Romagna solatia, dolce paese... scriveva Giovanni Pascoli ricordando la sua terra natia in cui il verde delle colline si perde nell’azzurro del cielo al canto lungo della natura. Ancora oggi, percorrendo la via Emilia in direzione di Bologna, ci vuole poco per allontanarsi dal turismo caotico della riviera e immergersi in questi paesaggi. Ma se all’altezza di Santarcangelo si lascia la via Emilia e si scende verso il fiume Marecchia, qualcosa sembra interrompere il panorama di pace e armonia. Nell’area di una ex cava, lungo la ciclabile che costeggia il fiume, sorge nascosto tra la fitta vegetazione il villaggio di Mutonia.
Chi ci si imbatte per caso può credere di essere finito su un pianeta alieno. Installazioni ispirate a scenari postapocalittici si alternano a robot con le sembianze di cyborg in mezzo ad abitazioni ricavate da container, roulotte, vecchi pullman e tutto ciò che può essere trasformato in una casa. Nata nel 1990, quando i primi membri della Mutoid Waste Company, collettivo di artisti fondato da Joe Rush nella Londra degli anni Ottanta, arrivarono su invito del Festival dei Teatri, Mutonia oggi è la base di una comunità di trenta artisti che qui vivono rifiutando i canoni della società contemporanea e trasformando scarti e rottami in opere d’arte.
C’è chi li chiama punk, chi postpunk, qualcuno anarchici, altri ribelli. Ma etichettarli è impossibile. «Siamo anarchici nel senso che non abbiamo capi», prova a sintetizzare Andy Macfarlane, musicista poliedrico con corti capelli biondi sempre curati e un’anima punk-rock. Anche se si autodefinisce «la pecora nera del campo perché faccio musica e non arti visive», lo spirito di Mutonia lo conosce bene: arrivato nel 1993 da Glasgow, da allora ha stabilito qui la sua residenza. «Non siamo antagonisti, vogliamo contribuire al cambiamento dimostrando che ci sono modi diversi per vivere». Così a Mutonia gli scarti della società consumistica riprendono vita, trasformati in opere d’arte o riadattati per la vita quotidiana.
Intorno all’abitazione di Lyle Doghead, che come molti qui preferisce usare il nome d’arte, questo spirito è evidente. Vederlo lavorare nel suo ampio laboratorio, attrezzato di tutto punto, lascia a bocca aperta. Le sue esperte mani si spostano rapide illuminate solo dalla luce che filtra dall’ampio portone. Tagliano, saldano e modificano il metallo per dare vita a opere uniche. Robot costruiti con vecchi pezzi di automobili Fiat sembrano fare la guardia alle sue moto, assemblate partendo da zero, e alla sua bici-sidecar elettrica. «Ho sempre avuto dentro di me questa voglia di creare invece che comprare», racconta con un marcato accento inglese mentre mostra il suo armadio costruito a partire da tante ex centraline Telecom.
E forse è proprio questa l’unica etichetta che si può attribuire agli abitanti di Mutonia. La mutazione, da cui deriva il nome del campo (o yard come lo chiamano qui), è la filosofia che accomuna tutti. «Non esiste un manifesto artistico o politico di Mutonia. La loro vita è l’espressione concreta dei loro valori» spiega Elisa Fosforino, in arte Rote Zora, che sui Mutoid ha scritto il libro Mutate or die. In viaggio con la Mutoid Waste Company (Agenzia X). «Possono essere definiti come una “comunità di pratiche” per il loro mettere insieme esperienze e competenze diverse per un obiettivo comune: vivere all’insegna della mutazione».
Nikki Rifiutile questa filosofia la applica da sempre. Come molti Mutoid ha lasciato la Gran Bretagna per sfuggire alle restrizioni con cui il governo iper-conservatore di Margaret Thatcher reprimeva i fermenti giovanili controculturali di traveller, squatter o punk. Nikki, insieme con tanti compagni, iniziò a viaggiare per l’Europa stabilendosi in campi temporanei dove continuare a portare feste ed arte. «Non è uno stile di vita che si sceglie, è una necessità», spiega molto semplicemente: «Dal momento che tutto è in cambiamento noi dobbiamo imparare a modificare la nostra vita per assecondare i cambiamenti. Siamo tutti instabili». Come lei tanti abitanti del campo vengono da un passato da traveller. Ma una volta arrivati qui si sono resi conto dell’unicità del luogo e si sono fermati trasformandolo nella propria base. «Santarcangelo è un posto che dà molta importanza all’arte e alla cultura, è l’ideale per i Mutoid. Per questo non si sono più spostati» spiega Silvia Superbio, che insieme con Nikki fa spettacoli con il fuoco. Lei a Mutonia è arrivata nel 2020 per far crescere suo figlio Adam, che oggi ha cinque anni, «in un posto pieno di arte in cui possa assimilare uno stile di vita basato sul riuso e il rispetto del pianeta».
