www.rollingstone.it, 7 dicembre 2021 Kina, manuale pratico per disattendere le attese
Hanno iniziato a suonare per ribellarsi a una vita preordinata e al mito del posto fisso (sì, altri tempi). Sono diventati uno dei nomi chiave dell’hardcore italiano. È tutto qui: i palchi presi d’assalto, le autoproduzioni, la provincia, l'idea di non fare mai quello che ci si aspetta.
“So ancora guardare in alto e perdermi nel cielo, mentre vibro assieme ad un torrente… e penso all’acciaio che ci stringe. Questi anni stan correndo via come macchine impazzite, li senti arrivare. Ti volti e son già lontani. Ti chiedi cosa è successo”. Difficile non avere un tuffo al cuore ogni volta che si ascolta questo incipit, ossia l’apertura di Questi anni dei Kina, una delle band più importanti e speciali della scena hardcore italiana anni ’80 insieme a “colleghi” come Negazione, Wretched, CCM, Impact, Peggio Punx, Raw Power. I Kina sono stati in attività dal 1982 al 1997, suonando in tutta Europa, pubblicando dischi e fondando un’etichetta fra le più rappresentative della scena. Nel 2019 sono stati protagonisti di un tour di reunion da cui è naturalmente scaturita l’idea del film documentario Se ho vinto, se ho perso firmato dal regista Gian Luca Rossi, che per immagini racconta la storia della band e di quella reunion durata una manciata di date.
Il documentario è da poco disponibile su DVD, in un package che comprende anche un CD con registrazioni dal tour del 2019, vari gadget/memorabilia e un bel libro con testi e foto a cura di Marco Pandin. Proprio questo box – a cui si affianca la ristampa della discografia del gruppo a cura di Spittle/Goodfellas – è l’occasione per una lunga chiacchierata con Gianpiero Capra, bassista dei Kina nonché coautore, qualche anno fa, del bel volume Come macchine impazzite dedicato all’epopea del gruppo.
Partiamo con una rapida fotografia degli inizi: come nascono i Kina?
Sergio Milani (batterista della band, nda), io e altri tre ragazzi avevamo messo in piedi, prima dei Kina, quello che a tutti gli effetti è stato il primo gruppo punk di Aosta. Facevamo sostanzialmente cover – tipo Clash, Sex Pistols, Jam – anche per imparare a suonare. A novembre del 1982 facemmo il nostro unico concerto a Milano, al Virus, dove conoscemmo tutte le persone del collettivo, fra cui Philopat. Ma, subito dopo, gli altri tre si tirarono indietro perché non volevano entrare in quel tipo di “dimensione”. Rimanemmo Sergio ed io, da soli, però volevamo continuare. Così, subito dopo, andai in quello che era l’ultimo collettivo comunista in attività ad Aosta: lì sapevo che ci avrei trovato Alberto Ventrella, che era un chitarrista. Gli chiesi: «Tu vuoi suonare con noi?». Lui accettò e da lì ripartimmo con un altro gruppo, insieme ad altre due persone – all’inizio avevamo una formazione a cinque. Un altro momento fondante fu in una gelateria (ride), dove ci trovammo a decidere un nome perché ci era stato chiesto di contribuire a una compilazione su cassetta con qualche brano.
Parliamo proprio del nome: all’epoca la tendenza era chiamare le band in modo aggressivo: Quinto Braccio, Raw Power, Negazione, Wretched, Upset Noise. Voi sceglieste un’altra via.
Sì, infatti l’oggetto della famosa discussione in gelateria fu proprio questo. All’inizio, fra le idee prese in considerazione, c’era anche un nome tipo Psychotic Qualcosa, ma in quel momento abbiamo proprio detto: «no, non vogliamo dare l’idea di sofferenza, di malattia». Certo, quello della sofferenza dell’individuo nella società era un grande tema, allora, ma la nostra scelta è stata di non evocare quella sensazione e quel pensiero. Volevamo essere noi stessi, nel nostro essere diversi rispetto a ciò che c’era in giro in quel momento, ma comunque anche con un sorriso e un po’ di sorpresa. Fin dall’inizio, infatti, uno dei nostri temi più cari è stato proprio il disattendere le attese, cioè non fare mai quello che ci si poteva aspettare.
La vostra peculiarità era evidente anche dal tenore dei testi: molto più introspettivi, incentrati su una sorta di impegno a migliorare se stessi, a lavorare sull’individuo piuttosto che aggredire il sistema o contestarlo con qualche slogan facile.
La nostra grande aspirazione in quel momento – avevamo 20 anni – era iniziare a immaginare un’altra vita rispetto a quella che ci veniva prospettata. Parliamo dei primi anni ’80, quindi di una situazione sociale ed economica radicalmente diversa rispetto a ora. Quello che era il peggiore dei destini a cui, allora, potevamo andare incontro forse adesso è diventato una specie di desiderio irrealizzabile per un sacco di ragazzi, all’epoca la tua catastrofe umana era il posto fisso. Oggi, invece, per molti è quasi un sogno (ride): fa strano! Comunque all’epoca, per dei ragazzi trasgressivi, la questione era: come possiamo costruirci una vita fuori da questi schemi preordinati, precostruiti? Come inventarci una vita che abbia un senso, che sia più diretta da noi e non si muova solo sui binari su cui ci piazzano?
Dove avete fatto i primi concerti? Ad Aosta?
In realtà con il gruppo pre-Kina abbiamo suonato un po’ di volte ad Aosta. Coi Kina, invece, siamo partiti subito in trasferta: il primo live l’abbiamo fatto a Torino, al Centro d’Incontro Lungo Dora Colletta, con i Kollettivo e gli altri gruppi attivi in città in quel momento. Il secondo a Genova, insieme agli Antistato, cioè i pre-Negazione, era febbraio del 1983. Poi in primavera abbiamo suonato ancora a Torino, sempre in Lungo Dora Colletta. In effetti il primo nostro concerto in Aosta, come Kina, fu a giugno del 1983. Dal mese dopo, poi, la formazione si stabilizzò riducendosi a tre elementi: passammo l’estate a provare con questo assetto e in autunno facemmo un altro concerto, sempre a Torino. Insomma, eravamo praticamente sempre altrove, quasi mai ad Aosta.
Avevate un forte legame con Torino: era una semplice questione di vicinanza geografica o c’era altro?
Sì, eravamo tanto legati alla scena torinese, che peraltro era molto viva. Uno dei motivi era che io all’epoca studiavo fisioterapia proprio a Torino, per cui stavo lì durante la settimana e frequentavo il collettivo del Lungo Dora, aiutavo a organizzare i concerti, andavo di notte ad attacchinare i manifesti dei live…
Avete suonato molto all’estero, praticamente in tutta Europa. A parte l’Italia, quali erano i Paesi dove più avevate riscontri?
Sicuramente, oltre all’Italia, il posto dove più eravamo apprezzati era la Germania. Questo perché era un Paese molto ricettivo e organizzato… ma non solo: ho poi compreso, in seguito, che lì i ragazzi – quindi le persone, diciamo, fra i 15 e i 25 anni – avevano un potenziale di spesa più elevato. Per cui potevano più facilmente soddisfare le loro curiosità: potevano comprarsi un disco quando volevano, potevano spostarsi per andare a vedere dei concerti. Ed è ancora così, la Germania: è un posto molto ricettivo perché c’è curiosità, c’è una buona rete che fa circolare le informazioni e, infine, c’è un maggiore potenziale di acquisto. In Italia, invece, allora c’erano sicuramente una grande affinità culturale e molta curiosità, ma ci si doveva confrontare con il grande e annoso problema nostrano: non posso farlo, non ho i soldi, mi manca il tempo. L’Olanda era un posto un po’ più complesso, come l’Inghilterra, perché lì – come adesso – arrivavano un po’ tutti: in Olanda e in Inghilterra sono sempre passati (e passano ancora) tantissimi gruppi di tutto il mondo, per cui c’era un mare di proposte e si finiva per perdersi nel mucchio… l’interesse e la curiosità c’erano sicuramente, ma c’era anche molta concorrenza.
Se non erro non siete mai stati a suonare negli Stati Uniti: è corretto?
No, non ci abbiamo suonato, effettivamente. Una cosa che un pochino mi inorgoglisce è l’avere fatto scambi – perché questo era il modo per far girare i dischi il più possibile – con Lawrence Livermore (il boss della Lookout, etichetta dei Green Day pre-fama e non solo, nda). Per qualche mese abbiamo scambiato i dischi, poi però lui ha firmato un contratto di distribuzione esclusiva con la Mordam e le cose sono cambiate. Effettivamente è sempre andata un po’ così: del resto cosa vuoi che se ne facessero, gli americani, di qualche scatolone di dischi nostri in casa? Per spiegarti: quando abbiamo suonato con gruppi americani come Fugazi, Verbal Assault, Scream e Victim’s Family, loro ci conoscevano e sapevano tutto dei Kina, però questo tipo di informazioni restava nell’ambito ristretto dei pochi davvero addentro alla scena, curiosi e aggiornatissimi. Il grosso del pubblico e di chi comprava i dischi punk, negli Stati Uniti, pensava a ben altro e ad altri gruppi. E poi cantare in italiano, forse, era un pochino penalizzante per arrivare a un tipo di audience come quella.
Di tutti i live che avete fatto, quale ricordi con più piacere?
Un concerto del dicembre del 1985 in Olanda, a Venlo, con i CCM e i Negazione. Fu una serata incredibile: c’era tantissima gente super coinvolta. Mentre suonavamo ci siamo trovati in mezzo a una carica di un’ottantina di persone che hanno invaso il palco, travolgendo e smantellando tutto: casse crollate, batteria smontata e una catasta di ragazzi ammucchiati… ci fermammo, rimettemmo tutto insieme e ricominciammo il concerto. Fra l’altro il live era trasmesso in diretta da una radio locale e io, mentre succedeva tutto quel macello, pensavo: ma chi sta ascoltando da casa, cosa capirà?
E il momento peggiore, sempre live?
Fu a Berna, dove suonammo con una formazione inglese che, però, non mi va di nominare. Questo gruppo provocò così tanto il pubblico che ci trovammo assediati fino alle 5 del mattino, senza potercene andare, perché fuori c’era gente che voleva farci a pezzi… quella band aveva talmente fatto incazzare tutti, con il suo atteggiamento negativo, che ci andammo di mezzo anche noi, pur non avendo fatto assolutamente nulla.
Spesso è stata usata, per descrivere la vostra musica, la definizione Hüsker Dü italiani e a volte Hüsker Dü delle montagne. Voi cosa ne pensavate? Vi ci ritrovavate?
A noi gli Hüsker Dü sono sempre piaciuti tantissimo e li abbiamo ascoltati davvero molto, specialmente il primo disco Land Speed Record. Di sicuro sono anche stati un riferimento, soprattutto dal momento in cui siamo rimasti in tre e ci siamo detti: ok, loro lo fanno e ci riescono, proviamoci anche noi. Ma non ci ispiravamo a loro necessariamente in senso musicale. Però, quando abbiamo fatto il primo concerto con la nuova formazione a tre, visivamente abbiamo ricordato a tutti gli Hüsker Dü perché avevamo anche noi questa cosa particolare del batterista che cantava… Sergio ha sempre cantato molto, certi pezzi li cantava interamente lui da solista – non era semplicemente una questione di fare i cori o le doppie voci. Quindi ci hanno detto subito: voi siete come gli Hüsker Dü! Ma era più una faccenda visiva: c’erano il chitarrista e il bassista davanti, che suonavano, mentre la voce arrivava da dietro… ed era una cosa strana.
Nell’universo Kina è stata molto importante la vostra etichetta: Blu Bus. Come nacque l’idea di metterla in piedi?
Cominciammo a ragionare sull’idea nel 1984 e le prime uscite sono del 1985. Tutto iniziò quando Stefano Giaccone dei Franti ci disse: «Mettiamo insieme le nostre forze e facciamo un’etichetta». Stampare dischi era costoso e da soli non ce la si faceva. Allora i Franti contribuirono alle spese della prima uscita Blu Bus, Irreale realtà, che era il primo LP dei Kina; noi, dal canto nostro, aiutammo i Franti a coprire le spese dell’album Luna nera, che era la ristampa di un nastro che avevano fatto uscire qualche anno prima. Ognuno dei gruppi, in cambio del denaro versato, si prese delle copie di entrambe le uscite: in questo modo, vendendo i dischi si raccoglieva altro denaro da usare per fare altre uscite. E questo sostanzialmente è rimasto il modello di Blu Bus per tutta la sua parabola iniziale, anche per i dischi di altri gruppi come Youngblood e Impact: si dividevano le spese a metà e si dividevano anche le copie, così ognuno poteva venderle a sua volta. Era una specie di aiuto all’autoproduzione.
Le cose però cambiarono, a partire da un certo momento: cosa accadde?
A un certo punto il volume delle attività di Blu Bus lievitò e di molto. Nella mia visione personale, questo aumento di volume accresceva il senso di ciò che stavamo facendo: il concetto era sempre lo stesso, cioè aiutare altri gruppi a uscire con dei dischi, reinvestendo il ricavato in altre produzioni. Nessuno di noi ha mai pensato neppure per un istante di tenere qualcosa per sé: nel momento in cui ci trovavamo del denaro in più, ricavato dalla vendita delle varie uscite, lo usavamo per aiutare altre band a fare dei dischi. Il problema è che l’aumento del volume di un’attività ti porta a un punto in cui non riesci più a restare sotto ai radar e diventi visibile – e diventare visibile significa che nel giro di poco potresti non esistere più, per via di fisco, finanza, Agenzia delle Entrate che potrebbero venire a cercarti. Per cui ci siamo trovati di fronte a una scelta: ridurre tantissimo l’attività – ma non volevamo, perché avrebbe voluto dire potere aiutare meno band del giro – oppure andare avanti e iniziare a fare le cose in maniera “regolare”, secondo la legge vigente.
Quindi come avete gestito la cosa?
Costituimmo una cooperativa e fummo molto criticati per questa mossa, che veniva percepita malissimo dalle schiere più dure e pure dell’autoproduzione. Col senno di poi, ho riflettuto e – come ho già anche detto in altri frangenti – sono arrivato alla conclusione che è stata una cazzata quella che abbiamo fatto. Perché dietro a tutto ciò che noi producevamo c’era un pensiero assolutamente non commerciale, e invece abbiamo dovuto inserirci in un meccanismo che era commerciale per forza. Da un certo momento in poi, avendo creato una cooperativa, ci siamo trovati a fronteggiare una quantità enorme di costi fissi annuali per pagare tasse, commercialista e altre cose – per cui dovevamo produrre denaro solo per questo, senza che fosse di alcuna utilità per la scena. Quindi, a posteriori, ho concluso che avremmo fatto meglio a rallentare, fare meno cose e continuare però a modo nostro, senza entrare nel meccanismo “ufficiale”. Anche perché questa situazione ci ha portato dei notevoli stress e sovraccarichi a livello di vita personale. Ma ce ne siamo resi conto mentre procedevamo, mentre facevamo le cose. A un certo punto pensammo che la cosa più sensata fosse fare un accordo con un grande distributore nazionale che ci aiutasse a far circolare meglio i dischi, in modo che arrivassero più capillarmente anche nei negozi… e praticamente fu come buttare dei ragazzini in una vasca piena di squali (ride). Eravamo di un’ingenuità imbarazzante, non avevamo davvero capito quello che stavamo facendo… eravamo assolutamente dei disadattati fuori luogo in quell’ambiente: non era il nostro posto (ride). Riuscimmo ad andare in qualche modo avanti fino a dicembre del 1998, poi chiudemmo tutta l’attività.
Mi ha colpito una parte del film-documentario in cui tu parli di Aosta e della provincia in generale; dici che la provincia, mediamente percepita come un luogo soffocante e inerte, però in qualche maniera ha preservato ciò che facevate. Me la spieghi meglio?
Certo. È successo che a un certo punto, verso metà anni ‘90, mi guardavo intorno e non c’era più nessuno in giro, di quelli con cui avevamo iniziato a fare cose. Ed erano tutte persone che, però, venivano da grandi città: Milano, Torino, Bologna, Roma… si era rimasti in contatto e si sapeva che tutti erano passati a fare altro. Chi aveva aperto un bar, chi era diventato giornalista, chi aveva aperto un negozio di dischi, chi si era buttato sul rap… tutti si dedicavano ad altro e pensavo: sono ancora qua a fare queste cose, però non è che mi stia annoiando. Nel 1995-96 non avevo assolutamente l’impressione di stare facendo qualcosa di passato, asfittico o vecchio: anzi, mi pareva di muovermi sempre sul territorio di frontiera che segnava le cose nuove. Quindi, se vogliamo, da un lato la provincia non ci ha sommerso di stimoli, non ci ha travolto con tsunami di novità continue… in provincia la novità continuavamo a essere noi – e peraltro non ci considerava nessuno. Se tu passavi nella sede di Blu Bus, a parte noi non incontravi nessuno di Aosta. Veniva gente da fuori. Ed è sempre stato così anche quando suonavamo: avremo fatto 350 concerti, di cui una decina ad Aosta… e nella nostra città non veniva quasi nessuno. Ricordo anche una data clamorosa, in città, in cui non si presentò un’anima: zero! Invece qualche settimana fa, a una proiezione del film documentario in Aosta, c’è stato un sold out con tanto di applausi finali… una cosa che ti porta a chiederti (ride): ma dove cacchio eravate prima? Ma cosa fate?
Collegandomi a quanto mi hai appena detto, mi viene in mente che già nei primi anni ’90 i Kina erano una delle pochissime band hardcore punk italiane della prima ondata ancora in attività. Però la scena stava mutando abbastanza radicalmente: non vi siete mai sentiti fuori posto?
Ti confesso che questo pensiero l’ho avuto alcuni mesi fa, leggendo il libro Disconnection. E pagina dopo pagina pensavo: ma quante cose stavano accadendo senza che io ne sapessi nulla? Per esempio tutti i concerti della scena del Nord-Est. Inoltre io c’ero al “mitico” live degli Youth of Today al Leonkavallo, menzionato nel libro: ero lì a vendere i dischi di Blu Bus. Ma per me non ha rappresentato quel passaggio epocale che è stato per tanti che lo scrivono nel libro… e chiaramente hanno ragione loro: quello è stato un momento di svolta, ma io non l’ho colto. E in tutto questo il concetto di straight edge non ci era estraneo, anzi – per noi lo straight edge era, però, legato a Minor Threat, Fugazi… non siamo mai stati un gruppo di ubriaconi, non abbiamo mai preso nessun tipo di droga: semplicemente era il nostro stile di vita, era una cosa che si inseriva nella trama delle cose che facevamo. Non ne facevamo una bandiera o un proclama. A questo devo aggiungere che, nei primi ’90, io a livello di gusti musicali mi stavo spostando un po’ verso cose meno furiose e rabbiose, quindi quei gruppi della nuova ondata hardcore straight edge non mi emozionavano particolarmente… pensavo: se voglio ascoltare qualcosa che pesta di brutto, mi sento il primo dei Bad Brains, il primo dei Black Flag e il primo dei Dead Kennedys e sono già bello e che soddisfatto. Quindi non ho colto questo mutamento, ci sono arrivato solo a posteriori.
Nel 1997 il meccanismo s’inceppa e i Kina decidono d’interrompere la propria corsa. Cosa è successo?
Di questo mi prendo tutta la responsabilità, perché il problema in quel momento ero io. Di fatto avevo già un figlio, ma in quel periodo si verificò una grave crisi che decurtò il potere di acquisto dei salari e col mio stipendio da fisioterapista del settore pubblico mi trovai in difficoltà: non mi era più possibile dare a mio figlio – e a mia figlia, che nacque l’anno dopo – le stesse opportunità di prima. Però avendo delle competenze che mi consentivano di cogliere opportunità professionali extra, ho dovuto smettere di utilizzare tutto il mio tempo libero per la band e l’etichetta… sono stato costretto a mollare. Per Sergio e Alberto non fu facile, anche se si dimostrarono molto comprensivi con me. Però mi rendo conto che la mia scelta ha avuto grosse ripercussioni su di loro e sulle loro vite, ho tolto loro qualcosa che era davvero importante. Nonostante tutto, in quel momento, ha prevalso la dimensione individuale su quella della scena – come in una specie di riflusso, io sono tornato nel privato. Perché il privato chiamava. Fortunatamente loro hanno subito reclutato un nuovo bassista, Robertino, che è sempre stato molto più bravo di me (quindi ci hanno guadagnato nel cambio!), hanno messo su un repertorio nuovo e, di fatto, hanno suonato per altri 15 anni come Frontiera. Io andavo ai loro concerti ed ero contento, perché mi sentivo un po’ meno in colpa vedendoli sul palco.
Come ci si sente ad avere scritto un inno generazionale come Questi anni?
Io di quel pezzo ho scritto il testo, mentre la parte musicale la facemmo tutti insieme, come succedeva di solito. Già da subito ci rendemmo conto che aveva qualcosa di particolare perché, prima ancora che lo incidessimo, quando lo facevamo ai concerti la gente lo cantava. E da questo credo si potesse già comprendere che era ciò che doveva essere, cioè non qualcosa di mio personale, ma qualcosa di nostro. Qualcosa in cui ci ritroviamo tutti: ognuno in quel brano ci vede ciò che sente di sé. Io non ho mai voluto spiegare i miei testi, penso sia un po’ come spiegare le barzellette: non va bene… quindi so cosa quel testo significa per me, ho in mente esattamente il momento in cui quelle frasi mi sono venute e a cosa erano collegate, a quali fatti della vita si riferivano. Ma sono cose che posso sapere solo io. Però il pezzo è riuscito ugualmente a comunicare qualcosa che trascende e va molto oltre i miei pensieri.
di Andrea Valentini“So ancora guardare in alto e perdermi nel cielo, mentre vibro assieme ad un torrente… e penso all’acciaio che ci stringe. Questi anni stan correndo via come macchine impazzite, li senti arrivare. Ti volti e son già lontani. Ti chiedi cosa è successo”. Difficile non avere un tuffo al cuore ogni volta che si ascolta questo incipit, ossia l’apertura di Questi anni dei Kina, una delle band più importanti e speciali della scena hardcore italiana anni ’80 insieme a “colleghi” come Negazione, Wretched, CCM, Impact, Peggio Punx, Raw Power. I Kina sono stati in attività dal 1982 al 1997, suonando in tutta Europa, pubblicando dischi e fondando un’etichetta fra le più rappresentative della scena. Nel 2019 sono stati protagonisti di un tour di reunion da cui è naturalmente scaturita l’idea del film documentario Se ho vinto, se ho perso firmato dal regista Gian Luca Rossi, che per immagini racconta la storia della band e di quella reunion durata una manciata di date.
Il documentario è da poco disponibile su DVD, in un package che comprende anche un CD con registrazioni dal tour del 2019, vari gadget/memorabilia e un bel libro con testi e foto a cura di Marco Pandin. Proprio questo box – a cui si affianca la ristampa della discografia del gruppo a cura di Spittle/Goodfellas – è l’occasione per una lunga chiacchierata con Gianpiero Capra, bassista dei Kina nonché coautore, qualche anno fa, del bel volume Come macchine impazzite dedicato all’epopea del gruppo.
Partiamo con una rapida fotografia degli inizi: come nascono i Kina?
