pulplibri.it, 23 dicembre 2023 Alessandro Kresta Pedretta / Horror sotto le luci
Milano il cielo ti induce a pensare al peggio e nell’aria si respira morte e formaldeide. Queste osservazioni del protagonista di Milano di merda (Kresta) sulla capitale economica d’Italia, il centro mondiale della moda e del design, accompagnano il suo lavoro di pulizia mentre si destreggia con la sua motoscopa, a tre ruote e due spazzole, nell’anticamera dell’inferno della stazione Centrale. Ma ci sono alcune cose che la motoscopa non può spazzare via, come l’intensità della sua vita, forse attutita dalla droga ma condannata a osservare e ricordare. Ed è il linguaggio che spaventa sin dalle prime pagina, la capacità di descrivere i luoghi e le persone come se fosse capace di vedere all’interno e di percepire l’anima nascosta, un’anima che si mostra fisicamente, che si appropria lentamente del corpo per deformarlo, per urlare la verità.
Il linguaggio è preciso, colto, mai scontato, quasi l’esperienza tossica, oltre all’universo della lingua italiana classica (che emerge continuamente, con scandalo), abbia ibridato un nuovo vocabolario capace di descrivere l’orrore. “The horror!” è l’indimenticabile frase che suggella Cuore di tenebra di Joseph Conrad, una discesa spaventosa in quello che l’umano è capace di compiere quando la supposta civiltà è lontana da lui. Kresta Pedretta scrittore ci accompagna in un mondo in cui l’atmosfera è grigia, la neve si accumula sporca in sozze pozzanghere, la nebbia nasconde parzialmente il vagare distorto degli umani, visioni opache fuori fuoco che, improvvisamente, esplodono fuori controllo. Questo incedere in un mondo che è il nostro ma alterato, fino a dubitare del legame con quella che crediamo la realtà, mi ricorda, pagina dopo pagina, quell’aria densa del mondo purgatorio inventato da Valerio Evangelisti in Cherudek. E questa descrizione del mondo dei tossici che si sviluppa insinuato tra le maglie della Milano da bere vive una costante tensione tra paradiso e purgatorio in una realtà in cui il paradiso semplicemente non esiste.
Scendere nell’abisso vuol dire incamminarsi, muoversi verso una verità inconcepibile, amara e non voluta. La Milano “di merda” è una città che è stata oggetto di una mutazione, non è più abitabile dalla razza umana (se mai questa razza è esistita in termini di bene) a meno che non si ricorra a qualcosa di artefatto. È una città distrutta dal lavoro, dalla flessibilità, dalla creatività, dall’inganno, dalla religione del futile e del merchandising, dall’invasione capillare del capitale in ogni attività umana. Se ogni mattino i tossici si levano dai loro rifugi in cerca dei soldi e poi della droga, ogni mattina i milanesi per bene si levano dai loro rifugi verso i luoghi del lavoro per guadagnare soldi da spendere in un circuito dove ogni cosa è diventata una droga, dove le persone hanno perduto ogni loro progetto e si lavano e si vestono per realizzare il progetto degli altri.
Senza retorica, e questo è un grande valore narrativo, l’autore ci racconta come si è svolta la sua vita attraverso gli spostamenti e gli incontri, dove luoghi e persone si raggiungono e si abbandonano al ritmo scandito dal desiderio e dal dolore dell’astinenza. Davanti a lui, vicinissimi ma quasi senza toccarsi, fluiscono come banchi di pesci i normali, anche loro verso luoghi di disperazione in cui consumano la vita nel lavoro. E Kresta non nutre alcun dubbio, anche loro sono dominati da un demone e destinati alla morte, la “marcia salariata” dall’anima progressivamente svuotata dalla disciplina, dalle rate, dal cinismo, dai desideri artificiali. Sono universi paralleli entrambi dominati dal male e che costituiscono la base di questa guida anti-turistica di una città squartata dal capitalismo estremo e da un rifiuto estremo. Non la abitano persone ma due specie di zombi, quelli esteriormente curati, eleganti, dimagriti e irrobustiti da pastiglie e palestre, “isolati in compagnia” e soggiogati dai demoni del telefono, gli indifferenti ultracorpi del film di Don Siegel, e quelli in cui l’autodistruzione ha preso metafisicamente il sopravvento ed elargisce un’alternanza di rilassatezza e dolore scandita dal metronomo della chimica. E ogni specie percorre il suo specifico habitat, di vetro e metallo, o di macerie e rifiuti. Milano di merda è una storia naturale del contemporaneo declinata da chi batte la città a testa bassa, occhi al selciato e attenti a scrutare i rifiuti industriali del benessere abbandonati dall’altra specie umana, pronti a vivere ogni giorno la propria tragedia personale dello spacciatore che non si trova.
In Milano di merda una sorta di horror diventa il realismo (o il contrario). Le descrizioni minuziose trapanano la realtà, ci rendono una verità a cui siamo disabituati o che forse non abbiamo mai conosciuto. L’ambiente circostante è segnato da aiole, scantinati, sottoscala, angoli bui, gradini, posteggi di automobili abbandonate, giardini pubblici ridisegnati in una scabrosa geometria ballardiana, quella de L’isola di cemento, per esempio. E anche lì il paesaggio mostra morbosamente le sue ferite di “pezzi di merda, siringhe, sangue, cartocci di avanzi di cibo gonfi e umidi, fiale rotte, bottiglie di birra colme di piscio”. All’interno di questo horror ateo, le persone possono essere descritte con efficacia ricorrendo alle sembianze animali, quando il loro aspetto evoca animali, insetti, topi, faine. Un universo kafkiano in cui Kresta si muove con assoluta accettazione, in cui il suo amico Ivan si trasforma in un insetto di settanta chili dagli occhi caleidoscopici e dall’ingordigia delirante e, verso la fine della narrazione, una mazza calata sulla mano di uno spacciatore il suono che produce è quello di un enorme scarafaggio di dieci chili che viene schiacciato da una suola gigante. Così la geometria dell’umano muta in quella animale alla ricerca di una comprensione più profonda, l’idea già di Burroughs di un senso nascosto che solo in certi stati dell’essere si manifesta pienamente.
Walter Benjamin aveva molto precocemente, con efficacia, criticato l’esprimersi del capitale come religione. Tutta la vicenda di Milano di merda si esprime all’ombra di questo culto pagano, e l’amico Max è l’elemento in cui si chiarisce la metafisica materialista del romanzo. Da tossico vecchio stile che perde ogni difesa esteriore ed interiore, che si abbandona ai ricatti e all’aiuto di tossici e pusher, che oltrepassa i limiti che credeva di possedere, Max, come colpito da un’ambigua luce rigenerante, rinasce come nuovo tossico, adeguando le sue dipendenze a quelle permesse dal capitale. Si tratta di una metamorfosi che si attua sul piano fisico, sull’abbigliamento, sull’adesione ai riti collettivi, sul piacere del consumo e su una diversa assunzione delle droghe. “Ma questo morto rinato è davvero diverso dal vivo morente che era prima”, scrive l’autore in un’osservazione che sottolinea la religione blasfema che ha preso il sopravvento, quella non-vita dopo la non-morte che parodizza molte delle lettere di San Paolo. Oggi Kresta Pedretta si definisce “operaio e scrittore”, definizione politica e di vita che stimo profondamente.