Anche i Mutoid, insomma, sono cambiati. «Avevamo capelli strani, odoravamo di diesel e stufa. Qualcuno era intimorito. Oggi siamo cambiati anche noi, siamo quasi normali», racconta Andy ricordando i primi anni a Santarcangelo. Quell’iniziale diffidenza è durata poco. Parlando con i santarcangiolesi oggi è difficile sentir parlare male di Mutonia e dei suoi abitanti. Così, in un comune di poco più di ventimila abitanti, questo esperimento è diventato realtà. «Fa parte del Dna di Santarcangelo» spiega la sindaca Alice Parma, «qui da sempre esiste una spinta alla sperimentazione che genera una necessità di conoscere quello che è fuori». Dal Circal de’ giudeizi (circolo del giudizio in dialetto romagnolo) da cui, nel secondo dopoguerra, un gruppetto di intellettuali santarcangiolesi partì per emergere in tutta Italia per poi ritornare a casa e riportare le esperienze fatte fuori, all’odierno Festival dei Teatri con cui ogni estate la città si apre alle culture più lontane.
D’altra parte, come ci spiega Elsa, nata e cresciuta a Mutonia con sua mamma Lu Lupan, «anche i santarcangiolesi alla fine sono un po’ matti». E solo dei matti in effetti potrebbero dimostrare tanto affetto per un gruppo di persone che sembrano provenire da un film di fantascienza. «L’amore dei santarcangiolesi è commovente» spiega Lu, arrivata a Mutonia per amore nel 1995 e rimasta folgorata dalla vita e dalle opere dei Mutoid. Oggi anche lei realizza imponenti sculture di rottami ferrosi che campeggiano all’esterno della sua abitazione. Si ricorda bene di quando, nel 2013, il sindaco emanò un’ordinanza di demolizione del campo dopo una sentenza del Tar a cui era ricorso il proprietario di un terreno adiacente. «In quell’occasione», ricorda Lu «la cittadinanza riempì spontaneamente il paese con i cartelli “Mutoid must stay” e si mobilitò con una raccolta firme a cui aderì più della metà dei santarcangiolesi». Un’ondata di solidarietà che spinse la Soprintendenza a riconoscere Mutonia come «un’esperienza rilevante che è entrata nell’identità e nella storia, prima di tutto di Santarcangelo, ma anche nazionale» permettendo così all’amministrazione comunale di ritirare l’ordinanza. Oggi la connessione tra gli abitanti di Mutonia e Santarcangelo trova la sua espressione in un reciproco scambio culturale. Come scriveva il poeta santarcangiolese Tonino Guerra, «nei piccoli mondi c’è tanta bellezza / se noi la salviamo, salviamo noi stessi».
Prima c’è stato Bordel23, a Tavolaia in provincia di Pisa, in cui crew storiche come Kernel Panik, Drop’in Caravan, Sono Pirate Unit, Trackerz e Revolt99 hanno fatto ballare seimila persone per quasi una settimana, dal 2 all’8 luglio. Poi il Teknival Space Travel, appuntamento europeo – c’erano crew anche da Francia, Repubblica Ceca e Spagna – spuntato nei pressi di Pitigliano, al confine con il Lazio, Toscana e Umbria, dove i muri di casse erano addirittura una ventina, senza contare le centinaia di stand gastronomici e di artigianato, tirato su in una notte e scomparso nel nulla dopo una settimana di balli ininterrotti: il teknival era cominciato venerdì 13 agosto e sarebbe dovuto durare fino al 23, ma l’annegamento di Gianluca Santiago, inglese di 24 anni, nel lago di Mezzano nei pressi della festa (sebbene non compreso nel suo perimetro, il territorio è quello del comune di Valentano) e un discreto numero di denunce, ha persuaso gli organizzatori a smontare anzitempo.
Il territorio italiano non vedeva eventi di questa portata da molti anni: si può evocare lo storico teknival di Pinerolo (Torino) dell’estate 2007, quello nel Pavese l’anno precedente o quello nell’ex base Nato di Bassano del Grappa nel 2001. Ancora maggiore, dunque, l’impressione che ha destato il Bordel23 e lo Space Travel, considerata anche la capacità ingegneristica degli organizzatori: oltre ai ragguardevoli impianti audio, gli stage erano dotati di aree bar, laser show, videomapping in 3D, zone chill-out e spazi per la ristorazione attrezzati con forni a legna, spine e friggitorie.