Sergio Milani (batterista della band, nda), io e altri tre ragazzi avevamo messo in piedi, prima dei Kina, quello che a tutti gli effetti è stato il primo gruppo punk di Aosta. Facevamo sostanzialmente cover – tipo Clash, Sex Pistols, Jam – anche per imparare a suonare. A novembre del 1982 facemmo il nostro unico concerto a Milano, al Virus, dove conoscemmo tutte le persone del collettivo, fra cui Philopat. Ma, subito dopo, gli altri tre si tirarono indietro perché non volevano entrare in quel tipo di “dimensione”. Rimanemmo Sergio ed io, da soli, però volevamo continuare. Così, subito dopo, andai in quello che era l’ultimo collettivo comunista in attività ad Aosta: lì sapevo che ci avrei trovato Alberto Ventrella, che era un chitarrista. Gli chiesi: «Tu vuoi suonare con noi?». Lui accettò e da lì ripartimmo con un altro gruppo, insieme ad altre due persone – all’inizio avevamo una formazione a cinque. Un altro momento fondante fu in una gelateria (ride), dove ci trovammo a decidere un nome perché ci era stato chiesto di contribuire a una compilazione su cassetta con qualche brano.
Parliamo proprio del nome: all’epoca la tendenza era chiamare le band in modo aggressivo: Quinto Braccio, Raw Power, Negazione, Wretched, Upset Noise. Voi sceglieste un’altra via.
Sì, infatti l’oggetto della famosa discussione in gelateria fu proprio questo. All’inizio, fra le idee prese in considerazione, c’era anche un nome tipo Psychotic Qualcosa, ma in quel momento abbiamo proprio detto: «no, non vogliamo dare l’idea di sofferenza, di malattia». Certo, quello della sofferenza dell’individuo nella società era un grande tema, allora, ma la nostra scelta è stata di non evocare quella sensazione e quel pensiero. Volevamo essere noi stessi, nel nostro essere diversi rispetto a ciò che c’era in giro in quel momento, ma comunque anche con un sorriso e un po’ di sorpresa. Fin dall’inizio, infatti, uno dei nostri temi più cari è stato proprio il disattendere le attese, cioè non fare mai quello che ci si poteva aspettare.
La vostra peculiarità era evidente anche dal tenore dei testi: molto più introspettivi, incentrati su una sorta di impegno a migliorare se stessi, a lavorare sull’individuo piuttosto che aggredire il sistema o contestarlo con qualche slogan facile.
La nostra grande aspirazione in quel momento – avevamo 20 anni – era iniziare a immaginare un’altra vita rispetto a quella che ci veniva prospettata. Parliamo dei primi anni ’80, quindi di una situazione sociale ed economica radicalmente diversa rispetto a ora. Quello che era il peggiore dei destini a cui, allora, potevamo andare incontro forse adesso è diventato una specie di desiderio irrealizzabile per un sacco di ragazzi, all’epoca la tua catastrofe umana era il posto fisso. Oggi, invece, per molti è quasi un sogno (ride): fa strano! Comunque all’epoca, per dei ragazzi trasgressivi, la questione era: come possiamo costruirci una vita fuori da questi schemi preordinati, precostruiti? Come inventarci una vita che abbia un senso, che sia più diretta da noi e non si muova solo sui binari su cui ci piazzano?
Dove avete fatto i primi concerti? Ad Aosta?
In realtà con il gruppo pre-Kina abbiamo suonato un po’ di volte ad Aosta. Coi Kina, invece, siamo partiti subito in trasferta: il primo live l’abbiamo fatto a Torino, al Centro d’Incontro Lungo Dora Colletta, con i Kollettivo e gli altri gruppi attivi in città in quel momento. Il secondo a Genova, insieme agli Antistato, cioè i pre-Negazione, era febbraio del 1983. Poi in primavera abbiamo suonato ancora a Torino, sempre in Lungo Dora Colletta. In effetti il primo nostro concerto in Aosta, come Kina, fu a giugno del 1983. Dal mese dopo, poi, la formazione si stabilizzò riducendosi a tre elementi: passammo l’estate a provare con questo assetto e in autunno facemmo un altro concerto, sempre a Torino. Insomma, eravamo praticamente sempre altrove, quasi mai ad Aosta.
Avevate un forte legame con Torino: era una semplice questione di vicinanza geografica o c’era altro?
Sì, eravamo tanto legati alla scena torinese, che peraltro era molto viva. Uno dei motivi era che io all’epoca studiavo fisioterapia proprio a Torino, per cui stavo lì durante la settimana e frequentavo il collettivo del Lungo Dora, aiutavo a organizzare i concerti, andavo di notte ad attacchinare i manifesti dei live…
Avete suonato molto all’estero, praticamente in tutta Europa. A parte l’Italia, quali erano i Paesi dove più avevate riscontri?
Sicuramente, oltre all’Italia, il posto dove più eravamo apprezzati era la Germania. Questo perché era un Paese molto ricettivo e organizzato… ma non solo: ho poi compreso, in seguito, che lì i ragazzi – quindi le persone, diciamo, fra i 15 e i 25 anni – avevano un potenziale di spesa più elevato. Per cui potevano più facilmente soddisfare le loro curiosità: potevano comprarsi un disco quando volevano, potevano spostarsi per andare a vedere dei concerti. Ed è ancora così, la Germania: è un posto molto ricettivo perché c’è curiosità, c’è una buona rete che fa circolare le informazioni e, infine, c’è un maggiore potenziale di acquisto. In Italia, invece, allora c’erano sicuramente una grande affinità culturale e molta curiosità, ma ci si doveva confrontare con il grande e annoso problema nostrano: non posso farlo, non ho i soldi, mi manca il tempo. L’Olanda era un posto un po’ più complesso, come l’Inghilterra, perché lì – come adesso – arrivavano un po’ tutti: in Olanda e in Inghilterra sono sempre passati (e passano ancora) tantissimi gruppi di tutto il mondo, per cui c’era un mare di proposte e si finiva per perdersi nel mucchio… l’interesse e la curiosità c’erano sicuramente, ma c’era anche molta concorrenza.
Se non erro non siete mai stati a suonare negli Stati Uniti: è corretto?
No, non ci abbiamo suonato, effettivamente. Una cosa che un pochino mi inorgoglisce è l’avere fatto scambi – perché questo era il modo per far girare i dischi il più possibile – con Lawrence Livermore (il boss della Lookout, etichetta dei Green Day pre-fama e non solo, nda). Per qualche mese abbiamo scambiato i dischi, poi però lui ha firmato un contratto di distribuzione esclusiva con la Mordam e le cose sono cambiate. Effettivamente è sempre andata un po’ così: del resto cosa vuoi che se ne facessero, gli americani, di qualche scatolone di dischi nostri in casa? Per spiegarti: quando abbiamo suonato con gruppi americani come Fugazi, Verbal Assault, Scream e Victim’s Family, loro ci conoscevano e sapevano tutto dei Kina, però questo tipo di informazioni restava nell’ambito ristretto dei pochi davvero addentro alla scena, curiosi e aggiornatissimi. Il grosso del pubblico e di chi comprava i dischi punk, negli Stati Uniti, pensava a ben altro e ad altri gruppi. E poi cantare in italiano, forse, era un pochino penalizzante per arrivare a un tipo di audience come quella.
Di tutti i live che avete fatto, quale ricordi con più piacere?
Un concerto del dicembre del 1985 in Olanda, a Venlo, con i CCM e i Negazione. Fu una serata incredibile: c’era tantissima gente super coinvolta. Mentre suonavamo ci siamo trovati in mezzo a una carica di un’ottantina di persone che hanno invaso il palco, travolgendo e smantellando tutto: casse crollate, batteria smontata e una catasta di ragazzi ammucchiati… ci fermammo, rimettemmo tutto insieme e ricominciammo il concerto. Fra l’altro il live era trasmesso in diretta da una radio locale e io, mentre succedeva tutto quel macello, pensavo: ma chi sta ascoltando da casa, cosa capirà?
E il momento peggiore, sempre live?
Fu a Berna, dove suonammo con una formazione inglese che, però, non mi va di nominare. Questo gruppo provocò così tanto il pubblico che ci trovammo assediati fino alle 5 del mattino, senza potercene andare, perché fuori c’era gente che voleva farci a pezzi… quella band aveva talmente fatto incazzare tutti, con il suo atteggiamento negativo, che ci andammo di mezzo anche noi, pur non avendo fatto assolutamente nulla.
Spesso è stata usata, per descrivere la vostra musica, la definizione Hüsker Dü italiani e a volte Hüsker Dü delle montagne. Voi cosa ne pensavate? Vi ci ritrovavate?
A noi gli Hüsker Dü sono sempre piaciuti tantissimo e li abbiamo ascoltati davvero molto, specialmente il primo disco Land Speed Record. Di sicuro sono anche stati un riferimento, soprattutto dal momento in cui siamo rimasti in tre e ci siamo detti: ok, loro lo fanno e ci riescono, proviamoci anche noi. Ma non ci ispiravamo a loro necessariamente in senso musicale. Però, quando abbiamo fatto il primo concerto con la nuova formazione a tre, visivamente abbiamo ricordato a tutti gli Hüsker Dü perché avevamo anche noi questa cosa particolare del batterista che cantava… Sergio ha sempre cantato molto, certi pezzi li cantava interamente lui da solista – non era semplicemente una questione di fare i cori o le doppie voci. Quindi ci hanno detto subito: voi siete come gli Hüsker Dü! Ma era più una faccenda visiva: c’erano il chitarrista e il bassista davanti, che suonavano, mentre la voce arrivava da dietro… ed era una cosa strana.
Nell’universo Kina è stata molto importante la vostra etichetta: Blu Bus. Come nacque l’idea di metterla in piedi?
Cominciammo a ragionare sull’idea nel 1984 e le prime uscite sono del 1985. Tutto iniziò quando Stefano Giaccone dei Franti ci disse: «Mettiamo insieme le nostre forze e facciamo un’etichetta». Stampare dischi era costoso e da soli non ce la si faceva. Allora i Franti contribuirono alle spese della prima uscita Blu Bus, Irreale realtà, che era il primo LP dei Kina; noi, dal canto nostro, aiutammo i Franti a coprire le spese dell’album Luna nera, che era la ristampa di un nastro che avevano fatto uscire qualche anno prima. Ognuno dei gruppi, in cambio del denaro versato, si prese delle copie di entrambe le uscite: in questo modo, vendendo i dischi si raccoglieva altro denaro da usare per fare altre uscite. E questo sostanzialmente è rimasto il modello di Blu Bus per tutta la sua parabola iniziale, anche per i dischi di altri gruppi come Youngblood e Impact: si dividevano le spese a metà e si dividevano anche le copie, così ognuno poteva venderle a sua volta. Era una specie di aiuto all’autoproduzione.
Le cose però cambiarono, a partire da un certo momento: cosa accadde?
A un certo punto il volume delle attività di Blu Bus lievitò e di molto. Nella mia visione personale, questo aumento di volume accresceva il senso di ciò che stavamo facendo: il concetto era sempre lo stesso, cioè aiutare altri gruppi a uscire con dei dischi, reinvestendo il ricavato in altre produzioni. Nessuno di noi ha mai pensato neppure per un istante di tenere qualcosa per sé: nel momento in cui ci trovavamo del denaro in più, ricavato dalla vendita delle varie uscite, lo usavamo per aiutare altre band a fare dei dischi. Il problema è che l’aumento del volume di un’attività ti porta a un punto in cui non riesci più a restare sotto ai radar e diventi visibile – e diventare visibile significa che nel giro di poco potresti non esistere più, per via di fisco, finanza, Agenzia delle Entrate che potrebbero venire a cercarti. Per cui ci siamo trovati di fronte a una scelta: ridurre tantissimo l’attività – ma non volevamo, perché avrebbe voluto dire potere aiutare meno band del giro – oppure andare avanti e iniziare a fare le cose in maniera “regolare”, secondo la legge vigente.
Quindi come avete gestito la cosa?
Costituimmo una cooperativa e fummo molto criticati per questa mossa, che veniva percepita malissimo dalle schiere più dure e pure dell’autoproduzione. Col senno di poi, ho riflettuto e – come ho già anche detto in altri frangenti – sono arrivato alla conclusione che è stata una cazzata quella che abbiamo fatto. Perché dietro a tutto ciò che noi producevamo c’era un pensiero assolutamente non commerciale, e invece abbiamo dovuto inserirci in un meccanismo che era commerciale per forza. Da un certo momento in poi, avendo creato una cooperativa, ci siamo trovati a fronteggiare una quantità enorme di costi fissi annuali per pagare tasse, commercialista e altre cose – per cui dovevamo produrre denaro solo per questo, senza che fosse di alcuna utilità per la scena. Quindi, a posteriori, ho concluso che avremmo fatto meglio a rallentare, fare meno cose e continuare però a modo nostro, senza entrare nel meccanismo “ufficiale”. Anche perché questa situazione ci ha portato dei notevoli stress e sovraccarichi a livello di vita personale. Ma ce ne siamo resi conto mentre procedevamo, mentre facevamo le cose. A un certo punto pensammo che la cosa più sensata fosse fare un accordo con un grande distributore nazionale che ci aiutasse a far circolare meglio i dischi, in modo che arrivassero più capillarmente anche nei negozi… e praticamente fu come buttare dei ragazzini in una vasca piena di squali (ride). Eravamo di un’ingenuità imbarazzante, non avevamo davvero capito quello che stavamo facendo… eravamo assolutamente dei disadattati fuori luogo in quell’ambiente: non era il nostro posto (ride). Riuscimmo ad andare in qualche modo avanti fino a dicembre del 1998, poi chiudemmo tutta l’attività.
Mi ha colpito una parte del film-documentario in cui tu parli di Aosta e della provincia in generale; dici che la provincia, mediamente percepita come un luogo soffocante e inerte, però in qualche maniera ha preservato ciò che facevate. Me la spieghi meglio?
Certo. È successo che a un certo punto, verso metà anni ‘90, mi guardavo intorno e non c’era più nessuno in giro, di quelli con cui avevamo iniziato a fare cose. Ed erano tutte persone che, però, venivano da grandi città: Milano, Torino, Bologna, Roma… si era rimasti in contatto e si sapeva che tutti erano passati a fare altro. Chi aveva aperto un bar, chi era diventato giornalista, chi aveva aperto un negozio di dischi, chi si era buttato sul rap… tutti si dedicavano ad altro e pensavo: sono ancora qua a fare queste cose, però non è che mi stia annoiando. Nel 1995-96 non avevo assolutamente l’impressione di stare facendo qualcosa di passato, asfittico o vecchio: anzi, mi pareva di muovermi sempre sul territorio di frontiera che segnava le cose nuove. Quindi, se vogliamo, da un lato la provincia non ci ha sommerso di stimoli, non ci ha travolto con tsunami di novità continue… in provincia la novità continuavamo a essere noi – e peraltro non ci considerava nessuno. Se tu passavi nella sede di Blu Bus, a parte noi non incontravi nessuno di Aosta. Veniva gente da fuori. Ed è sempre stato così anche quando suonavamo: avremo fatto 350 concerti, di cui una decina ad Aosta… e nella nostra città non veniva quasi nessuno. Ricordo anche una data clamorosa, in città, in cui non si presentò un’anima: zero! Invece qualche settimana fa, a una proiezione del film documentario in Aosta, c’è stato un sold out con tanto di applausi finali… una cosa che ti porta a chiederti (ride): ma dove cacchio eravate prima? Ma cosa fate?
Collegandomi a quanto mi hai appena detto, mi viene in mente che già nei primi anni ’90 i Kina erano una delle pochissime band hardcore punk italiane della prima ondata ancora in attività. Però la scena stava mutando abbastanza radicalmente: non vi siete mai sentiti fuori posto?
Ti confesso che questo pensiero l’ho avuto alcuni mesi fa, leggendo il libro Disconnection. E pagina dopo pagina pensavo: ma quante cose stavano accadendo senza che io ne sapessi nulla? Per esempio tutti i concerti della scena del Nord-Est. Inoltre io c’ero al “mitico” live degli Youth of Today al Leonkavallo, menzionato nel libro: ero lì a vendere i dischi di Blu Bus. Ma per me non ha rappresentato quel passaggio epocale che è stato per tanti che lo scrivono nel libro… e chiaramente hanno ragione loro: quello è stato un momento di svolta, ma io non l’ho colto. E in tutto questo il concetto di straight edge non ci era estraneo, anzi – per noi lo straight edge era, però, legato a Minor Threat, Fugazi… non siamo mai stati un gruppo di ubriaconi, non abbiamo mai preso nessun tipo di droga: semplicemente era il nostro stile di vita, era una cosa che si inseriva nella trama delle cose che facevamo. Non ne facevamo una bandiera o un proclama. A questo devo aggiungere che, nei primi ’90, io a livello di gusti musicali mi stavo spostando un po’ verso cose meno furiose e rabbiose, quindi quei gruppi della nuova ondata hardcore straight edge non mi emozionavano particolarmente… pensavo: se voglio ascoltare qualcosa che pesta di brutto, mi sento il primo dei Bad Brains, il primo dei Black Flag e il primo dei Dead Kennedys e sono già bello e che soddisfatto. Quindi non ho colto questo mutamento, ci sono arrivato solo a posteriori.
Nel 1997 il meccanismo s’inceppa e i Kina decidono d’interrompere la propria corsa. Cosa è successo?
Di questo mi prendo tutta la responsabilità, perché il problema in quel momento ero io. Di fatto avevo già un figlio, ma in quel periodo si verificò una grave crisi che decurtò il potere di acquisto dei salari e col mio stipendio da fisioterapista del settore pubblico mi trovai in difficoltà: non mi era più possibile dare a mio figlio – e a mia figlia, che nacque l’anno dopo – le stesse opportunità di prima. Però avendo delle competenze che mi consentivano di cogliere opportunità professionali extra, ho dovuto smettere di utilizzare tutto il mio tempo libero per la band e l’etichetta… sono stato costretto a mollare. Per Sergio e Alberto non fu facile, anche se si dimostrarono molto comprensivi con me. Però mi rendo conto che la mia scelta ha avuto grosse ripercussioni su di loro e sulle loro vite, ho tolto loro qualcosa che era davvero importante. Nonostante tutto, in quel momento, ha prevalso la dimensione individuale su quella della scena – come in una specie di riflusso, io sono tornato nel privato. Perché il privato chiamava. Fortunatamente loro hanno subito reclutato un nuovo bassista, Robertino, che è sempre stato molto più bravo di me (quindi ci hanno guadagnato nel cambio!), hanno messo su un repertorio nuovo e, di fatto, hanno suonato per altri 15 anni come Frontiera. Io andavo ai loro concerti ed ero contento, perché mi sentivo un po’ meno in colpa vedendoli sul palco.
Come ci si sente ad avere scritto un inno generazionale come Questi anni?
Io di quel pezzo ho scritto il testo, mentre la parte musicale la facemmo tutti insieme, come succedeva di solito. Già da subito ci rendemmo conto che aveva qualcosa di particolare perché, prima ancora che lo incidessimo, quando lo facevamo ai concerti la gente lo cantava. E da questo credo si potesse già comprendere che era ciò che doveva essere, cioè non qualcosa di mio personale, ma qualcosa di nostro. Qualcosa in cui ci ritroviamo tutti: ognuno in quel brano ci vede ciò che sente di sé. Io non ho mai voluto spiegare i miei testi, penso sia un po’ come spiegare le barzellette: non va bene… quindi so cosa quel testo significa per me, ho in mente esattamente il momento in cui quelle frasi mi sono venute e a cosa erano collegate, a quali fatti della vita si riferivano. Ma sono cose che posso sapere solo io. Però il pezzo è riuscito ugualmente a comunicare qualcosa che trascende e va molto oltre i miei pensieri.
thebookishexplorer.com, 16 marzo 2018 Gianpiero & Stephania – Come macchine impazzite
Avvertenza, questo non è un libro comune, è un libro per chi cerca una sostanza, un’avventura, una cultura. È un libro per chi il punk lo vive, è Come macchine impazzite.
Il punk non è solo canzoni veloci e nichilismo, il punk è una cultura, un’attitudine e una forza che viene da dentro, verrebbe da dire “o ce l’hai o non ce l’hai”, non ci sono vie di mezzo. Non è il look, non è solo la musica, è il coraggio di alzare la testa, di pensare, di agire.
In questo libro a quattro mani pubblicato dall’Agenzia X ritroviamo tutto ciò attraverso una doppia storia, quella di Giampiero, bassista e fondatore dei Kina, uno dei gruppi punk più importanti della scena punk italiana degli anni ’80, e di Stephania Giacobone che scopre i Kina e inizia un percorso di rinascita attraverso parole, musica e occupazioni.
Un libro nelle cui parole mi ritrovo, ricercare una via di fuga, ricercare la libertà, una modalità di espressione dei sentimenti che si avvolgono dentro di noi e che possono esplodere se incanalati in un’onda creativa, come lo è il punk.
Un libro che è anche un’avventura tra le strade d’Europa, un’avventura senza confini, un tuffo nel passato e un’occasione per scoprire cos’è davvero fare musica e vivere delle proprie credenze e speranze. Non solo, Come macchine impazzite, essendo una doppia storia, è anche un racconto di rinascita e di speranza, di lotta contro il sistema e contro il buio dell’anima. Un libro consigliatissimo, a chi ama e vive il punk ma anche per chi ama semplicemente le storie ben scritte, le storie che vale la pena leggere.
Stefania GrossoIl punk non è solo canzoni veloci e nichilismo, il punk è una cultura, un’attitudine e una forza che viene da dentro, verrebbe da dire “o ce l’hai o non ce l’hai”, non ci sono vie di mezzo. Non è il look, non è solo la musica, è il coraggio di alzare la testa, di pensare, di agire.
In questo libro a quattro mani pubblicato dall’Agenzia X ritroviamo tutto ciò attraverso una doppia storia, quella di Giampiero, bassista e fondatore dei Kina, uno dei gruppi punk più importanti della scena punk italiana degli anni ’80, e di Stephania Giacobone che scopre i Kina e inizia un percorso di rinascita attraverso parole, musica e occupazioni.
Un libro nelle cui parole mi ritrovo, ricercare una via di fuga, ricercare la libertà, una modalità di espressione dei sentimenti che si avvolgono dentro di noi e che possono esplodere se incanalati in un’onda creativa, come lo è il punk.
Un libro che è anche un’avventura tra le strade d’Europa, un’avventura senza confini, un tuffo nel passato e un’occasione per scoprire cos’è davvero fare musica e vivere delle proprie credenze e speranze. Non solo, Come macchine impazzite, essendo una doppia storia, è anche un racconto di rinascita e di speranza, di lotta contro il sistema e contro il buio dell’anima. Un libro consigliatissimo, a chi ama e vive il punk ma anche per chi ama semplicemente le storie ben scritte, le storie che vale la pena leggere.
noisey.vice.com, 6 ottobre 2017 Intervista a Giampiero Capra
Era qualche anno fa. Mi sono imbattuto nei Kina come lo potrebbero fare tutti. Sei nella fase della vita in cui hai scoperto i Fugazi e i Minutemen, innamorarsi della musica punk hardcore—e dintorni—è un po’ come una rivelazione. D’un tratto qualsiasi band rock assorbita durante i primi ascolti da foruncoloso appassionato di musica, che siano Lynyrd Skynyrd o Led Zeppelin, finisce inevitabilmente in secondo piano. Quello che nessuno ti aveva detto, e che gli ascolti di Waiting Room o Corona ti fanno percepire, è una strana sensazione di fratellanza nei confronti di quella musica. In qualche modo quei gruppi riescono a dirti qualcosa, ti parlano dritti dritti dentro la cassa toracica, come se fossero cosa tua. È un po’ come l’oroscopo. Non è scienza, è mistica. Sì, che è scritto da un tizio che non ti conosce e di te non ne sa proprio un cazzo. Ma chi crede nell’oroscopo ha quella sorta di conforto nel rileggersi sul trafiletto settimanale e pensa che le proprie ascendenze astrali lo facciano stare bene nei giorni che verranno. Non c’è nessuna ambizione scientifica, è puro bisogno di sentirsi guidati.
