicazioni: Da non leggersi assolutamente in villaggi vacanza, potrebbero (i villaggi) provocarvi nausea e vomito.
Posologia, da leggersi preferibilmente: In una qualsiasi città, magari lanciando un pensiero a Milano.
Effetti indesiderati: Potrebbe innescare in voi una reazione di malinconia per il palazzo dell’infanzia.
Avvertenze: Conservare esposto all’aria, anche se abitate nei pressi di una fabbrica.
Inalazioni:
«Dove siamo. In Giambellino, l’abbiamo detto. Ma esiste un’entità che si chiama quartiere Giambellino? Certo che no. Non è annoverabile fra le cose che esistono, come quel cedro del Libano o quella lapide della Seconda guerra. L’identità non è presa materica, questo è pacifico. Né lo spazio “esiste per decreto, ma solo in virtù dell’azione”. Riformuliamo: esiste un’identità condivisa che si chiama quartiere Giambellino? Nemmeno. Anzi, non più. Eppure, ogni volta che ci riferiamo a quel pezzo di città continuiamo a chiamarlo così. Giambellino pare dunque una convenzione linguistica locale per indicare un luogo? Partiamo dai confini di questo luogo. Impossibile. Nessuno saprebbe indicarli con precisione. I confini si spostano con le maree. Della storia, delle generazioni, dei nomadismi. Della speculazione immobiliare, degli spazi di risulta, della gentrification. Eppure, ogni volta che ci riferiamo a questo pezzo di città continuiamo a chiamarlo così».
(Collettivo Dynamoscopio, Giambellino un entroterra)
«Nel 1979 noi giovani irrequieti del Giambellino avevamo solo due scelte: rinnegare i sogni dei fratelli maggiori o fuggire nell’eroina. Io avevo diciotto anni. All’alba del riflusso, della ristrutturazione del modello produttivo e degli infiniti egoismi che spezzarono i legami affettivi e di classe delle periferie milanesi, scelsi di andarmene altrove, lontano dal mio quartiere. Ci sono tornato molto più tardi, nel 2008, per abitare in un appartamento in affitto al sesto piano di un palazzo su piazza Tirana. Ancora adesso non so cosa mi abbia ricondotto nei luoghi dell’adolescenza. Forse un libro che in quel periodo era stato pubblicato da Agenzia X, ambientato proprio nel Giambellino durante gli anni settanta. Forse avevo intravisto delle luci nascere dal buio in cui era sprofondato il quartiere nei tre decenni precedenti. Forse perché il giorno che sono entrato in questa casa – era una rara e tersa giornata di sole invernale – affacciandomi al balcone avevo visto i tetti delle basse case popolari che perimetravano la visione come una mappa, sfumando con il protendersi della metropoli, al di là della quale spiccavano non lontane le cime innevate delle Alpi».
(Marco Philopat, L’anomalia del drago)
«Qui da noi vengono persone che hanno tanto bisogno in generale. Persone che ci raccontano le loro vite, i loro problemi, la mancanza del riscaldamento o dell’acqua calda per esempio. Noi non possiamo farci carico di niente, la nostra non è una struttura solida a cui ci si può aggrappare, ma il fatto di frequentare una scuola con persone di tante nazionalità, fare insieme altre attività e condividere del tempo, può stimolare la nascita di rapporti e relazioni particolari che vanno a formare un tessuto di integrazione, di mescolanza. Chi viene qua può incontrare persone da cui ricevere una mano, capita che si diventi amici e ci si aiuti a vicenda. Noi mettiamo a disposizione una rete di contatti, di persone che possono dare o ricevere sostegno. Molti arrivano qui da noi perché trovano gli annunci che attacchiamo in giro, oppure grazie al passaparola».
(Agata e Claudio, Le Radici e le Ali)
Gli autori: Immaginariesplorazioni è un collettivo di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee che congiunge linguaggi artistici e metodologie antropologiche. Il collettivo, coordinato da Marco Philopat, è composto da: Anna Francesca Ghezzi, Giovanna Berardo, Isabella Bordoni, Chiara Albanesi, Francesca Mineo, Virginia Evi, Costanza Silvana Romani, Paolo Tardugno, Elisa Rossi, Achille Amlesu, Luigi Zetti.
di Marilù OlivaCategoria farmacologica: Adattatore urbano e ossigenatore.
Composizione ed eccipienti: Storie di strada. Affreschi di un luogo nel tempo scritti da inquilini di quartiere. Apparato iconografico. Scorci storici. Droga, banditi, miseria, cooperazione, militanza, polvere della strada. Topografia affettiva. Una bella scrittura diversa che lega racconti frutto di esperienze polivalenti, ma tutte convergenti verso la medesima mappatura.
Indicazioni terapeutiche: Disinquina le vie respiratore e cura le malattie psicosomatiche connesse a ubanizzazione e cementificazione.
Consigliato a tutti, benefico per: Chi non affaccia mai alla finestra. Chi si sente limitato nel proprio spazio. Chi non milita perché così è più comodo. Chi ha perso le antiche geografie né riconosce le moderne architetture.
Controindicazioni: Da non leggersi assolutamente in villaggi vacanza, potrebbero (i villaggi) provocarvi nausea e vomito.
Posologia, da leggersi preferibilmente: In una qualsiasi città, magari lanciando un pensiero a Milano.
Effetti indesiderati: Potrebbe innescare in voi una reazione di malinconia per il palazzo dell’infanzia.
Avvertenze: Conservare esposto all’aria, anche se abitate nei pressi di una fabbrica.
Inalazioni:
«Dove siamo. In Giambellino, l’abbiamo detto. Ma esiste un’entità che si chiama quartiere Giambellino? Certo che no. Non è annoverabile fra le cose che esistono, come quel cedro del Libano o quella lapide della Seconda guerra. L’identità non è presa materica, questo è pacifico. Né lo spazio “esiste per decreto, ma solo in virtù dell’azione”. Riformuliamo: esiste un’identità condivisa che si chiama quartiere Giambellino? Nemmeno. Anzi, non più. Eppure, ogni volta che ci riferiamo a quel pezzo di città continuiamo a chiamarlo così. Giambellino pare dunque una convenzione linguistica locale per indicare un luogo? Partiamo dai confini di questo luogo. Impossibile. Nessuno saprebbe indicarli con precisione. I confini si spostano con le maree. Della storia, delle generazioni, dei nomadismi. Della speculazione immobiliare, degli spazi di risulta, della gentrification. Eppure, ogni volta che ci riferiamo a questo pezzo di città continuiamo a chiamarlo così».
(Collettivo Dynamoscopio, Giambellino un entroterra)
«Nel 1979 noi giovani irrequieti del Giambellino avevamo solo due scelte: rinnegare i sogni dei fratelli maggiori o fuggire nell’eroina. Io avevo diciotto anni. All’alba del riflusso, della ristrutturazione del modello produttivo e degli infiniti egoismi che spezzarono i legami affettivi e di classe delle periferie milanesi, scelsi di andarmene altrove, lontano dal mio quartiere. Ci sono tornato molto più tardi, nel 2008, per abitare in un appartamento in affitto al sesto piano di un palazzo su piazza Tirana. Ancora adesso non so cosa mi abbia ricondotto nei luoghi dell’adolescenza. Forse un libro che in quel periodo era stato pubblicato da Agenzia X, ambientato proprio nel Giambellino durante gli anni settanta. Forse avevo intravisto delle luci nascere dal buio in cui era sprofondato il quartiere nei tre decenni precedenti. Forse perché il giorno che sono entrato in questa casa – era una rara e tersa giornata di sole invernale – affacciandomi al balcone avevo visto i tetti delle basse case popolari che perimetravano la visione come una mappa, sfumando con il protendersi della metropoli, al di là della quale spiccavano non lontane le cime innevate delle Alpi».
(Marco Philopat, L’anomalia del drago)
«Qui da noi vengono persone che hanno tanto bisogno in generale. Persone che ci raccontano le loro vite, i loro problemi, la mancanza del riscaldamento o dell’acqua calda per esempio. Noi non possiamo farci carico di niente, la nostra non è una struttura solida a cui ci si può aggrappare, ma il fatto di frequentare una scuola con persone di tante nazionalità, fare insieme altre attività e condividere del tempo, può stimolare la nascita di rapporti e relazioni particolari che vanno a formare un tessuto di integrazione, di mescolanza. Chi viene qua può incontrare persone da cui ricevere una mano, capita che si diventi amici e ci si aiuti a vicenda. Noi mettiamo a disposizione una rete di contatti, di persone che possono dare o ricevere sostegno. Molti arrivano qui da noi perché trovano gli annunci che attacchiamo in giro, oppure grazie al passaparola».