Vale la pena capire cos’è successo nel frattempo, dato che questo ritorno in pompa magna segue un lungo riflusso, il cui inizio si può datare intorno al 2008 e di cui si è cominciata a vedere la fine dal 2015. Tra i primi anni Zero e il 2008, infatti, la cultura free party (questo il termine corretto, laddove rave in dica in realtà i primi eventi inglesi anni Novanta, a base di musica acid house) da nicchia sotterranea è diventata fenomeno di massa, con eventi di migliaia di persone, prima piuttosto rari, che sono cominciati a spuntare con una certa frequenza. La conseguenza è stata l’afflusso di masse di persone che con la cultura free tekno e i suoi valori libertari poco avevano a che spartire, e quindi episodi di violenza, alcolismo molesto e abuso di sostanze diverse da quelle tradizionalmente utilizzate dai raver.
L’utopia tekno free, nata dall’incrocio tra il nomadismo degli hippie, il do it yourself del punk e l’idea di «festa mobile» dei soundsystem reggae, si fondava su entactogeni come l’Mdma (sintetizzata dalla pianta di sassofrasso, la sostanza ha una storia d’uso come coadiuvante alla psicoterapia), psichedelici com L’Lsd e dissociativi come la ketamina, m droghe pesanti come crack ed eroina erano bandite. Dal 2008 il quadro cambia: le droghe pesanti si vendono eccome; al chiuso dei camper si intuiscono sempre più spesso ragazzi alle prese con le bottigliette con cui si fuma il crack, le strutture di riduzione del danno si ritrovano a distribuire siringhe sterili, e anche le classiche bottigliette d’acqua iniziano a lasciare sempre più il campo ai superalcolici. Qualcuno comincia a sentirsi male, a volte finisce in tragedia – un ragazzo muore per un mix di sostanze e alcol a Segrate nel 2008; una ragazza nel Salento l’anno successivo – e stigma e repressione crescono di conseguenza. In parallelo a questo, il clima stesso dei free party peggiora: se un tempo si vedevano spettacoli di pirotecnica, sculture create con materiali riciclati, artigianato e acrobati, e anche i generi musicali presenti erano piuttosto variati, negli «anni bui» tra il 2008 e il 2015 le feste sono sovente costituite soltanto da un muro che spara tribe tekno (uno dei generi più duri e veloci nello spettro della musica elettronica) a ogni ora del giorno e della notte.
Non è allora un caso se proprio in quel periodo diversi raver si spostano sui festival goa, eventi in cui si paga il biglietto, non c’è rischio di sgombero e la musica suonata è la psytrance, mentre altri… si chiudono in casa a scrivere: la percezione diffusa era che il movimento rave fosse finito e che fosse dunque venuto il momento di fare il punto, di storicizzare.
Fino ad allora esisteva un solo libro italiano sul tema, Free party di Francesco Macarone Palmieri, uscito nel 2002 per Meltemi e dedicato per lo più alla primissima scena romana. Nel 2015 escono, oltre a Muro di casse, firmato da chi scrive (Laterza), Rave new world di Tobia D’Onofrio (Agenzia X), saggio d’impronta sociologica che traccia una storia completa del primo decennio di cultura rave e Tekno Free Doom di Syd B. (NoBook), romanzo-reportage intimista tra free party e teknival. Nel 2017 è la volta di Once were ravers, per Agenzia X, autofiction del dj Pablito el Drito, che pubblicherà per lo stesso editore anche
Viene il dubbio, a vedere il livello di sviluppo tecnico e tecnologico di installazioni e stand all’ultimo teknival ma anche l’atteggiamento dei partecipanti, che le nuove generazioni di raver, cresciute nel mito di feste di cui avevano letto solo nei libri, abbia introiettato proprio quei valori della free tekno che la generazione successiva ai fondatori aveva perduto (c’erano addirittura sacchi pe la differenziata!). Di certo, di fronte a uno spettacolo strabiliante come quello offerto da un teknival (le narrazioni superficiali sbattono sempre un paradosso: perché migliaia di persone dovrebbero fare migliaia di chilometri per qualcosa di brutto?), è difficile immaginare che i più giovani possano andarsene da lì senza il desiderio di replicare l’esperienza.