Dopo l’hardcore americano si finisce per forza di cose ad ascoltare quello di casa propria. È così che ho scoperto i Kina, e non posso negare che io li abbia amati in particolar modo per una canzone che si trova nel loro album più importante, che si chiama Se ho vinto, se ho perso. È il 1989 e negli anni precedenti la scena italiana ha assistito a Lo spirito continua dei Negazione, Il giardino delle quindici pietre dei Franti, c’è stato lo scioglimento dei Declino e dei Nerorgasmo. L’album riflette le intenzioni dei tre musicisti, Capra, Milani e Ventrella, che vogliono sperimentare, aggiungere la poesia e levare un po’ velocità e durezza al punk. Ne escono fuori canzoni difficili da dimenticare, tipo Camminando di Notte o Sfoglio i miei giorni. Ma soprattutto Questi anni. Questi anni è sempre rimasta nei miei ascolti settimanali negli anni a venire, e credo che sia la canzone della provincia (italiana) per eccellenza.
Vivo lontano dalla mia città natale da ormai più di dieci anni, ma quando ci ritorno vengo investito da un’ondata di malinconia. Il quartiere nel quale sono cresciuto è uno di quei piccoli dormitori ai confini con la campagna, dove dominano le luci silenziose dei pali che guidano le strade e i cani abbaiano e si riescono a sentire i versi dei gatti che si accoppiano. Non ho mai capito quel senso di abbattimento che provo quelle poche volte che salgo in macchina e attraverso il quartiere, tornando verso casa. È qui che entrano in scena in Kina, ancora una volta nella mia vita, come ogni anno. Quest’estate c’era solo una canzone che riuscivo ad ascoltare nel tragitto verso casa, ed era proprio Questi anni. O in generale tutto Se ho vinto, se ho perso.
Ogni grande canzone è in grado di sedurti nell’intimo, tirare fuori qualcosa che chissà come è capace di modellarsi sulla geografia dei tuoi posti e delle tue persone. Il mio gruppo preferito sono gli Hüsker Dü e quando ho ascoltato i Kina non ho potuto non trovarci delle affinità. Per me c’è un legame nella semantica stessa dei pezzi, nel modo in cui fanno i cori, e di aver lavato entrambi i panni della loro musica nelle acque melodiche del rock. In effetti i Kina venivano chiamati ai tempi Huskers from the mountain. La cosa bella è che ho scoperto che quando i Kina sentirono questo paragone, durante i primi tour in giro per l’Europa, il gruppo di Bob Mould non l’avevano mai ascoltato.
L’ho scoperto leggendo Come macchine impazzite, un esperimento letterario edito da Agenzia X. È una biografia a quattro mani: due vite, quella di Gianpiero Capra e quella di Stephania Giacobone. La galoppata dei Kina incrocia l’esistenza di Stephania, attraverso poster del passato sui muri scalcinati dei centri sociali, tracce archeologiche della storia della band che negli anni ha finito i suoi concerti, sciogliendosi dopo qualche piccola reunion.
Per chi non l’avesse ancora capito Gianpiero Capra è il fondatore dei Kina, il bassista, compositore per metà dei testi della band. L’altro autore è stato Sergio Milani, che dopo l’esperienza dei Kina fonderà, assieme a Alberto Ventrella, i Frontiera. È leggendo l’autobiografia che l’immagine dei Kina prende dimensioni geometriche reali, non quelle alterate e intime della band da ascolti notturni e provinciali. È la storia di un gruppo di ragazzi di Aosta che finisce nel giro clamoroso della scena torinese. Salgono su un furgoncino e attraversano l’Europa. In centinaia di centri sociali del vecchio continente, molti di questi oggi sepolti dalla polvere, i Kina hanno lasciato le loro urla.
Capra oggi è una persona sotto certi aspetti molto diversa dal ventenne che imbracciava il basso. Nonostante io l’abbia conosciuto solo indirettamente, tramite scambio di email, ne ho potuto percepire il carisma da leader e da scrittore. I suoi testi e quelli di Sergio hanno influenzato la generazione successiva e mi piace pensare che i Kina possano rimanere gli ascolti dei ragazzini di oggi che domani scopriranno la bellezza di una “band che potrebbe essere la tua vita”.
È finalmente in ristampa Se ho vinto, se ho perso in vinile. La butto lì. Basta scrivere a Gianpiero direttamente su Facebook. Io mi sono fatto mettere da parte una copia autografata.
Noisey: Gianpiero, chi sei oggi? Grazie a internet (e successivamente all’autobiografia) ho scoperto una carriera ormai ventennale di fisioterapista, e addirittura insegni o hai insegnato all’Università. Manca qualcosa?
Gianpiero Capra: In realtà io sono sempre stato quella cosa lì, anzi, tutto è iniziato quando da Aosta sono sceso a Torino nel settembre 1981 per studiare fisioterapia. Ci siamo permessi tour lunghi tra il 1984 e 86 perché eravamo tutti disoccupati, ma dal 1987 ho iniziato a lavorare in ospedale come fisioterapista, nel 1999 mi sono trasferito a Milano e entrato nella clinica ortopedica dell’Università Statale di Milano e ho iniziato ad insegnare nel corso di laurea in fisioterapia (professore a contratto, i paria dell’università italiana); nel 2003 mi sono diplomato osteopata, nel 2008 sono diventato Fellow della Society of Orthopaedic Medicine di Liverpool e ho iniziato ad insegnare per loro in Italia e in Inghilterra. Nel 2009 vengo assunto come docente professionista presso la SUPSI di Lugano per il corso di laurea in fisioterapia, dal 2011 sono il responsabile della formazione post laurea, dal 2012 vivo in Svizzera e sono molto felice di questo pezzo di vita, se posso essere onesto.
Torniamo indietro nel tempo, al 1982. Quanto è cambiata Aosta in trentacinque anni? E in cosa? Una cittadina di trentamila anime circondata dalle montagne. Ho l’impressione che alla fine dei conti le cose lassù cambino molto lentamente.
Sì, è vero, la provincia è lenta, ma ho sempre pensato che per certe cose fosse ok così. Avere più tempo vuol dire riflettere di più, vuol dire sentire di più le cose, vuol dire anche essere più stabili, approfondire di più le cose che stai facendo. Certo, spesso vuol dire anche ignoranza e isolamento. L’attitudine fa la differenza.
Quanti eravate a suonare punk e derivazioni in città?
Nel 1982 io e Sergio abbiamo incontrato Alberto. Ecco, a partire da quel momento c’erano tre musicisti punk ad Aosta, i primi e gli unici per ancora un po’ di anni.
Ti ricordi il momento esatto in cui hai detto "Ok, è il momento di fondare una band"?
Certo, ero con Sergio a Radio Aosta International, una radio libera in centro ad Aosta. Stavamo ascoltando una raffica di 7" di Ramones, Clash e Fresh Fruits for Rotten Vegetables dei Dead Kennedys, e ce lo siamo detto quasi in contemporanea.
Fin dagli anni di Irreale Realtà siete stati paragonati agli Hüsker Dü, ma voi nemmeno sapevate della loro esistenza. Poco prima di sciogliervi, nel 1997, avete anche suonato due cover per un album tributo. Penso che la vostra vicinanza non fosse a livello strumentale, o vocale, o nella coincidenza di essere stati entrambi un power-trio (non sempre), ma per un’attitudine prettamente malinconica che brillava nei cori e nei testi. Siete stati tra i primi a raccontare la solitudine della provincia. Da dove derivava questa poetica? C’entrava il grigiore sociale dei tempi, o era qualcosa di più intimo?
Nei primi anni Ottanta nessun gruppo di Torino (eravamo assimilati alla scena torinese di fatto) ha mai scritto un brano meno che disperato. Va’ a vedere i testi di Negazione, Declino, Contrazione, penso che siano facili da trovare. Non era uno stereotipo, eravamo veramente presi male. Erano anni cupi per tutti. Per tutti gli anni Settanta e fino al 1982 non era così difficile finire in sparatorie o esecuzioni in strada, nel 1981 a Torino la FIAT ha licenziato migliaia di operai e di impiegati. Torino era veramente cupa. Alle 19 tutto chiuso e nessuno per strada, tutti lavoravano alla FIAT e la FIAT stava licenziando quasi tutti, il futuro appariva veramente grigio e pieno di problemi. Noi eravamo immersi in quella atmosfera, ma ad Aosta mancavano anche le cose che a Torino davano un senso alle cose, tipo certe radio libere quali Radio Flash dove DJ illuminati facevano conoscere quello che stava succedendo nel mondo; o negozi di dischi dove potevi comprare Hüsker Dü, Adolescents, Black Flag, T.S.O.L., D.O.A., Dead Kennedys... E poi c’erano i concerti al Fire con Peggio Punx, Wretched, Rough, 5° Braccio, Kollettivo, Blue Vomit. Insomma, a Torino c’era il nostro mondo, ad Aosta no. E nessuno capiva di che cosa stavamo parlando. È proprio vero: in una scena di gente presa male, ad Aosta noi eravamo presi malissimo.
Mi diresti quali sono le band che sono state legate alla vita dei Kina? Compagni di viaggio, di concerto, di feste e di litigi.
Siamo sempre stati fratelli con tutti i gruppi di Torino di quel periodo: 5° Braccio, Kollettivo, Declino, Negazione, Franti, Contrazione (in cui ho suonato per un paio di anni), ma anche con altri di altre città come Indigesti, Peggio Punx, Wretched, Raf Punk, Teatro Quotidiano, Impact e tanti altri. Si condivideva tutto: il palco, il mangiare, si dormiva nei sacchi a pelo sul palco, si faceva autostop il giorno dopo. Una vita da grandi rock star.
In Nessuno Schema, da Irreale Realtà, scrivi: "Vivere senza autorità / Sono le regole ad uccidere la mente / La ribellione al potere è giusta / Mi rende ciò che mi è stato rubato". Sono frasi legate a una giovinezza immatura, o sei riuscito a rimanere libero dagli schemi anche diventando adulto?
Il testo di Nessuno Schema in realtà l’ha scritto Sergio, ci siamo sempre divisi la scrittura dei testi quasi a metà per ogni disco. Detto ciò, condividevamo le cose che dicevamo. Come vedo adesso quelle frasi? Un po’ semplici e un po’ ingenue, ma ci sta, avevamo 20 anni scarsi. Se devo dirti la verità mi confronto con quelle frasi quasi tutti i giorni e non mi sento affatto male, ma sono storie mie che non racconterò qui.
Mi piacerebbe sapere qual è stato per te il momento più bello nella storia della band.
Tra ottobre e dicembre 1986 siamo stati in giro ininterrottamente in Europa col nostro furgone. È stato uno dei momenti più liberi della mia vita, per quanto veramente impegnativo. Ho imparato tantissimo. Abbiamo viaggiato in un’Europa dove le frontiere erano veramente toste, incrociando culture, lingue, storie. Abbiamo imparato a capire gli altri, a sentire il pubblico durante i concerti, a trovare i posti senza navigatore… non era facile allora, ci hai mai pensato? Ogni sera una città nuova e trovavamo sempre quel piccolo locale alternativo che ci aveva contattato, magari con una lettera 6 mesi prima, con un indirizzo su un pezzo di carta, ma la città stava in un posto dove la gente parlava una lingua che non conoscevamo. A volte mi chiedo come abbiamo fatto a trovare la Mehringdam a Berlino la prima volta che ci siamo andati, ma l’abbiamo fatto e senza troppi problemi in realtà. Siamo uscititi dalla provincia e siamo diventati cittadini del mondo, senza assemblee o lunghe serate in gruppi di autocoscienza, semplicemente con i nostri mezzi da quattro soldi e con le nostre canzonacce stonate e scordate. Avevamo una gran faccia tosta.
È inevitabile chiederti di Questi anni. È un capolavoro senza tempo, per me uno dei pezzi italiani più belli di sempre. Mi racconti di come è nata e cosa significasse per te il testo di quella canzone?
Questa l’ho scritta io. Non mi piace molto spiegare i miei testi, è come spiegare le barzellette. Li ho scritti quasi tutti sostanzialmente di getto, sono tutti dei flussi di coscienza e fa strano spiegarli. In breve, però, "Questi Anni" racconta il periodo che stavamo vivendo, agosto 1987. Avevamo iniziato tutti a lavorare, ci stavamo allontanando dall’essere liberi e selvaggi come eravamo stati fino ad un anno prima, ma dentro eravamo sempre gli stessi di prima. Era la vita reale che stava bussando alla porta e stava chiedendo al nostro mondo fantastico di farsi da parte. Era il momento della riflessione, quando cerchi l’essenza delle tue cose dentro di te e cerchi di capire cosa può essere cambiato senza che la dignità finisca sotto le scarpe. È la sensazione che sta dentro a Se ho vinto se ho perso, una nostalgia per un passato recente di irruenza e di semplicità ma anche la corsa verso un mondo più adulto, più complesso e per certi versi più consapevole. Ecco, tutto qui. Le normali fasi della vita vissute in pubblico e cristallizzate in pezzi di plastica che giravano a 33 giri al minuto.
Avete girato i centri sociali di mezza Europa. Ho sempre pensato che la vostra musica fosse, soprattutto nei testi, un inno a un’esistenza libera dalle regole, che nelle dinamiche del centro sociale il vostro sogno potesse realizzarsi. Buona parte dei luoghi nei quali avete suonato non esistono più, mi viene da citare lo Scuria di Foggia, tanto per dirne uno. Oggi in Italia gli ultimi centri sociali storici stanno venendo sgomberati a spron battuto e il più delle volte non riaprono. A Bologna, dove vivo, sono stati chiusi Atlantide, il Làbas, e l’XM24 è a rischio. L’Europa dei Kina non è lontana solo negli anni, ma anche nei modi in cui le persone, giovani e adulti, percepiscono certi luoghi. Non voglio criticare la contemporaneità, vorrei solo capire meglio. Ma l’impressione, leggendo Come macchine impazzite, è che l’assenza dei social network moderni e della velocità del web vi desse la possibilità di creare reti sociali per le quali i centri sociali erano indispensabili. Oggi le cose si fanno in modo diverso. Cosa ne pensi?
Penso che la differenza stia quasi solo nelle apparenze e poco nella sostanza. Adesso è tutto veloce e facile, ma penso che siano apparenze, parlano della superficie delle cose e nulla più. Adesso in un attimo trovi la definizione di Paired T-test in statistica, ma quando l’hai trovata, conosci abbastanza bene l’inglese per capire che cosa è scritto in quella pagina di Wikipedia? Sai esattamente a cosa si riferisce quando parla di paired groups of the same population? E soprattutto sai cosa fartene? Parlo di statistica per fare un esempio lontano da ciò di cui stiamo parlando, ma i criteri sono gli stessi. Ci vuole un secondo a trovare un’informazione, ci vogliono anni per sapere che cosa sia quell’informazione, la sua storia, i suoi significati e il suo utilizzo.
Non solo questo. Ora le informazioni sono tante e onestamente ogni tanto troppe, se vado su un motore di ricerca scientifico, che uso spesso, e digito low back pain mi escono fuori 30.000 articoli scientifici. Cosa me ne faccio? Li leggo tutti? Come li seleziono? E di quelli rimasti cosa faccio? E per arrivare alla sostanza, quando ho davanti a me un paziente che soffre di lombalgia da 10 anni, quei 30.000 articoli mi dicono qualcosa di utile? Ecco, non direi che oggi si risparmia del tempo: forse oggi tutti dobbiamo essere più selettivi, più acuti e più intelligenti di prima. Io penso che queste caratteristiche umane si coltivino e facciano crescere con l’interazione umana, da una tastiera non esce nulla del genere.
Quindi oggi i centri sociali hanno senso? Certo che sì. Sono il luogo dove si trova la gente, si parla, si confronta, si scontra, ride, si dà delle gran pacche, litiga, si ritrova, si accorda per poi litigare ancora e avanti così, ma non come dei guerrieri da tastiera con post da squilibrati. Lì si trovano le persone vere, quelle che comunicano per il 20% col verbale e per l’80% col non verbale, con posture e movimenti che nemmeno su Skype puoi cogliere. Noi comunicavamo con le lettere e con i telefoni a gettone; eravamo solo più lenti, e avevamo molto chiaro che le persone però si dovevano incontrare e frequentare, solo da lì poteva nascere qualcosa. Adesso? Io penso che sia ancora così.
Che musica ascolti oggi? Hai delle band preferite italiane o non? In realtà mi piacerebbe sapere se ascolti qualcosa delle nuove scene hardcore.
Non vorrei deluderti. In questo momento sto ascoltando Charlie Haden, un contrabbassista americano, il disco prima era dei Farside e quello prima era una compilazione Northern Soul. Ecco, questo mi è rimasto da quei tempi: ascolto dischi. Ho importato sul mio Mac 18.000 brani e me li ascolto al lavoro o con l’iPod in macchina, ma a casa mi piace mettere su dischi, LP o CD. Quest’estate sono andato coi miei figli a vedere i Green Day, poi ho visto Eddie Vedder da solo a Firenze, un anno fa sono andato a vedere i Cure. Ho smesso di seguire e di scoprire nuovi gruppi HC quando ho smesso di vendere dischi nel 1996. Ad un certo punto conoscere nuovi gruppi era un lavoro e non un piacere. In fondo a me sono sempre piaciuti Talking Heads, Psychedelic Furs, Wall of Woodoo, Echo and the Bunnymen, ma anche Black Flag, Minutemen, M.D.C., Crass, Stupids, Government Issue, Scream, Minor Threat, Embrace, Fugazi. L’ultimo gruppo italiano che mi è piaciuto tantissimo sono stati gli Eversor, che poi sono diventati Miles Apart. Insomma a casa ho 2000 LP e 1500 cd. Non è un problema scegliere qualcosa dagli scaffali.
Sei ancora in contatto con Sergio e Alberto? La storia è finita per sempre o, chi lo sa, la voglia di un ultimo concerto c’è ancora?
Sì, ci vediamo ogni tanto. Io non abito più ad Aosta da quasi 20 anni, loro sono rimasti lì. Ogni tanto si scassano qualcosa e mi arrivano in studio per le riparazioni del caso, così poi ne approfittiamo per farci una pizza e raccontarci gli ultimi mesi di vita. Non abbiamo mai parlato di concerti/reunion. Siamo un po’ artrosici, con meno capelli, e quelli che ci sono sono bianchi, la memoria non è più quella di una volta e potremmo dimenticarci come fa un pezzo, insomma, forse saremmo un triste spettacolo. Va bene così, chi vuole sapere come eravamo dal vivo può andare su Youtube e ci trova nei momenti migliori. Se mi permetti volevo ricordare una cosa. In giugno abbiamo ristampato Se ho vinto, se ho perso in vinile, era sold out da anni. Ne abbiamo un po’ in cantina, se qualcuno lo vuole mi può scrivere.
di Diego De AngelisDopo l’hardcore americano si finisce per forza di cose ad ascoltare quello di casa propria. È così che ho scoperto i Kina, e non posso negare che io li abbia amati in particolar modo per una canzone che si trova nel loro album più importante, che si chiama Se ho vinto, se ho perso. È il 1989 e negli anni precedenti la scena italiana ha assistito a Lo spirito continua dei Negazione, Il giardino delle quindici pietre dei Franti, c’è stato lo scioglimento dei Declino e dei Nerorgasmo. L’album riflette le intenzioni dei tre musicisti, Capra, Milani e Ventrella, che vogliono sperimentare, aggiungere la poesia e levare un po’ velocità e durezza al punk. Ne escono fuori canzoni difficili da dimenticare, tipo Camminando di Notte o Sfoglio i miei giorni. Ma soprattutto Questi anni. Questi anni è sempre rimasta nei miei ascolti settimanali negli anni a venire, e credo che sia la canzone della provincia (italiana) per eccellenza.
Vivo lontano dalla mia città natale da ormai più di dieci anni, ma quando ci ritorno vengo investito da un’ondata di malinconia. Il quartiere nel quale sono cresciuto è uno di quei piccoli dormitori ai confini con la campagna, dove dominano le luci silenziose dei pali che guidano le strade e i cani abbaiano e si riescono a sentire i versi dei gatti che si accoppiano. Non ho mai capito quel senso di abbattimento che provo quelle poche volte che salgo in macchina e attraverso il quartiere, tornando verso casa. È qui che entrano in scena in Kina, ancora una volta nella mia vita, come ogni anno. Quest’estate c’era solo una canzone che riuscivo ad ascoltare nel tragitto verso casa, ed era proprio Questi anni. O in generale tutto Se ho vinto, se ho perso.
Ogni grande canzone è in grado di sedurti nell’intimo, tirare fuori qualcosa che chissà come è capace di modellarsi sulla geografia dei tuoi posti e delle tue persone. Il mio gruppo preferito sono gli Hüsker Dü e quando ho ascoltato i Kina non ho potuto non trovarci delle affinità. Per me c’è un legame nella semantica stessa dei pezzi, nel modo in cui fanno i cori, e di aver lavato entrambi i panni della loro musica nelle acque melodiche del rock. In effetti i Kina venivano chiamati ai tempi Huskers from the mountain. La cosa bella è che ho scoperto che quando i Kina sentirono questo paragone, durante i primi tour in giro per l’Europa, il gruppo di Bob Mould non l’avevano mai ascoltato.
L’ho scoperto leggendo Come macchine impazzite, un esperimento letterario edito da Agenzia X. È una biografia a quattro mani: due vite, quella di Gianpiero Capra e quella di Stephania Giacobone. La galoppata dei Kina incrocia l’esistenza di Stephania, attraverso poster del passato sui muri scalcinati dei centri sociali, tracce archeologiche della storia della band che negli anni ha finito i suoi concerti, sciogliendosi dopo qualche piccola reunion.
Per chi non l’avesse ancora capito Gianpiero Capra è il fondatore dei Kina, il bassista, compositore per metà dei testi della band. L’altro autore è stato Sergio Milani, che dopo l’esperienza dei Kina fonderà, assieme a Alberto Ventrella, i Frontiera. È leggendo l’autobiografia che l’immagine dei Kina prende dimensioni geometriche reali, non quelle alterate e intime della band da ascolti notturni e provinciali. È la storia di un gruppo di ragazzi di Aosta che finisce nel giro clamoroso della scena torinese. Salgono su un furgoncino e attraversano l’Europa. In centinaia di centri sociali del vecchio continente, molti di questi oggi sepolti dalla polvere, i Kina hanno lasciato le loro urla.
Capra oggi è una persona sotto certi aspetti molto diversa dal ventenne che imbracciava il basso. Nonostante io l’abbia conosciuto solo indirettamente, tramite scambio di email, ne ho potuto percepire il carisma da leader e da scrittore. I suoi testi e quelli di Sergio hanno influenzato la generazione successiva e mi piace pensare che i Kina possano rimanere gli ascolti dei ragazzini di oggi che domani scopriranno la bellezza di una “band che potrebbe essere la tua vita”.
È finalmente in ristampa Se ho vinto, se ho perso in vinile. La butto lì. Basta scrivere a Gianpiero direttamente su Facebook. Io mi sono fatto mettere da parte una copia autografata.