(Agata e Claudio, Le Radici e le Ali)
Gli autori: Immaginariesplorazioni è un collettivo di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee che congiunge linguaggi artistici e metodologie antropologiche. Il collettivo, coordinato da Marco Philopat, è composto da: Anna Francesca Ghezzi, Giovanna Berardo, Isabella Bordoni, Chiara Albanesi, Francesca Mineo, Virginia Evi, Costanza Silvana Romani, Paolo Tardugno, Elisa Rossi, Achille Amlesu, Luigi Zetti.
Il manifesto, 12 luglio 2012Giambellino MON AMOUR
Alle soglie del «modello Milano», un quartiere che ha vissuto l’antifascismo e l’eroina, il comunismo e l’aids. Un laboratorio politico a cielo aperto che anticipa i fenomeni socialiEra il dieci settembre del 1982 quando vidi per la prima volta Milano. Nel bagaglio avevo esperienze di seconda mano. Soprattutto i racconti di mio padre. Delegato di fabbrica Fiom a Napoli, che negli anni Settanta era spesso al nord per impegni legati all’attività sindacale. Fu questa vaghissima conoscenza del territorio la mia bussola in quelle due settimane di permanenza. Un tour che mi condusse nella maggior parte dei posti dove ci fosse una fermata della metropolitana, una stazione ferroviaria, il capolinea di un tram, un marciapiede da calpestare con l’irruenza dei miei sedici anni appena compiuti. Un tragitto caotico di toccate e fuga, più che di approfondimenti. Quelli sarebbero venuti nel corso dei decenni successivi, attraverso le frequentazioni stabili e la permanenza ciclica a Milano che si alternano ancora oggi.
Allora il Giambellino era per me semplicemente un nome, una periferia che derivava il suo fascino dalla reputazione “criminale”, dal passato antifascista e dalle percentuali bulgare del Pci. Assimilabile in qualche modo alla Secondigliano e ai quartieri di Napoli nord dove ero cresciuto e dai quali ero partito per vedere il mondo. Fu questa curiosità a spingermi, dalla pensione a gestione familiare nei pressi di piazza Napoli dove alloggiavo, lungo via Lorenteggio, via Giambellino, alla stazione di San Cristoforo in piazza Tirana, della quale fino a quel momento avevo ignorato l’esistenza.
Erano gli strani giorni compresi fra la sconfitta storica di Mirafiori e l’affermazione definitiva della “Milano da bere” che tre anni dopo, nel 1985, sarebbe diventato uno spot dell’Amaro Ramazzotti. Ma non era quello che cercai. Andai a caccia di storie di altre periferie che si celavano nel ventre molle del luogo che simboleggiò il rovesciamento dell’immaginario di quegli anni. Il passaggio brusco dalle suggestioni rivoluzionarie del decennio precedente al disimpegno degli ottanta. In superficie, naturalmente. Appena sotto, le storie di eroina e aids, repressione ed esclusione sociale. Tuttavia, pur nella criticità del paesaggio urbano che mi trovai a osservare, non vidi nulla che fosse assimilabile alla ferocia della guerra di camorra fra i cutoliani della Nco e il cartello della Nuova Famiglia che insanguinava la mia Napoli. Dove, solo in quello stesso 1982, terzo anno di conflitto, si sarebbero contati quasi trecento morti ammazzati. Più violenta di qualsiasi altra città italiana.
Perciò, a trent’anni da quell’esperienza, per un napoletano che come me ama Milano e le storie di periferia, Nella tana del drago è una lettura di straordinaria bellezza. Una mappa che permette di sistemare i ricordi, contestualizzarli, inserirli in una cornice. Tuttavia le testimonianze raccolte nel libro abbracciano un arco temporale molto più ampio che parte a cavallo fra gli anni venti e trenta dello scorso secolo. Così come l’invito a leggere il libro vale per tutte e tutti, qualunque sia il posto dal quale venite. Perché i luoghi sono solo da un certo punto di vista un fatto geografico, di materia e territorio, di terra e acqua.
Piuttosto, vale l’attitudine a cogliere l’intreccio di relazioni, la costruzione di senso collettivo, le storie. Narrate in questo caso dalle fonti orali, e raccolte attraverso un’arte dell’ascolto. Un dispositivo di interazione nel quale chi racconta e chi trasforma il racconto in scrittura non intrattengono una relazione gerarchica con ruoli fissi, ma mutevole e bidirezionale, orizzontale e democratica. Capace perciò di esercitare influenza in entrambe le direttrici del flusso: dalla fase di accumulo a quella di assemblaggio dei materiali.
Storie, quindi. Come quelle che ha voluto raccontare “immaginariesplorazioni”, un progetto di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee e, insieme, un collettivo di circa trenta giovani che, oltre a essere la regia del film entroterra giambellino (Lab80 film), si è reso autore del libro Nella tana del drago. Anomalie narrative dal Giambellino (Agenzia X, pag. 320, euro 15).
«Esiste un’entità che si chiama quartiere Giambellino?» si chiede nella prefazione il collettivo Dynamoscopio che ha promosso l’intero progetto. «Certo che no». E riformulando la domanda per problematizzare la questione: «Esiste un’identità condivisa che si chiama quartiere Giambellino?». «Nemmeno. Anzi, non più » è la risposta altrettanto netta da assumere i tratti della sentenza. Esiste invece il laboratorio politico a cielo aperto Giambellino, che anticipa fenomeni diventati secondo gli autori, dopo e altrove, consuetudine generalizzata. Ovunque. Non solo negli ormai asfittici confini comunali di quella che convenzionalmente chiamiamo Milano, ma lungo i tentacoli dell’area metropolitana più grande d’Italia, che si spingono verso Varese, Bergamo, Pavia, Piacenza. In ogni direzione. Seguendo strade, linee ferroviarie, flussi di senso, che ridisegnano i percorsi e i confini incerti della città reale.
«I confini si spostano con le maree. Della storia, delle generazioni, dei nomadismi. Della speculazione immobiliare, degli spazi di risulta della gentrificazione» scrive ancora Dynamoscopio. Perciò il Giambellino, non potendo essere altro, è una soglia. Un confine che non è margine, non è barriera ma luogo e sistema di relazioni, dove chi entra, chi esce e chi sosta in attesa di entrare o uscire, semplicemente, si incontrano. Anche quelli che restano tutta la vita. Se il Giambellino è la soglia del sistema Milano: «Allora qui si addensano più che altrove vite rocambolesche, arte di arrangiarsi, forme e strategie di resistenza, riusi dello spazio, convivenze creative, riattivazioni della memoria, sperimentazioni sociali».
Perciò è qui che troviamo un Vallanzasca bambino a sfrecciare sul carrellòt, attaccandosi al tram. Quello stesso veicolo auto costruito che usavamo a Napoli, chiamandolo carruòciolo. Qui, le storie della Ligera, la piccola mala milanese. Qui, la bisca a cielo aperto in piazza Tirana controllata dagli uomini di Francis Turatello. Ucciso poi il 17 agosto 1981 dal cutoliano Pasquale Barra, per motivi mai definitivamente chiariti. Renato Curcio, Mara Cagol, i Morlacchi, Franceschini e Moretti, impegnati nelle riunioni che sarebbero sfociate nella costituzione delle Brigate Rosse. I maoisti del gruppo Luglio 60 che provocarono la spaccatura a sinistra col Pci. I cattolici dissidenti che occuparono il Duomo di Milano. Quella via Odazio che anticipa Scampia come più grande supermercato di sostanze stupefacenti in Europa. E sempre qui troviamo metaforicamente Cerutti Gino, protagonista dell’omonima ballata di Giorgio Gaber, il drago che dà il titolo al libro.
Ma qui ci sono anche le storie di associazionismo. Uno degli undici convitti della scuola Rinascita, straordinario modello di didattica alternativa. Le esperienze di autogestione condominiale nelle case popolari. Gli operatori sociali e i migranti. Prima quelli genericamente del nord, poi quelli del sud, e infine quelli delle periferie del mondo sotto i colpi della globalizzazione. In quello stesso Giambellino, quartiere un tempo periferico di Milano, che fino al 1925 non esisteva. Quando la città finiva a Piazza Napoli, adagiata quasi indolente sulle rive dell’Olona, non ancora interrato, mentre a nord-est era già tracimata impetuosa oltre i limiti della circonvallazione.
Intorno, campi. Fabbriche destinate a crescere di numero e importanza nell’economia della zona. Ma soprattutto cascine: Lorenteggio, Arzaga, La Cassinetta, tappe di quel giro della viulèta, descritto con incantato realismo da Bruna Cavallotti nel capitolo “Storie di un altro mondo”. Oggi quelle cascine non ci sono più, abbattute via via che il territorio diventava prima industriale e poi residenziale, e il ricordo in molti casi sopravvive solo attraverso i nomi delle strade. E nemmeno buona parte delle fabbriche. Resta però il Giambellino a interrogarsi sulla sua identità e il suo destino, stretto fra le contraddizioni generate dal contrasto fra la gentrificazione che fa schizzare in alto il prezzo degli immobili e il degrado delle case popolari. Un’identità pericolosamente in bilico.