Così, tra alti e bassi, e nonostante incidenti e repressione, ka free tekno viene a dirci che è qui per restare: forse non più controcultura in senso pieno (chi ha mai visto una controcultura che dura trent’anni invece di cinque?) ma di certo ormai prassi dell’aggregazione giovanile, al pari di concerti e altri raduni.
Tale passaggio non deve tuttavia fare dimenticare la specificità del free party: a un contesto di totale libertà, deve corrispondere anche un’assunzione – quella sì, radicale – di responsabilità individuale.
I Mutoids hanno saputo sintonizzarsi meglio di chiunque altro su questa lunghezza d’onda, riciclando relitti industriali e carcasse di auto nel corso di installazioni e spettacoli memorabili, dando vita a carri e a sculture semoventi (i mutoidi) che sembrano soltanto in attesa di Fury Road ma, soprattutto, a una pratica artistica sovrapponibile al loro stile di vita nomade e cosmopolita, di artisti radicali con le mani sporche d’olio. Nell’Inghilterra di Margaret Thatcher, lo scontro sociale che nella capitale ha già reso la pratica dello squatting alla portata di tutti o quasi, trova in quegli anni nei ravers e nei travellers i movimenti antagonisti più attivi e innovativi, su cui si abbatte la repressione tory. È uno scontro di corpi che si oppongono alla macchina, di ribelli che resistono grazie all’astuzia e all’inventiva, ma è anche uno scontro impari. Alla fine il “virus mutoide” della Company – che nel frattempo ha allargato l’organico, accogliendo decine di nuovi adepti – deve cambiare aria e lasciare Freston Road per diffondersi in Europa. È la volta di Amsterdam, Berlino, Barcellona, Parigi, fino ad approdare nel 1990 in una ex cava alle porte di Santarcangelo di Romagna, complice il Festival Internazionale del Teatro di Piazza. Nasce così Mutonia, l’eterotopia anti-consumista, il paese dove grazie a collaudate tecniche di circolarità artistica i materiali espulsi dal ciclo post-industriali possono rivivere e trovare un nuovo significato, in una strana ecologia simbiotica con la società e la campagna circostante.
“Le mie sculture disseminate per il campo nascono da una relazione diretta con i pezzi che manipolo. Spesso parto elaborando l’idea che voglio portare a termine e seguo un processo biunivoco, perché può venirmi l’idea da un certo pezzo e vado avanti a farmi guidare dai materiali oppure l’opera nasce con la preparazione di un progetto e poi inizio a cercare i pezzi per realizzarlo (...) Se in un paio di giorni non salta fuori niente prendo il furgone e vado a Gambettola, un paese qui vicino dove c’è un grande rottamaio e posso trovare quello che mi serve.” (Lu Lupan).
Mutate or die è il frutto di due anni di lavoro e di interviste che l’autrice, Rote Zora (Elisa Fosforino) ha pazientemente raccolto entrando in relazione di studio e di amicizia con i protagonisti di questa straordinaria vicenda artistica ed esistenziale. Ogni capitolo è un’esplosione di frammenti che attraverso le voci di Joe, Strapper, Sally, Emma, Alex, Lu, Lyle, Bull, Alli, Allegra e degli altri ti investe mentre ricostruisce, un passo alla volta, la storia trentennale dei Mutoids dal punto di vista – molteplice – di chi l’ha vissuta.
Trent’anni dopo Mutonia è ancora lì, fuori Santarcangelo, malgrado un tentativo di sgombero da parte del Comune, subito rientrato per le proteste. Ufficiosamente resta la “casa” dei Mutoids, oggi sparsi per il mondo, tra Londra e la Nuova Zelanda.
Lu Lupan, lei è una artista italiana che si è unita ai Mutoid per il loro arrivo a Santarcangelo. Cosa rappresentavano, questi nomadi, 30 anni fa?
«La Mutoid Waste Company a Santarcangelo sono stati la concretizzazione di una microsocietà senza gerarchie, basata su scelte e decisioni collettive, che affida all’arte, alla realizzazione di sculture fantastiche, una visione del mondo basata sul riciclo, sulla nuova vita di oggetti destinati alle discariche. Proprio da questa consapevolezza nascono le macchine, i marchingegni, le installazioni che hanno reso i Mutoid famosi nel mondo».
È singolare che un gruppo così composito, che fa riferimento sia al movimento hippy che a quello punk, sia diventato stanziale.