Noisey: Gianpiero, chi sei oggi? Grazie a internet (e successivamente all’autobiografia) ho scoperto una carriera ormai ventennale di fisioterapista, e addirittura insegni o hai insegnato all’Università. Manca qualcosa?
Gianpiero Capra: In realtà io sono sempre stato quella cosa lì, anzi, tutto è iniziato quando da Aosta sono sceso a Torino nel settembre 1981 per studiare fisioterapia. Ci siamo permessi tour lunghi tra il 1984 e 86 perché eravamo tutti disoccupati, ma dal 1987 ho iniziato a lavorare in ospedale come fisioterapista, nel 1999 mi sono trasferito a Milano e entrato nella clinica ortopedica dell’Università Statale di Milano e ho iniziato ad insegnare nel corso di laurea in fisioterapia (professore a contratto, i paria dell’università italiana); nel 2003 mi sono diplomato osteopata, nel 2008 sono diventato Fellow della Society of Orthopaedic Medicine di Liverpool e ho iniziato ad insegnare per loro in Italia e in Inghilterra. Nel 2009 vengo assunto come docente professionista presso la SUPSI di Lugano per il corso di laurea in fisioterapia, dal 2011 sono il responsabile della formazione post laurea, dal 2012 vivo in Svizzera e sono molto felice di questo pezzo di vita, se posso essere onesto.
Torniamo indietro nel tempo, al 1982. Quanto è cambiata Aosta in trentacinque anni? E in cosa? Una cittadina di trentamila anime circondata dalle montagne. Ho l’impressione che alla fine dei conti le cose lassù cambino molto lentamente.
Sì, è vero, la provincia è lenta, ma ho sempre pensato che per certe cose fosse ok così. Avere più tempo vuol dire riflettere di più, vuol dire sentire di più le cose, vuol dire anche essere più stabili, approfondire di più le cose che stai facendo. Certo, spesso vuol dire anche ignoranza e isolamento. L’attitudine fa la differenza.
Quanti eravate a suonare punk e derivazioni in città?
Nel 1982 io e Sergio abbiamo incontrato Alberto. Ecco, a partire da quel momento c’erano tre musicisti punk ad Aosta, i primi e gli unici per ancora un po’ di anni.
Ti ricordi il momento esatto in cui hai detto "Ok, è il momento di fondare una band"?
Certo, ero con Sergio a Radio Aosta International, una radio libera in centro ad Aosta. Stavamo ascoltando una raffica di 7" di Ramones, Clash e Fresh Fruits for Rotten Vegetables dei Dead Kennedys, e ce lo siamo detto quasi in contemporanea.
Fin dagli anni di Irreale Realtà siete stati paragonati agli Hüsker Dü, ma voi nemmeno sapevate della loro esistenza. Poco prima di sciogliervi, nel 1997, avete anche suonato due cover per un album tributo. Penso che la vostra vicinanza non fosse a livello strumentale, o vocale, o nella coincidenza di essere stati entrambi un power-trio (non sempre), ma per un’attitudine prettamente malinconica che brillava nei cori e nei testi. Siete stati tra i primi a raccontare la solitudine della provincia. Da dove derivava questa poetica? C’entrava il grigiore sociale dei tempi, o era qualcosa di più intimo?
Nei primi anni Ottanta nessun gruppo di Torino (eravamo assimilati alla scena torinese di fatto) ha mai scritto un brano meno che disperato. Va’ a vedere i testi di Negazione, Declino, Contrazione, penso che siano facili da trovare. Non era uno stereotipo, eravamo veramente presi male. Erano anni cupi per tutti. Per tutti gli anni Settanta e fino al 1982 non era così difficile finire in sparatorie o esecuzioni in strada, nel 1981 a Torino la FIAT ha licenziato migliaia di operai e di impiegati. Torino era veramente cupa. Alle 19 tutto chiuso e nessuno per strada, tutti lavoravano alla FIAT e la FIAT stava licenziando quasi tutti, il futuro appariva veramente grigio e pieno di problemi. Noi eravamo immersi in quella atmosfera, ma ad Aosta mancavano anche le cose che a Torino davano un senso alle cose, tipo certe radio libere quali Radio Flash dove DJ illuminati facevano conoscere quello che stava succedendo nel mondo; o negozi di dischi dove potevi comprare Hüsker Dü, Adolescents, Black Flag, T.S.O.L., D.O.A., Dead Kennedys... E poi c’erano i concerti al Fire con Peggio Punx, Wretched, Rough, 5° Braccio, Kollettivo, Blue Vomit. Insomma, a Torino c’era il nostro mondo, ad Aosta no. E nessuno capiva di che cosa stavamo parlando. È proprio vero: in una scena di gente presa male, ad Aosta noi eravamo presi malissimo.
Mi diresti quali sono le band che sono state legate alla vita dei Kina? Compagni di viaggio, di concerto, di feste e di litigi.
Siamo sempre stati fratelli con tutti i gruppi di Torino di quel periodo: 5° Braccio, Kollettivo, Declino, Negazione, Franti, Contrazione (in cui ho suonato per un paio di anni), ma anche con altri di altre città come Indigesti, Peggio Punx, Wretched, Raf Punk, Teatro Quotidiano, Impact e tanti altri. Si condivideva tutto: il palco, il mangiare, si dormiva nei sacchi a pelo sul palco, si faceva autostop il giorno dopo. Una vita da grandi rock star.
In Nessuno Schema, da Irreale Realtà, scrivi: "Vivere senza autorità / Sono le regole ad uccidere la mente / La ribellione al potere è giusta / Mi rende ciò che mi è stato rubato". Sono frasi legate a una giovinezza immatura, o sei riuscito a rimanere libero dagli schemi anche diventando adulto?
Il testo di Nessuno Schema in realtà l’ha scritto Sergio, ci siamo sempre divisi la scrittura dei testi quasi a metà per ogni disco. Detto ciò, condividevamo le cose che dicevamo. Come vedo adesso quelle frasi? Un po’ semplici e un po’ ingenue, ma ci sta, avevamo 20 anni scarsi. Se devo dirti la verità mi confronto con quelle frasi quasi tutti i giorni e non mi sento affatto male, ma sono storie mie che non racconterò qui.
Mi piacerebbe sapere qual è stato per te il momento più bello nella storia della band.
Tra ottobre e dicembre 1986 siamo stati in giro ininterrottamente in Europa col nostro furgone. È stato uno dei momenti più liberi della mia vita, per quanto veramente impegnativo. Ho imparato tantissimo. Abbiamo viaggiato in un’Europa dove le frontiere erano veramente toste, incrociando culture, lingue, storie. Abbiamo imparato a capire gli altri, a sentire il pubblico durante i concerti, a trovare i posti senza navigatore… non era facile allora, ci hai mai pensato? Ogni sera una città nuova e trovavamo sempre quel piccolo locale alternativo che ci aveva contattato, magari con una lettera 6 mesi prima, con un indirizzo su un pezzo di carta, ma la città stava in un posto dove la gente parlava una lingua che non conoscevamo. A volte mi chiedo come abbiamo fatto a trovare la Mehringdam a Berlino la prima volta che ci siamo andati, ma l’abbiamo fatto e senza troppi problemi in realtà. Siamo uscititi dalla provincia e siamo diventati cittadini del mondo, senza assemblee o lunghe serate in gruppi di autocoscienza, semplicemente con i nostri mezzi da quattro soldi e con le nostre canzonacce stonate e scordate. Avevamo una gran faccia tosta.
È inevitabile chiederti di Questi anni. È un capolavoro senza tempo, per me uno dei pezzi italiani più belli di sempre. Mi racconti di come è nata e cosa significasse per te il testo di quella canzone?
Questa l’ho scritta io. Non mi piace molto spiegare i miei testi, è come spiegare le barzellette. Li ho scritti quasi tutti sostanzialmente di getto, sono tutti dei flussi di coscienza e fa strano spiegarli. In breve, però, "Questi Anni" racconta il periodo che stavamo vivendo, agosto 1987. Avevamo iniziato tutti a lavorare, ci stavamo allontanando dall’essere liberi e selvaggi come eravamo stati fino ad un anno prima, ma dentro eravamo sempre gli stessi di prima. Era la vita reale che stava bussando alla porta e stava chiedendo al nostro mondo fantastico di farsi da parte. Era il momento della riflessione, quando cerchi l’essenza delle tue cose dentro di te e cerchi di capire cosa può essere cambiato senza che la dignità finisca sotto le scarpe. È la sensazione che sta dentro a Se ho vinto se ho perso, una nostalgia per un passato recente di irruenza e di semplicità ma anche la corsa verso un mondo più adulto, più complesso e per certi versi più consapevole. Ecco, tutto qui. Le normali fasi della vita vissute in pubblico e cristallizzate in pezzi di plastica che giravano a 33 giri al minuto.
Avete girato i centri sociali di mezza Europa. Ho sempre pensato che la vostra musica fosse, soprattutto nei testi, un inno a un’esistenza libera dalle regole, che nelle dinamiche del centro sociale il vostro sogno potesse realizzarsi. Buona parte dei luoghi nei quali avete suonato non esistono più, mi viene da citare lo Scuria di Foggia, tanto per dirne uno. Oggi in Italia gli ultimi centri sociali storici stanno venendo sgomberati a spron battuto e il più delle volte non riaprono. A Bologna, dove vivo, sono stati chiusi Atlantide, il Làbas, e l’XM24 è a rischio. L’Europa dei Kina non è lontana solo negli anni, ma anche nei modi in cui le persone, giovani e adulti, percepiscono certi luoghi. Non voglio criticare la contemporaneità, vorrei solo capire meglio. Ma l’impressione, leggendo Come macchine impazzite, è che l’assenza dei social network moderni e della velocità del web vi desse la possibilità di creare reti sociali per le quali i centri sociali erano indispensabili. Oggi le cose si fanno in modo diverso. Cosa ne pensi?
Penso che la differenza stia quasi solo nelle apparenze e poco nella sostanza. Adesso è tutto veloce e facile, ma penso che siano apparenze, parlano della superficie delle cose e nulla più. Adesso in un attimo trovi la definizione di Paired T-test in statistica, ma quando l’hai trovata, conosci abbastanza bene l’inglese per capire che cosa è scritto in quella pagina di Wikipedia? Sai esattamente a cosa si riferisce quando parla di paired groups of the same population? E soprattutto sai cosa fartene? Parlo di statistica per fare un esempio lontano da ciò di cui stiamo parlando, ma i criteri sono gli stessi. Ci vuole un secondo a trovare un’informazione, ci vogliono anni per sapere che cosa sia quell’informazione, la sua storia, i suoi significati e il suo utilizzo.
Non solo questo. Ora le informazioni sono tante e onestamente ogni tanto troppe, se vado su un motore di ricerca scientifico, che uso spesso, e digito low back pain mi escono fuori 30.000 articoli scientifici. Cosa me ne faccio? Li leggo tutti? Come li seleziono? E di quelli rimasti cosa faccio? E per arrivare alla sostanza, quando ho davanti a me un paziente che soffre di lombalgia da 10 anni, quei 30.000 articoli mi dicono qualcosa di utile? Ecco, non direi che oggi si risparmia del tempo: forse oggi tutti dobbiamo essere più selettivi, più acuti e più intelligenti di prima. Io penso che queste caratteristiche umane si coltivino e facciano crescere con l’interazione umana, da una tastiera non esce nulla del genere.
Quindi oggi i centri sociali hanno senso? Certo che sì. Sono il luogo dove si trova la gente, si parla, si confronta, si scontra, ride, si dà delle gran pacche, litiga, si ritrova, si accorda per poi litigare ancora e avanti così, ma non come dei guerrieri da tastiera con post da squilibrati. Lì si trovano le persone vere, quelle che comunicano per il 20% col verbale e per l’80% col non verbale, con posture e movimenti che nemmeno su Skype puoi cogliere. Noi comunicavamo con le lettere e con i telefoni a gettone; eravamo solo più lenti, e avevamo molto chiaro che le persone però si dovevano incontrare e frequentare, solo da lì poteva nascere qualcosa. Adesso? Io penso che sia ancora così.
Che musica ascolti oggi? Hai delle band preferite italiane o non? In realtà mi piacerebbe sapere se ascolti qualcosa delle nuove scene hardcore.
Non vorrei deluderti. In questo momento sto ascoltando Charlie Haden, un contrabbassista americano, il disco prima era dei Farside e quello prima era una compilazione Northern Soul. Ecco, questo mi è rimasto da quei tempi: ascolto dischi. Ho importato sul mio Mac 18.000 brani e me li ascolto al lavoro o con l’iPod in macchina, ma a casa mi piace mettere su dischi, LP o CD. Quest’estate sono andato coi miei figli a vedere i Green Day, poi ho visto Eddie Vedder da solo a Firenze, un anno fa sono andato a vedere i Cure. Ho smesso di seguire e di scoprire nuovi gruppi HC quando ho smesso di vendere dischi nel 1996. Ad un certo punto conoscere nuovi gruppi era un lavoro e non un piacere. In fondo a me sono sempre piaciuti Talking Heads, Psychedelic Furs, Wall of Woodoo, Echo and the Bunnymen, ma anche Black Flag, Minutemen, M.D.C., Crass, Stupids, Government Issue, Scream, Minor Threat, Embrace, Fugazi. L’ultimo gruppo italiano che mi è piaciuto tantissimo sono stati gli Eversor, che poi sono diventati Miles Apart. Insomma a casa ho 2000 LP e 1500 cd. Non è un problema scegliere qualcosa dagli scaffali.
Sei ancora in contatto con Sergio e Alberto? La storia è finita per sempre o, chi lo sa, la voglia di un ultimo concerto c’è ancora?
Sì, ci vediamo ogni tanto. Io non abito più ad Aosta da quasi 20 anni, loro sono rimasti lì. Ogni tanto si scassano qualcosa e mi arrivano in studio per le riparazioni del caso, così poi ne approfittiamo per farci una pizza e raccontarci gli ultimi mesi di vita. Non abbiamo mai parlato di concerti/reunion. Siamo un po’ artrosici, con meno capelli, e quelli che ci sono sono bianchi, la memoria non è più quella di una volta e potremmo dimenticarci come fa un pezzo, insomma, forse saremmo un triste spettacolo. Va bene così, chi vuole sapere come eravamo dal vivo può andare su Youtube e ci trova nei momenti migliori. Se mi permetti volevo ricordare una cosa. In giugno abbiamo ristampato Se ho vinto, se ho perso in vinile, era sold out da anni. Ne abbiamo un po’ in cantina, se qualcuno lo vuole mi può scrivere.
Varieventuali, 2 marzo 2016 Il doppio sparo dei Kina
L'autore Gianpiero Capra con Marzio Bertotti “Mungo” alla Libreria Cossavella La libreria Cossavella ha organizzato lo scorso 20 febbraio la presentazione del libro Come macchine impazzite – il doppio sparo dei Kina di Gianpiero Capra e Stephania Giacobone, edito da Agenzia X (Milano, 2014). A presentare il libro è intervenuto Gianpiero Capra, coautore del testo nonché bassista dei Kina, affiancato nel ruolo di presentatore-intervistatore dall’amico Marzio “Mungo” Bertotti, chitarrista di un altro gruppo della scena hardcore punk italiana dei primi anni ’80, i Declino.
Il libro è in realtà un doppio-libro, una narrazione parallela incentrata sulla storia del gruppo aostano hardcore punk dei Kina, attivo dal 1982 al 1997.
Gianpiero Capra – classe 1962 – ha curato la stesura del racconto della propria storia personale, e di come questa sia confluita nella costituzione e nella storia dei Kina.
Stephania Giacobone – nata nel 1987 – ha invece stilato la narrazione di come l’esperienza del gruppo – non tanto e non solo musicale – pur conclusasi da tempo possa tuttora riverberare i propri effetti, e di come lo abbia fatto nella sua vita.
A rendere la presentazione di particolare interesse è stata proprio la compresenza di due dei protagonisti di quel periodo, circostanza che ha trasformato la normale presentazione di un libro in un momento di rivisitazione – anche questo a due voci – di un particolare momento della storia musicale, sociale e politica, il cui respiro va ben al di là del localismo (il termine glocal nascerà alla fine degli anni ’80, quando i Kina avranno già qualche anno di servizio alle spalle, e ne saranno stati a loro modo degli antesignani).
Spetta a Bertotti introdurre la serata, dando la propria valutazione del libro, definito decisamente più credibile di molti altri titoli su quel periodo usciti di recente, accomunati da un taglio retorico autocelebrativo del tutto assente in Come macchine impazzite, capace invece di restituirne la dimensione collettiva al di là del racconto autobiografico. Capra attribuisce questa caratteristica al fatto che i primi anni ’80 furono caratterizzati da maggiore collettività, piuttosto che da individualità, nel contesto sociale di riferimento in cui si muovevano i Kina.
Un gruppo di quaranta, cinquanta persone che si rimescolavano continuamente, costituendo gruppi nuovi o riconfigurando quelli esistenti, la cui matrice comune era intessuta dalla voglia, dalla necessità, dall’urgenza di raccontarsi. Questa urgenza era avvertita da una “generazione senza maestri”, perché quelli che li avevano preceduti e che avrebbero potuto esserlo, erano stati “sterminati fisicamente” dalla droga, dal carcere, dalla disillusione. In questo scenario desertificato, una parte della nuova generazione che si affacciava all’inizio degli anni ’80 aveva cercato nella musica, nel punk hardcore in particolare, la risposta allo spaesamento vissuto in quegli anni. E la risposta passava attraverso il reciproco riconoscimento tra simili, un riconoscimento che aveva nella musica – ma non solo – uno degli strumenti principali. Nella fase iniziale, fino alla metà degli anni ’80, la scena hardcore punk avrà una dimensione nazionale, che soltanto in seguito si differenzierà in realtà locali come a Torino, Bologna, Roma, Bari, Milano. Ma se ciò da una parte permetteva la caratterizzazione dei gruppi su base locale, dall’altra ne limitava la prospettiva collettiva di condivisione, rischiando di mortificare la spinta propulsiva sulla quale era nato ed era cresciuto il movimento.
È in questa fase che i Kina – in modo per certi versi fortuito – sono tra i primi ad affacciarsi sulla ribalta europea, sfuggendo così al pericolo di rimanere confinati ed intrappolati dal fenomeno di localizzazione. I tre ragazzi aostani arrivano in Germania nel 1984 e trovano una realtà completamente diversa da quella italiana. I punk tedeschi, con i quali immaginano di avere inizialmente un’affinità elettiva, si rivelano invece dediti principalmente alla birra e poco altro. La sorpresa positiva è invece rappresentata dalla scoperta di gruppi alternativi legati allo squatting, l’occupazione di aree abbandonate, in particolare nel quartiere berlinese di Kreuzberg. Quello che per i tre Kina è una novità assoluta, qui rappresenta un’esperienza in corso dal 1968. Centinaia di metri quadri di spazi condivisi ed organizzati, coabitati da decine di persone unite dal rifiuto per gli stili di vita massificati imposti dall’alto, unite da un comune sentire, da una necessità di ricerca e di crescita personale che trovano nella musica uno strumento fondamentale di riconoscimento e di riscatto. Il clima che si respirava a Berlino in quegli anni andava ben oltre ciò che l’Italia poteva offrire negli stessi anni. “Mungo” ricorda come allora fosse possibile scegliere come collocazioni politiche antagoniste al sistema dominante solo l’area che faceva capo ad Autonomia Operaia, oppure il fronte anarchico rappresentato dall’ortodossia dei tabarri neri della Federazione Anarchica Italiana. Nessuna delle due alternative poteva rispondere alle istanze di quei giovani, ed ecco che lo sbocco berlinese diventava un’alternativa capace di esercitare un potente effetto attrattivo.
Sorprendendo gli stessi componenti del gruppo, la musica dei Kina si rivelava in grado di incontrare in pieno il gusto della scena alternativa in ambito europeo, permettendo l’instaurarsi di una sorta di scambio osmotico, in cui i Kina rilasciavano musica ed assorbivano idee e prassi. Prassi è la parola che Capra usa in opposizione a Politica, perché questo è ciò che veniva praticato: si facevano cose, non si faceva politica, e questa prassi – di cui la musica era solo una delle componenti – creava aggregazione tra simili.
È lo stesso Capra a riconoscere, anzi, a sottolineare, come la musica fosse uno strumento funzionale ad un disegno molto più ampio, tanto da essere spesso qualitativamente discutibile, persino “inascoltabile” (sic) in certi casi, come nel pezzo con un solo accordo.
È interessante a questo proposito la risposta fornita da Capra alla domanda di Bertotti sull’importanza del lavoro di autoproduzione, e in quale misura abbia una connessione con l’attuale realtà di produzione autonoma in ambito musicale.
Capra ha sottolineato come nella loro esperienza, l’autoproduzione attraverso l’etichetta Blu Bus da loro fondata – e alla quale collaborava anche il gruppo dei Franti – avesse un obiettivo molto preciso, e molto diverso da quello comunemente inteso. Oggi anche gruppi di fama mondiale – come i Radiohead ad esempio – si autoproducono, ma la finalità è sempre di tipo commerciale.
L’autoproduzione dei Kina invece, grazie ai positivi riscontri delle vendite dei loro album (Parlami ancora, il loro lavoro di maggior successo, ha venduto 5.000 copie in vinile, 3.000 CD e 1.000 cassette) consentiva loro di investire interamente i guadagni generati nella produzione di nuovi gruppi emergenti, permettendo loro di superare le difficoltà iniziali nella diffusione della propria musica, e contribuire così al mantenimento e potenziamento delle idee condivise. Questo modello di autoproduzione replicava di fatto ciò che in ambito musicale i Kina avevano vissuto ed assimilato durante la frequentazione della scena alternativa berlinese di Kreuzberg, confermando la funzione strumentale della musica.
L’ultima domanda formulata da Bertotti verte su cosa rimanga oggi della formidabile esperienza di quegli anni. La sua impressione è che il testimone di quella stagione non sia stato raccolto da nessuno, e che questa amara constatazione ne sancisca di fatto la sconfitta. La risposta di Capra parte dal sottolineare ancora una volta come le scelte di quegli anni fossero frutto di necessità di ricerca e di espressione individuale che superano i concetti di vittoria e sconfitta (“non mi chiedere se ho vinto o se ho perso” recita un verso della loro canzone Questi anni). E tutte le esperienze vissute e condivise in quegli anni hanno concorso a formare ciò che l’autore è oggi, e a guidarne le scelte di vita. In questo senso, non si può parlare di sconfitta. Quanto alla domanda su chi abbia raccolto il testimone, risponde che non crede che qualcuno lo abbia fatto, di certo non nelle forme espresse a quel tempo, e di questo si dichiara contento, perché ogni generazione deve trovare le proprie risposte, nella forma e nella sostanza. Su questa domanda si è sviluppato un vivace intervento da parte del pubblico, significativamente composto da un’ampia fascia di età diverse.
La risposta alla domanda finale sta in fondo proprio nella composizione di questo gruppo di persone, dentro una libreria in un sabato sera d’inverno, esattamente come la si ritrova nelle due voci narranti del libro. Non a caso Gianpiero Capra e Stephania Giacobone sono divisi da venticinque anni di età, un divario generazionale separato sul piano dei due differenti contesti storici e sociali, ma ricomposto da comuni istanze ed aspettative che non è poi così difficile far risalire nel tempo a ben prima dei Kina. “Come macchine impazzite” è la narrazione del loro percorso di ricerca e di prassi, e di come questo percorso arrivi ad una giovane – di certo non l’unica – esattamente come un testimone, a distanza di un’intera generazione.
di Gualtiero GiovanettoIl libro è in realtà un doppio-libro, una narrazione parallela incentrata sulla storia del gruppo aostano hardcore punk dei Kina, attivo dal 1982 al 1997.