Il linguaggio è preciso, colto, mai scontato, quasi l’esperienza tossica, oltre all’universo della lingua italiana classica (che emerge continuamente, con scandalo), abbia ibridato un nuovo vocabolario capace di descrivere l’orrore. “The horror!” è l’indimenticabile frase che suggella Cuore di tenebra di Joseph Conrad, una discesa spaventosa in quello che l’umano è capace di compiere quando la supposta civiltà è lontana da lui. Kresta Pedretta scrittore ci accompagna in un mondo in cui l’atmosfera è grigia, la neve si accumula sporca in sozze pozzanghere, la nebbia nasconde parzialmente il vagare distorto degli umani, visioni opache fuori fuoco che, improvvisamente, esplodono fuori controllo. Questo incedere in un mondo che è il nostro ma alterato, fino a dubitare del legame con quella che crediamo la realtà, mi ricorda, pagina dopo pagina, quell’aria densa del mondo purgatorio inventato da Valerio Evangelisti in Cherudek. E questa descrizione del mondo dei tossici che si sviluppa insinuato tra le maglie della Milano da bere vive una costante tensione tra paradiso e purgatorio in una realtà in cui il paradiso semplicemente non esiste.
Scendere nell’abisso vuol dire incamminarsi, muoversi verso una verità inconcepibile, amara e non voluta. La Milano “di merda” è una città che è stata oggetto di una mutazione, non è più abitabile dalla razza umana (se mai questa razza è esistita in termini di bene) a meno che non si ricorra a qualcosa di artefatto. È una città distrutta dal lavoro, dalla flessibilità, dalla creatività, dall’inganno, dalla religione del futile e del merchandising, dall’invasione capillare del capitale in ogni attività umana. Se ogni mattino i tossici si levano dai loro rifugi in cerca dei soldi e poi della droga, ogni mattina i milanesi per bene si levano dai loro rifugi verso i luoghi del lavoro per guadagnare soldi da spendere in un circuito dove ogni cosa è diventata una droga, dove le persone hanno perduto ogni loro progetto e si lavano e si vestono per realizzare il progetto degli altri.
Senza retorica, e questo è un grande valore narrativo, l’autore ci racconta come si è svolta la sua vita attraverso gli spostamenti e gli incontri, dove luoghi e persone si raggiungono e si abbandonano al ritmo scandito dal desiderio e dal dolore dell’astinenza. Davanti a lui, vicinissimi ma quasi senza toccarsi, fluiscono come banchi di pesci i normali, anche loro verso luoghi di disperazione in cui consumano la vita nel lavoro. E Kresta non nutre alcun dubbio, anche loro sono dominati da un demone e destinati alla morte, la “marcia salariata” dall’anima progressivamente svuotata dalla disciplina, dalle rate, dal cinismo, dai desideri artificiali. Sono universi paralleli entrambi dominati dal male e che costituiscono la base di questa guida anti-turistica di una città squartata dal capitalismo estremo e da un rifiuto estremo. Non la abitano persone ma due specie di zombi, quelli esteriormente curati, eleganti, dimagriti e irrobustiti da pastiglie e palestre, “isolati in compagnia” e soggiogati dai demoni del telefono, gli indifferenti ultracorpi del film di Don Siegel, e quelli in cui l’autodistruzione ha preso metafisicamente il sopravvento ed elargisce un’alternanza di rilassatezza e dolore scandita dal metronomo della chimica. E ogni specie percorre il suo specifico habitat, di vetro e metallo, o di macerie e rifiuti. Milano di merda è una storia naturale del contemporaneo declinata da chi batte la città a testa bassa, occhi al selciato e attenti a scrutare i rifiuti industriali del benessere abbandonati dall’altra specie umana, pronti a vivere ogni giorno la propria tragedia personale dello spacciatore che non si trova.
In Milano di merda una sorta di horror diventa il realismo (o il contrario). Le descrizioni minuziose trapanano la realtà, ci rendono una verità a cui siamo disabituati o che forse non abbiamo mai conosciuto. L’ambiente circostante è segnato da aiole, scantinati, sottoscala, angoli bui, gradini, posteggi di automobili abbandonate, giardini pubblici ridisegnati in una scabrosa geometria ballardiana, quella de L’isola di cemento, per esempio. E anche lì il paesaggio mostra morbosamente le sue ferite di “pezzi di merda, siringhe, sangue, cartocci di avanzi di cibo gonfi e umidi, fiale rotte, bottiglie di birra colme di piscio”. All’interno di questo horror ateo, le persone possono essere descritte con efficacia ricorrendo alle sembianze animali, quando il loro aspetto evoca animali, insetti, topi, faine. Un universo kafkiano in cui Kresta si muove con assoluta accettazione, in cui il suo amico Ivan si trasforma in un insetto di settanta chili dagli occhi caleidoscopici e dall’ingordigia delirante e, verso la fine della narrazione, una mazza calata sulla mano di uno spacciatore il suono che produce è quello di un enorme scarafaggio di dieci chili che viene schiacciato da una suola gigante. Così la geometria dell’umano muta in quella animale alla ricerca di una comprensione più profonda, l’idea già di Burroughs di un senso nascosto che solo in certi stati dell’essere si manifesta pienamente.
Walter Benjamin aveva molto precocemente, con efficacia, criticato l’esprimersi del capitale come religione. Tutta la vicenda di Milano di merda si esprime all’ombra di questo culto pagano, e l’amico Max è l’elemento in cui si chiarisce la metafisica materialista del romanzo. Da tossico vecchio stile che perde ogni difesa esteriore ed interiore, che si abbandona ai ricatti e all’aiuto di tossici e pusher, che oltrepassa i limiti che credeva di possedere, Max, come colpito da un’ambigua luce rigenerante, rinasce come nuovo tossico, adeguando le sue dipendenze a quelle permesse dal capitale. Si tratta di una metamorfosi che si attua sul piano fisico, sull’abbigliamento, sull’adesione ai riti collettivi, sul piacere del consumo e su una diversa assunzione delle droghe. “Ma questo morto rinato è davvero diverso dal vivo morente che era prima”, scrive l’autore in un’osservazione che sottolinea la religione blasfema che ha preso il sopravvento, quella non-vita dopo la non-morte che parodizza molte delle lettere di San Paolo. Oggi Kresta Pedretta si definisce “operaio e scrittore”, definizione politica e di vita che stimo profondamente.
di Domenico Gallo
pulplibri.it, 21 dicembre 2023 2023 / Libri dell’anno
Due flussi di coscienza si avvinghiano tra le strade della città “di merda” per eccellenza: Milano. Due geografie, due tempi diversi, attorcigliati dalla sofferenza, dalla paura, dal ribrezzo provati da Kresta, una persona che ha cercato di essere unico e di non perdere la propria umanità. Una storia tossica che aggredisce con un linguaggio perfetto, con un italiano evoluto dall’esperienza di strada più estrema scontrata con grande cultura e umanità.