«Quando i Mutoid sono arrivati a Santarcangelo per partecipare al Festival del Teatro, la cittadina romagnola sarebbe dovuta essere solo una piccola tappa del loro perenne peregrinare. Poi, siamo stati fortemente contaminati dallo spirito romagnolo che ha preso il sopravvento sulla nostra anima nomade. Complice una accoglienza davvero affettuosa, ci siamo sentiti subito in famiglia. Così è nata Mutonia, città-Stato inglobata dentro a Santarcangelo».
L’integrazione, 30 anni dopo, sembra funzionare.
«Noi, ormai, ci sentiamo, e siamo a tutti gli effetti, santarcangiolesi. Mutonia è il posto dove viviamo e dove abbiamo le nostre officine e laboratori. Qui creiamo le sculture sia su commissione di privati, sia per le istituzioni pubbliche. Siamo già alla terza generazione di Mutoid romagnoli, i nostri figli frequentano le scuole di Santarcangelo e i cittadini ogni volta che hanno scorie in metallo da smaltire le portano da noi, perché sanno che le daremo una nuova esistenza. Anni fa c’era stata un’ipotesi di sgombero del nostro campo e gli abitanti di Santarcangelo si sono mobilitati raccogliendo in pochi giorni oltre 9mila firme a nostro sostegno, dimostrandoci grandissimo calore».
Insomma, i tempi dei viaggi senza fine sono stati messi da parte.
«Continuiamo ad amare il viaggio, desideriamo portare la nostra estetica che si basa sul superamento del consumo, che ti obbliga a disfarti di oggetti da sostituire con altri, sulla strada. Ma il richiamo di Mutonia, della nostre radici santarcangiolesi è diventato irresistibile. E torniamo sempre».
È in questo ambito che, stasera alle 21, arriva a Santarcangelo Rote Zora (nome d’arte di Elisa Fosforino, storica e critica d’arte) che per la prima volta ha raccolto in un libro la storia e la vita della Mutoid Waste Company. Compagnia nata nella Londra thatcheriana 30 anni fa, che nella città slow, dove venne invitata al festival del teatro nel 1990, ha trovato casa, seppur pratichi il nomadismo, creando il villaggio di Mutonia che ha ottenuto il riconoscimento istituzionale della Soprintendenza ai beni culturali quale sito di interesse artistico e dove il gruppo svolge attività dedicata all’arte del riuso e del riciclo realizzando sculture e installazioni. Del resto lo recita il loro nome, waste significa appunto rifiuto.
Mutate or die. In viaggio con la Mutoid Waste Company è il titolo della pubblicazione, uscita con la casa editrice indipendente Agenzia X di Milano, che è anche un racconto fotografico con immagini d’archivio che i componenti hanno messo a disposizione dell’autrice. Foto che saranno proiettate durante la presentazione a cui prenderanno parte alcuni della decina di abitanti di Mutonia e la sindaca di Santarcangelo Alice Parma.
A seguire sarà proiettato il docufilm di Uli Happe Declassified The Mutoid Waste Files. Del libro abbiamo parlato con l’autrice.
Come è nata la decisione di realizzare una pubblicazione sui Mutoid? «Da una passione personale nata 15 anni fa quando sono venuta a contatto con loro in un centro sociale milanese. Il mio è stato amore a prima vista. Da allora ho iniziato a inseguirli ma non era facile. Poi grazie al passaparola sono riuscita a trovarli e ho iniziato uno studio approfondito in parte confluito in un capitolo della tesi di laurea sull’arte post umana e la mutazione. Ho poi continuato a raccogliere materiali ma non c’erano testi e per sopperire ho contattato i diretti interessati e iniziato a raccogliere le loro testimonianze dirette. Così dalla ricerca sul campo è nato uno studio più strutturato con cui mi sono presentata all’editore. Rispetto alla tesi, che aveva una impostazione filosofica, il libro è diverso, è più romanzato ed è un racconto corale basato sulle voci degli interessati, dai primi Mutoid a quelli di oggi».
Ma li ha ritrovati tutti? «Sì, quelli viventi sì ed è stato molto bello. Tutti sono stati molto disponibili. Alcuni li ho raggiunti nei vari paesi, altri più lontani, in Nuova Zelanda, negli Usa, li ho raggiunti con le video chiamate. Ho poi tradotto le chiacchierate e le ho sistemate per renderle calzanti per il racconto che intendevo fare».