Gianpiero Capra – classe 1962 – ha curato la stesura del racconto della propria storia personale, e di come questa sia confluita nella costituzione e nella storia dei Kina.
Stephania Giacobone – nata nel 1987 – ha invece stilato la narrazione di come l’esperienza del gruppo – non tanto e non solo musicale – pur conclusasi da tempo possa tuttora riverberare i propri effetti, e di come lo abbia fatto nella sua vita.
A rendere la presentazione di particolare interesse è stata proprio la compresenza di due dei protagonisti di quel periodo, circostanza che ha trasformato la normale presentazione di un libro in un momento di rivisitazione – anche questo a due voci – di un particolare momento della storia musicale, sociale e politica, il cui respiro va ben al di là del localismo (il termine glocal nascerà alla fine degli anni ’80, quando i Kina avranno già qualche anno di servizio alle spalle, e ne saranno stati a loro modo degli antesignani).
Spetta a Bertotti introdurre la serata, dando la propria valutazione del libro, definito decisamente più credibile di molti altri titoli su quel periodo usciti di recente, accomunati da un taglio retorico autocelebrativo del tutto assente in Come macchine impazzite, capace invece di restituirne la dimensione collettiva al di là del racconto autobiografico. Capra attribuisce questa caratteristica al fatto che i primi anni ’80 furono caratterizzati da maggiore collettività, piuttosto che da individualità, nel contesto sociale di riferimento in cui si muovevano i Kina.
Un gruppo di quaranta, cinquanta persone che si rimescolavano continuamente, costituendo gruppi nuovi o riconfigurando quelli esistenti, la cui matrice comune era intessuta dalla voglia, dalla necessità, dall’urgenza di raccontarsi. Questa urgenza era avvertita da una “generazione senza maestri”, perché quelli che li avevano preceduti e che avrebbero potuto esserlo, erano stati “sterminati fisicamente” dalla droga, dal carcere, dalla disillusione. In questo scenario desertificato, una parte della nuova generazione che si affacciava all’inizio degli anni ’80 aveva cercato nella musica, nel punk hardcore in particolare, la risposta allo spaesamento vissuto in quegli anni. E la risposta passava attraverso il reciproco riconoscimento tra simili, un riconoscimento che aveva nella musica – ma non solo – uno degli strumenti principali. Nella fase iniziale, fino alla metà degli anni ’80, la scena hardcore punk avrà una dimensione nazionale, che soltanto in seguito si differenzierà in realtà locali come a Torino, Bologna, Roma, Bari, Milano. Ma se ciò da una parte permetteva la caratterizzazione dei gruppi su base locale, dall’altra ne limitava la prospettiva collettiva di condivisione, rischiando di mortificare la spinta propulsiva sulla quale era nato ed era cresciuto il movimento.
È in questa fase che i Kina – in modo per certi versi fortuito – sono tra i primi ad affacciarsi sulla ribalta europea, sfuggendo così al pericolo di rimanere confinati ed intrappolati dal fenomeno di localizzazione. I tre ragazzi aostani arrivano in Germania nel 1984 e trovano una realtà completamente diversa da quella italiana. I punk tedeschi, con i quali immaginano di avere inizialmente un’affinità elettiva, si rivelano invece dediti principalmente alla birra e poco altro. La sorpresa positiva è invece rappresentata dalla scoperta di gruppi alternativi legati allo squatting, l’occupazione di aree abbandonate, in particolare nel quartiere berlinese di Kreuzberg. Quello che per i tre Kina è una novità assoluta, qui rappresenta un’esperienza in corso dal 1968. Centinaia di metri quadri di spazi condivisi ed organizzati, coabitati da decine di persone unite dal rifiuto per gli stili di vita massificati imposti dall’alto, unite da un comune sentire, da una necessità di ricerca e di crescita personale che trovano nella musica uno strumento fondamentale di riconoscimento e di riscatto. Il clima che si respirava a Berlino in quegli anni andava ben oltre ciò che l’Italia poteva offrire negli stessi anni. “Mungo” ricorda come allora fosse possibile scegliere come collocazioni politiche antagoniste al sistema dominante solo l’area che faceva capo ad Autonomia Operaia, oppure il fronte anarchico rappresentato dall’ortodossia dei tabarri neri della Federazione Anarchica Italiana. Nessuna delle due alternative poteva rispondere alle istanze di quei giovani, ed ecco che lo sbocco berlinese diventava un’alternativa capace di esercitare un potente effetto attrattivo.
Sorprendendo gli stessi componenti del gruppo, la musica dei Kina si rivelava in grado di incontrare in pieno il gusto della scena alternativa in ambito europeo, permettendo l’instaurarsi di una sorta di scambio osmotico, in cui i Kina rilasciavano musica ed assorbivano idee e prassi. Prassi è la parola che Capra usa in opposizione a Politica, perché questo è ciò che veniva praticato: si facevano cose, non si faceva politica, e questa prassi – di cui la musica era solo una delle componenti – creava aggregazione tra simili.
È lo stesso Capra a riconoscere, anzi, a sottolineare, come la musica fosse uno strumento funzionale ad un disegno molto più ampio, tanto da essere spesso qualitativamente discutibile, persino “inascoltabile” (sic) in certi casi, come nel pezzo con un solo accordo.
È interessante a questo proposito la risposta fornita da Capra alla domanda di Bertotti sull’importanza del lavoro di autoproduzione, e in quale misura abbia una connessione con l’attuale realtà di produzione autonoma in ambito musicale.
Capra ha sottolineato come nella loro esperienza, l’autoproduzione attraverso l’etichetta Blu Bus da loro fondata – e alla quale collaborava anche il gruppo dei Franti – avesse un obiettivo molto preciso, e molto diverso da quello comunemente inteso. Oggi anche gruppi di fama mondiale – come i Radiohead ad esempio – si autoproducono, ma la finalità è sempre di tipo commerciale.
L’autoproduzione dei Kina invece, grazie ai positivi riscontri delle vendite dei loro album (Parlami ancora, il loro lavoro di maggior successo, ha venduto 5.000 copie in vinile, 3.000 CD e 1.000 cassette) consentiva loro di investire interamente i guadagni generati nella produzione di nuovi gruppi emergenti, permettendo loro di superare le difficoltà iniziali nella diffusione della propria musica, e contribuire così al mantenimento e potenziamento delle idee condivise. Questo modello di autoproduzione replicava di fatto ciò che in ambito musicale i Kina avevano vissuto ed assimilato durante la frequentazione della scena alternativa berlinese di Kreuzberg, confermando la funzione strumentale della musica.
L’ultima domanda formulata da Bertotti verte su cosa rimanga oggi della formidabile esperienza di quegli anni. La sua impressione è che il testimone di quella stagione non sia stato raccolto da nessuno, e che questa amara constatazione ne sancisca di fatto la sconfitta. La risposta di Capra parte dal sottolineare ancora una volta come le scelte di quegli anni fossero frutto di necessità di ricerca e di espressione individuale che superano i concetti di vittoria e sconfitta (“non mi chiedere se ho vinto o se ho perso” recita un verso della loro canzone Questi anni). E tutte le esperienze vissute e condivise in quegli anni hanno concorso a formare ciò che l’autore è oggi, e a guidarne le scelte di vita. In questo senso, non si può parlare di sconfitta. Quanto alla domanda su chi abbia raccolto il testimone, risponde che non crede che qualcuno lo abbia fatto, di certo non nelle forme espresse a quel tempo, e di questo si dichiara contento, perché ogni generazione deve trovare le proprie risposte, nella forma e nella sostanza. Su questa domanda si è sviluppato un vivace intervento da parte del pubblico, significativamente composto da un’ampia fascia di età diverse.
La risposta alla domanda finale sta in fondo proprio nella composizione di questo gruppo di persone, dentro una libreria in un sabato sera d’inverno, esattamente come la si ritrova nelle due voci narranti del libro. Non a caso Gianpiero Capra e Stephania Giacobone sono divisi da venticinque anni di età, un divario generazionale separato sul piano dei due differenti contesti storici e sociali, ma ricomposto da comuni istanze ed aspettative che non è poi così difficile far risalire nel tempo a ben prima dei Kina. “Come macchine impazzite” è la narrazione del loro percorso di ricerca e di prassi, e di come questo percorso arrivi ad una giovane – di certo non l’unica – esattamente come un testimone, a distanza di un’intera generazione.
Radio onda d’urto, 8 febbraio 2016 Intervista a Giampiero Capra
Come macchine impazzite è un intreccio di due narrazioni ambientate in epoche diverse. La prima, raccontata dalla voce del bassista Gianpiero Capra, è la cronaca dell’avventura di un gruppo seminale della scena hardcore italiana, i Kina. La seconda storia è quella di Stephania Giacobone, una giovane della Valle d’Aosta che s’appassiona a una band nata dalle sue parti tanti anni prima. Al telefono Gianpiero ci parla del libro che sarà presentato venerdì 12 febbraio, alle 21.00, al Circolo del Monco di Sant’Eufemia-Brescia. Ascolta o scarica l’audio
Mail di Hector Valmassoi, 7 luglio 2015 Come macchine impazzite
“Senza stress mi raccomando” dicevi e sono passati più di sei mesi me lo sono presa fin troppo comoda. Il libro l’ho finito il giorno dopo, praticamente divorato nel giro di pochi giorni… questi anni stanno correndo via, le settimane, i mesi passano in un soffio ancora più veloce… Comunque eccomi qui, con le mie impressioni su ciò che ho trovato nel tuo/vostro libro, ci ho messo così tanto anche perché sentivo la necessità di andare a riascoltare i vostri dischi: i testi riportati sul libro mi riproducevano in testa suoni ascoltati e riascoltati decine di volte ma purtroppo il giradischi è andato, quindi ci è voluto un po’ prima di trovare qualche copia dei cd da acquistare in rete a un prezzo decente… Ora sto ascoltando Città invisibili, quindi posso finalmente scrivere che è ancora emozionante sentire dopo trent’anni l’attacco di Nessuno schema, è divertente sentire mio figlio (10 anni) che in macchina fa qualche commento sulle vostre canzoni o chiede che gli rimetta su Farse. Ho riassaporato l’energia di quegli anni, condivisa con la piccola distribuzione che all’epoca portavo avanti in Cadore, con i dischi di Blubus, Tvor, Attack Punk… Ho rivisto la scena punk con gli occhi di chi guardava dalla periferia della provincia, del resto sono un montagnino anch’io… Ho ritrovato purtroppo anche l’amarezza che avete vissuto per tutti gli scazzi e le polemiche assurde, ma c’è stata e doveva per forza starci anche nel libro… Ho sentito più che altro, ed è stata la cosa più importante, la voce di persone con cui ho condiviso un importante pezzo di strada, con cui per quel che mi riguarda c’è un legame che niente o nessuno può recidere, anche se sono passati millenni senza che ci si sia visti o sentiti. Come dicevi tu, ognuno capirà ciò che è già dentro di lui… Hai raccontato un pezzo di storia, che è la tua storia, ma che è anche un pezzo della mia magari ci si vede a qualche presentazione per parlarne ancora e meglio. Ancora grazie e un forte abbraccio…
di Hector Valmassoiwww.fasanolive.com, sabato 25 aprile 2015 I Kina e la voglia «di disattendere le attese»
«Una vera leggenda del punk italiano. Come se stasera, parlando di calcio, avessimo ospitato Roberto Baggio». Con queste parole Antonello L'Abbate, socio di AccordiAbili, ha introdotto la serata e Gianpiero Capra, bassista storico dei Kina, gruppo italiano della scena punk degli anni ottanta. Terzo e ultimo appuntamento con “Musica tra le righe…”, organizzato dal sodalizio presieduto da Vincenzo Deluci, che ha visto la presentazione del libro scritto a quattro mani dallo stesso Capra e da Stephania Giacobone, intitolato Come macchine impazzite. Il doppio sparo dei Kina, pubblicato da Agenzia X Edizioni.
La conversazione con l’autore è stata preceduta da un video, montato dalla stessa Giacobone che ha raccolto le immagini di repertorio, molte inedite e dal sapore “vintage”, del gruppo durante vari tour tra Germania e Italia. Le azioni quotidiane, come svegliarsi in “discutibili” camere d’albergo, fare colazione, caricare e scaricare il furgone. E poi i viaggi, i concerti e l’incontro con la gente.
Un libro in cui si alternano i capitoli scritti dai due autori: più nostalgici quella di Capra, con ricordi e riflessioni di quegli anni; più freschi e originali quelli della Giacobone, che narra la sua storia di ragazza di provincia (nata ad Aosta), che attraverso la musica dei Kina vive il suo riscatto adolescenziale.
«Con Stephania – spiega il bassista – c’è stato uno studio profondo del periodo e della nostra storia. Molte cose ci accomunano: entrambi siamo partiti da Aosta, entrambi siamo arrivati a Torino: io nel 1981, lei venticinque anni dopo, quando il gruppo si era ormai sciolto». Adesso Capra non suona più e insegna fisioterapia in una università svizzera.
E alla domanda sul perché la scelta di un genere come il punk, il membro dei Kina risponde genuinamente: «Perché se avessimo saputo suonare avremmo fatto altro!». Da qui Capra ha parlato all’attento pubblico dell’autunno del 1981 e la nascita della “scena punk” a Torino; di come la sua generazione sia stata «Senza maestri, visto che chi ci ha preceduti sono o finiti male per via dell’eroina o diventati borghesi. Avevamo un grande vuoto dentro e abbiamo imparato a riempirlo come abbiamo potuto. Almeno ci esprimevamo!».
Capra ha quindi raccontato la storia dei Kina, dei loro primi dischi incisi in cantina e con strumentazioni quasi rudimentali; della prima formazione a quattro (che ha segnato il massimo della loro espressione), divenuta poi un trio; della svolta rappresentata da Berlino nel 1984, una città che ha insegnato molte cose e a vivere la libertà a 360 gradi, non a caso citata in una delle tre cartoline raffigurate nella copertina del libro; del loro primo concerto nella parte est della città, così differente e travagliata dall’oppressione sovietica. Quindi dello scioglimento della band, avvenuto nel 1997, di come ciascuno abbia intrapreso la propria strada, restando comunque saldamente legati da un’amicizia vera, e con «La consapevolezza, attraverso la nostra musica, di aver cambiato almeno noi stessi».
In conclusione Capra ha evidenziato come la scelta di raccontare tutto questo attraverso un libro sia stata “catartica”, «spinta dal desiderio di “devirtualizzare” e “rallentare” i ricordi. E raccontarli oggi ha più senso con un libro, anche se può spiazzare. Disattendere le attese – conclude – è, però, sempre stato il nostro slogan. E con questo libro abbiamo voluto creare un momento di silenzio per concentrarsi sulla pagina scritta».
di Dino CassoneLa conversazione con l’autore è stata preceduta da un video, montato dalla stessa Giacobone che ha raccolto le immagini di repertorio, molte inedite e dal sapore “vintage”, del gruppo durante vari tour tra Germania e Italia. Le azioni quotidiane, come svegliarsi in “discutibili” camere d’albergo, fare colazione, caricare e scaricare il furgone. E poi i viaggi, i concerti e l’incontro con la gente.
Un libro in cui si alternano i capitoli scritti dai due autori: più nostalgici quella di Capra, con ricordi e riflessioni di quegli anni; più freschi e originali quelli della Giacobone, che narra la sua storia di ragazza di provincia (nata ad Aosta), che attraverso la musica dei Kina vive il suo riscatto adolescenziale.
«Con Stephania – spiega il bassista – c’è stato uno studio profondo del periodo e della nostra storia. Molte cose ci accomunano: entrambi siamo partiti da Aosta, entrambi siamo arrivati a Torino: io nel 1981, lei venticinque anni dopo, quando il gruppo si era ormai sciolto». Adesso Capra non suona più e insegna fisioterapia in una università svizzera.
E alla domanda sul perché la scelta di un genere come il punk, il membro dei Kina risponde genuinamente: «Perché se avessimo saputo suonare avremmo fatto altro!». Da qui Capra ha parlato all’attento pubblico dell’autunno del 1981 e la nascita della “scena punk” a Torino; di come la sua generazione sia stata «Senza maestri, visto che chi ci ha preceduti sono o finiti male per via dell’eroina o diventati borghesi. Avevamo un grande vuoto dentro e abbiamo imparato a riempirlo come abbiamo potuto. Almeno ci esprimevamo!».
Capra ha quindi raccontato la storia dei Kina, dei loro primi dischi incisi in cantina e con strumentazioni quasi rudimentali; della prima formazione a quattro (che ha segnato il massimo della loro espressione), divenuta poi un trio; della svolta rappresentata da Berlino nel 1984, una città che ha insegnato molte cose e a vivere la libertà a 360 gradi, non a caso citata in una delle tre cartoline raffigurate nella copertina del libro; del loro primo concerto nella parte est della città, così differente e travagliata dall’oppressione sovietica. Quindi dello scioglimento della band, avvenuto nel 1997, di come ciascuno abbia intrapreso la propria strada, restando comunque saldamente legati da un’amicizia vera, e con «La consapevolezza, attraverso la nostra musica, di aver cambiato almeno noi stessi».
In conclusione Capra ha evidenziato come la scelta di raccontare tutto questo attraverso un libro sia stata “catartica”, «spinta dal desiderio di “devirtualizzare” e “rallentare” i ricordi. E raccontarli oggi ha più senso con un libro, anche se può spiazzare. Disattendere le attese – conclude – è, però, sempre stato il nostro slogan. E con questo libro abbiamo voluto creare un momento di silenzio per concentrarsi sulla pagina scritta».
Mail di Federico, 16 aprile 2015 Come macchine impazzite
Ciao Stephania, Ciao Gianpiero
Ho terminato da poche ore Come macchine impazzite e scrivo per ringraziarvi. Quando incontrai Giampiero ad Arcore, dopo tanti anni, durante la presentazione si parlò poco del libro e molto di altro purtroppo e oggi, alla fine della lettura, quel “purtroppo” è diventato più pesante, perché sono certo che attraverso il suo racconto avrei potuto avere ancora di più da queste pagine che mi hanno davvero colpito e appassionato. Mi è piaciuto perché contrariamente a quanto succede in molte monografie o saggi su musicisti, scene e quant’altro, non si tratta di un nostalgico ricordo dei bei tempi andati, ma di un interessantissimo spunto per riflettere a lungo sull’importanza di certe cose che non devo certo spiegarvi. Molto bella l’idea di alternarsi nel raccontare ognuno la propria storia, da una parte la lucidità e i dettagli di chi c’era e dall’altra le emozioni trasmesse dai racconti dolorosissimi di Stephania, alla quale non posso che fare i complimenti per la capacità e il coraggio di mettersi a nudo scrivendo cose così intime e laceranti, che confrontate ai racconti di Gianpiero rendono perfettamente l’idea della trasformazione culturale improvvisa e devastante che in pochi anni ha sconvolto completamente il nostro sistema di relazioni a ogni livello. Vorrei dirvi tante di quelle cose, ma quando scrivo temo sempre di risultare patetico o peggio ancora supponente, per cui preferisco essere breve e dirvi semplicemente che il vostro bellissimo libro mi ha commosso e istruito, che i Kina (e Michele e Romeo) sono tra le persone più pure che abbia mai conosciuto e che Stephania mi ha raccontato una storia bellissima, rabbiosa e struggente, un pezzo hardcore da far tremare i polsi. Mi piacerebbe che un giorno le nostre strade si incontrassero, per dirvi ancora grazie.
Un abbraccio, ma proprio sincero, capito?
Federico Ciappini, voce Six Minute War MadnessHo terminato da poche ore Come macchine impazzite e scrivo per ringraziarvi. Quando incontrai Giampiero ad Arcore, dopo tanti anni, durante la presentazione si parlò poco del libro e molto di altro purtroppo e oggi, alla fine della lettura, quel “purtroppo” è diventato più pesante, perché sono certo che attraverso il suo racconto avrei potuto avere ancora di più da queste pagine che mi hanno davvero colpito e appassionato. Mi è piaciuto perché contrariamente a quanto succede in molte monografie o saggi su musicisti, scene e quant’altro, non si tratta di un nostalgico ricordo dei bei tempi andati, ma di un interessantissimo spunto per riflettere a lungo sull’importanza di certe cose che non devo certo spiegarvi. Molto bella l’idea di alternarsi nel raccontare ognuno la propria storia, da una parte la lucidità e i dettagli di chi c’era e dall’altra le emozioni trasmesse dai racconti dolorosissimi di Stephania, alla quale non posso che fare i complimenti per la capacità e il coraggio di mettersi a nudo scrivendo cose così intime e laceranti, che confrontate ai racconti di Gianpiero rendono perfettamente l’idea della trasformazione culturale improvvisa e devastante che in pochi anni ha sconvolto completamente il nostro sistema di relazioni a ogni livello. Vorrei dirvi tante di quelle cose, ma quando scrivo temo sempre di risultare patetico o peggio ancora supponente, per cui preferisco essere breve e dirvi semplicemente che il vostro bellissimo libro mi ha commosso e istruito, che i Kina (e Michele e Romeo) sono tra le persone più pure che abbia mai conosciuto e che Stephania mi ha raccontato una storia bellissima, rabbiosa e struggente, un pezzo hardcore da far tremare i polsi. Mi piacerebbe che un giorno le nostre strade si incontrassero, per dirvi ancora grazie.
Un abbraccio, ma proprio sincero, capito?
www.rockol.it, 17 febbraio 2015 Come macchine impazzite
Gianpiero Capra è stato bassista e fondatore dei Kina, una delle band più emblematiche di quello che – anche troppo genericamente – viene spesso definito come il periodo d’oro dell’hardcore punk italiano. Ed è proprio lui a raccontare la storia del gruppo, un’entità che per molti ragazzi degli anni Ottanta (e un po’ Novanta) è quasi una leggenda. O meglio: Gianpiero ci regala la sua versione della storia, il suo punto di vista. Uno spaccato della sua vita e della sua anima, se mi si passa il termine un po’ sanremese
Un piatto ghiotto, senza dubbio... e poi, chi conosce la band e la ama, lo fa anche per i testi: quindi l’idea di leggere un intero libro scritto da chi quei testi li ideava, è molto – ma molto – attraente. Infatti molti dei capitoli scritti da Gianpiero (soprattutto dalla metà in poi) sono piccoli gioielli di pathos e semplicità diretta, con ampie dosi di anima riversate in ogni pagina.
Forse qualcuno si starà domandando perché si parla di “capitoli scritti da Gianpiero”: la e risposta è semplice... perché in realtà questo non è un volume scritto a quattro mani, ma è due libri in uno. Uno è la storia dei Kina scritta da Capra, l’altra è la storia di una ragazza aostana (la Giacobone) che scopre la band quando ormai non esisteva più e grazie alla musica dei Kina in qualche maniera si “salva”, trova una propria dimensione. Il tutto a capitoli alternati.
Un escamotage narrativo piuttosto bizzarro per quella che, comunque, il 99% dei lettori medi – come me – vive e percepisce come una biografia musicale. Un accorgimento intrigante, ma forse non compiuto al 100%. Con tutto il rispetto, a titolo puramente personale, avrei preferito una struttura più tradizionale, dando molto più spazio ai protagonisti della saga Kina. Ma molto. La storia di salvazione/salvezza di Stephania, pur avendo come filo conduttore i Kina e portandola a intervistare componenti e persone che hanno gravitato intorno alla band, spesso risulta come una sorta di interruzione in un continuum.