Domenico Gallo
Rivangare il Futuro, 12 dicembre 2023 Milano di merda
Milano di merda di Alessandro Kresta Pedretta: vita da drogati a Milano, fine anni ’90. Qualche anno prima (andavo alle medie) abbiamo fatto una serie di incontri con varie autorità sul tema della tossicodipendenza. Avrebbero dovuto farci leggere questo libro, piuttosto - avrebbe salvato forse la vita a un paio di compagni di classe. Quello che mi ha colpito è la quantità di tempo che questi drogati passano all’aperto. Probabilmente voi siete più smaliziati di me e non trovate la cosa strana, ma io non ci avevo mai pensato. È una vita di strada vissuta tra gli edifici, o negli interstizi urbani dimenticati (la scala di un accesso al metro chiuso, una panchina in una parco, un tratto di terreno abbandonato). Risulta una geografia di Milano al contrario, un negativo con i vuoti riempiti di attesa (e l’autore mette subito in chiaro che il lavoro del drogato è quello di attendere) e i pieni inaccessibili, o solo sagome viste da lontano. C’è questo aneddoto su due spiagge di un’isola delle Hawaii, una sulla quale si spiaggiano i cadaveri annegati delle persone ricche e un’altra sulla quale arrivano i corpi dei poveri. Ricchi e poveri hanno masse diverse e le maree setacciano e separano per peso i corpi. Questo aneddoto mi è venuto in mente leggendo come Milano, setaccia e filtra le persone, e che ci sono sempre dei “punti di calma” dove il tossicodipendente ritorna, periodicamente. La città come filtro: e l’autore ci mostra l’immagine di un asfalto (interfaccia tra il mondo di sopra e il sottosuolo, ma simbolo che rimanda ad altre interfacce sociali e culturali) che assorbe sudore, lacrime, sangue, escrementi, piscio dai suoi abitanti, dove nessun dolore va perduto e nessuna degradazione viene dimenticata.
LorenzoD
www.lanuovacarne.it , 7 dicembre 2023 Alessandro Kresta Pedretta, Milano di Merda
Uno dei motivi per cui non dovrei scrivere questa recensione è il chiaro rapporto di amicizia che mi lega all’autore. Amicizia che è scoccata immediatamente, dopo il primo contatto, quasi inevitabile, grazie alla collaborazione per le più disparate webzine, di letteratura di genere scifi e weird, e che vede il suo culmine nella realizzazione della casa editrice la nuova carne. Gli amici non dovrebbero scrivere le recensioni degli amici, si dice, per non essere etichettati di “amichettismo”, per non essere detti che si fanno favoritismi (come se una recensione, scritta oggi sul web, possa in qualche modo favorire un’editoria, piccola, sotterranea come la nostra). Tutto giusto, però…
Uno (solo uno, su circa un migliaio) dei motivi per cui invece ho sentito di dover scrivere questa recensione è esattamente lo stesso: il rapporto che mi lega ad Alessandro. Ho avuto l’onore infatti di leggere stralci, prime versioni, passi espunti di questo straordinario romanzo-mondo che è Milano di merda. Ho avuto un assaggio, per quanto piccolo rispetto all’enorme mole di lavoro, di una gestazione lunga, delle difficoltà personali e tecniche; insomma, ho la vivida sensazione di aver vissuto la creazione di questo universo tossico e malsano in prima persona, da un punto di vista privilegiato. Mi sentivo così tanto coinvolto che quando poi la casa editrice Agenzia X ha acconsentito alla pubblicazione, ero felice quasi come se ne avessero pubblicato un mio, di libro.
Perché vi dico questo? Perché Milano di merda è un libro importante. Un libro che non racconta soltanto lo spaccato di vita dei tossici della Milano degli anni ’90 – gli anni della “consapevolezza” e dell’“informazione”, sull’HIV e sulle dipendenze; gli anni degli occhi bianchi sulle quarte di copertina di Topolino; gli anni di “Occhio a dove metti i piedi, lavati le mani dopo che vai nei bagni pubblici e non accettare caramelle dagli estranei” – ma traccia una topografia urbana dei luoghi in cui i tossici seguivano consuetudini, abitudini, quasi come fosse un lavoro, un tran tran quotidiano alla ricerca dello spicciolo per svoltare la giornata; una geografia della (a)normalità che la Milano della moda e della televisione in qualche modo tollerava, o forse meglio ignorava, al netto delle vicissitudini di sbirraglia e illegalità.
Milano di merda è un romanzo autobiografico. Gli eventi sono romanzati, certo, ma l’humus è quello reale, la voce è quella di chi le situazioni le ha vissute davvero sulla sua pelle – e sotto, e dentro. E questa voce che sussurra, impreca e urla, emerge chiara, nelle sue declinazioni, dalle pagine bianche e ordinate del romanzo. Una disperazione che è volontà di potenza e desiderio di morte; gioia di continuare a vivere e abisso profondo.
Tra parchi, metropolitane, bagni chimici, zone industriali, in compagnia di esseri (poco e allo stesso tempo troppo) umani, bisogni e desideri alieni e alienanti, si muove il giovane Kresta, tossico che sembra non avere altro fine che l’arrivare alla prossima dose. Non sappiamo come ci sia finito, quali siano le sue origini. Non importa. È Milano che in qualche maniera crea la tossicità, Milano come simbolo del sistema ipocrita e decadente – passato e attuale – che non ha altra necessità che fagocitare le coscienze, in un modo o nell’altro, che tu sia un lavoratore o una prostituta o un tossico.
Ma Kresta è uno di quelli che ce l’ha fatta. Almeno dal punto di vista biologico è sopravvissuto. Ora lavora alla Stazione Centrale, si è ripulito, di tanto in tanto ripensa alle sue vicissitudini passate con un atteggiamento che non è esclusivamente di rifiuto o nostalgia, ma una rielaborazione matura delle proprie esperienze. Ora, il problema è che mentre Kresta è cresciuto, Milano è rimasta sempre la stessa. Ha cambiato faccia, ha cambiato voce, ha anche cambiato modo di generare tossicità (ora sono i lavoratori che fanno uso di eroina, ma non la iniettano, la fumano), e ci mette poco, Milano, a ritirarti dentro il suo vortice delirante. Basta che ti venga a cercare un amico e che dopo poco sparisca misteriosamente. È così che ricomincia la giostra, e non farsi coinvolgere è molto difficile.