Ha raggiunto anche Lucy, una delle fondatrici storiche? «No, purtroppo Lucy è venuta a mancare nel dicembre 2009 a causa di un cancro. Il libro è in qualche modo un omaggio a lei anche perché contiene il suo manoscritto sulla costruzione del grande robot meccanico sul quale voleva realizzare una pubblicazione. Purtroppo non è l’unica perché anche Ivan non c’è più, inghiottito da un incendio nella metropolitana di Londra dove si era unito ai soccorritori».
Come tutte le comunità anche quella dei Mutoid è soggetta alle sorprese della vita. «Sì, e il libro ne parla. Anche se è divertente contiene passaggi molto dolorosi e trasmette la loro determinazione ad andare avanti. Nonostante le avversità tutti i componenti continuano a essere molto freschi seguendo un autentico spirito di libertà».
Come nacque il gruppo? «Dall’incontro di artisti, attivisti e meccanici desiderosi di creare sculture ad alto contenuto distopico recuperando materiale di scarto. Girando il mondo con le loro performance hanno anticipato e influenzato la cultura rave e molte pratiche sociali in opposizione al business delle multinazionali dell’intrattenimento».
Il libro ripercorre il loro viaggio trentennale dall’inizio fino a oggi? «Ne ripercorre le tappe principali attraverso una moltitudine di testimonianze orali che ne restituiscono un racconto dettagliato supportato da tante immagini».
La città li ha accolti ma ci sono stati momenti difficili in cui hanno rischiato di essere cacciati. «Ho ricostruito il contesto perché anche loro si rispecchiano nel contesto in cui vengono a trovarsi. Parlo della vicenda e di come dal basso si sia creata una rete di solidarietà che ha garantito la loro permanenza a Santarcangelo, sulle sponde del fiume, nel sito della cava dismessa, dove si sistemarono quando vennero al festival».
Cosa insegna l’esperienza dei Mutoid? «L’importanza del dialogo, del confronto, del rapporto con le istituzioni trattate con la dovuta cautela e rispetto così come con la comunità che ti accoglie».
Qual è la formula che li tiene uniti? «La compenetrazione tra l’azione individuale con l’idea generale che anima il gruppo. Gli individui sono legati tra loro da un filo rosso che è uno spirito globale e non globalizzato. Quello che interessa è un pensiero critico, pratiche in equilibrio tra l’individuo e il gruppo e tra questi e la natura. Loro c’erano prima dell’abbattimento del muro di Berlino e hanno lottato per abbatterlo, così lottano contro Trump e i suoi muri, in nome del fatto che gli esseri umani sono nati nomadi e cittadini del mondo».
Prefigurando un’era post atomica le loro pratiche di riuso sono in piena sintonia con la pandemia. «Certo. La loro arte creata dal nulla recupera lo scarto che scarto non è. Anche se oggi è meno semplice perché è mutato il contesto legislativo sui rifiuti quindi vanno cercate altre vie per il recupero».
Una peculiarità che intende evidenziare? «L’importanza del contributo femminile, sono tante le donne che hanno lavorato e lavorano nel gruppo senza alcuna distinzione di ruoli».
Il mondo dei Mutoid è stata la pietra di volta in cui si sono incontrati la cultura nomade dei traveller, il punk politicizzato di gruppi come i Crass e la mentalità più aperta e festaiola della generazione rave. Nella Londra del thatcherismo, le loro feste diventano una spina nel fianco dei governi che si succedono fino agli anni ‘90, quando la repressione, diventata insostenibile, li costringe a oltrepassare la Manica con enormi e scenografici camion per zigzagare in Europa, prima Amsterdam e Berlino, poi Parigi e l’Italia: viaggiavano e occupavano, portando la propria arte in programmi televisivi, gallerie d’arte, rave illegali, manifestazioni di protesta, centri sociali e teatri sperimentali. Il loro immaginario post-apocalittico si è materializzato in posti impensabili come il muro di Berlino, attraverso il quale tentarono di far passare un gigantesco uccello della pace, da Ovest a Est, anticipando la caduta di tre mesi, o piazza San Pietro a Roma, nell’inverno del ‘91, all’inizio della Guerra del Golfo, dove abbandonarono un carro armato mutoide con il cannone puntato in direzione della finestra del Papa.
Poi, qui in Italia, curarono le scenografie e i costumi della sigla della trasmissione Avanzi, dopo una controversa apparizione in un programma condotto da Raffella Carrà. Parte della Mutoid Waste Company vive oggi a Santarcangelo di Romagna, dove si è stabilita nel 1990 fondando Mutonia, una comune artistica che ha evitato lo sgombero grazie al supporto della comunità locale. La convenzione con il comune firmata nel 2015 riconosce formalmente la loro comunità e il futuro del sito, ma soprattutto dimostra l’importanza di unirsi nelle lotte per “progettare e difendere la realizzazione di un sogno comune”.