Ma a ben pensarci, è proprio questo il bello del libro: che è diverso da tutto ciò che ci si poteva aspettare. Spiazza, come facevano i Kina. E allo spiazzamento in più frangenti si sovrappone una sana nostalgia sull’onda dei ricordi, ma anche un po’ di commozione (sfido chiunque abbia mai avuto una band a leggere gli ultimi due capitoli di Gianpiero senza avere almeno la pelle d’oca o i brividi).
Di sicuro non è IL libro sui Kina. Ma è un ottimo libro sui Kina (anche l’unico, al momento).
di Andrea ValentiniUn piatto ghiotto, senza dubbio... e poi, chi conosce la band e la ama, lo fa anche per i testi: quindi l’idea di leggere un intero libro scritto da chi quei testi li ideava, è molto – ma molto – attraente. Infatti molti dei capitoli scritti da Gianpiero (soprattutto dalla metà in poi) sono piccoli gioielli di pathos e semplicità diretta, con ampie dosi di anima riversate in ogni pagina.
Forse qualcuno si starà domandando perché si parla di “capitoli scritti da Gianpiero”: la e risposta è semplice... perché in realtà questo non è un volume scritto a quattro mani, ma è due libri in uno. Uno è la storia dei Kina scritta da Capra, l’altra è la storia di una ragazza aostana (la Giacobone) che scopre la band quando ormai non esisteva più e grazie alla musica dei Kina in qualche maniera si “salva”, trova una propria dimensione. Il tutto a capitoli alternati.
Un escamotage narrativo piuttosto bizzarro per quella che, comunque, il 99% dei lettori medi – come me – vive e percepisce come una biografia musicale. Un accorgimento intrigante, ma forse non compiuto al 100%. Con tutto il rispetto, a titolo puramente personale, avrei preferito una struttura più tradizionale, dando molto più spazio ai protagonisti della saga Kina. Ma molto. La storia di salvazione/salvezza di Stephania, pur avendo come filo conduttore i Kina e portandola a intervistare componenti e persone che hanno gravitato intorno alla band, spesso risulta come una sorta di interruzione in un continuum.
Ma a ben pensarci, è proprio questo il bello del libro: che è diverso da tutto ciò che ci si poteva aspettare. Spiazza, come facevano i Kina. E allo spiazzamento in più frangenti si sovrappone una sana nostalgia sull’onda dei ricordi, ma anche un po’ di commozione (sfido chiunque abbia mai avuto una band a leggere gli ultimi due capitoli di Gianpiero senza avere almeno la pelle d’oca o i brividi).
Di sicuro non è IL libro sui Kina. Ma è un ottimo libro sui Kina (anche l’unico, al momento).
Cagnara, 9 febbraio 2015 Come macchine impazzite
Recensire un libro sui Kina, fondamentale, originale, strepitoso gruppo HC di Aosta e un po’ come parlare del nostro vissuto. Perché bene o male certi momenti li abbiamo vissuti direttamente, con forti legami con la musica e con quelli spazi autogestiti tanto cari e di massima importanza in un determinato ambiente. Io stesso ero presente quando i Kina suonarono a Pisa, un milione di anni fa. Quindi ci siamo trovati di fronte ad uno scritto molto bello che ripercorre le vicende di questo fantastico gruppo di Aosta che ha fatto del provincialismo la sua bandiera, costruendo un immagine molto al di fuori di un sacco di schemi. Melodici e taglienti, ma anche avventurosi nel seguire un istinto musicale capace di portarli in giro per l’Europa come nel nostro paese. Punta di rammarico per la scena che si sgretola, dove l’istinto primordiale cede il passo ad un futuro più ragionato. Tra Aosta e Berlino dentro un furgone blu. La parte relativa ai Kina è stata scritta direttamente dal bassista Gianpiero Capra, intrecciata con la storia di Stephania, che conosce i Kina anni dopo e ne fa porta bandiera di una vita personale fatta di lotte e punte di coraggio. Molto bella nello scrivere i sentimenti di un epoca. Noi della fanzine l’abbiamo sentita con un paio di domande che riportiamo di seguito.
Come cantano i Kina “Questi anni sono volati via.....” e a Stephania cosa hanno lasciato?
Questi anni mi hanno lasciato tanto. Mi hanno insegnato a gridare ascoltando, a cavarmela, a condividere. Questi anni mi hanno fatto capire che insieme e uniti si può fare tanto, che il punk non è morto, ma è vivo e lotta insieme a noi. Mi hanno insegnato ad uscire da un concerto con il sorriso e la palpebra tumefatta dalle spinte di quel pogo che se cadevi erano in dieci a tirarti di nuovo in piedi. Mi hanno lasciato il profumo del borghetti rovesciato sui vestiti, l’odore dei gas lacrimogeni che fanno piangere lacrime di rabbia, la luce dell’alba davanti al Paso, abbracciando il mio migliore amico in canottiera a gennaio, una canottiera bianca, inzozzata di birra e sudore di chissà chi. Questi anni mi hanno parlato di quello che è stato, all’inizio il do it yourself, le occupazioni e l’autogestione e li ho praticati, nei miei anni, gli anni degli sgomberi forsennati, della lotta per la casa coi picchetti antisfratto alle quattro del mattino. Le botte ai cortei che sentivo anche quelle che si prendevano gli altri. Mi hanno insegnato l’addomesticazione dei sentimenti, e ora che amo senza limiti so finalmente cosa vuol dire.
Come macchine impazzite, non è solo un libro che parla dei Kina. Giusto
Come macchine impazzite, non parla solo dei Kina, parla anche di me che, come molti altri, abbiamo recuperato le briciole di quello che era e ci abbiamo costruito sopra a quelle macerie, strutture pericolanti e molto pericolose per le istituzioni e sgradite all’industria musicale imperante. Questo libro parla anche del presente e lascia spazio ad un futuro da sempre rinnegato ma ora in fase di costruzione, perché solo distruggendo si può creare e per creare bisogna saper guardare anche avanti. Questo libro parla di punk, coraggiosamente, attraverso questo deserto creato da nichilisti e nostalgici, senza vergogna di dichiarare quanto ancora ce ne sia bisogno...
Grazie ai Kina per il loro modo di essere e a Stephania per le parole contenute in questo libro...
di Mauro FrancioniCome cantano i Kina “Questi anni sono volati via.....” e a Stephania cosa hanno lasciato?
Questi anni mi hanno lasciato tanto. Mi hanno insegnato a gridare ascoltando, a cavarmela, a condividere. Questi anni mi hanno fatto capire che insieme e uniti si può fare tanto, che il punk non è morto, ma è vivo e lotta insieme a noi. Mi hanno insegnato ad uscire da un concerto con il sorriso e la palpebra tumefatta dalle spinte di quel pogo che se cadevi erano in dieci a tirarti di nuovo in piedi. Mi hanno lasciato il profumo del borghetti rovesciato sui vestiti, l’odore dei gas lacrimogeni che fanno piangere lacrime di rabbia, la luce dell’alba davanti al Paso, abbracciando il mio migliore amico in canottiera a gennaio, una canottiera bianca, inzozzata di birra e sudore di chissà chi. Questi anni mi hanno parlato di quello che è stato, all’inizio il do it yourself, le occupazioni e l’autogestione e li ho praticati, nei miei anni, gli anni degli sgomberi forsennati, della lotta per la casa coi picchetti antisfratto alle quattro del mattino. Le botte ai cortei che sentivo anche quelle che si prendevano gli altri. Mi hanno insegnato l’addomesticazione dei sentimenti, e ora che amo senza limiti so finalmente cosa vuol dire.
Come macchine impazzite, non è solo un libro che parla dei Kina. Giusto
Come macchine impazzite, non parla solo dei Kina, parla anche di me che, come molti altri, abbiamo recuperato le briciole di quello che era e ci abbiamo costruito sopra a quelle macerie, strutture pericolanti e molto pericolose per le istituzioni e sgradite all’industria musicale imperante. Questo libro parla anche del presente e lascia spazio ad un futuro da sempre rinnegato ma ora in fase di costruzione, perché solo distruggendo si può creare e per creare bisogna saper guardare anche avanti. Questo libro parla di punk, coraggiosamente, attraverso questo deserto creato da nichilisti e nostalgici, senza vergogna di dichiarare quanto ancora ce ne sia bisogno...
Grazie ai Kina per il loro modo di essere e a Stephania per le parole contenute in questo libro...
Il mucchio selvaggio, febbraio 2015 Come macchine impazzite
Voto: 8,5
Aosta città/paese, Aosta "la punk": vero. Riduttivo però racchiudere la storia dei Kina nelle sole etichette hardcore-punk e/o anarco-punk. C’è ben altro. Narrazioni complementari. Val la pena sottolineare vivacità, penetrazioni, sinergie, flussi desideranti. Vicende intrise ed abbellite da condivisioni, militanze e da manufatti da portarsi appresso e da divulgare. Parole cantate, attacchinate sui muri, tramandate. Contiamo su di voi per fare un baffo a pregiudizi, ostracismi, ottusità. Città dormiente, una boccata d’aria a Torino (lì ci sono i Franti). Palchi da condividere. Gianpiero Capra, il bassista, racconta nel migliore dei modi, i tanti perché del volere esserci. Un furgone blu, mezzo di locomozione per informali nomadismi. Centri sociali, occupazioni, sgomberi, rock-club “off”, dove c’è una giusta causa da sostenere. Euforia dopo un concerto ben riuscito e pernottamento non in albergo ma a casa di amici o in luoghi impensabili. Tutto torna ed è cosa ben diversa dal panorama pseudo-alternativo nostrano. Finalmente Berlino, tanto sognata, tour in Nord Europa e dove c’è un’idea di vita netta e decisa. Facendo, magari, la spesa per tutti al mattino, alloggiando in case senza serrature, rispettando spazi comuni, offrendo ciò che hai, prendendo solo quello che ti serve. Un calcio al silenzio dentro. Stephania Giacobone, altra generazione ed elemento aggiunto. Con i suoi tempi e le sue modalità. Da ragazzina in una famiglia che le sembra una camera a gas. Che fruga tra carte in biblioteca e tra scatoloni di fanzine, che fa sue le liriche dei Kina. Le analizza, le urla, le vive, le usa per la sua personale emancipazione. Dai tempi in cui ad Aosta preferiva camminare tra i vicoli per evitare il passeggio e il glamour della piazza principale, all’aprirsi al mondo intero con dinamicità, nuovi incontri, emozioni, movimenti.Oggi ancora più grata e affascinata da quelle musiche pogate. Antidoti contro il veleno sparso nel presente. E che intervista gli altri componenti della band e Stefano Giaccone. Non mancano la discografia e un inserto fotografico di locandine e foto in bianco e nero.
di Massimo PirottaAosta città/paese, Aosta "la punk": vero. Riduttivo però racchiudere la storia dei Kina nelle sole etichette hardcore-punk e/o anarco-punk. C’è ben altro. Narrazioni complementari. Val la pena sottolineare vivacità, penetrazioni, sinergie, flussi desideranti. Vicende intrise ed abbellite da condivisioni, militanze e da manufatti da portarsi appresso e da divulgare. Parole cantate, attacchinate sui muri, tramandate. Contiamo su di voi per fare un baffo a pregiudizi, ostracismi, ottusità. Città dormiente, una boccata d’aria a Torino (lì ci sono i Franti). Palchi da condividere. Gianpiero Capra, il bassista, racconta nel migliore dei modi, i tanti perché del volere esserci. Un furgone blu, mezzo di locomozione per informali nomadismi. Centri sociali, occupazioni, sgomberi, rock-club “off”, dove c’è una giusta causa da sostenere. Euforia dopo un concerto ben riuscito e pernottamento non in albergo ma a casa di amici o in luoghi impensabili. Tutto torna ed è cosa ben diversa dal panorama pseudo-alternativo nostrano. Finalmente Berlino, tanto sognata, tour in Nord Europa e dove c’è un’idea di vita netta e decisa. Facendo, magari, la spesa per tutti al mattino, alloggiando in case senza serrature, rispettando spazi comuni, offrendo ciò che hai, prendendo solo quello che ti serve. Un calcio al silenzio dentro. Stephania Giacobone, altra generazione ed elemento aggiunto. Con i suoi tempi e le sue modalità. Da ragazzina in una famiglia che le sembra una camera a gas. Che fruga tra carte in biblioteca e tra scatoloni di fanzine, che fa sue le liriche dei Kina. Le analizza, le urla, le vive, le usa per la sua personale emancipazione. Dai tempi in cui ad Aosta preferiva camminare tra i vicoli per evitare il passeggio e il glamour della piazza principale, all’aprirsi al mondo intero con dinamicità, nuovi incontri, emozioni, movimenti.Oggi ancora più grata e affascinata da quelle musiche pogate. Antidoti contro il veleno sparso nel presente. E che intervista gli altri componenti della band e Stefano Giaccone. Non mancano la discografia e un inserto fotografico di locandine e foto in bianco e nero.
Rockerilla, gennaio 2015 Come macchine impazzite
La liberazione a suon di Dead Kennedys. Un Blu Bus gonfio di hardcore a zonzo per l’Europa. Concerti con Negazione, CCM, gli Scream con Dave Grohl, i Fugazi. Cinque album travolgenti, dritti al cuore. Non c’è scampo ad Aosta. Eppure i Kina ce l’hanno fatto. A quindici anni dalla fine di una delle più entusiasmanti esperienze dell’hardcore-punk europeo, l’ex bassista Gianpiero Capra (oggi fisioterapista) e la giovane autrice Stephania Giacobone raccontano la vicenda dei Kina dalla nascita nel 1982. Il valore dell’operazione sta nell’aver evitato la biografia autocelebrativa e istituzionale in favore di un accattivante “viaggio-memoir” corredato da preziose immagini di tre lustri di attività. Una storia di provincia che diventa cartina di tornasole del rock italiano tra gli anni 80 e 90, ma anche l’occasione per riscoprire gioielli come e Città invisibili.
di Donato Zoppoletteratitudine.blog.kataweb.it, 9 gennaio 2015 Come macchine impazzite
È un’interessante operazione Come macchine impazzite, scritto a quattro mani da Gianpiero Capra e Stephania Giacobone attorno a quello che il sottotitolo definisce “il doppio sparo dei Kina”: “doppio” nel senso che l’avventura musicale del gruppo punk di Aosta viene tracciata con cordiale precisione da Capra, che della band è stato uno dei fondatori e il bassista, mentre in capitoli alternati a questi di Capra la Giacobone racconta, più narrativamente e anche con maggiore enfasi, la scoperta dei Kina diversi anni dopo e la ricerca delle loro tracce attraverso dischi, cassette, ma anche riviste, fanzine, testimonianze di conoscenti comuni.
Per essere precisi: Stephania nasce “un anno dopo l’uscita del secondo album dei Kina”, “tre anni dopo il primo album dei Kina e quattro anni dopo i loro primi concerti del 1983”. Scegliere di amarli “è stata una lotta in provincia e in città” (cioè in Valle d’Aosta e a Torino): “quelle lotte che aprono gli occhi, creano divari, scelgono per te, ti insegnano a tirare fuori i denti e a strappare la carne dai tendini per nutrirti”. Il libro è insomma la ricostruzione fedele di due momenti storici assai simili: il passare degli anni non ha reso distanti o distaccati i due testimoni-scrittori. Nell’accostare i due piani temporali, Come macchine impazzite rivela quanto poco sia cambiato nella provincia tra le Alpi: rivela anche quanto le inquietudini cantate dai Kina non appartengano all’archeologia, ma siano ben radicate e in un certo senso endemiche.
A questo proposito, chiedo un po’ provocatoriamente a Stephania Giacobone se si può considerare “storicizzata” l’esperienza dei Kina e di altri gruppi affini, se la si può leggere solo attraverso il ricordo, o se invece prosegue anche oggi.
“L’esperienza dei Kina” mi risponde Stephania “a mio parere ha subito un processo di storicizzazione diverso dal consueto sedimentarsi nel ricordo di generazioni che ormai si vergognano di cosa erano e cosa ascoltavano. Durante la mia ricerca di tracce e testimonianze ho potuto vedere negli occhi di chi raccontava uno slancio di vitalità che prosegue anche oggi. I Kina non suonano più ma vivono ben oltre il solo ricordo. Spero che in questo senso la struttura che abbiamo scelto per la stesura del libro e la presenza di una voce, la mia, anagraficamente distante dagli inizi dei Kina, possa dimostrare quanto sia ancora vivo, urgente e necessario questo genere di musica.”
Tra le righe, nell’esperienza seminale dei Kina rivissuta dalla Giacobone si coglie un intento “pedagogico” che contraddice tanti cliché sul punk. Stephania nota come le fasi cruciali di una vita siano sempre segnate da un disco: per lei, il disco kiniano dell’iniziazione, o meglio della rivelazione, è stato Questi anni: autoproduzione, autogestione, antagonismo, sono concetti che l’adolescente Stephania sente già propri e che trovano nell’esperienza dei Kina un riferimento trascinante.
Stephania racconta dapprima di una Courmayeur, suo paese natale, ben diversa dalla località promossa dalle strategie di marketing: ne fa un luogo svuotato, “spoglio, in cui le mezze stagioni erano l’isolamento da tutto e da tutti”. Risale a questa fase iniziale una sorta di sensibilità al rumore che finirà per assumere quasi una funzione proustiana e il valore di un’epifania: “Il rumore dell’acciaio” della pistola del padre lasciata cadere “sul pavimento di legno era un’eco metallica sorda. Avrei ritrovato lo stesso suono nei giri di batteria di alcune canzoni punk”. E, poco prima: “Avevo bisogno di una musica che diventasse il grido che avevo soffocato e la rabbia mai espressa”. E soprattutto, a proposito delle interminabili domeniche in famiglia, scandite dai rumori della televisione e dei programmi sportivi: “Spaccavo il ghiaccio a morsi. Mi piaceva il rumore che faceva, mi piacevano i rumori striduli e spaventosi. Il rumore della pistola sul pavimento di legno. Il rumore della mamma del mio migliore amico Diego che urlava di dolore e lanciava la bottiglia contro il muro.” È insomma il racconto di un’iniziazione al “rumore” come dotato di spessore semantico e la scoperta di una vocazione (Quei rumori… “mi hanno fatto capire che la via di fuga era nascosta nel mio stesso inferno”).
Come Courmayeur, anche Aosta, in cui la Giacobone si traferisce qualche anno più tardi, è descritta come un non-luogo, una città solo di nome, o “per errore”, di fatto un paese di poco più grande di quello da cui proveniva, e allora “una camera anecoica”.
“All’epoca della mia adolescenza” mi dice Stephania “avevo solo Aosta come città di riferimento, volevo tutto e subito, volevo spazi, rumore, festa. E non c’era nulla di tutto questo. Ecco il motivo della mia definizione della città di allora come camera anecoica e il mio estremo bisogno di suono. Poi, la città di riferimento negli anni dell’Università per me è cambiata, è diventata Torino, dove il rumore non mancava, non mancavano gli spazi occupati, la vitalità del teatro, della musica, della cultura. Dopo otto anni di Torino, tornare ad Aosta è stata inizialmente una scelta obbligata, poi una piacevole riscoperta. Aosta è anecoica come sempre, forse peggio, ma io ho trovato il suono che voglio ascoltare, quando voglio, e se mi va di sentirlo suonare dal vivo, Torino è vicina.”
Emerge sempre più chiara la definizione di un punk che rompe gli schemi e libera energie represse, assimila le paure e le angosce e ne cava qualcosa di nuovo e di vero, rappresenta una “via d’uscita e un antidoto al veleno del presente”, e diventa infine, nella sua fase matura (con Parlami ancora, del 1992) una sorta di sintesi consapevole delle ribellioni e le lotte di tutti i tempi. Vale la pena citare le parole con cui i Kina presentavano l’LP al momento della sua uscita: “Le idee e le battaglie ci parlano ancora: noi proviamo ad ascoltare l’eco di ieri per costruire nuovi suoni oggi, sperando che questo disco parli ora e in futuro a te e a coloro che verranno”. È una dichiarazione di poetica e di politica, insieme ambiziosa e umile (“proviamo”, “sperando”), in cui il legame con il passato nutre la ricerca del presente e del futuro e che travalica ogni definizione di genere. “È l’essenza del punk hardcore” mi conferma Stephania. “È quel che mi ha formata da sempre. Sono le idee e le battaglie che ho fatto mie negli anni. E come ho fatto io, avranno fatto molti altri.”
La musica dei Kina finisce per avere una funzione insieme terapeutica e catartica: scatena l’urlo, e insieme “cuce le ferite e cura gli ematomi”; evoca gli angosciosi e mai rimossi “rumori” sintomi di ingiustizia e allo stesso tempo li formalizza e li ricompone in un tessuto che li spiega e li domina: esalta e appiana. Musica e testi dei Kina sono inframmezzati al racconto e collegati a momenti della vita dell’autrice come se ne avessero previsto lo svolgimento o come se la scoperta di quei testi rappresentasse l’indicazione di una svolta, la rivelazione che quello che le accadeva non riguardava solo lei, ma era tappa di un percorso comune.
Quanto ai dettagliatissimi capitoli firmati da Capra, vi notiamo grande determinazione, insoddisfazione e caparbietà (nel senso migliore), desiderio di imparare e mettersi in gioco continuamente, fino allo sfinimento; io vi leggo anche l’elogio dell’onestà intellettuale, della sincerità, anche (paradossalmente) della pazienza. Il suo resoconto è privo di quel macchiettismo fin troppo facile a cui molti ricorrono in casi simili, eppure è divertente, schietto nel descrivere prove, concerti, cambiamenti di formazione, fondazione dell’etichetta indipendente Blu Bus, e soprattutto la serie impressionante di concerti in giro per l’Europa.
“Ci sarebbe bisogno anche oggi di qualcuno come i Kina” mi confida Stephania. “A livello musicale ci sono nuovi gruppi punk hardcore non male in Italia e all’estero. La crisi dovrebbe essere terreno ancora più fertile per far nascere il conflitto, la dissidenza e la voglia di produrre musica in linea con l’attitudine della protesta. In realtà molti gruppi, fortunatamente non la maggioranza a mio parere, si abbandonano a un cinismo musicale, anziché riportare in vita quella che era l’agitazione del punk hardcore, perché sembrano dire «Se è morto, non sarò io a risuscitarlo».”
di Claudio MorandiniPer essere precisi: Stephania nasce “un anno dopo l’uscita del secondo album dei Kina”, “tre anni dopo il primo album dei Kina e quattro anni dopo i loro primi concerti del 1983”. Scegliere di amarli “è stata una lotta in provincia e in città” (cioè in Valle d’Aosta e a Torino): “quelle lotte che aprono gli occhi, creano divari, scelgono per te, ti insegnano a tirare fuori i denti e a strappare la carne dai tendini per nutrirti”. Il libro è insomma la ricostruzione fedele di due momenti storici assai simili: il passare degli anni non ha reso distanti o distaccati i due testimoni-scrittori. Nell’accostare i due piani temporali, Come macchine impazzite rivela quanto poco sia cambiato nella provincia tra le Alpi: rivela anche quanto le inquietudini cantate dai Kina non appartengano all’archeologia, ma siano ben radicate e in un certo senso endemiche.
A questo proposito, chiedo un po’ provocatoriamente a Stephania Giacobone se si può considerare “storicizzata” l’esperienza dei Kina e di altri gruppi affini, se la si può leggere solo attraverso il ricordo, o se invece prosegue anche oggi.