Ci sono molti criteri secondo i quali si possono leggere le storie che compongono il libro. Uno che mi sembra particolarmente efficace è la lingua. Anzi, il sovrapporsi degli idiomi, che rivela con filologica precisione le stratificazioni del vissuto. Il punto di partenza è il Palazziun, il palazzone di via Gonin costruito nel nulla ai primi del Novecento: «dove si parlava sempre e solo dialetto milanese» come scrive Bruna Cavallotti. Ma anche: «una lingua nostra che si parlava solo in zona», spiega B., altra storica residente del Giambellino, descrivendo l’esito dell’incontro fra gli italiani francofoni rimpatriati da Mussolini e la popolazione originaria del quartiere.
Poi c’è l’intreccio degli idiomi meridionali, la cui versione esagerata e caricaturale viene resa celebre dal Diego Abatantuono degli esordi, che cresciuto coi nonni alle case minime di Lorenteggio, è un altro ragazzo del Giambellino. E il viaggio continua oggi con l’arabo, il cinese, lo spagnolo dei sudamericani, il filippino, il wolof e il francese dei senegalesi, che continuano a mischiarsi con la cadenza ormai genericamente milanese e i dialetti meridionali, sulla scia di un’emigrazione interna mai cessata, ma ripresa negli ultimi anni ai suoi massimi storici. Ecco quindi che il Giambellino torna a essere una cartina al tornasole per cogliere le trasformazioni del paese. La stratificazione che si sovrappone a quelle che l’hanno preceduta. La capacità che il quartiere ha storicamente mostrato di saper integrare le diversità in meccanismi di tipo solidaristico. Certo, resta la memoria dei contrasti fra polentoni e terroni, i conflitti fra napoletani e pugliesi, quelli attuali fra egiziani e marocchini, fra gli italiani e gli stranieri. Ma anche la certezza che la grammatica della diversità può costruire delle vie di fuga dall’intolleranza. Il Giambellino sembra crederci ancora.
IL LIBRO
Il Giambellino è un quartiere periferico di Milano costruito tra gli anni venti e trenta del secolo scorso su un terreno agricolo molto fertile. Il rapido insediamento di fabbriche e interi isolati di case popolari lo ha reso un laboratorio sociale e politico a cielo aperto che ha saputo anticipare le trasformazioni urbane e storiche della città. Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan Drago. La famosa canzone che Giorgio Gaber dedicò alla piccola malavita del Giambellino è lo spunto per un progetto che raccoglie le testimonianze, elaborate in forma narrativa, degli abitanti del quartiere di ogni età. Nella tana del drago contrappone la tana come luogo accogliente al drago simbolico delle tante anomalie sperimentate nella zona. Il drago Vallanzasca e quello della conflittualità operaia nel dopoguerra, della contestazione ecclesiale e della rottura con il Pci negli anni sessanta. La costruzione della scuola Rinascita e la fondazione del nucleo storico delle Brigate Rosse. La sconfitta dei movimenti e la chiusura delle fabbriche. L’eroina negli anni ottanta con uno dei mercati dello spaccio più grandi d’Italia. L’Aids e la comparsa delle infinite solitudini degli anni novanta. Infine l’arrivo dei migranti che, insieme alle decine di associazioni attive sul territorio, stanno forse sperimentando un nuovo drago, quello di emergenti pratiche e poetiche di coesione sociale. Immaginariesplorazioni è un collettivo di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee che congiunge linguaggi artistici e metodologie antropologiche. Il progetto, promosso dall’associazione Dynamoscopio, ha realizzato anche un film: entroterra giambellino.
di Rosario Dello IacovoAllora il Giambellino era per me semplicemente un nome, una periferia che derivava il suo fascino dalla reputazione “criminale”, dal passato antifascista e dalle percentuali bulgare del Pci. Assimilabile in qualche modo alla Secondigliano e ai quartieri di Napoli nord dove ero cresciuto e dai quali ero partito per vedere il mondo. Fu questa curiosità a spingermi, dalla pensione a gestione familiare nei pressi di piazza Napoli dove alloggiavo, lungo via Lorenteggio, via Giambellino, alla stazione di San Cristoforo in piazza Tirana, della quale fino a quel momento avevo ignorato l’esistenza.
Erano gli strani giorni compresi fra la sconfitta storica di Mirafiori e l’affermazione definitiva della “Milano da bere” che tre anni dopo, nel 1985, sarebbe diventato uno spot dell’Amaro Ramazzotti. Ma non era quello che cercai. Andai a caccia di storie di altre periferie che si celavano nel ventre molle del luogo che simboleggiò il rovesciamento dell’immaginario di quegli anni. Il passaggio brusco dalle suggestioni rivoluzionarie del decennio precedente al disimpegno degli ottanta. In superficie, naturalmente. Appena sotto, le storie di eroina e aids, repressione ed esclusione sociale. Tuttavia, pur nella criticità del paesaggio urbano che mi trovai a osservare, non vidi nulla che fosse assimilabile alla ferocia della guerra di camorra fra i cutoliani della Nco e il cartello della Nuova Famiglia che insanguinava la mia Napoli. Dove, solo in quello stesso 1982, terzo anno di conflitto, si sarebbero contati quasi trecento morti ammazzati. Più violenta di qualsiasi altra città italiana.
Perciò, a trent’anni da quell’esperienza, per un napoletano che come me ama Milano e le storie di periferia, Nella tana del drago è una lettura di straordinaria bellezza. Una mappa che permette di sistemare i ricordi, contestualizzarli, inserirli in una cornice. Tuttavia le testimonianze raccolte nel libro abbracciano un arco temporale molto più ampio che parte a cavallo fra gli anni venti e trenta dello scorso secolo. Così come l’invito a leggere il libro vale per tutte e tutti, qualunque sia il posto dal quale venite. Perché i luoghi sono solo da un certo punto di vista un fatto geografico, di materia e territorio, di terra e acqua.
Piuttosto, vale l’attitudine a cogliere l’intreccio di relazioni, la costruzione di senso collettivo, le storie. Narrate in questo caso dalle fonti orali, e raccolte attraverso un’arte dell’ascolto. Un dispositivo di interazione nel quale chi racconta e chi trasforma il racconto in scrittura non intrattengono una relazione gerarchica con ruoli fissi, ma mutevole e bidirezionale, orizzontale e democratica. Capace perciò di esercitare influenza in entrambe le direttrici del flusso: dalla fase di accumulo a quella di assemblaggio dei materiali.
Storie, quindi. Come quelle che ha voluto raccontare “immaginariesplorazioni”, un progetto di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee e, insieme, un collettivo di circa trenta giovani che, oltre a essere la regia del film entroterra giambellino (Lab80 film), si è reso autore del libro Nella tana del drago. Anomalie narrative dal Giambellino (Agenzia X, pag. 320, euro 15).
«Esiste un’entità che si chiama quartiere Giambellino?» si chiede nella prefazione il collettivo Dynamoscopio che ha promosso l’intero progetto. «Certo che no». E riformulando la domanda per problematizzare la questione: «Esiste un’identità condivisa che si chiama quartiere Giambellino?». «Nemmeno. Anzi, non più » è la risposta altrettanto netta da assumere i tratti della sentenza. Esiste invece il laboratorio politico a cielo aperto Giambellino, che anticipa fenomeni diventati secondo gli autori, dopo e altrove, consuetudine generalizzata. Ovunque. Non solo negli ormai asfittici confini comunali di quella che convenzionalmente chiamiamo Milano, ma lungo i tentacoli dell’area metropolitana più grande d’Italia, che si spingono verso Varese, Bergamo, Pavia, Piacenza. In ogni direzione. Seguendo strade, linee ferroviarie, flussi di senso, che ridisegnano i percorsi e i confini incerti della città reale.
«I confini si spostano con le maree. Della storia, delle generazioni, dei nomadismi. Della speculazione immobiliare, degli spazi di risulta della gentrificazione» scrive ancora Dynamoscopio. Perciò il Giambellino, non potendo essere altro, è una soglia. Un confine che non è margine, non è barriera ma luogo e sistema di relazioni, dove chi entra, chi esce e chi sosta in attesa di entrare o uscire, semplicemente, si incontrano. Anche quelli che restano tutta la vita. Se il Giambellino è la soglia del sistema Milano: «Allora qui si addensano più che altrove vite rocambolesche, arte di arrangiarsi, forme e strategie di resistenza, riusi dello spazio, convivenze creative, riattivazioni della memoria, sperimentazioni sociali».