Narrato su un doppio binario cronologico, Milano di merda cerca di raccontare – riuscendoci benissimo – il mondo della droga con uno stile e dei contenuti originali e senza – neanche a dirlo – un briciolo di retorica, ma anzi in modo scanzonato, ironico, talvolta (amaramente) divertente. Il risultato sembra essere che come per caso ci si trovava a farsi di eroina, in quegli anni, così per caso ci si ritrovava fuori, non perché non ci sia alla base una forza di volontà forte come una roccia, ma perché la natura umana risulta essere sempre estremamente debole. E su questa debolezza non si può fare altro, seppure in circostanze estreme, che riderci su in maniera beffarda.
Al di là della questione droga, infatti, il messaggio che Pedretta vuole trasmettere, forse, è che quando la dipendenza è così radicata – che sia verso una sostanza, o verso delle consuetudini, o verso i legami con le persone, o verso una città, il lavoro, la famiglia, lo Stato, verso tutto – la scelta è un’illusione: ti illudi di vivere, di pensare, di muoverti, ma non sei altro che un ingranaggio di un macchinario più grande di te, e venirne fuori richiede una presa di coscienza che ha il fulcro proprio nell’autoironia e nella comprensione delle tinte grottesche di questo mondo in cui viviamo.
Un romanzo che dovete leggere.
L’allegra mazzata nei denti che noi e la nostra società ci siamo guadagnati.
Uno (solo uno, su circa un migliaio) dei motivi per cui invece ho sentito di dover scrivere questa recensione è esattamente lo stesso: il rapporto che mi lega ad Alessandro. Ho avuto l’onore infatti di leggere stralci, prime versioni, passi espunti di questo straordinario romanzo-mondo che è Milano di merda. Ho avuto un assaggio, per quanto piccolo rispetto all’enorme mole di lavoro, di una gestazione lunga, delle difficoltà personali e tecniche; insomma, ho la vivida sensazione di aver vissuto la creazione di questo universo tossico e malsano in prima persona, da un punto di vista privilegiato. Mi sentivo così tanto coinvolto che quando poi la casa editrice Agenzia X ha acconsentito alla pubblicazione, ero felice quasi come se ne avessero pubblicato un mio, di libro.
Perché vi dico questo? Perché Milano di merda è un libro importante. Un libro che non racconta soltanto lo spaccato di vita dei tossici della Milano degli anni ’90 – gli anni della “consapevolezza” e dell’“informazione”, sull’HIV e sulle dipendenze; gli anni degli occhi bianchi sulle quarte di copertina di Topolino; gli anni di “Occhio a dove metti i piedi, lavati le mani dopo che vai nei bagni pubblici e non accettare caramelle dagli estranei” – ma traccia una topografia urbana dei luoghi in cui i tossici seguivano consuetudini, abitudini, quasi come fosse un lavoro, un tran tran quotidiano alla ricerca dello spicciolo per svoltare la giornata; una geografia della (a)normalità che la Milano della moda e della televisione in qualche modo tollerava, o forse meglio ignorava, al netto delle vicissitudini di sbirraglia e illegalità.
Milano di merda è un romanzo autobiografico. Gli eventi sono romanzati, certo, ma l’humus è quello reale, la voce è quella di chi le situazioni le ha vissute davvero sulla sua pelle – e sotto, e dentro. E questa voce che sussurra, impreca e urla, emerge chiara, nelle sue declinazioni, dalle pagine bianche e ordinate del romanzo. Una disperazione che è volontà di potenza e desiderio di morte; gioia di continuare a vivere e abisso profondo.
Tra parchi, metropolitane, bagni chimici, zone industriali, in compagnia di esseri (poco e allo stesso tempo troppo) umani, bisogni e desideri alieni e alienanti, si muove il giovane Kresta, tossico che sembra non avere altro fine che l’arrivare alla prossima dose. Non sappiamo come ci sia finito, quali siano le sue origini. Non importa. È Milano che in qualche maniera crea la tossicità, Milano come simbolo del sistema ipocrita e decadente – passato e attuale – che non ha altra necessità che fagocitare le coscienze, in un modo o nell’altro, che tu sia un lavoratore o una prostituta o un tossico.
Ma Kresta è uno di quelli che ce l’ha fatta. Almeno dal punto di vista biologico è sopravvissuto. Ora lavora alla Stazione Centrale, si è ripulito, di tanto in tanto ripensa alle sue vicissitudini passate con un atteggiamento che non è esclusivamente di rifiuto o nostalgia, ma una rielaborazione matura delle proprie esperienze. Ora, il problema è che mentre Kresta è cresciuto, Milano è rimasta sempre la stessa. Ha cambiato faccia, ha cambiato voce, ha anche cambiato modo di generare tossicità (ora sono i lavoratori che fanno uso di eroina, ma non la iniettano, la fumano), e ci mette poco, Milano, a ritirarti dentro il suo vortice delirante. Basta che ti venga a cercare un amico e che dopo poco sparisca misteriosamente. È così che ricomincia la giostra, e non farsi coinvolgere è molto difficile.
Narrato su un doppio binario cronologico, Milano di merda cerca di raccontare – riuscendoci benissimo – il mondo della droga con uno stile e dei contenuti originali e senza – neanche a dirlo – un briciolo di retorica, ma anzi in modo scanzonato, ironico, talvolta (amaramente) divertente. Il risultato sembra essere che come per caso ci si trovava a farsi di eroina, in quegli anni, così per caso ci si ritrovava fuori, non perché non ci sia alla base una forza di volontà forte come una roccia, ma perché la natura umana risulta essere sempre estremamente debole. E su questa debolezza non si può fare altro, seppure in circostanze estreme, che riderci su in maniera beffarda.
Al di là della questione droga, infatti, il messaggio che Pedretta vuole trasmettere, forse, è che quando la dipendenza è così radicata – che sia verso una sostanza, o verso delle consuetudini, o verso i legami con le persone, o verso una città, il lavoro, la famiglia, lo Stato, verso tutto – la scelta è un’illusione: ti illudi di vivere, di pensare, di muoverti, ma non sei altro che un ingranaggio di un macchinario più grande di te, e venirne fuori richiede una presa di coscienza che ha il fulcro proprio nell’autoironia e nella comprensione delle tinte grottesche di questo mondo in cui viviamo.
Un romanzo che dovete leggere.
L’allegra mazzata nei denti che noi e la nostra società ci siamo guadagnati.
di Stefano Spataro
codice-rosso.net , 25 novembre 2023 Milano di merda. La pelle come altare e come abisso
Potrebbe partire di qui un breve discorso a proposito del romanzo di Alessandro “Kresta” Pedretta Milano di merda, uscito da poco per i tipi di Agenzia X di Milano: il sacro e il profano che si pongono insieme sulla pelle del tossico, non in senso metaforico ma da prendere assolutamente alla lettera, perché, ovviamente, il fulcro di qualsivoglia narrazione “tossica” è il momento in cui la roba passa sotto l’epidermide dell’eroinomane per entrare in vena, per generare “piacere passando dal dolore” di una puntura, come qui grida un immaginario Dio che specifica “E poi ancora dolore, piccolo stronzo tossico”.