“L’esperienza dei Kina” mi risponde Stephania “a mio parere ha subito un processo di storicizzazione diverso dal consueto sedimentarsi nel ricordo di generazioni che ormai si vergognano di cosa erano e cosa ascoltavano. Durante la mia ricerca di tracce e testimonianze ho potuto vedere negli occhi di chi raccontava uno slancio di vitalità che prosegue anche oggi. I Kina non suonano più ma vivono ben oltre il solo ricordo. Spero che in questo senso la struttura che abbiamo scelto per la stesura del libro e la presenza di una voce, la mia, anagraficamente distante dagli inizi dei Kina, possa dimostrare quanto sia ancora vivo, urgente e necessario questo genere di musica.”
Tra le righe, nell’esperienza seminale dei Kina rivissuta dalla Giacobone si coglie un intento “pedagogico” che contraddice tanti cliché sul punk. Stephania nota come le fasi cruciali di una vita siano sempre segnate da un disco: per lei, il disco kiniano dell’iniziazione, o meglio della rivelazione, è stato Questi anni: autoproduzione, autogestione, antagonismo, sono concetti che l’adolescente Stephania sente già propri e che trovano nell’esperienza dei Kina un riferimento trascinante.
Stephania racconta dapprima di una Courmayeur, suo paese natale, ben diversa dalla località promossa dalle strategie di marketing: ne fa un luogo svuotato, “spoglio, in cui le mezze stagioni erano l’isolamento da tutto e da tutti”. Risale a questa fase iniziale una sorta di sensibilità al rumore che finirà per assumere quasi una funzione proustiana e il valore di un’epifania: “Il rumore dell’acciaio” della pistola del padre lasciata cadere “sul pavimento di legno era un’eco metallica sorda. Avrei ritrovato lo stesso suono nei giri di batteria di alcune canzoni punk”. E, poco prima: “Avevo bisogno di una musica che diventasse il grido che avevo soffocato e la rabbia mai espressa”. E soprattutto, a proposito delle interminabili domeniche in famiglia, scandite dai rumori della televisione e dei programmi sportivi: “Spaccavo il ghiaccio a morsi. Mi piaceva il rumore che faceva, mi piacevano i rumori striduli e spaventosi. Il rumore della pistola sul pavimento di legno. Il rumore della mamma del mio migliore amico Diego che urlava di dolore e lanciava la bottiglia contro il muro.” È insomma il racconto di un’iniziazione al “rumore” come dotato di spessore semantico e la scoperta di una vocazione (Quei rumori… “mi hanno fatto capire che la via di fuga era nascosta nel mio stesso inferno”).
Come Courmayeur, anche Aosta, in cui la Giacobone si traferisce qualche anno più tardi, è descritta come un non-luogo, una città solo di nome, o “per errore”, di fatto un paese di poco più grande di quello da cui proveniva, e allora “una camera anecoica”.
“All’epoca della mia adolescenza” mi dice Stephania “avevo solo Aosta come città di riferimento, volevo tutto e subito, volevo spazi, rumore, festa. E non c’era nulla di tutto questo. Ecco il motivo della mia definizione della città di allora come camera anecoica e il mio estremo bisogno di suono. Poi, la città di riferimento negli anni dell’Università per me è cambiata, è diventata Torino, dove il rumore non mancava, non mancavano gli spazi occupati, la vitalità del teatro, della musica, della cultura. Dopo otto anni di Torino, tornare ad Aosta è stata inizialmente una scelta obbligata, poi una piacevole riscoperta. Aosta è anecoica come sempre, forse peggio, ma io ho trovato il suono che voglio ascoltare, quando voglio, e se mi va di sentirlo suonare dal vivo, Torino è vicina.”
Emerge sempre più chiara la definizione di un punk che rompe gli schemi e libera energie represse, assimila le paure e le angosce e ne cava qualcosa di nuovo e di vero, rappresenta una “via d’uscita e un antidoto al veleno del presente”, e diventa infine, nella sua fase matura (con Parlami ancora, del 1992) una sorta di sintesi consapevole delle ribellioni e le lotte di tutti i tempi. Vale la pena citare le parole con cui i Kina presentavano l’LP al momento della sua uscita: “Le idee e le battaglie ci parlano ancora: noi proviamo ad ascoltare l’eco di ieri per costruire nuovi suoni oggi, sperando che questo disco parli ora e in futuro a te e a coloro che verranno”. È una dichiarazione di poetica e di politica, insieme ambiziosa e umile (“proviamo”, “sperando”), in cui il legame con il passato nutre la ricerca del presente e del futuro e che travalica ogni definizione di genere. “È l’essenza del punk hardcore” mi conferma Stephania. “È quel che mi ha formata da sempre. Sono le idee e le battaglie che ho fatto mie negli anni. E come ho fatto io, avranno fatto molti altri.”
La musica dei Kina finisce per avere una funzione insieme terapeutica e catartica: scatena l’urlo, e insieme “cuce le ferite e cura gli ematomi”; evoca gli angosciosi e mai rimossi “rumori” sintomi di ingiustizia e allo stesso tempo li formalizza e li ricompone in un tessuto che li spiega e li domina: esalta e appiana. Musica e testi dei Kina sono inframmezzati al racconto e collegati a momenti della vita dell’autrice come se ne avessero previsto lo svolgimento o come se la scoperta di quei testi rappresentasse l’indicazione di una svolta, la rivelazione che quello che le accadeva non riguardava solo lei, ma era tappa di un percorso comune.
Quanto ai dettagliatissimi capitoli firmati da Capra, vi notiamo grande determinazione, insoddisfazione e caparbietà (nel senso migliore), desiderio di imparare e mettersi in gioco continuamente, fino allo sfinimento; io vi leggo anche l’elogio dell’onestà intellettuale, della sincerità, anche (paradossalmente) della pazienza. Il suo resoconto è privo di quel macchiettismo fin troppo facile a cui molti ricorrono in casi simili, eppure è divertente, schietto nel descrivere prove, concerti, cambiamenti di formazione, fondazione dell’etichetta indipendente Blu Bus, e soprattutto la serie impressionante di concerti in giro per l’Europa.
“Ci sarebbe bisogno anche oggi di qualcuno come i Kina” mi confida Stephania. “A livello musicale ci sono nuovi gruppi punk hardcore non male in Italia e all’estero. La crisi dovrebbe essere terreno ancora più fertile per far nascere il conflitto, la dissidenza e la voglia di produrre musica in linea con l’attitudine della protesta. In realtà molti gruppi, fortunatamente non la maggioranza a mio parere, si abbandonano a un cinismo musicale, anziché riportare in vita quella che era l’agitazione del punk hardcore, perché sembrano dire «Se è morto, non sarò io a risuscitarlo».”
la Repubblica, 28 dicembre 2014 Quella via d’uscita chiamata punk
Due storie parallele che infine convergono. Per raccontare un esempio importante di quella “scena” che, attraversando gli anni 80, ha poi contaminato musica, costume e molto altro dei decenni a seguire. Da punk, anzi dall’hardcore (versione accelerata, per intenderci) alla conquista del mondo. Negli Stati Uniti come in Italia. Fino ad Aosta, dove parte la vicenda dei Kina, tre ragazzi che caricarono gli zaini prima e i furgoni poi con idee ribelli, suoni distorti e talento, affermandosi nel circuito alternativo europeo. «Vedevo gente ridere, piangere, abbracciarsi, litigare, prendersi a schiaffi, afferrarsi per mano e andare via. Una porzione di umanità nei suoi momenti migliori», scrive Gianpiero Capra, bassista della band diventata punto di riferimento per la vita antagonista della narrazione parallela e successiva (solo temporalmente, ma ancor più rabbiosa, tra occupazioni e sgomberi, amore, botte e risate) di Sthepania Giacobone. Un prezioso volume «per chi ha visto il punk come una via d’uscita e un antidoto al veleno del presente». Ma non solo.
di Marco Mathieu
Due storie parallele che infine convergono. Per raccontare un esempio importante di quella “scena” che, attraversando gli anni 80, ha poi contaminato musica, costume e molto altro dei decenni a seguire. Da punk, anzi dall’hardcore (versione accelerata, per intenderci) alla conquista del mondo. Negli Stati Uniti come in Italia. Fino ad Aosta, dove parte la vicenda dei Kina, tre ragazzi che caricarono gli zaini prima e i furgoni poi con idee ribelli, suoni distorti e talento, affermandosi nel circuito alternativo europeo. «Vedevo gente ridere, piangere, abbracciarsi, litigare, prendersi a schiaffi, afferrarsi per mano e andare via. Una porzione di umanità nei suoi momenti migliori», scrive Gianpiero Capra, bassista della band diventata punto di riferimento per la vita antagonista della narrazione parallela e successiva (solo temporalmente, ma ancor più rabbiosa, tra occupazioni e sgomberi, amore, botte e risate) di Sthepania Giacobone. Un prezioso volume «per chi ha visto il punk come una via d’uscita e un antidoto al veleno del presente». Ma non solo.
tonyface.blogspot.it, 21 dicembre 2014 Come macchine impazzite
Ci sono storie, spezzoni di vita, sensazioni, Bagliori accecanti, in tutti Quegli anni importanti, in cui con gli Occhi sbarrati si è andati avanti grazie alla Forza del sogno. Sono storie che è difficile raccontare, tanto più riuscire a renderne la forza, lo spessore, tanto più fare sentire quell’Irreale realtà che li ha permeati in ogni secondo. Ogni secondo bruciato, vissuto in tutta la sua totalità, in una frenesia di vivere, senza Nessuno schema.
Alla fine c’è chi ha vinto e chi ha perso ma sicuramente la nostra vita ne è stata indelebilmente segnata e, con un pizzico di orgoglio, ha segnato allo stesso modo anche quello di altri.
Parlo al plurale perché mi sono riconosciuto tantissimo in ogni riga di questo SPLENDIDO lavoro di Gianpiero Capra e Stephania Giacobone.
È la storia dei KINA, uno dei più importanti gruppi PUNK della scena italiana, ma non solo, attraverso i racconti di Gianpiero (che ne fu uno dei principali artefici) e di Stephania (che dai Kina ha tratto linfa vitale per scoprire una nuova visione del mondo e sua volta provare a cambiarlo). Sono testimonianze e racconti profondissimi, toccanti, talvolta duri. Le vittorie si mischiano alle sconfitte, momenti epici e splendidi all’amarezza delle cadute, dell’incomprensione, dei giudizi stupidi e ingenerosi.
Ci sono anche i contributi degli altri protagonisti dell’epopea KINA (e della magnifica esperienza dell’etichetta/distribuzione BLU BUS - quanti dischi scambiati con l’amico fraterno Sergio Milani).
Il racconto è diretto, senza metafore o giri di parole e alla fine “il fuoco dentro” si rialimenta di rabbia, furore, di Irreale irrealtà, perché non si è mai spento e mai si spegnerà.
KEEP THE FAITH!
di Tony Face BacciocchiAlla fine c’è chi ha vinto e chi ha perso ma sicuramente la nostra vita ne è stata indelebilmente segnata e, con un pizzico di orgoglio, ha segnato allo stesso modo anche quello di altri.
Parlo al plurale perché mi sono riconosciuto tantissimo in ogni riga di questo SPLENDIDO lavoro di Gianpiero Capra e Stephania Giacobone.
È la storia dei KINA, uno dei più importanti gruppi PUNK della scena italiana, ma non solo, attraverso i racconti di Gianpiero (che ne fu uno dei principali artefici) e di Stephania (che dai Kina ha tratto linfa vitale per scoprire una nuova visione del mondo e sua volta provare a cambiarlo). Sono testimonianze e racconti profondissimi, toccanti, talvolta duri. Le vittorie si mischiano alle sconfitte, momenti epici e splendidi all’amarezza delle cadute, dell’incomprensione, dei giudizi stupidi e ingenerosi.
Ci sono anche i contributi degli altri protagonisti dell’epopea KINA (e della magnifica esperienza dell’etichetta/distribuzione BLU BUS - quanti dischi scambiati con l’amico fraterno Sergio Milani).
Il racconto è diretto, senza metafore o giri di parole e alla fine “il fuoco dentro” si rialimenta di rabbia, furore, di Irreale irrealtà, perché non si è mai spento e mai si spegnerà.
KEEP THE FAITH!
www.carmillaonline.com, 16 dicembre 2014 Kina, come macchine impazzite
Quello tentato da Stephania Giacobone, Gianpiero Capra – bassista storico dei Kina – e dalla casa editrice Agenzia X è un esperimento ambizioso: raccontare il punk come uno sparo ancora vivo e non come il simulacro nostalgico di un tempo ormai passato e sorpassato. A dare linfa a quest’idea è il racconto di una ragazza nata nel 1987, una fan postuma arrivata quando tutto quello che i Kina hanno scritto è già stato suonato e risuonato. Appena il tempo per assistere a qualche reunion brizzolata. Stephania vive l’infanzia a Courmayeur e poi si trasferisce ad Aosta ma non si trova a suo agio né nel piccolo paese ai piedi del Monte Bianco, né in quella che si ostinano a chiamare città ma in realtà è soltanto un paese più grande degli altri. Cerca una via di fuga. Vuole scappare da una Valle che per lei altro non è che una camera anecoica, dove un loop di grida ed indifferenza esce da un amplificatore che ha le sembianze di un padre oppressivo e claustrofobico. Urlare contro le montagne non serve, contribuisce solo a confermare la condizione di spaesamento che si prova quando ci si rende conto di essere soli. L’eco ritorna indietro sempre uguale e moltiplica la rabbia del proprio disagio.
Stephania un giorno scopre un manifesto strappato, in un vicolo del centro di Aosta, attacchinato anni prima, legge le tracce di un’occupazione, quella della Torre dei Balivi, da parte del collettivo anarchico Piloto Io e quelle di uno sgombero e una repressione senza precedenti in città, che costringe al carcere tredici compagni. Inizia a documentarsi e subito le cuffie si riempiono della musica e dei testi dei Kina. Quel suono è uno sparo capace di bucare le montagne e andare oltre la camera anecoica, aprire una breccia d’utopia in una valle senza speranza.Gianpiero è il bassista di un gruppo punk che tra gli anni ’80 e ’90 ha fatto conoscere a tutta Europa la scena hardcore italiana, uno di quei tre montagnini – insieme a Sergio Milani alla batteria e Alberto Ventrella alla chitarra (a cui si uniranno nell’avventura anche Marco Brunet e Stefano Giaccone) – che incendieranno le polveri del punk a colpi di autoproduzione e viaggi in furgone. L’Europa è piena di frontiere e controlli doganali, anche le esportazioni dei dischi sono regolate, Berlino Ovest è un’isola in fermento, un’enclave accerchiata da un muro che la divide dalla Germania Est. Kreuzberg non è solo un nome che si fa largo per il continente, ma un quartiere brulicante di cultura alternativa e autogestione.
E i Kina – a Berlino come a Torino – sono strani, si vede che non sono punk metropolitani, un po’ provinciali e un po’ originali, con quello stile particolare nell’abbigliamento e nel portare barba e capelli. Eppure sia in Italia che all’estero riescono a farsi rispettare e apprezzare, con qualche piccolo sgarro alla “scena” s’intende: “A giugno ci esibiamo clandestinamente alla Festa dell’Unità di Aosta. Lo facciamo di nascosto perché se i punk torinesi l’avessero saputo, avremmo chiuso con tutti. A noi però quel concerto serviva, perché all’epoca era l’unico modo per suonare ad Aosta. Potranno mai i metropolitani capire le ragioni di noi provinciali?”
A fare da collante tra le due narrazioni, oltre alle canzoni dei Kina, ci sono in tempi diversi le città di Aosta, Torino e Berlino – richiamate insieme al Blu Bus nell’ottima veste grafica di copertina – e poi le occupazioni, gli sgomberi, gli scontri e gli squat. Grazie ai Kina e al punk Stephania inizia il suo percorso di liberazione e catarsi che trova espressione in questo libro. Tuttavia l’ambizioso esperimento di dare contemporaneità al punk ha successo solo in parte. La linfa che sgorga dal pennino di Stephania e da quello dell’ex Kina Gianpiero sfiorano a più riprese l’eccesso d’intimismo calcando troppo spesso la matita su sé stessi. A risentire dello schiacciamento di prospettiva è in parte la complessità di un periodo e forse a tratti la profondità del viaggio dei Kina.
Ma questo, lo si è capito, non è un libro sulla scena punk-hardcore degli anni ’80 e sui Kina – pur essendo la prima opera che li racconta da due angolature interessanti – ma la storia di un’evasione capace di innescare un’altra evasione e chissà quante altre detonazioni a catena. La lettura è veloce e scorrevole e l’apparato di interviste e foto che conclude il libro – grazie soprattutto alle voci di Sergio Milani, Alberto Ventrella e Stefano Giaccone – necessario all’equilibrio del testo. Tra le foto si riconosce anche un giovanissimo Dave Grohl, che nel maggio del 1990, in tour con gli Scream, condivise il palco e la notte di Francoforte con i Kina. Appena un anno dopo, Dave entrerà in studio per registrare Nevermind con i Nirvana.
di Simone Scaffidi LallaroStephania un giorno scopre un manifesto strappato, in un vicolo del centro di Aosta, attacchinato anni prima, legge le tracce di un’occupazione, quella della Torre dei Balivi, da parte del collettivo anarchico Piloto Io e quelle di uno sgombero e una repressione senza precedenti in città, che costringe al carcere tredici compagni. Inizia a documentarsi e subito le cuffie si riempiono della musica e dei testi dei Kina. Quel suono è uno sparo capace di bucare le montagne e andare oltre la camera anecoica, aprire una breccia d’utopia in una valle senza speranza.Gianpiero è il bassista di un gruppo punk che tra gli anni ’80 e ’90 ha fatto conoscere a tutta Europa la scena hardcore italiana, uno di quei tre montagnini – insieme a Sergio Milani alla batteria e Alberto Ventrella alla chitarra (a cui si uniranno nell’avventura anche Marco Brunet e Stefano Giaccone) – che incendieranno le polveri del punk a colpi di autoproduzione e viaggi in furgone. L’Europa è piena di frontiere e controlli doganali, anche le esportazioni dei dischi sono regolate, Berlino Ovest è un’isola in fermento, un’enclave accerchiata da un muro che la divide dalla Germania Est. Kreuzberg non è solo un nome che si fa largo per il continente, ma un quartiere brulicante di cultura alternativa e autogestione.
E i Kina – a Berlino come a Torino – sono strani, si vede che non sono punk metropolitani, un po’ provinciali e un po’ originali, con quello stile particolare nell’abbigliamento e nel portare barba e capelli. Eppure sia in Italia che all’estero riescono a farsi rispettare e apprezzare, con qualche piccolo sgarro alla “scena” s’intende: “A giugno ci esibiamo clandestinamente alla Festa dell’Unità di Aosta. Lo facciamo di nascosto perché se i punk torinesi l’avessero saputo, avremmo chiuso con tutti. A noi però quel concerto serviva, perché all’epoca era l’unico modo per suonare ad Aosta. Potranno mai i metropolitani capire le ragioni di noi provinciali?”
A fare da collante tra le due narrazioni, oltre alle canzoni dei Kina, ci sono in tempi diversi le città di Aosta, Torino e Berlino – richiamate insieme al Blu Bus nell’ottima veste grafica di copertina – e poi le occupazioni, gli sgomberi, gli scontri e gli squat. Grazie ai Kina e al punk Stephania inizia il suo percorso di liberazione e catarsi che trova espressione in questo libro. Tuttavia l’ambizioso esperimento di dare contemporaneità al punk ha successo solo in parte. La linfa che sgorga dal pennino di Stephania e da quello dell’ex Kina Gianpiero sfiorano a più riprese l’eccesso d’intimismo calcando troppo spesso la matita su sé stessi. A risentire dello schiacciamento di prospettiva è in parte la complessità di un periodo e forse a tratti la profondità del viaggio dei Kina.
Ma questo, lo si è capito, non è un libro sulla scena punk-hardcore degli anni ’80 e sui Kina – pur essendo la prima opera che li racconta da due angolature interessanti – ma la storia di un’evasione capace di innescare un’altra evasione e chissà quante altre detonazioni a catena. La lettura è veloce e scorrevole e l’apparato di interviste e foto che conclude il libro – grazie soprattutto alle voci di Sergio Milani, Alberto Ventrella e Stefano Giaccone – necessario all’equilibrio del testo. Tra le foto si riconosce anche un giovanissimo Dave Grohl, che nel maggio del 1990, in tour con gli Scream, condivise il palco e la notte di Francoforte con i Kina. Appena un anno dopo, Dave entrerà in studio per registrare Nevermind con i Nirvana.
gaetanolopresti.wordpress.com, 13 dicembre 2014 I Kina si raccontano nel libro Come macchine impazzite
È tempo di rievocazioni anche per i Kina, “the best italian punk from Aosta”, come li definirono in Germania.
17 anni dopo che si è conclusa la loro parabola creativa, e a due da quel 22 dicembre 2012, quando, dopo varie episodiche reunion, hanno tenuto il definitivo concerto d’addio all’Espace Populaire.
Lo stesso locale aostano che il 29 novembre ha ospitato la presentazione di Come macchine impazzite, il libro a loro dedicato dalla Agenzia X dell’amico Marco Philopat, grande esperto di punk italiano.
Nelle sue 260 pagine la narrazione procede, come il caratteristico modo di cantare della band, a più voci.
La principale è quella del cinquantaduenne Gianpiero Capra, ex bassista del gruppo, nel cui racconto l’introspezione psicologica («ho capito che cosa vuol dire suonare quando ho sentito, per la prima volta, il silenzio dentro») si intreccia alle notazioni sociologiche (dai viaggi nella Berlino prima della caduta del muro al rapporto conflittuale col Potere in Valle) e ai cenni sulla loro musica (che non era semplice volume “tutto a 10”, ma anche sound nato dagli «accordi aperti di Alberto su cui io, col basso, poteva suonare molte note diverse»).
Gli altri due membri storici del gruppo, il batterista Sergio Milani ed il chitarrista Alberto Ventrella si limitano, invece, a rispondere alle interviste curate nella seconda parte da Stephania Giacobone. Quest’ultima, ventisettenne studentessa del Dams e della Scuola Holden di Torino, oltre ad avere avuto l’idea del libro, intercala il racconto di Capra con quello dei riflessi che i Kina hanno avuto nella sua “storia di liberazione” da “un difficile contesto familiare”.
Una visione privata che fa risaltare, per contrasto, la coscienza collettiva che traspare dalle testimonianze dei Kina e degli altri musicisti intervistati. Perché, come dichiara Stefano Giaccone (che ha fatto parte dei Kina tra il 1990 ed il 93): “il punk è stato l’ultimo movimento in grado di mischiare quello che succede in mezzo alla strada con quello che accade dentro all’anima degli individui e c’è una dinamica in questo che ha un ritmo che posso suonare….Il punk è stata l’ultima volta che la gente ancora si toccava, proprio materialmente, e sudava assieme.”
Interessante anche la testimonianza di Michele Berselli sull’esperienza della Blu Bus, l’etichetta discografica che i Kina gestirono tra il 1984 ed il 28 dicembre 1998. «Il problema - spiega Berselli - era che non c’erano risorse economiche o umane per portarla avanti e restavamo con questo senso terribile di eterna frustrazione.»