Perciò è qui che troviamo un Vallanzasca bambino a sfrecciare sul carrellòt, attaccandosi al tram. Quello stesso veicolo auto costruito che usavamo a Napoli, chiamandolo carruòciolo. Qui, le storie della Ligera, la piccola mala milanese. Qui, la bisca a cielo aperto in piazza Tirana controllata dagli uomini di Francis Turatello. Ucciso poi il 17 agosto 1981 dal cutoliano Pasquale Barra, per motivi mai definitivamente chiariti. Renato Curcio, Mara Cagol, i Morlacchi, Franceschini e Moretti, impegnati nelle riunioni che sarebbero sfociate nella costituzione delle Brigate Rosse. I maoisti del gruppo Luglio 60 che provocarono la spaccatura a sinistra col Pci. I cattolici dissidenti che occuparono il Duomo di Milano. Quella via Odazio che anticipa Scampia come più grande supermercato di sostanze stupefacenti in Europa. E sempre qui troviamo metaforicamente Cerutti Gino, protagonista dell’omonima ballata di Giorgio Gaber, il drago che dà il titolo al libro.
Ma qui ci sono anche le storie di associazionismo. Uno degli undici convitti della scuola Rinascita, straordinario modello di didattica alternativa. Le esperienze di autogestione condominiale nelle case popolari. Gli operatori sociali e i migranti. Prima quelli genericamente del nord, poi quelli del sud, e infine quelli delle periferie del mondo sotto i colpi della globalizzazione. In quello stesso Giambellino, quartiere un tempo periferico di Milano, che fino al 1925 non esisteva. Quando la città finiva a Piazza Napoli, adagiata quasi indolente sulle rive dell’Olona, non ancora interrato, mentre a nord-est era già tracimata impetuosa oltre i limiti della circonvallazione.
Intorno, campi. Fabbriche destinate a crescere di numero e importanza nell’economia della zona. Ma soprattutto cascine: Lorenteggio, Arzaga, La Cassinetta, tappe di quel giro della viulèta, descritto con incantato realismo da Bruna Cavallotti nel capitolo “Storie di un altro mondo”. Oggi quelle cascine non ci sono più, abbattute via via che il territorio diventava prima industriale e poi residenziale, e il ricordo in molti casi sopravvive solo attraverso i nomi delle strade. E nemmeno buona parte delle fabbriche. Resta però il Giambellino a interrogarsi sulla sua identità e il suo destino, stretto fra le contraddizioni generate dal contrasto fra la gentrificazione che fa schizzare in alto il prezzo degli immobili e il degrado delle case popolari. Un’identità pericolosamente in bilico.
Ci sono molti criteri secondo i quali si possono leggere le storie che compongono il libro. Uno che mi sembra particolarmente efficace è la lingua. Anzi, il sovrapporsi degli idiomi, che rivela con filologica precisione le stratificazioni del vissuto. Il punto di partenza è il Palazziun, il palazzone di via Gonin costruito nel nulla ai primi del Novecento: «dove si parlava sempre e solo dialetto milanese» come scrive Bruna Cavallotti. Ma anche: «una lingua nostra che si parlava solo in zona», spiega B., altra storica residente del Giambellino, descrivendo l’esito dell’incontro fra gli italiani francofoni rimpatriati da Mussolini e la popolazione originaria del quartiere.
Poi c’è l’intreccio degli idiomi meridionali, la cui versione esagerata e caricaturale viene resa celebre dal Diego Abatantuono degli esordi, che cresciuto coi nonni alle case minime di Lorenteggio, è un altro ragazzo del Giambellino. E il viaggio continua oggi con l’arabo, il cinese, lo spagnolo dei sudamericani, il filippino, il wolof e il francese dei senegalesi, che continuano a mischiarsi con la cadenza ormai genericamente milanese e i dialetti meridionali, sulla scia di un’emigrazione interna mai cessata, ma ripresa negli ultimi anni ai suoi massimi storici. Ecco quindi che il Giambellino torna a essere una cartina al tornasole per cogliere le trasformazioni del paese. La stratificazione che si sovrappone a quelle che l’hanno preceduta. La capacità che il quartiere ha storicamente mostrato di saper integrare le diversità in meccanismi di tipo solidaristico. Certo, resta la memoria dei contrasti fra polentoni e terroni, i conflitti fra napoletani e pugliesi, quelli attuali fra egiziani e marocchini, fra gli italiani e gli stranieri. Ma anche la certezza che la grammatica della diversità può costruire delle vie di fuga dall’intolleranza. Il Giambellino sembra crederci ancora.
IL LIBRO
Il Giambellino è un quartiere periferico di Milano costruito tra gli anni venti e trenta del secolo scorso su un terreno agricolo molto fertile. Il rapido insediamento di fabbriche e interi isolati di case popolari lo ha reso un laboratorio sociale e politico a cielo aperto che ha saputo anticipare le trasformazioni urbane e storiche della città. Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan Drago. La famosa canzone che Giorgio Gaber dedicò alla piccola malavita del Giambellino è lo spunto per un progetto che raccoglie le testimonianze, elaborate in forma narrativa, degli abitanti del quartiere di ogni età. Nella tana del drago contrappone la tana come luogo accogliente al drago simbolico delle tante anomalie sperimentate nella zona. Il drago Vallanzasca e quello della conflittualità operaia nel dopoguerra, della contestazione ecclesiale e della rottura con il Pci negli anni sessanta. La costruzione della scuola Rinascita e la fondazione del nucleo storico delle Brigate Rosse. La sconfitta dei movimenti e la chiusura delle fabbriche. L’eroina negli anni ottanta con uno dei mercati dello spaccio più grandi d’Italia. L’Aids e la comparsa delle infinite solitudini degli anni novanta. Infine l’arrivo dei migranti che, insieme alle decine di associazioni attive sul territorio, stanno forse sperimentando un nuovo drago, quello di emergenti pratiche e poetiche di coesione sociale. Immaginariesplorazioni è un collettivo di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee che congiunge linguaggi artistici e metodologie antropologiche. Il progetto, promosso dall’associazione Dynamoscopio, ha realizzato anche un film: entroterra giambellino.
Radio popolare, 6 luglio 2012Intervista a Semaforo Rosso
Semaforo blu (@radiopopmilano) nel podcast di oggi il servizio su Nella tana del drago con intervista a Marco Philopat Ascolta qui
www.ilfattoquotidiano.it, 6 luglio 2012Tutto accadeva al Giambellino”, il quartiere milanese del Cerutti Gino
Etnografo, oggi Marco Philopat (che in passato descrisse l\'esperienza punk del Virus di via Correggio) racconta in un libro una delle aree storiche della periferia del capoluogo lombardo. Qui, negli anni, è passato tutto e il contrario di tutto: la malavita e i primi vagiti del brigatismo, la droga e l\'emigrazione (italiana prima straniera poi).“Tutto questo succedeva al Giambellino, dove ho trovato l’humus ideale per crescere bene!”. Lasciamo per un attimo in sospeso chi sia l’autore di questa frase. E concentriamoci sul suo contenuto, che nasconde una grande verità. Nel Giambellino, storico quartiere della periferia ovest di Milano, si può anche crescere bene. E non perché, a differenza di altre parti della città, “al Giambella non ci sono gaggi”, ossia i milanesissimi nerd. Ma perché la sua incredibile stratificazione sociale e urbanistica, nonché la sua storia, nel tempo ne hanno fatto uno straordinario esempio per capire l’Italia e le sue trasformazioni.
Perché cos’era questo “tutto” che succedeva al Giambellino? Per saperlo Immaginariesplorazioni, un collettivo di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee, ha condotto uno studio sul territorio durato più di un anno. Ne sono scaturiti un film, Entroterra Giambellino (Lab 80 Film), e un libro, Nella tana del Drago, anomalie narrative dal Giambellino (Agenzia X). All’interno una serie di testimonianze dal quartiere: l’abitante storica, i militanti politici di un tempo, il gangster passato alla leggenda, il gestore di call center per immigrati, la donna rom che vive sulle panchine, gli insegnanti della scuola per stranieri, l’abitante del palazziun di via Gonin, il docente di geografia umana, l’operatore sociale, il graffitaro. Insomma, uno spaccato spaziotemporale delle varie realtà di un quartiere unico. Ma anche di chi lo studia e di chi se ne occupa.