È una premessa divina, di un Dio profondamente umano – in quanto a ira e vendetta promessa – com’è quello del Vecchio Testamento, che pretende sottomissione e sacrificio da parte dei suoi disfatti adepti. Milano di merda, quindi, non sarà il Vangelo dei Tossici, ma piuttosto una narrazione di un Esodo senza meta, vissuto ispirandosi a un’Ecclesiaste degna del predetto Dio dei Tossici, Dio senza misericordia per adepti senza Fede, tranne che nell’effimero momento del Flash salvifico offerto dalla gnugna.
Nel libro il protagonista, che ha il nome e il mestiere reale dell’autore, si sposta tra due piani temporali, ambedue segnati da un diverso genere di quête, altrettanto vane ambedue in un certo senso: la ricerca di un amico intravisto in stazione, dove lavora il protagonista adesso, uscito dalla dipendenza, che diventa un pretesto per mettere in fila una serie di volti e luoghi della Milano tossica del suo passato di dipendenza, in cui la ricerca dell’Uomo (per dirla con lo zio Lou Reed) serve a disegnare, sullo sfondo delle storie di fattanza, un affresco di umanità devastate in mezzo alla città del denaro e della modernità. Il passato tossico del protagonista, che si fa relitto tra i relitti, non per portare messaggi, né la buona novella, né per – non sia mai – giudicare, riemerge quindi per sprofondare tutti quanti, noi lettori compresi, nel lato oscuro della Strada. Ho usato non a caso il termine qui sopra, non semplice ricerca, ma quête, la vana ricerca dei cavalieri antichi, che, con questi abitatori di una Milano senza luci e con le pere al posto del bere, hanno in comune anche l’uso delle spade, arma rivolta contro se stessi da parte dei primi, contro gli infedeli dai secondi. Trovare la roba è inutile, quando accade, non basta mai e dura quindi sempre troppo poco, la ricerca è quindi senza fine; mentre a trovare gli amici si rischiano – come accade qua – delle amarissime delusioni, assai indicative, però del momento in cui viviamo, in un mondo in cui la devianza tossica viene tranquillamente riassorbita dal Sistema, che riduce tutto alla misura del Denaro e del Potere, uniche divinità trionfanti del III millennio, a cui tutto si sacrifica e in nome delle quali tutto si può perdonare.
Troverete in questo discorso sofferto e insieme glaciale, i rivoli lessicali dei venerati guru letterari di Pedretta, ovviamente Bill Burroughs e Louis Celine, maestri estremi di cinismo, devianza e disarticolazione linguistica, ma io ci ho visto anche le immagini di un cinema maledetto e minore che non so quanto possa appartenere all’autore, ma che ho immediatamente immaginato leggendo queste righe: per prime le sequenze allucinate di Amore tossico di Claudio Calligari, oltre all’orrore periferico industriale di Tunnel di un maestro di B-movie come Massimo Pirri, figlio di un diverso e antico underground, che attinge spesso però a un immaginario Weird simile a quello in cui abitualmente pesca il Pedretta autore. Un mondo forse un po’ diverso da quello descritto in Fuori vena di Tekla Taidelli, nonostante quest’ultima produzione visiva condivida molti dei luoghi fisici milanesi descritti in Milano di merda, ma non l’atmosfera plumbea, il pessimismo radicale, la descrizione a tratti ossessiva dei corpi disfatti e devastati dalle sostanze, l’insistere sui dettagli corporali, il sangue, il pus, le secrezioni, le malattie della pelle, le cicatrici, la concreta rappresentazione per nulla figurale di un corpo sociale sfregiato e sofferente, senza ormai più residue speranze.
“Quando ci si inietta il vuoto, non si pensa alla morte, in quell’attimo siamo noi stessi la morte.”
È una premessa divina, di un Dio profondamente umano – in quanto a ira e vendetta promessa – com’è quello del Vecchio Testamento, che pretende sottomissione e sacrificio da parte dei suoi disfatti adepti. Milano di merda, quindi, non sarà il Vangelo dei Tossici, ma piuttosto una narrazione di un Esodo senza meta, vissuto ispirandosi a un’Ecclesiaste degna del predetto Dio dei Tossici, Dio senza misericordia per adepti senza Fede, tranne che nell’effimero momento del Flash salvifico offerto dalla gnugna.
Nel libro il protagonista, che ha il nome e il mestiere reale dell’autore, si sposta tra due piani temporali, ambedue segnati da un diverso genere di quête, altrettanto vane ambedue in un certo senso: la ricerca di un amico intravisto in stazione, dove lavora il protagonista adesso, uscito dalla dipendenza, che diventa un pretesto per mettere in fila una serie di volti e luoghi della Milano tossica del suo passato di dipendenza, in cui la ricerca dell’Uomo (per dirla con lo zio Lou Reed) serve a disegnare, sullo sfondo delle storie di fattanza, un affresco di umanità devastate in mezzo alla città del denaro e della modernità. Il passato tossico del protagonista, che si fa relitto tra i relitti, non per portare messaggi, né la buona novella, né per – non sia mai – giudicare, riemerge quindi per sprofondare tutti quanti, noi lettori compresi, nel lato oscuro della Strada. Ho usato non a caso il termine qui sopra, non semplice ricerca, ma quête, la vana ricerca dei cavalieri antichi, che, con questi abitatori di una Milano senza luci e con le pere al posto del bere, hanno in comune anche l’uso delle spade, arma rivolta contro se stessi da parte dei primi, contro gli infedeli dai secondi. Trovare la roba è inutile, quando accade, non basta mai e dura quindi sempre troppo poco, la ricerca è quindi senza fine; mentre a trovare gli amici si rischiano – come accade qua – delle amarissime delusioni, assai indicative, però del momento in cui viviamo, in un mondo in cui la devianza tossica viene tranquillamente riassorbita dal Sistema, che riduce tutto alla misura del Denaro e del Potere, uniche divinità trionfanti del III millennio, a cui tutto si sacrifica e in nome delle quali tutto si può perdonare.
Troverete in questo discorso sofferto e insieme glaciale, i rivoli lessicali dei venerati guru letterari di Pedretta, ovviamente Bill Burroughs e Louis Celine, maestri estremi di cinismo, devianza e disarticolazione linguistica, ma io ci ho visto anche le immagini di un cinema maledetto e minore che non so quanto possa appartenere all’autore, ma che ho immediatamente immaginato leggendo queste righe: per prime le sequenze allucinate di Amore tossico di Claudio Calligari, oltre all’orrore periferico industriale di Tunnel di un maestro di B-movie come Massimo Pirri, figlio di un diverso e antico underground, che attinge spesso però a un immaginario Weird simile a quello in cui abitualmente pesca il Pedretta autore. Un mondo forse un po’ diverso da quello descritto in Fuori vena di Tekla Taidelli, nonostante quest’ultima produzione visiva condivida molti dei luoghi fisici milanesi descritti in Milano di merda, ma non l’atmosfera plumbea, il pessimismo radicale, la descrizione a tratti ossessiva dei corpi disfatti e devastati dalle sostanze, l’insistere sui dettagli corporali, il sangue, il pus, le secrezioni, le malattie della pelle, le cicatrici, la concreta rappresentazione per nulla figurale di un corpo sociale sfregiato e sofferente, senza ormai più residue speranze.