Oggi, dopo quasi quarant’anni, i Mutoid portano avanti progetti molto diversificati e le loro creazioni si possono trovare anche in alcune gioiellerie, oltre che nei maggiori festival musicali, dagli Stati Uniti al Giappone, che restano la principale fonte di reddito collegata al mondo delle feste. Nel 2012 a Londra hanno allestito la cerimonia di chiusura delle Paralimpiadi, ottenendo riconoscimento dalle istituzioni inglesi che vent’anni prima li avevano perseguitati. La loro mirabolante arte ecologica ha ispirato generazioni di creativi e la loro estetica ha fatto scuola, come dimostrano l’esplosione della warehouse art e del fenomeno steampunk, nonché l’affezione di illustri collezionisti delle loro opere, come l’icona dell’arte contemporanea Damien Hirst.
Finalmente è uscito un libro, Mutate or die. In viaggio con la Mutoid Waste Company scritto dall’esordiente Rote Zora, appassionata di body suspension e controculture con formazione in Storia dell’Arte, che racconta nei dettagli questa avvincente storia costellata di colpi di scena, concentrandosi nel far emergere gli aspetti più rivoluzionari e attuali: il ruolo fondamentale delle donne all’interno del collettivo; l’importanza dell’arte del riuso creativo; l’impostazione della performance come azione politica o come esorcismo dalle paranoie collettive; la lungimiranza di una visione votata all’idea di impermanenza e reinvenzione di se stessi, che vede l’incessante mutazione come unica via di sopravvivenza.
Si parla di un’arte del “rifiuto” sia “in termini di strategia esistenziale sia in chiave creativa”. Gli eventi sono narrati in ordine cronologico grazie a un attento lavoro di editing sulle numerose testimonianze raccolte dai protagonisti, con raggiunta di una sezione fotografica a colori che restituisce al meglio l’atmosfera retrofuturista.
Le interviste scavano nel profondo, in un magico incrocio di specchi tra le tante voci narranti che rievocano ricordi personali senza mai deviare troppo dal significato collettivo delle esperienze. La scrupolosa e appassionata curatela di Marco Philopat e Paola Mezza, autrice peraltro di molte delle vecchie foto raccolte in appendice, chiude il cerchio di una lunga amicizia con i Mutoid, risalente all’epoca in cui il collettivo italiano “Decoder” suggerì di invitarli nel nostro paese, ovvero quel fatidico 1990 in cui, al Festival dei Teatri di Santarcangelo, nello stile di alcuni episodi narrati nel libro, avvenne questo cruciale incontro tra punk italiani e punk inglesi, destinato a mutare per sempre le rispettive storie e anche quelle di molti di noi.
Una comunità nata negli anni ‘80 in Inghilterra, in reazione alle politiche di Margaret Thatcher che smantellarono il welfare in Gran Bretagna a scapito delle classi meno abbienti, introducendo di fatto la devastazione attuale, modalità poi diventata un modello per tanti governi in ogni parte del mondo. Un gruppo di artisti di strada, itineranti, alla ricerca di un modello di vita alternativo a quello capitalista-consumistico imperante. Attraverso il riutilizzo di materiale diventato rifiuto costruivano ingegnose e spettacolari macchine, utilizzate per spettacoli di assoluta avanguardia ma soprattutto un’identità e un modello di vita nuovi. Che non prevedeva un luogo fisso in cui vivere. Si adattavano negli squat (le case sfitte e occupate londinesi) o in spazi abbandonati (nella ora gentrificata e ripulita Oxford Street c’erano ampi luoghi totalmente vuoti). Subirono una repressione sempre più asfissiante e violenta da parte delle autorità britanniche, che li costrinse a lasciare l’isola e a spostarsi in Europa.
Dice Emma, tra le pioniere: «Viviamo secondo la mutazione per dimostrare ogni giorno che uno stile di vita alternativo è possibile». In Europa fecero la spola tra Amsterdam e Berlino (dove organizzarono un clamoroso spettacolo a cavallo dell’ancora esistente Muro). Alla base c’è il concetto del “Do It Yourself” e del “No Future” mutuati dal primo punk, trasportati in una difficile e complessa vita reale. Ovvero il “fai da te” che non attende aiuti esterni, ma agisce con quello che ha e che può, a cui si contrappone, paradossalmente, quasi un ossimoro, una visione senza futuro.