Non c’è ovviamente il drago del titolo, il quale, va da sé, è il Cerutti Gino di Giorgio Gaber, che gli amici al bar del Giambellino chiamavan drago. Però c’è un buon campionario di ciò che il quartiere ha rappresentato da quando esiste. Nel bene e nel male, con occhio antropologico e senza omissioni. Dalla sua nascita, avvenuta intorno alle cascine a inizio secolo, fino all’espansione urbanistica dell’era delle fabbriche; dagli emigranti italiani di ritorno dalla Francia pugnalata alle spalle (e alloggiati dal Duce nel quartiere), fino ai moti della Resistenza; dalle collaborazioniste del fascismo rasate per vendetta in piazza Tirana (le ciocche di capelli riemergeranno con i lavori per il tram), fino al dopoguerra vissuto con fantasiosa povertà; dalla ligera, la piccola malavita d’antan, fino al gangsterismo, quando in piazza Tirana si giocava a dadi sotto l’egida di Francis Turatello.
Finché il modello industriale che l’aveva edificato non si inceppa. Allora sì che il Giambellino diventa “una bolgia di quartiere”, come aveva scritto Luciano Bianciardi ne la Vita Agra. Ma anche un laboratorio capace, come già in passato, di “trasformare i disagi collegati allo sviluppo in nuove pratiche di coesione sociale”. Innanzitutto grazie al gruppo Luglio 60, che per primo fa una scissione maoista all’interno del Pci, venendo per questo espulso. Poi con le varie realtà cattoliche e l’esperienza del centro culturale Crud (Centro rionale di unità democratica), alla cui inaugurazione presenziano Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Quindi con la scuola sperimentale Rinascita, antesignana nel suo genere, al cui interno si trovava l’Istituto pedagogico della Resistenza. Fino alle Brigate Rosse, le cui prime riunioni tra la famiglia Morlacchi, Renato Curcio e Mara Cagol, avvenivano alla trattoria Bersagliera (sempre in piazza Tirana), oppure nella piccola biblioteca di via Odazio. Prima, molto prima che le P38 cominciassero a sparare.
E poi quella stessa via Odazio che diventa la più grande piazza di spaccio d’Europa, rifornita dalle famiglie mafiose di Trezzano sul Naviglio e controllata dalla malavita vicina ai neofascisti. Una sfilata di centinaia e centinaia di tossici, il quartiere coperto di siringhe, l’80% dei giovani sieropositivi, un’ecatombe. E l’immigrazione continua: i terroni, gli extracomunitari, gli zingari. Con il razzismo che si mischia alla solidarietà e i vecchi immigrati che si trasformano nei nuovi intolleranti.
Eppure al Giambellino si vive tutti insieme, sebbene in modo gerarchico. Dal centro verso la periferia prima troviamo le case degli “sciuri” (costruttore e residente Silvio Berlusconi: l’avrete visto tutti votare nella scuola di via Scrosati, a pochi metri da via Odazio), poi quelle degli operai e del ceto medio, quindi le casette del Villaggio dei Fiori, dove un tempo c’era la malavita vera: infine le case minime per i vari desmentegass, i reietti di Milano. Feccia da spingere ai margini.
Sarà sempre così il Giambellino? Il suo declino è irreversibile oppure oggi è meglio di un tempo? E cosa sta facendo la prima giunta di sinistra della città? E quali sono le esigenze dei nuovi abitanti? Ne abbiamo parlato con Marco Philopat, etnografo e curatore del progetto, cui innanzitutto abbiamo chiesto come è venuta l’idea del libro e del film.
“Sono tornato a vivere nel Giambellino nel 2008, quando ho trovato casa in piazza Tirana. Da quel quartiere ero fuggito alla fine degli anni Settanta, perché non ci si poteva più stare. Ero andato a vivere a Baggio, poi a Londra (Philopat ha descritto l’esperienza punk del Virus di via Correggio e il periodo londinese in Costretti a sanguinare, Einaudi). Tornandoci anni dopo ho riscoperto il grande fascino del Giambellino. Il senso d’appartenenza di nuovi e vecchi abitanti. La sua vitalità. La sua storia. Poi, durante la curatela del libro di Manolo Morlacchi (La fuga in avanti, Agenzia X), che parlava molto del quartiere, mi sono detto: dovremmo scriverci un libro. Un mese dopo è arrivata la proposta da parte dell’associazione Dynamoscopio: il progetto immaginariesplorazioni, una ricerca collettiva su e nel Giambellino.»
Come è stato condotto lo studio?
Il collettivo della Tana del drago è composto da una decina di giovani donne e uomini, alcuni abitanti nel quartiere, altri studenti o laureati in antropologia. Il metodo di ricerca usato, invece, è quello della raccolta di fonti orali, chiaramente di vecchi e nuovi abitanti del Giambellino. Insieme ai quali è stato poi svolto anche il lavoro di stesura narrativa.
Qual è l’anomalia narrativa che colpisce di più?
Sono le anomalie del drago. Un quartiere che ha dentro il dna della ribellione. Dalle lotte dei cattolici a quelle operaie, i suoi abitanti hanno sempre venduto cara la propria pelle. È così anche adesso, se solo si pensa alle lotte contro il villaggio Vodafone. Oppure all’autogestione della case Aler di via Giambellino 146.
C’è però sempre una vena di follia nel quartiere…
Sì, e ancora oggi nella geografia del Terzo settore il quartiere è considerato un luogo di pazzi. Prendi però la Comunità del Giambellino. Ha coperto il buco provocato dall’eroina e la desertificazione che ne era derivata. E oggi si può permettere anche tematiche spesso radicali.
Che cosa è stata l’eroina per il Giambellino
“Non dimentichiamoci che qui l’eroina ha falcidiato una generazione. Più che la lotta armata, ad ammazzare i giovani del Giambellino è stata lei. È stato l’unico momento in cui il quartiere non è stato in grado di reagire. Alcuni compagni hanno provato a dare fuoco al bar di via Odazio, ma erano azioni velleitarie. In pochi anni la maggior parte dei ragazzi o era morta, o era in galera, o stava riversa su una panchina”.
Un’altra anomalia del Giambellino è rappresentata dai vari linguaggi che negli anni si sono accavallati: il milanese dei vecchi del quartiere; il francese degli emigrati italiani di ritorno dalla Francia; il “terrunciello” (il mix di tutti i dialetti meridionali che fece la fortuna di un altro nativo del Giambellino: Diego Abatantuono); l’arabo, il sudamericano, il cinese e il romeno dei nuovi migranti; lo slang “strascicato” dell’ex tossico e quello triviale degli “zarri”, i coatti di Milano.
Quella della lingua è una delle grandi risorse del quartiere. E non solo nel passato. Per esempio abbiamo scoperto che egiziani e marocchini hanno creato una linea di linguaggio base che esiste solo al Giambellino. Perché qui, al contrario di altre zone della città, non ci sono compartimenti stagni. Si vive tutti insieme. Certo, poi ogni comunità si ritrova in diverse parti del quartiere, chi in piazza Tirana, chi in via Odazio, chi in largo Fatima. E gli egiziani non vanno d’accordo con i marocchini come un tempo i pugliesi con i napoletani. Ma il fatto di abitare case in comune ha creato molti meno problemi che in via Padova. Là gli appartamenti sono di privati, e gli affittuari se le passano con il metodo del passaparola. Qui no. Non c’è il controllo della mafia nella case popolari.
Il vento di Pisapia è arrivato anche al Giambellino?
Pisapia è venuto più volte in quartiere, sia durante la campagna elettorale sia dopo. Ed è stato molto seguito dalla gente. Credo che dopo vent’anni di governo berlusconiano e leghista le acque si siano mosse e Milano stia vivendo una delle sue tante rinascite. Anche a partire dal Giambellino. Basta pensare alle venti associazioni che hanno partecipato alla realizzazione del libro e del film. Ma molte iniziative dal basso ci sono anche altrove. L’esperienza di Macao, per esempio, è la dimostrazione di una città che dopo vent’anni di repressione è capace di reagire.
Torniamo alla frase con la quale abbiamo cominciato. Nel Giambellino si può trovare l’humus ideale per cresce bene, e tu ne sei un esempio. Ma non ti sei stupito che a dire quella frase fosse Renato Vallanzasca, il boss della Comasina?
Certo mi ha fatto sorridere. Però lui aggiunge una cosa: “in Comasina erano tutti dei pirlotti e prendevano un sacco di mazzate da noi, però alla lunga sono saltati fuori molti più delinquenti là che non al Giambellino…” In ogni caso la sua testimonianza di quando da bambino viveva nel quartiere è davvero suggestiva. Racconta il gioco del carellòt, un monopattino costruito in proprio e molto pericoloso. E di quando vicino a via degli Apuli, dove abitava, ha trovato il fratello morto. Lo avevamo anche invitato alla presentazione del libro, in via Odazio. Ma non gli hanno dato il permesso di partecipare. C’erano troppi pregiudicati.
di Matteo Lunardini Perché cos’era questo “tutto” che succedeva al Giambellino? Per saperlo Immaginariesplorazioni, un collettivo di ricerca interdisciplinare sulle metropoli contemporanee, ha condotto uno studio sul territorio durato più di un anno. Ne sono scaturiti un film, Entroterra Giambellino (Lab 80 Film), e un libro, Nella tana del Drago, anomalie narrative dal Giambellino (Agenzia X). All’interno una serie di testimonianze dal quartiere: l’abitante storica, i militanti politici di un tempo, il gangster passato alla leggenda, il gestore di call center per immigrati, la donna rom che vive sulle panchine, gli insegnanti della scuola per stranieri, l’abitante del palazziun di via Gonin, il docente di geografia umana, l’operatore sociale, il graffitaro. Insomma, uno spaccato spaziotemporale delle varie realtà di un quartiere unico. Ma anche di chi lo studia e di chi se ne occupa.