“Quando ci si inietta il vuoto, non si pensa alla morte, in quell’attimo siamo noi stessi la morte.”
di Falco Ranuli
www.rollingstone.it , 29 ottobre 2023Milano fa schifo, evviva Milano
Una chiacchierata con Alessandro “Kresta” Pedretta, autore del romanzo “Milano di merda”: una sorta di seduta di terapia di coppia, in cui Milano è il partner su cui sputare tutto il rancore accumulato in decenni di vita
«Se è vero che Dio è morto, dev’essere morto a Milano» è l’esordio perfetto per un libro dal titolo Milano di merda. Pubblicato di recente dalla casa editrice underground Agenzia X, è il romanzo autobiografico di Alessandro “Kresta” Pedretta, scrittore-operaio dal talento cristallino. Milano di merda è una sorta di seduta di terapia di coppia, in cui Milano è il partner su cui sputare tutto il rancore accumulato in decenni di vita, non lesinando dettagli, episodi coloriti, mappe dettagliate di percorsi dolorosi. Ma soprattutto, è un romanzo sull’eroina, sui drammi quotidiani della dipendenza, su un modo unico di vivere la strada.
Con uno stile visionario e talvolta orrorifico, senza rinunciare a una punta di ironia, Kresta ci guida in un viaggio spazio-temporale tra gli anni novanta e oggi. Passato e presente, a contrasto, svelano alcuni retroscena della Milano di oggi, come in quelle foto degli scorci prima e dopo. Ho fatto qualche domanda ad Alessandro sul suo romanzo.
Visto che sei un incensurato, ti presenti, se ti va? Che lavoro fai? Da quanto tempo scrivi?
Ho 48 anni, da circa dieci lavoro come pulitore in Stazione Centrale a Milano e sono sindacalista: ho questa forse utopistica speranza di far apprendere un’odierna coscienza di classe. Scrivo non da prestissimo, penso di aver cominciato a vent’anni, scribacchiando poesie, buttando giù considerazioni strampalate, ricalcando episodi bizzarri. Scrivevo di tutto, come una macchina impazzita. Avevo come muse ispiratrici Henry Miller, Bukowski, William Burroughs, Céline, autori che continuo a rileggere e che adoro tutt’ora.
Questo è il tuo terzo romanzo. Gli altri due di cosa trattavano?
Il primo È solo controllo è una novella in cui uso un linguaggio direi fumettistico per esplorare i temi dei condizionamenti, a cui tutti siamo soggetti, volenti o meno. Livello 49 è un romanzo che etichetto come cybersplatter, ambientato in un mondo postatomico in cui i lavoratori sono obbligati a svolgere mansioni h24 in immense fabbriche come deliranti panopticon, dediti ossessivamente al raggiungimento di promozioni dai termini oscuri – praticamente una metafora del lavoro salariato.
Sei tra i fondatori della casa editrice La nuova Carne, ce ne parli?
La nuova carne nasce come rivista online in cui pubblicavamo racconti, articoli e recensioni, dedicandoci più che altro agli aspetti estremi dell’arte. Poi siamo diventati un’associazione culturale e quindi editori. Pubblichiamo quella che ci piace definire letteratura insolita, fantascienza radicale, cyberpunk, horror, ma anche controcultura. Abbiamo anche una rivista che si chiama “Massacro”, sulla quale esploriamo l’arte estrema, le sottoculture e la controcultura con articoli, brevi saggi e racconti anche di noti autori stranieri che traduciamo.
Veniamo a noi. Quanto c’è di autobiografico in Milano di merda? come hai “camuffato”, se lo hai fatto, personaggi e luoghi?
Il romanzo scorre sui binari di due piani temporali ben distinti, il presente e la fine degli anni ’90. Il presente è un pretesto per poi andare ad esplorare tutti gli ambienti e la topografia tossica degli anni ’90 tramite la ricerca di un amico che si pensava scomparso. Nel presente c’è di vero il lavoro che Kresta (cioè il sottoscritto) esercita, il pulitore in stazione; nel passato oserei dire che tutte le scene sono veritiere, i luoghi sono esattamente quelli, i protagonisti anche. Ho solo mischiato certe dinamiche. Per il colore e i fatti grotteschi, ti assicuro che non ho dovuto inventare nulla, tutto puro succo di vita tossica.
Io vivo a Milano mio malgrado, per lavoro. Non so spiegare perché non mi sento a casa, so solo che non mi sento tranquilla – e forse il tuo libro mi dà finalmente una spiegazione. Cosa ti ha spinto, negli anni, a restare? Sei nato qui?
Sono nato a Como per sbaglio ma sono praticamente sempre vissuto qui. Forse sono diventato una persona abitudinaria, soffro anche di attacchi di panico, i cambiamenti un po’ mi spaventano, quindi ho deciso di mettere radici in questa città, almeno per adesso. Il fatto è che quando vivi per tanto tempo in un luogo, anche se con sentimenti ambivalenti, si vive una specie di nostalgia permanente: i muri, gli odori, le strade che assumono un certo aspetto a una certa ora della sera o del mattino presto, ti regalano sensazioni che sanno di casa, anche se quella casa a volte la paragoni a un girone infernale. Ma come diceva Mark Twain: “Scelgo il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia”. Nel tempo è diventata una città per ricchi e asservita alla morale del consumismo ma non manca, forse ancora per poco, la varietà di caratteri.
Non posso dire di essere un’esperta di letteratura su Milano. Ho amato La vita agra di Bianciardi e anche questo ritratto della città non era idilliaco. Pensi che sia un po’ nella sua natura prestarsi alle critiche? Perché?
Come ho detto è una città per ricchi. Il costo della vita è tremendamente alto, se si pensa a Milano si pensa alla finanza, alla moda, al caffè preso di corsa al bar, a un certo modello di bauscia col danè in tasca e la puzza sotto il naso. Il centro sembra allargarsi sempre di più e la periferia trasformarsi sempre più in hinterland, la gentrificazione fa passi da gigante ma spesso è solo apparenza, frutto di speculazioni. Milano spesso non è amata neppure dai milanesi, e la maggior parte dei milanesi ormai da anni sono immigrati interni che si sono trasferiti solo per lavoro. Non ha luoghi estremamente affascinanti, tranne forse nel centro più centro, e anche le cose belle sono nascoste. Bisogna lavorare duro con Milano, possedere la qualità del pioniere.