Fa da sfondo al libro Aosta, la città per cui i Kina sono stati un’anomalia sconosciuta ai più, e della quale parlarono specificamente in un’unica canzone: Non c’è scampo. “Lungo la strada- recitava il testo- la gente dimentica i sogni che ha fatto e sorride senza capire perché. Cambiare è doloroso. Ascolto la mia radio sintonizzata col nulla. Non c’è scampo ad Aosta. Questione di carattere: puoi incazzarti o prendertela comoda.”
La città che per la Giacobone è sempre stata “una camera anecoica, dove spariscono nel nulla rumori e idee” e per Gianpiero “un sonnifero/anestetico che a piccole dosi tranquillizza e a dosi maggiori ammazza.”
La città in cui la trentennale avventura dei Kina è nata e si è conclusa. Con, a suggellarla, il disco Città invisibili, del 1996, nel quale Capra, ancor prima di prendere coscienza della fine, ne scrisse il perfetto epitaffio. “È ormai tempo di allontanarsi piano dai castelli, le mura sono troppo alte e gli uomini troppo piccoli. Preferisco tornare giù nella pozza con gli altri, la strada e piena di fango e noi pure. Ho sempre voluto correre il rischio di sporcarmi col fango degli altri, vi lascio i vostri vestiti puliti, non sono per me.”
di Gaetano Lo Presti17 anni dopo che si è conclusa la loro parabola creativa, e a due da quel 22 dicembre 2012, quando, dopo varie episodiche reunion, hanno tenuto il definitivo concerto d’addio all’Espace Populaire.
Lo stesso locale aostano che il 29 novembre ha ospitato la presentazione di Come macchine impazzite, il libro a loro dedicato dalla Agenzia X dell’amico Marco Philopat, grande esperto di punk italiano.
Nelle sue 260 pagine la narrazione procede, come il caratteristico modo di cantare della band, a più voci.
La principale è quella del cinquantaduenne Gianpiero Capra, ex bassista del gruppo, nel cui racconto l’introspezione psicologica («ho capito che cosa vuol dire suonare quando ho sentito, per la prima volta, il silenzio dentro») si intreccia alle notazioni sociologiche (dai viaggi nella Berlino prima della caduta del muro al rapporto conflittuale col Potere in Valle) e ai cenni sulla loro musica (che non era semplice volume “tutto a 10”, ma anche sound nato dagli «accordi aperti di Alberto su cui io, col basso, poteva suonare molte note diverse»).
Gli altri due membri storici del gruppo, il batterista Sergio Milani ed il chitarrista Alberto Ventrella si limitano, invece, a rispondere alle interviste curate nella seconda parte da Stephania Giacobone. Quest’ultima, ventisettenne studentessa del Dams e della Scuola Holden di Torino, oltre ad avere avuto l’idea del libro, intercala il racconto di Capra con quello dei riflessi che i Kina hanno avuto nella sua “storia di liberazione” da “un difficile contesto familiare”.
Una visione privata che fa risaltare, per contrasto, la coscienza collettiva che traspare dalle testimonianze dei Kina e degli altri musicisti intervistati. Perché, come dichiara Stefano Giaccone (che ha fatto parte dei Kina tra il 1990 ed il 93): “il punk è stato l’ultimo movimento in grado di mischiare quello che succede in mezzo alla strada con quello che accade dentro all’anima degli individui e c’è una dinamica in questo che ha un ritmo che posso suonare….Il punk è stata l’ultima volta che la gente ancora si toccava, proprio materialmente, e sudava assieme.”
Interessante anche la testimonianza di Michele Berselli sull’esperienza della Blu Bus, l’etichetta discografica che i Kina gestirono tra il 1984 ed il 28 dicembre 1998. «Il problema - spiega Berselli - era che non c’erano risorse economiche o umane per portarla avanti e restavamo con questo senso terribile di eterna frustrazione.»
Fa da sfondo al libro Aosta, la città per cui i Kina sono stati un’anomalia sconosciuta ai più, e della quale parlarono specificamente in un’unica canzone: Non c’è scampo. “Lungo la strada- recitava il testo- la gente dimentica i sogni che ha fatto e sorride senza capire perché. Cambiare è doloroso. Ascolto la mia radio sintonizzata col nulla. Non c’è scampo ad Aosta. Questione di carattere: puoi incazzarti o prendertela comoda.”
La città che per la Giacobone è sempre stata “una camera anecoica, dove spariscono nel nulla rumori e idee” e per Gianpiero “un sonnifero/anestetico che a piccole dosi tranquillizza e a dosi maggiori ammazza.”
La città in cui la trentennale avventura dei Kina è nata e si è conclusa. Con, a suggellarla, il disco Città invisibili, del 1996, nel quale Capra, ancor prima di prendere coscienza della fine, ne scrisse il perfetto epitaffio. “È ormai tempo di allontanarsi piano dai castelli, le mura sono troppo alte e gli uomini troppo piccoli. Preferisco tornare giù nella pozza con gli altri, la strada e piena di fango e noi pure. Ho sempre voluto correre il rischio di sporcarmi col fango degli altri, vi lascio i vostri vestiti puliti, non sono per me.”
Rumore, dicembre 2014 Come macchine impazzite
La frase: “E noi, a guardarci dentro.”
Voto: 8/10
I Kina sono stati tra i “fondamentali” della scena punk italiana e Gianpaolo Capra, che ne è stato il bassista, struttura una storia dettagliata e appassionante, coadiuvato da Stephania Giacobone. Per chi viene dalla provincia, è facile comprendere l’energia espressa in liriche poco inclini agli slogan e al turpiloquio reiterato. Non si tratta di pavoneggiarsi tra parole di plastica e citazioni ad effetto, qui il malessere dell’isolamento si sente tra riga e riga, nel desiderio testardo di migliorarsi come musicisti e come persone. Da qui il confronto costante con i punk tedeschi, olandesi, americani, scandinavi, che si tratti di canzoni o manifestazioni, in prima fila durante gli sgomberi o le occupazioni. Da Aosta a Lecce il furgone Blu Blus supera in chilometraggio qualunque altro mezzo di locomozione, le storie della frontiera con i dischi da dichiarare, i concerti che non si sa se ci sono, le dormite sul palco, i dubbi gli abbandoni e i ritorni, le sale prova a tempo, le sterili diatribe sull’essere o no punk che si sciolgono come neve al sole quando si passa il confine. A completamento della storia parallela musicista/fan, un giro di interviste ai singoli componenti del gruppo, con lo stesso episodio cruciale visto dagli occhi di ciascuno. “C’è un momento di malinconia strisciante nel cantare tutti insieme Questi anni scrive in chiusura Filippo Cottone. Ma poi è tempo di staccare, di impegnatsi in tutt’altro, per lo stesso principio, però. E questo è il punk.
di Fabio StrianiVoto: 8/10
I Kina sono stati tra i “fondamentali” della scena punk italiana e Gianpaolo Capra, che ne è stato il bassista, struttura una storia dettagliata e appassionante, coadiuvato da Stephania Giacobone. Per chi viene dalla provincia, è facile comprendere l’energia espressa in liriche poco inclini agli slogan e al turpiloquio reiterato. Non si tratta di pavoneggiarsi tra parole di plastica e citazioni ad effetto, qui il malessere dell’isolamento si sente tra riga e riga, nel desiderio testardo di migliorarsi come musicisti e come persone. Da qui il confronto costante con i punk tedeschi, olandesi, americani, scandinavi, che si tratti di canzoni o manifestazioni, in prima fila durante gli sgomberi o le occupazioni. Da Aosta a Lecce il furgone Blu Blus supera in chilometraggio qualunque altro mezzo di locomozione, le storie della frontiera con i dischi da dichiarare, i concerti che non si sa se ci sono, le dormite sul palco, i dubbi gli abbandoni e i ritorni, le sale prova a tempo, le sterili diatribe sull’essere o no punk che si sciolgono come neve al sole quando si passa il confine. A completamento della storia parallela musicista/fan, un giro di interviste ai singoli componenti del gruppo, con lo stesso episodio cruciale visto dagli occhi di ciascuno. “C’è un momento di malinconia strisciante nel cantare tutti insieme Questi anni scrive in chiusura Filippo Cottone. Ma poi è tempo di staccare, di impegnatsi in tutt’altro, per lo stesso principio, però. E questo è il punk.
stefanoballini.blogspot.it, 9 dicembre 2014 Come macchine impazzite
Questa recensione mi tocca nel profondo quindi sarà un po’ diversa da una recensione “distaccata”.
Come macchine impazzite non è solo un verso di una canzone bellissima dei Kina ovvero Questi anni, ora è anche un libro, scritto bene, sui Kina di Aosta, si proprio quelli di Sergio, Alberto e Gianpiero… proprio da quest’ultimo parte il libro.
Gianpiero parla dei Kina, della sua vita nei Kina, la sua storia, dall’altra parte Stephania Giacobone, racconta, intervallandosi coi racconti di Gianpiero, quello che i Kina hanno rappresentato per lei, nella sua vita, quella di una ragazza di Aosta che ha scoperto i Kina soltanto alla fine della loro storia, per motivi anagrafici.
Per quello che ha rappresentato per me la band di Aosta, i racconti di Gianpiero mi sono piaciuti tantissimo, avendo vissuto “quel” momento e, avendomi lasciato dentro l’attitudine che “quel” movimento e periodo mi hanno regalato, non posso che emozionarmi, capire profondamente quello che lui prova in quei frangenti, me li sono sentiti come miei, questo a prescindere da quello che avrebbe potuto raccontare.
Dall’inizio, i primi ascolti “rock” lo studio, il lavoro ecc... il perché non si sentiva “libero” da quelle catene invisibili che attanagliavano lui come me, che mi attanagliano ancora… mi ci sono specchiato e ve lo giuro, è una delle poche volte che mi succede nella vita, non mi sono sentito più solo… non ha importanza se quello che fai non ti rende soldi o “inquadrato” in qualche settore della società, a volte c’è la necessità di sentirsi liberi, liberi di vivere, liberi di decidere qualsiasi cosa per se stessi, liberi di sognare, di volare… concetti astratti che in quei frangenti diventano realissimi, non sai cosa ti passa per la mente ma sai che cosa vuoi, pensieri che a volte si trasformano in lacrime, ma non bastano mai, liberi, liberi dalla schiavitù del profitto e del denaro, solo musica e libertà, quella autentica!
Dall’altra parte il racconto di Sephania che, partendo dalle proprie vicende personali arriva ai Kina, esattamente come ho fatto io molti anni prima, la cosa bella è il “come” lei vede i Kina dopo la fine della loro storia, il punto di partenza per arrivare a quella “liberazione” che poi credo non sia altro la realizzazione nell’attitudine di cui parlavo sopra. Un punto di vista molto bello e interessante, non credo lo sarebbe stato altrettanto se avesse sempre vissuto al loro fianco, praticamente due generazioni diverse che camminano sullo stesso filo in due momenti diversi, geniale quanto semplice.
In fondo al libro i vari contributi di amici ed ex componenti sotto forma di intervista a cura di Stephania, … molto bello quello di Stefano Giaccone, il cui libro Nel cuore della bestia è stata una delle pietre miliari della “mia” letteratura privata.
Poi Alberto Ventrella , Sergio Milani ecc…
Un grazie lo dico io agli autori di questo libro e chi ci ha creduto, Grandi tutti! Brividi!
di Stefano BalliniCome macchine impazzite non è solo un verso di una canzone bellissima dei Kina ovvero Questi anni, ora è anche un libro, scritto bene, sui Kina di Aosta, si proprio quelli di Sergio, Alberto e Gianpiero… proprio da quest’ultimo parte il libro.
Gianpiero parla dei Kina, della sua vita nei Kina, la sua storia, dall’altra parte Stephania Giacobone, racconta, intervallandosi coi racconti di Gianpiero, quello che i Kina hanno rappresentato per lei, nella sua vita, quella di una ragazza di Aosta che ha scoperto i Kina soltanto alla fine della loro storia, per motivi anagrafici.
Per quello che ha rappresentato per me la band di Aosta, i racconti di Gianpiero mi sono piaciuti tantissimo, avendo vissuto “quel” momento e, avendomi lasciato dentro l’attitudine che “quel” movimento e periodo mi hanno regalato, non posso che emozionarmi, capire profondamente quello che lui prova in quei frangenti, me li sono sentiti come miei, questo a prescindere da quello che avrebbe potuto raccontare.
Dall’inizio, i primi ascolti “rock” lo studio, il lavoro ecc... il perché non si sentiva “libero” da quelle catene invisibili che attanagliavano lui come me, che mi attanagliano ancora… mi ci sono specchiato e ve lo giuro, è una delle poche volte che mi succede nella vita, non mi sono sentito più solo… non ha importanza se quello che fai non ti rende soldi o “inquadrato” in qualche settore della società, a volte c’è la necessità di sentirsi liberi, liberi di vivere, liberi di decidere qualsiasi cosa per se stessi, liberi di sognare, di volare… concetti astratti che in quei frangenti diventano realissimi, non sai cosa ti passa per la mente ma sai che cosa vuoi, pensieri che a volte si trasformano in lacrime, ma non bastano mai, liberi, liberi dalla schiavitù del profitto e del denaro, solo musica e libertà, quella autentica!
Dall’altra parte il racconto di Sephania che, partendo dalle proprie vicende personali arriva ai Kina, esattamente come ho fatto io molti anni prima, la cosa bella è il “come” lei vede i Kina dopo la fine della loro storia, il punto di partenza per arrivare a quella “liberazione” che poi credo non sia altro la realizzazione nell’attitudine di cui parlavo sopra. Un punto di vista molto bello e interessante, non credo lo sarebbe stato altrettanto se avesse sempre vissuto al loro fianco, praticamente due generazioni diverse che camminano sullo stesso filo in due momenti diversi, geniale quanto semplice.
In fondo al libro i vari contributi di amici ed ex componenti sotto forma di intervista a cura di Stephania, … molto bello quello di Stefano Giaccone, il cui libro Nel cuore della bestia è stata una delle pietre miliari della “mia” letteratura privata.
Poi Alberto Ventrella , Sergio Milani ecc…
Un grazie lo dico io agli autori di questo libro e chi ci ha creduto, Grandi tutti! Brividi!
Rai Vd’a, 24 novembre 2014 Intervista a Gianpiero Capra e Stephania Gicobone
Abbiamo parlato di Come macchine impazzite con Paola Corti e Marco Brunet. Ascolta l’intervista
Abbiamo parlato di Come macchine impazzite con Paola Corti e Marco Brunet. Ascolta l’intervista
Radio Onda Rossa, 19 novembre 2014 Intervista a Gianpiero e Stephania
Puntatona e scommessa. Mettere insime la presentazione del libro Come macchine impazzite. Il doppio sparo dei Kina scritto a quatto mani da Gianpiero (il bassita) e Stephania (coideatrice dell’uscita editoriale), e poi, a seguire, le band(s) romane Klaxon e Gli ultimi che hanno recentemente fatto uscire uno split: Anime corsare.
Ne esce fuori una trasmissione divisa in due parti, che qui vi proponiamo, dove emergono affinità e divergenze, vecchie scintille, e recenti pulsazioni. Insomma ascoltate e giudicate.
Ascolta l’intervista
Ne esce fuori una trasmissione divisa in due parti, che qui vi proponiamo, dove emergono affinità e divergenze, vecchie scintille, e recenti pulsazioni. Insomma ascoltate e giudicate.
Ascolta l’intervista
Gazzetta Matin, 17 novembre 2014 A chi sta cercando il proprio grido
“Come due linee parallele che si uniscono in prospettiva” è la sintesi perfetta che Marco Philopat, editore di Agenzia X, fa del romanzo Come macchine impazzite. Il doppio sparo dei Kina, scritto a quattro mani da Gianpiero Capra e Stephania Giacobone.
Il romanzo nasce dall’urgenza che Stephania, 27 anni, studentessa del Dams di Torino e autrice di diversi racconti, di fermare nero su bianco un momento fondamentale della sua vita e andare a cercare chi, del tutto inconsapevolmente, le aveva dato voce per gridare il suo malessere.
“Ho passato la mia infanzia a Courmayeur dove tutto era ovattato come una palla di vetro, di quelle che se scuoti cade la neve – racconta. Mi sono trasferita ad Aosta da ragazzina, con mi a mamma, e passeggiando in centro sono rimasta colpita da un manifesto strappato, sui muri di via Malherbes. Parlava dello sgombero della Torre dei Balivi occupata da Piloto io. Ho cercato informazioni e ho trovato la musica dei Kina che mi hanno fatto scoprire il punk, la musica di cui avevo bisogno, una musica che urla”.
L’idea di un libro sui Kina piace all’editore di Milano, Philopat, che mette in contatto la giovane scrittrice con il fondatore e bassista della band. Gianpiero Capra, fisioterapista, osteopatia e docente all’Università di Lugano.
“L’idea è venuta a Stephania, quando siamo entrati in contatto abbiamo iniziato a pensare che cosa sarebbe stato interessante fare – spiega Capra, dopo un po’ di ipotesi, è nata l’idea delle vite parallele a distanza di 25 anni. Entrambi di Aosta, entrambi studenti a Torino dove si entra a contatto con la città e con tutti quello che succede. Io vado a Berlino a 22 anni, lei ci va a 26 cercando i nostri posti e la nostra gente che trova trasformata da 25 anni di storia e li racconta!
Un intreccio di narrazioni e generazioni. “Ste ha scritto le sue parti, e man mano che scrivevamo, leggevamo le parti dell’altro – dice ancora il musicista. Ci siamo un poì influenzati a vicenda ma senza dircelo veramente, semplicemente è successo. La differenza di età ha senso in questo racconto incrociati, cambiano la sensibilità, cambia il panorama storico e sociale, ma si parte dagli stessi punti e si passa dagli stessi posti, senza mai incrociarsi, tranne che per decidere di scrivere e di raccontarsi”.
Un anno e mezzo di tempo di racconti, ricordi, ricerche viaggi e scrittura. “Ora lo riscriverei da capo – ammette la giovane autrice. Mi auguro che lo leggano i fan dei Kina, chi un quel periodo c’era o chi vorrebbe conoscerli.
Chi sta cercando il proprio grido, e magari, piuttosto che in altre strade, lo trova nella musica”.
Il libro darà presentato sabato 29 novembre, alle 22, all’Espace populaire di Aosta.
di Erika DavidIl romanzo nasce dall’urgenza che Stephania, 27 anni, studentessa del Dams di Torino e autrice di diversi racconti, di fermare nero su bianco un momento fondamentale della sua vita e andare a cercare chi, del tutto inconsapevolmente, le aveva dato voce per gridare il suo malessere.
“Ho passato la mia infanzia a Courmayeur dove tutto era ovattato come una palla di vetro, di quelle che se scuoti cade la neve – racconta. Mi sono trasferita ad Aosta da ragazzina, con mi a mamma, e passeggiando in centro sono rimasta colpita da un manifesto strappato, sui muri di via Malherbes. Parlava dello sgombero della Torre dei Balivi occupata da Piloto io. Ho cercato informazioni e ho trovato la musica dei Kina che mi hanno fatto scoprire il punk, la musica di cui avevo bisogno, una musica che urla”.
L’idea di un libro sui Kina piace all’editore di Milano, Philopat, che mette in contatto la giovane scrittrice con il fondatore e bassista della band. Gianpiero Capra, fisioterapista, osteopatia e docente all’Università di Lugano.
“L’idea è venuta a Stephania, quando siamo entrati in contatto abbiamo iniziato a pensare che cosa sarebbe stato interessante fare – spiega Capra, dopo un po’ di ipotesi, è nata l’idea delle vite parallele a distanza di 25 anni. Entrambi di Aosta, entrambi studenti a Torino dove si entra a contatto con la città e con tutti quello che succede. Io vado a Berlino a 22 anni, lei ci va a 26 cercando i nostri posti e la nostra gente che trova trasformata da 25 anni di storia e li racconta!
Un intreccio di narrazioni e generazioni. “Ste ha scritto le sue parti, e man mano che scrivevamo, leggevamo le parti dell’altro – dice ancora il musicista. Ci siamo un poì influenzati a vicenda ma senza dircelo veramente, semplicemente è successo. La differenza di età ha senso in questo racconto incrociati, cambiano la sensibilità, cambia il panorama storico e sociale, ma si parte dagli stessi punti e si passa dagli stessi posti, senza mai incrociarsi, tranne che per decidere di scrivere e di raccontarsi”.
Un anno e mezzo di tempo di racconti, ricordi, ricerche viaggi e scrittura. “Ora lo riscriverei da capo – ammette la giovane autrice. Mi auguro che lo leggano i fan dei Kina, chi un quel periodo c’era o chi vorrebbe conoscerli.
Chi sta cercando il proprio grido, e magari, piuttosto che in altre strade, lo trova nella musica”.
Il libro darà presentato sabato 29 novembre, alle 22, all’Espace populaire di Aosta.
www.milanox.eu, 10 novembre 2014, Come macchine impazzite
Un libro sperimentale, un oggetto di carta diversamente leggibile, che incrocia sensibilità, epoche, punti di vista.
Gianpiero racconta la sua “fuga” da Aosta tramite il proprio viaggio esistenziale / musicale con i Kina, la band che fonda nel 1982 per sfuggire alla noia e al conformismo di provincia.
Stephania racconta la sua “fuga” nel punk – hc due decenni dopo, quando per resistere alle sue difficoltà quotidiane, sceglie una colonna sonora veloce e rabbiosa come sua compagna di strada.
I due racconti, duri e senza filtro, sono chiusi da una serie di interviste ai protagonisti di un’epoca, quella dei primi anni ottanta, spesso maltrattata o ricordata solo per i Moncler, le Timberland e i Mondiali di Rossi, Tardelli, Altobelli.
Qua si materializza invece un altro tempo, che ci appare talvolta lontano talvolta vicino: compare grazie alle narrazioni in soggettiva di Gianpiero e Stephania, ma anche tramite le lettere, le interviste, le pagine e pagine di foto inedite che documentano visivamente la scena punk / hc italiana e tedesca prima della caduta del muro.
Come macchine impazzite è un libro forte, coraggioso, ben scritto, che crea un filo tra più generazioni di ribelli.
Individui dalla scorza dura, alla ricerca di una vita veramente hard core, senza fronzoli né compromessi.
Che solo AgenziaX, la più sincera e stradaiola tra le case editrici poteva pubblicare.
di Pablito el DritoGianpiero racconta la sua “fuga” da Aosta tramite il proprio viaggio esistenziale / musicale con i Kina, la band che fonda nel 1982 per sfuggire alla noia e al conformismo di provincia.
Stephania racconta la sua “fuga” nel punk – hc due decenni dopo, quando per resistere alle sue difficoltà quotidiane, sceglie una colonna sonora veloce e rabbiosa come sua compagna di strada.
I due racconti, duri e senza filtro, sono chiusi da una serie di interviste ai protagonisti di un’epoca, quella dei primi anni ottanta, spesso maltrattata o ricordata solo per i Moncler, le Timberland e i Mondiali di Rossi, Tardelli, Altobelli.
Qua si materializza invece un altro tempo, che ci appare talvolta lontano talvolta vicino: compare grazie alle narrazioni in soggettiva di Gianpiero e Stephania, ma anche tramite le lettere, le interviste, le pagine e pagine di foto inedite che documentano visivamente la scena punk / hc italiana e tedesca prima della caduta del muro.
Come macchine impazzite è un libro forte, coraggioso, ben scritto, che crea un filo tra più generazioni di ribelli.
Individui dalla scorza dura, alla ricerca di una vita veramente hard core, senza fronzoli né compromessi.
Che solo AgenziaX, la più sincera e stradaiola tra le case editrici poteva pubblicare.