Non c’è ovviamente il drago del titolo, il quale, va da sé, è il Cerutti Gino di Giorgio Gaber, che gli amici al bar del Giambellino chiamavan drago. Però c’è un buon campionario di ciò che il quartiere ha rappresentato da quando esiste. Nel bene e nel male, con occhio antropologico e senza omissioni. Dalla sua nascita, avvenuta intorno alle cascine a inizio secolo, fino all’espansione urbanistica dell’era delle fabbriche; dagli emigranti italiani di ritorno dalla Francia pugnalata alle spalle (e alloggiati dal Duce nel quartiere), fino ai moti della Resistenza; dalle collaborazioniste del fascismo rasate per vendetta in piazza Tirana (le ciocche di capelli riemergeranno con i lavori per il tram), fino al dopoguerra vissuto con fantasiosa povertà; dalla ligera, la piccola malavita d’antan, fino al gangsterismo, quando in piazza Tirana si giocava a dadi sotto l’egida di Francis Turatello.
Finché il modello industriale che l’aveva edificato non si inceppa. Allora sì che il Giambellino diventa “una bolgia di quartiere”, come aveva scritto Luciano Bianciardi ne la Vita Agra. Ma anche un laboratorio capace, come già in passato, di “trasformare i disagi collegati allo sviluppo in nuove pratiche di coesione sociale”. Innanzitutto grazie al gruppo Luglio 60, che per primo fa una scissione maoista all’interno del Pci, venendo per questo espulso. Poi con le varie realtà cattoliche e l’esperienza del centro culturale Crud (Centro rionale di unità democratica), alla cui inaugurazione presenziano Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Quindi con la scuola sperimentale Rinascita, antesignana nel suo genere, al cui interno si trovava l’Istituto pedagogico della Resistenza. Fino alle Brigate Rosse, le cui prime riunioni tra la famiglia Morlacchi, Renato Curcio e Mara Cagol, avvenivano alla trattoria Bersagliera (sempre in piazza Tirana), oppure nella piccola biblioteca di via Odazio. Prima, molto prima che le P38 cominciassero a sparare.
E poi quella stessa via Odazio che diventa la più grande piazza di spaccio d’Europa, rifornita dalle famiglie mafiose di Trezzano sul Naviglio e controllata dalla malavita vicina ai neofascisti. Una sfilata di centinaia e centinaia di tossici, il quartiere coperto di siringhe, l’80% dei giovani sieropositivi, un’ecatombe. E l’immigrazione continua: i terroni, gli extracomunitari, gli zingari. Con il razzismo che si mischia alla solidarietà e i vecchi immigrati che si trasformano nei nuovi intolleranti.
Eppure al Giambellino si vive tutti insieme, sebbene in modo gerarchico. Dal centro verso la periferia prima troviamo le case degli “sciuri” (costruttore e residente Silvio Berlusconi: l’avrete visto tutti votare nella scuola di via Scrosati, a pochi metri da via Odazio), poi quelle degli operai e del ceto medio, quindi le casette del Villaggio dei Fiori, dove un tempo c’era la malavita vera: infine le case minime per i vari desmentegass, i reietti di Milano. Feccia da spingere ai margini.
Sarà sempre così il Giambellino? Il suo declino è irreversibile oppure oggi è meglio di un tempo? E cosa sta facendo la prima giunta di sinistra della città? E quali sono le esigenze dei nuovi abitanti? Ne abbiamo parlato con Marco Philopat, etnografo e curatore del progetto, cui innanzitutto abbiamo chiesto come è venuta l’idea del libro e del film.
“Sono tornato a vivere nel Giambellino nel 2008, quando ho trovato casa in piazza Tirana. Da quel quartiere ero fuggito alla fine degli anni Settanta, perché non ci si poteva più stare. Ero andato a vivere a Baggio, poi a Londra (Philopat ha descritto l’esperienza punk del Virus di via Correggio e il periodo londinese in Costretti a sanguinare, Einaudi). Tornandoci anni dopo ho riscoperto il grande fascino del Giambellino. Il senso d’appartenenza di nuovi e vecchi abitanti. La sua vitalità. La sua storia. Poi, durante la curatela del libro di Manolo Morlacchi (La fuga in avanti, Agenzia X), che parlava molto del quartiere, mi sono detto: dovremmo scriverci un libro. Un mese dopo è arrivata la proposta da parte dell’associazione Dynamoscopio: il progetto immaginariesplorazioni, una ricerca collettiva su e nel Giambellino.»
Come è stato condotto lo studio?
Il collettivo della Tana del drago è composto da una decina di giovani donne e uomini, alcuni abitanti nel quartiere, altri studenti o laureati in antropologia. Il metodo di ricerca usato, invece, è quello della raccolta di fonti orali, chiaramente di vecchi e nuovi abitanti del Giambellino. Insieme ai quali è stato poi svolto anche il lavoro di stesura narrativa.
Qual è l’anomalia narrativa che colpisce di più?
Sono le anomalie del drago. Un quartiere che ha dentro il dna della ribellione. Dalle lotte dei cattolici a quelle operaie, i suoi abitanti hanno sempre venduto cara la propria pelle. È così anche adesso, se solo si pensa alle lotte contro il villaggio Vodafone. Oppure all’autogestione della case Aler di via Giambellino 146.
C’è però sempre una vena di follia nel quartiere…
Sì, e ancora oggi nella geografia del Terzo settore il quartiere è considerato un luogo di pazzi. Prendi però la Comunità del Giambellino. Ha coperto il buco provocato dall’eroina e la desertificazione che ne era derivata. E oggi si può permettere anche tematiche spesso radicali.
Che cosa è stata l’eroina per il Giambellino
“Non dimentichiamoci che qui l’eroina ha falcidiato una generazione. Più che la lotta armata, ad ammazzare i giovani del Giambellino è stata lei. È stato l’unico momento in cui il quartiere non è stato in grado di reagire. Alcuni compagni hanno provato a dare fuoco al bar di via Odazio, ma erano azioni velleitarie. In pochi anni la maggior parte dei ragazzi o era morta, o era in galera, o stava riversa su una panchina”.
Un’altra anomalia del Giambellino è rappresentata dai vari linguaggi che negli anni si sono accavallati: il milanese dei vecchi del quartiere; il francese degli emigrati italiani di ritorno dalla Francia; il “terrunciello” (il mix di tutti i dialetti meridionali che fece la fortuna di un altro nativo del Giambellino: Diego Abatantuono); l’arabo, il sudamericano, il cinese e il romeno dei nuovi migranti; lo slang “strascicato” dell’ex tossico e quello triviale degli “zarri”, i coatti di Milano.
Quella della lingua è una delle grandi risorse del quartiere. E non solo nel passato. Per esempio abbiamo scoperto che egiziani e marocchini hanno creato una linea di linguaggio base che esiste solo al Giambellino. Perché qui, al contrario di altre zone della città, non ci sono compartimenti stagni. Si vive tutti insieme. Certo, poi ogni comunità si ritrova in diverse parti del quartiere, chi in piazza Tirana, chi in via Odazio, chi in largo Fatima. E gli egiziani non vanno d’accordo con i marocchini come un tempo i pugliesi con i napoletani. Ma il fatto di abitare case in comune ha creato molti meno problemi che in via Padova. Là gli appartamenti sono di privati, e gli affittuari se le passano con il metodo del passaparola. Qui no. Non c’è il controllo della mafia nella case popolari.
Il vento di Pisapia è arrivato anche al Giambellino?
Pisapia è venuto più volte in quartiere, sia durante la campagna elettorale sia dopo. Ed è stato molto seguito dalla gente. Credo che dopo vent’anni di governo berlusconiano e leghista le acque si siano mosse e Milano stia vivendo una delle sue tante rinascite. Anche a partire dal Giambellino. Basta pensare alle venti associazioni che hanno partecipato alla realizzazione del libro e del film. Ma molte iniziative dal basso ci sono anche altrove. L’esperienza di Macao, per esempio, è la dimostrazione di una città che dopo vent’anni di repressione è capace di reagire.