L’eroina. Dal tuo punto di vista, come è stata affrontata la questione nella cultura italiana? Negli anni è cambiato qualcosa?
Secondo me non è stato affrontato abbastanza. I tossici sono stati più che altro relegati ai Ser.T di quartiere. Nel libro ne parlo: officine che producono droga di Stato e che lasciano i ragazzi allo sbaraglio con medici che non possono sostenere un lavoro specifico, anche e soprattutto psicologico. Personalmente penso che l’assunzione sia comunque diminuita, c’è stata anche la tragedia dell’AIDS come deterrente. Ora anche i tossici mi sembra che si siano adeguati alla città, come se fossero stati manipolati dall’etica di Milano: fai come ti pare ma non dare fastidio, e non sporcare per strada. Ora i tossici la fumano l’eroina, più che bucarsi, fa più bon ton.
Mi ha colpito molto che nel romanzo parli spesso di freddo, gelo, neve. Sicuramente erano altri tempi a livello climatico, ma c’è qualcos’altro?
Certo. Il freddo è una caratteristica che il tossicodipendente conosce bene. Nei momenti di astinenza è il primo sintomo che ti affligge diabolicamente. L’eroina diventa una coperta che ti scalda dalla punta dei piedi alla testa. Trovo anche che l’inverno sia la stagione più affascinante e consona per la storia che ho scritto. Si parla di luoghi oscuri mimetizzati nelle strade della città che solo i tossici conoscono, fabbriche abbandonate, giardini malmessi, campi di pannocchie marcite, strade abbandonate per lavori in corso, ponti che finiscono nel nulla, la nebbia e il gelo sono il perfetto contorno.
Domanda forse intima, ma tu come ne sei uscito? Lo chiedo perché da quando tutti hanno visto Sanpa quello delle comunità è un tema piuttosto sentito, ma non se ne parla mai bene abbastanza.
Io ho fatto una comunità, tre anni circa a Varese, Progetto Uomo. Ci andai perché mi era sembrato l’unico modo per uscire da quel circolo infernale. Alla fine il tossico non si sballa neanche più, si fa solo per non stare male, non sei più una persona ma un circuito di vene e capillari. Ho fatto la comunità ma devo essere sincero: rispettavo le regole ma non seguivo certi rituali terapeutici e comportamentali che mi parevano innaturali e insensati. Le comunità sono molto cambiate dai tempi di Sanpa dell’inizio, che poi era prettamente lavorativa e non si avvaleva di psicologi. Io ho usato la comunità come luogo di distacco, la convinzione di non continuare con l’esperienza della droga era già forte in me. Senza contare anche la dipendenza del metadone, lì ho potuto eliminarlo dalle cellule con tutta calma.
Siamo su “Rolling Stone”, chiudiamo con la musica. Nel libro citi Lou Reed – «la prima cosa che impari è che devi sempre aspettare» – ma qual è stata la colonna sonora di quegli anni? O la musica era molto in secondo piano?
In verità la musica ha avuto un forte impatto in quegli anni, anche tra il gruppo di disperati che eravamo. Molti di noi frequentavano i rave illegali e i centri sociali, ho visto centinaia di concerti punk e hardcore al Laboratorio Anarchico, che stava in via De Amicis, vicino alle colonne di San Lorenzo. Sicuramente di quei tempi ricordo i CCCP che poi nei 90 divennero CSI, come potevamo non canticchiare: “non studio, non lavoro, non guardo la tv”, oppure “produci, consuma, crepa”? Di quegli anni poi mi è rimasto impresso l’album American Caesar di Iggy Pop. È stato anche il periodo del grunge, che però non prediligevo. Ho visto i Bad Religion e i Ramones al City Square, ci entravamo sempre a sbafo caricando le porte di emergenza. Si ascoltavano gli Skiantos e poi c’erano i Sepultura, come scordarsi album come Chaos A.D e Roots. La musica buona era tanta ed eterogenea, begli anni da quel punto di vista.
«Se è vero che Dio è morto, dev’essere morto a Milano» è l’esordio perfetto per un libro dal titolo Milano di merda. Pubblicato di recente dalla casa editrice underground Agenzia X, è il romanzo autobiografico di Alessandro “Kresta” Pedretta, scrittore-operaio dal talento cristallino. Milano di merda è una sorta di seduta di terapia di coppia, in cui Milano è il partner su cui sputare tutto il rancore accumulato in decenni di vita, non lesinando dettagli, episodi coloriti, mappe dettagliate di percorsi dolorosi. Ma soprattutto, è un romanzo sull’eroina, sui drammi quotidiani della dipendenza, su un modo unico di vivere la strada.
Con uno stile visionario e talvolta orrorifico, senza rinunciare a una punta di ironia, Kresta ci guida in un viaggio spazio-temporale tra gli anni novanta e oggi. Passato e presente, a contrasto, svelano alcuni retroscena della Milano di oggi, come in quelle foto degli scorci prima e dopo. Ho fatto qualche domanda ad Alessandro sul suo romanzo.
Visto che sei un incensurato, ti presenti, se ti va? Che lavoro fai? Da quanto tempo scrivi?
Ho 48 anni, da circa dieci lavoro come pulitore in Stazione Centrale a Milano e sono sindacalista: ho questa forse utopistica speranza di far apprendere un’odierna coscienza di classe. Scrivo non da prestissimo, penso di aver cominciato a vent’anni, scribacchiando poesie, buttando giù considerazioni strampalate, ricalcando episodi bizzarri. Scrivevo di tutto, come una macchina impazzita. Avevo come muse ispiratrici Henry Miller, Bukowski, William Burroughs, Céline, autori che continuo a rileggere e che adoro tutt’ora.
Questo è il tuo terzo romanzo. Gli altri due di cosa trattavano?
Il primo È solo controllo è una novella in cui uso un linguaggio direi fumettistico per esplorare i temi dei condizionamenti, a cui tutti siamo soggetti, volenti o meno. Livello 49 è un romanzo che etichetto come cybersplatter, ambientato in un mondo postatomico in cui i lavoratori sono obbligati a svolgere mansioni h24 in immense fabbriche come deliranti panopticon, dediti ossessivamente al raggiungimento di promozioni dai termini oscuri – praticamente una metafora del lavoro salariato.
Sei tra i fondatori della casa editrice La nuova Carne, ce ne parli?
La nuova carne nasce come rivista online in cui pubblicavamo racconti, articoli e recensioni, dedicandoci più che altro agli aspetti estremi dell’arte. Poi siamo diventati un’associazione culturale e quindi editori. Pubblichiamo quella che ci piace definire letteratura insolita, fantascienza radicale, cyberpunk, horror, ma anche controcultura. Abbiamo anche una rivista che si chiama “Massacro”, sulla quale esploriamo l’arte estrema, le sottoculture e la controcultura con articoli, brevi saggi e racconti anche di noti autori stranieri che traduciamo.