Sottolinea Marco Philopat tra i responsabili della casa editrice Agenzia X che ha appena pubblicato un libro sull’esperienza dei Mutoid, Mutate or die di Rote Zora: «I Mutoid erano allora all’avanguardia perché avevano posto l’accento sul concetto del “Do It Yourself” riciclando tutta la merda che la società capitalista buttava via per farla diventare opera d’arte, quando nessuno ci aveva mai pensato». Il “DIY” rimane un’idea e un incredibile stimolo per i giovani ma anche per tutti i lavoratori del mondo.
Nel loro peregrinare trovarono “casa” a Sant’Arcangelo di Romagna, in uno spazio alla periferia, sulle sponde di un fiume. Furono accolti, dopo una breve diffidenza iniziale, a braccia aperte dalla popolazione locale che non esitò a dare loro una mano. Nacque così la “cittadella” Mutonia che nel tempo, per evitare possibili sgomberi, è stata definita «luogo di interesse artistico» e preservata da qualsivoglia appetito immobiliare. In molti hanno messo le radici, i loro figli sono andati nelle scuole locali, i genitori trovato lavoro e “integrazione”, senza mai rinunciare al carattere ideologico con cui è nata questa incredibile esperienza artistica né a proseguire con la loro creatività. In tanti altri si sono sparsi nel mondo e ora ci sono Mutoid ovunque, dall’America, all’Australia, in mezza Europa a portare avanti il concetto che un altro modo di vivere è possibile. Dice Joe: «Un Mutoid ha la naturale sorpresa dei bambini quando scoprono cose nuove e ha l’ispirazione artistica del genio quando trova oggetti unici. Abbiamo la natura degli artisti, l’immaginazione dei bambini e la responabilità degli adulti. La nostra idea di mutazione è una forma di natura umana che è unica e indivisibile».
Il libro citato ne descrive alla perfezione e con passione le vicende, attraverso le testimonianze dei diretti protagonisti e un compendio fotografico che ne riassume bene lo spirito. I Mutoid mettono al bando la neonata cultura dell’usa e getta, in virtù di una cultura che potremmo chiamare dell’usa e riusa. Se il pezzo di rottame può essere metafora di decadimento umano e isolamento sociale, le sculture di scarti mutanti traducono per contrappasso la condizione di rifiuto umano nell’attitudine alla negazione dei valori veicolati dal capitalismo (come privatizzazione, subordinazione e alienazione) e nel rigetto del sincopatico ritmo di vita ed economico del “Produci, consuma, crepa”.
Sono stato ospite a Mutonia nei primi anni ‘90: rimane una delle esperienze più particolari e suggestive che abbia mai fatto. Sì, un altro mondo è possibile.
«Viviamo secondo la mutazione per dimostrare ogni giorno che uno stile di vita alternativo è possibile.» (Emma)
Alla base il concetto del Do It Yourself e il No Future mutuati dal primo punk, trasportati in una difficile e complessa vita reale.
«I Mutoid erano allora all'avanguardia perché avevano posto l'accento sul concetto del DIY, riciclando tutta la merda che la società capitalista buttava via per farla diventare opera d'arte, quando nessuno ci aveva mai pensato. Il DIY rimane un'idea e un incredibile stimolo per i giovani ma anche per tutti i lavoratori del mondo.» (Marco Philopat).
Trovarono "casa" a Sant'Arcangelo di Romagna dove tutt'ora la loro comunità MUTONIA risiede. Il libro ne descrive alla perfezione e con passione le vicende attraverso le testimonianze dei diretti protagonisti e un compendio fotografico che ne riassume bene lo spirito.
«I MUTOID mettono al bando la neonata cultura dell'usa e getta, in virtù di una cultura che potremmo chiamare dell'usa e riusa. I rifiuti prendono sembianze zoomorfe e antropomorfe, i veicoli diventano fantasmagorici mezzi di trasporto o bizzarre case su ruote, mentre gli edifici abbandonati vengono occupati per viverci dentro. Se il pezzo di rottame può essere metafora di decadimento umano e isolamento sociale, le sculture di scarti mutanti traducono per contrappasso la condizione di rifiuto umano nell'attitudine alla negazione dei valori veicolati dal capitalismo (come privatizzazione, subordinazione e alienazione) e nel rigetto del sincopatico ritmo di vita ed economico del PRODUCI, CONSUMA, CREPA.»
Andai a Mutonia nei primi anni 90 e rimane una delle esperienze più particolari e suggestive che abbia mai fatto...