Torniamo alla frase con la quale abbiamo cominciato. Nel Giambellino si può trovare l’humus ideale per cresce bene, e tu ne sei un esempio. Ma non ti sei stupito che a dire quella frase fosse Renato Vallanzasca, il boss della Comasina?
Certo mi ha fatto sorridere. Però lui aggiunge una cosa: “in Comasina erano tutti dei pirlotti e prendevano un sacco di mazzate da noi, però alla lunga sono saltati fuori molti più delinquenti là che non al Giambellino…” In ogni caso la sua testimonianza di quando da bambino viveva nel quartiere è davvero suggestiva. Racconta il gioco del carellòt, un monopattino costruito in proprio e molto pericoloso. E di quando vicino a via degli Apuli, dove abitava, ha trovato il fratello morto. Lo avevamo anche invitato alla presentazione del libro, in via Odazio. Ma non gli hanno dato il permesso di partecipare. C’erano troppi pregiudicati.
Repubblica, 23 giugno 2012Storia di un quartiere
Lotta armata, banditi, osterie, immigrati ma anche integrazione, speranza, solidarietà. Storia veloce e intensa, quella del Giambellino. Un quartiere giovane, con tutte le virtù e difetti dell’adolescenza, che fino al 1925 non era che una distesa di campi. Cantato, nella ballata del Cerutti, da Giorgio Gaber, primo successo nel 1961 di un abitante del Giambellino. “... Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan Drago...”. Drago come un animale che incute rispetto e timore, tana come un luogo accogliente e chiuso. Così lo vedono tutti gli abitanti. Quegli abitanti che lo raccontano nel libro Nella tana del drago con cui Agenzia X, in collaborazione con l’associazione Dynamoscopio, ripercorre la vita breve e spericolata del Giambellino. Un colage di testimonianze e ricordi finiti in pagina con poche manomissioni, il tono è del racconto orale.
La storia del Giambellino c’è tutta. Un’anziana ricorda di quando pattinava con gli amici su una cava ghicciata, altri dello sviluppo del quartiere e delle case popolari con la nascita delle fabbriche e l’arrivo degli operai. C’è il Giambellino rosso nella storia della famiglia Morlacchi, raccontata da Antonio, sei fratelli su tredici entrati nelle Brigate Rosse, con il quartiere “casa” dei volti storici del movimento come Renato Curcio e Margherita Cagol. C’è anche Renato Vallanzasca, arrivato qui a 8 anni nel ’58, con i suoi primi furti e i giochi sul carrèlot, skateboard rudimentale con cui si lasciava trainare dai tram, c’è il dramma dell’eroina che negli anni ’80 da queste parti, si è mangiata una generazione. Ma non è casuale che l’idea di raccontare il Giambellino arrivi proprio adesso. Abituato a cambiar pelle come un rettile, forse proprio come un drago, finiti gli anni dell’industria e dei laboratori politici, adesso è il momento del Giambellino laboratorio multietnico. In piazza Tirana, ombelico del quartiere, ad esempio tutto ruotava attorno alla Bersagliera, storica osteria frequentata dai zanza come dai Camaleonti o da Herbert Pagani. Oggi è un ristorante egiziano. L’unica cosa che rimane è il tabaccaio, lo stesso dal ’56. Lo ha ereditato Piera Zecchillo, 56 anni, insieme alle sue tre sorelle. “Io dico che il Giambellino è migliorato negli ultimi tempi con ò’arrivo degli stranieri, mi ricordano di quando noi arrivavamo dal sud. Piazza Tirana la chiamo piccolo mondo, puoi trovare una qunatità stupefacente di culture”. Di fianco ha appena aperto un bar a gestione cinese. “Era un angolo morto che si è riacceso grazie a uno straniero, vedo i loro figli studiare nel retrobottega come capitava a me e alle mie sorelle. Quanti italiani oggi farebero questi sacrifici?”
L’integrazione al Giambellino è però aggrappata alle associazioni di volontari e al loro entusiasmo. C’è la scuola d’italiano per stranieri Le Radici e ele Ali, la cooperativa sociale Comunità del Giambellino, c’è il il Centro di aggregazione giovanile di via Bellini 6, dove Dario Anzani fa l’educatore. “Il grande problema del Giambellino è da un lato la mancanza assoluta di fondi che sostengano il lavore delle associazioni, dall’altro la frammentazione del tessuto sociale. In viale San Gimignano stava la nonna di Berlusconi, via Soderini è benestante, poi ci sono le case popolari da dove scompaiono i nuclei storici di lavoratori e peggiorano le condizioni di vita. Un Giambellino a più velocità, la soddisfazione è vedere che basta poco per metter tutti in rete”. Per esempio oggi. Alla casetta verde di via Odazio 7 c’è il Giambelico del mondo. Dalle 14 alle 17 mercatino, laboratori, giochi. Alle 18.30 presentazione con tutti gli intervistati del libro Nella tana del drago . Alle 20 cena comunitaria e alle 21 presentazione di entroterra giambellino il documentario realizzato in parallelo al libro da Dynamoscopio.
di Simone MoscaLa storia del Giambellino c’è tutta. Un’anziana ricorda di quando pattinava con gli amici su una cava ghicciata, altri dello sviluppo del quartiere e delle case popolari con la nascita delle fabbriche e l’arrivo degli operai. C’è il Giambellino rosso nella storia della famiglia Morlacchi, raccontata da Antonio, sei fratelli su tredici entrati nelle Brigate Rosse, con il quartiere “casa” dei volti storici del movimento come Renato Curcio e Margherita Cagol. C’è anche Renato Vallanzasca, arrivato qui a 8 anni nel ’58, con i suoi primi furti e i giochi sul carrèlot, skateboard rudimentale con cui si lasciava trainare dai tram, c’è il dramma dell’eroina che negli anni ’80 da queste parti, si è mangiata una generazione. Ma non è casuale che l’idea di raccontare il Giambellino arrivi proprio adesso. Abituato a cambiar pelle come un rettile, forse proprio come un drago, finiti gli anni dell’industria e dei laboratori politici, adesso è il momento del Giambellino laboratorio multietnico. In piazza Tirana, ombelico del quartiere, ad esempio tutto ruotava attorno alla Bersagliera, storica osteria frequentata dai zanza come dai Camaleonti o da Herbert Pagani. Oggi è un ristorante egiziano. L’unica cosa che rimane è il tabaccaio, lo stesso dal ’56. Lo ha ereditato Piera Zecchillo, 56 anni, insieme alle sue tre sorelle. “Io dico che il Giambellino è migliorato negli ultimi tempi con ò’arrivo degli stranieri, mi ricordano di quando noi arrivavamo dal sud. Piazza Tirana la chiamo piccolo mondo, puoi trovare una qunatità stupefacente di culture”. Di fianco ha appena aperto un bar a gestione cinese. “Era un angolo morto che si è riacceso grazie a uno straniero, vedo i loro figli studiare nel retrobottega come capitava a me e alle mie sorelle. Quanti italiani oggi farebero questi sacrifici?”
L’integrazione al Giambellino è però aggrappata alle associazioni di volontari e al loro entusiasmo. C’è la scuola d’italiano per stranieri Le Radici e ele Ali, la cooperativa sociale Comunità del Giambellino, c’è il il Centro di aggregazione giovanile di via Bellini 6, dove Dario Anzani fa l’educatore. “Il grande problema del Giambellino è da un lato la mancanza assoluta di fondi che sostengano il lavore delle associazioni, dall’altro la frammentazione del tessuto sociale. In viale San Gimignano stava la nonna di Berlusconi, via Soderini è benestante, poi ci sono le case popolari da dove scompaiono i nuclei storici di lavoratori e peggiorano le condizioni di vita. Un Giambellino a più velocità, la soddisfazione è vedere che basta poco per metter tutti in rete”. Per esempio oggi. Alla casetta verde di via Odazio 7 c’è il Giambelico del mondo. Dalle 14 alle 17 mercatino, laboratori, giochi. Alle 18.30 presentazione con tutti gli intervistati del libro Nella tana del drago . Alle 20 cena comunitaria e alle 21 presentazione di entroterra giambellino il documentario realizzato in parallelo al libro da Dynamoscopio.
Corriere della Sera, 22 giugno 2012Il drago chiamato Giambellino
Ci sono luoghi delle grandi città dove si ha l’impressione che le energie umane - positive e negative - si concentrino in una nube densa, ad alto potenziale, carica di sentimenti, passioni, sofferenze, speranze. Così, a Milano, è il Giambellino, periferia gravida di storia e di storie, raccontata dal progetto Immaginariesplorazioni, che ha prodotto un libro e un film, su iniziativa del collettivo Dynainoscopio.