Veniamo a noi. Quanto c’è di autobiografico in Milano di merda? come hai “camuffato”, se lo hai fatto, personaggi e luoghi?
Il romanzo scorre sui binari di due piani temporali ben distinti, il presente e la fine degli anni ’90. Il presente è un pretesto per poi andare ad esplorare tutti gli ambienti e la topografia tossica degli anni ’90 tramite la ricerca di un amico che si pensava scomparso. Nel presente c’è di vero il lavoro che Kresta (cioè il sottoscritto) esercita, il pulitore in stazione; nel passato oserei dire che tutte le scene sono veritiere, i luoghi sono esattamente quelli, i protagonisti anche. Ho solo mischiato certe dinamiche. Per il colore e i fatti grotteschi, ti assicuro che non ho dovuto inventare nulla, tutto puro succo di vita tossica.
Io vivo a Milano mio malgrado, per lavoro. Non so spiegare perché non mi sento a casa, so solo che non mi sento tranquilla – e forse il tuo libro mi dà finalmente una spiegazione. Cosa ti ha spinto, negli anni, a restare? Sei nato qui?
Sono nato a Como per sbaglio ma sono praticamente sempre vissuto qui. Forse sono diventato una persona abitudinaria, soffro anche di attacchi di panico, i cambiamenti un po’ mi spaventano, quindi ho deciso di mettere radici in questa città, almeno per adesso. Il fatto è che quando vivi per tanto tempo in un luogo, anche se con sentimenti ambivalenti, si vive una specie di nostalgia permanente: i muri, gli odori, le strade che assumono un certo aspetto a una certa ora della sera o del mattino presto, ti regalano sensazioni che sanno di casa, anche se quella casa a volte la paragoni a un girone infernale. Ma come diceva Mark Twain: “Scelgo il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia”. Nel tempo è diventata una città per ricchi e asservita alla morale del consumismo ma non manca, forse ancora per poco, la varietà di caratteri.
Non posso dire di essere un’esperta di letteratura su Milano. Ho amato La vita agra di Bianciardi e anche questo ritratto della città non era idilliaco. Pensi che sia un po’ nella sua natura prestarsi alle critiche? Perché?
Come ho detto è una città per ricchi. Il costo della vita è tremendamente alto, se si pensa a Milano si pensa alla finanza, alla moda, al caffè preso di corsa al bar, a un certo modello di bauscia col danè in tasca e la puzza sotto il naso. Il centro sembra allargarsi sempre di più e la periferia trasformarsi sempre più in hinterland, la gentrificazione fa passi da gigante ma spesso è solo apparenza, frutto di speculazioni. Milano spesso non è amata neppure dai milanesi, e la maggior parte dei milanesi ormai da anni sono immigrati interni che si sono trasferiti solo per lavoro. Non ha luoghi estremamente affascinanti, tranne forse nel centro più centro, e anche le cose belle sono nascoste. Bisogna lavorare duro con Milano, possedere la qualità del pioniere.
L’eroina. Dal tuo punto di vista, come è stata affrontata la questione nella cultura italiana? Negli anni è cambiato qualcosa?
Secondo me non è stato affrontato abbastanza. I tossici sono stati più che altro relegati ai Ser.T di quartiere. Nel libro ne parlo: officine che producono droga di Stato e che lasciano i ragazzi allo sbaraglio con medici che non possono sostenere un lavoro specifico, anche e soprattutto psicologico. Personalmente penso che l’assunzione sia comunque diminuita, c’è stata anche la tragedia dell’AIDS come deterrente. Ora anche i tossici mi sembra che si siano adeguati alla città, come se fossero stati manipolati dall’etica di Milano: fai come ti pare ma non dare fastidio, e non sporcare per strada. Ora i tossici la fumano l’eroina, più che bucarsi, fa più bon ton.
Mi ha colpito molto che nel romanzo parli spesso di freddo, gelo, neve. Sicuramente erano altri tempi a livello climatico, ma c’è qualcos’altro?
Certo. Il freddo è una caratteristica che il tossicodipendente conosce bene. Nei momenti di astinenza è il primo sintomo che ti affligge diabolicamente. L’eroina diventa una coperta che ti scalda dalla punta dei piedi alla testa. Trovo anche che l’inverno sia la stagione più affascinante e consona per la storia che ho scritto. Si parla di luoghi oscuri mimetizzati nelle strade della città che solo i tossici conoscono, fabbriche abbandonate, giardini malmessi, campi di pannocchie marcite, strade abbandonate per lavori in corso, ponti che finiscono nel nulla, la nebbia e il gelo sono il perfetto contorno.
Domanda forse intima, ma tu come ne sei uscito? Lo chiedo perché da quando tutti hanno visto Sanpa quello delle comunità è un tema piuttosto sentito, ma non se ne parla mai bene abbastanza.
Io ho fatto una comunità, tre anni circa a Varese, Progetto Uomo. Ci andai perché mi era sembrato l’unico modo per uscire da quel circolo infernale. Alla fine il tossico non si sballa neanche più, si fa solo per non stare male, non sei più una persona ma un circuito di vene e capillari. Ho fatto la comunità ma devo essere sincero: rispettavo le regole ma non seguivo certi rituali terapeutici e comportamentali che mi parevano innaturali e insensati. Le comunità sono molto cambiate dai tempi di Sanpa dell’inizio, che poi era prettamente lavorativa e non si avvaleva di psicologi. Io ho usato la comunità come luogo di distacco, la convinzione di non continuare con l’esperienza della droga era già forte in me. Senza contare anche la dipendenza del metadone, lì ho potuto eliminarlo dalle cellule con tutta calma.
Siamo su “Rolling Stone”, chiudiamo con la musica. Nel libro citi Lou Reed – «la prima cosa che impari è che devi sempre aspettare» – ma qual è stata la colonna sonora di quegli anni? O la musica era molto in secondo piano?
In verità la musica ha avuto un forte impatto in quegli anni, anche tra il gruppo di disperati che eravamo. Molti di noi frequentavano i rave illegali e i centri sociali, ho visto centinaia di concerti punk e hardcore al Laboratorio Anarchico, che stava in via De Amicis, vicino alle colonne di San Lorenzo. Sicuramente di quei tempi ricordo i CCCP che poi nei 90 divennero CSI, come potevamo non canticchiare: “non studio, non lavoro, non guardo la tv”, oppure “produci, consuma, crepa”? Di quegli anni poi mi è rimasto impresso l’album American Caesar di Iggy Pop. È stato anche il periodo del grunge, che però non prediligevo. Ho visto i Bad Religion e i Ramones al City Square, ci entravamo sempre a sbafo caricando le porte di emergenza. Si ascoltavano gli Skiantos e poi c’erano i Sepultura, come scordarsi album come Chaos A.D e Roots. La musica buona era tanta ed eterogenea, begli anni da quel punto di vista.
di Antonella Di Biase