Il libro edito da Agenzia X con la direzione di Marco Philopat, s’intitola Nella tana del drago. Anomalie narrative dal Giambellino e raccoglie venti testimonianze (più altri contributi) di abitanti della zona, dai 90 anni ai 18. “Si parte dai più anziani e si arriva ai più giovani - spiega Philopat - quindi, con le pagine, scorre la storia del quartiere dalle sue origini, negli anni Venti, a oggi”. Oltre al libro, il gruppo ha prodotto il film Entroterra Giambellino ed entrambi saranno presentati, domani al Laboratorio di Quartiere Gianbellino in via Odazio 7 (“Dove ci sarannci anche tutte le associazioni che ci hanno aiutato nel lavoro”, precisa Philopat), durante la giornata “Il Giambelico del mondo”, ricca di iniziative (a ingresso libero): dalle 14, mercato del baratto, giochi, performance, musica dal vivo; alle 17, illustrazione del progetto; alle 18.30, incontro con gli autori del libro e gli intervistati, seguito da cena e proiezione del film.
“Al Giambellino ci sono nato e me ne sono andato nel 1978, a 16 anni, quando è arrivata la grande ondata dell’eroina. Dopo 30 anni, nel 2008 ci sono tornato”, racconta Philopat. Ma il libro non nasce solo da un fatto affettivo: “Il Giambellino è un quartiere importante. Ha rappresentato, soprattutto negli anni ’60 e ’70, un luogo di riscatto delle classi lavoratrici e di quelle emarginate. Dopo un periodo più scuro, ora è tornato a reagire”. È un quartiere che ha nel Dan la ribellione». Ecco, “La tana del drago”: la tana, “per il senso di appartenenza”. Il drago, per la canzone di Giorgio Gaber La ballata dei Cerutti, su un balordo di via Giambellino (“Lo chiamavan Drago”). Ma anche perché “può suscitare paura e ammirazione nello stesso istante”.
di Matteo SperoniIl libro edito da Agenzia X con la direzione di Marco Philopat, s’intitola Nella tana del drago. Anomalie narrative dal Giambellino e raccoglie venti testimonianze (più altri contributi) di abitanti della zona, dai 90 anni ai 18. “Si parte dai più anziani e si arriva ai più giovani - spiega Philopat - quindi, con le pagine, scorre la storia del quartiere dalle sue origini, negli anni Venti, a oggi”. Oltre al libro, il gruppo ha prodotto il film Entroterra Giambellino ed entrambi saranno presentati, domani al Laboratorio di Quartiere Gianbellino in via Odazio 7 (“Dove ci sarannci anche tutte le associazioni che ci hanno aiutato nel lavoro”, precisa Philopat), durante la giornata “Il Giambelico del mondo”, ricca di iniziative (a ingresso libero): dalle 14, mercato del baratto, giochi, performance, musica dal vivo; alle 17, illustrazione del progetto; alle 18.30, incontro con gli autori del libro e gli intervistati, seguito da cena e proiezione del film.
“Al Giambellino ci sono nato e me ne sono andato nel 1978, a 16 anni, quando è arrivata la grande ondata dell’eroina. Dopo 30 anni, nel 2008 ci sono tornato”, racconta Philopat. Ma il libro non nasce solo da un fatto affettivo: “Il Giambellino è un quartiere importante. Ha rappresentato, soprattutto negli anni ’60 e ’70, un luogo di riscatto delle classi lavoratrici e di quelle emarginate. Dopo un periodo più scuro, ora è tornato a reagire”. È un quartiere che ha nel Dan la ribellione». Ecco, “La tana del drago”: la tana, “per il senso di appartenenza”. Il drago, per la canzone di Giorgio Gaber La ballata dei Cerutti, su un balordo di via Giambellino (“Lo chiamavan Drago”). Ma anche perché “può suscitare paura e ammirazione nello stesso istante”.
www.milanox.eu, 21 giugno 2012Immaginariespolarazioni. Nella tana del drago
Quando sento la parola Giambellino penso subito al Cerutti Gino, uno dei personaggi più celebri cantati dal grande Giorgio Gaber. Nell’omonima ballata il Nostro celebra sì un personaggio, ma anche un intero quartiere. Una periferia non lontanissima dal centro città, la cui crescita è stata molto rapida e in cui il confine tra legale e illegale è sempre stato sfumato.
Al Giambellino fu fortissimo il movimento partigiano e poi quello operaio, ma anche la presenza della ligera, la mala milanese. Là negli anni sessanta nacque la contestazione ecclesiale, in cui i militanti cattolici attaccarono i vertici della chiesa tentando di riformarla dal basso. Sempre là il Pci fu scavalcato a sinistra dal movimento “Luglio 60”, di ispirazione maoista, che contestava l’atteggiamento revisionista e accomodante dei vertici del partito.
Al Giambellino nacquero sia il bandito Vallanzasca, sia il nucleo milanese delle Brigate rosse. Infine, negli anni ottanta, il quartiere fu anche teatro del più grande mercato a cielo aperto di stupefacenti d’Italia, soprattutto eroina, che ha falcidiato una generazione di giovani.
La tana del drago, pubblicato da Agenzia X, mette al centro la periferia. Una periferia che conserva un suo proprio Dna e che vive la tensione tra immigrazione (prima meridionale, oggi marocchina, egiziana, sudamericana, rom) e gentrificazione. Un periferia che ha 80/90 anni di storia e che, anche se è cambiata, è rimasta però sempre un po’ se stessa.
Il quartiere si racconta in questo bel libro di 320 pagine, che consiglio a tutti, grazie alle testimonianze orali e fotografiche dei suoi vecchi e nuovi abitanti.
Mi è piaciuto soprattutto per l’amore che sa esprimere per un pezzo di città ricco di storie. Vicende spesso drammatiche, che molti vorrebbero farci dimenticare, ma che oggi più che mai è necessario documentare e ricordare.Ricordo volentieri che sabato 23 giugno dalle ore 14 al Laboratorio di Quartiere Giambellino Lorenteggio, via Odazio 7 si svolgerà: “Il giambelico del mondo. Festa degli immigrati di un quartiere popolare”.
Alla festa ci saranno tutti: dai 90enni ai 18enni di ogni origine ed etnia, dalle monache ai punkabbestia, i Morlacchi al gran completo, Vallanzasca e i suoi vecchi amici, la tabaccaia, la merciaia, il tossico storico e l’ex, il cinese, il filippino, il kebabbaro, l’egiziano macellaio, l’imam marocchino, il gay chiacchierone, la pornostar decaduta e molto altro.
Alle 18.30 presentazione di Nella tana del drago. Anomalie narrative dal Giambellino.
di Pablito el DritoAl Giambellino fu fortissimo il movimento partigiano e poi quello operaio, ma anche la presenza della ligera, la mala milanese. Là negli anni sessanta nacque la contestazione ecclesiale, in cui i militanti cattolici attaccarono i vertici della chiesa tentando di riformarla dal basso. Sempre là il Pci fu scavalcato a sinistra dal movimento “Luglio 60”, di ispirazione maoista, che contestava l’atteggiamento revisionista e accomodante dei vertici del partito.
Al Giambellino nacquero sia il bandito Vallanzasca, sia il nucleo milanese delle Brigate rosse. Infine, negli anni ottanta, il quartiere fu anche teatro del più grande mercato a cielo aperto di stupefacenti d’Italia, soprattutto eroina, che ha falcidiato una generazione di giovani.
La tana del drago, pubblicato da Agenzia X, mette al centro la periferia. Una periferia che conserva un suo proprio Dna e che vive la tensione tra immigrazione (prima meridionale, oggi marocchina, egiziana, sudamericana, rom) e gentrificazione. Un periferia che ha 80/90 anni di storia e che, anche se è cambiata, è rimasta però sempre un po’ se stessa.
Il quartiere si racconta in questo bel libro di 320 pagine, che consiglio a tutti, grazie alle testimonianze orali e fotografiche dei suoi vecchi e nuovi abitanti.
Mi è piaciuto soprattutto per l’amore che sa esprimere per un pezzo di città ricco di storie. Vicende spesso drammatiche, che molti vorrebbero farci dimenticare, ma che oggi più che mai è necessario documentare e ricordare.Ricordo volentieri che sabato 23 giugno dalle ore 14 al Laboratorio di Quartiere Giambellino Lorenteggio, via Odazio 7 si svolgerà: “Il giambelico del mondo. Festa degli immigrati di un quartiere popolare”.
Alla festa ci saranno tutti: dai 90enni ai 18enni di ogni origine ed etnia, dalle monache ai punkabbestia, i Morlacchi al gran completo, Vallanzasca e i suoi vecchi amici, la tabaccaia, la merciaia, il tossico storico e l’ex, il cinese, il filippino, il kebabbaro, l’egiziano macellaio, l’imam marocchino, il gay chiacchierone, la pornostar decaduta e molto altro.
Alle 18.30 presentazione di Nella tana del drago. Anomalie narrative dal Giambellino.