Black Market, 29 gennaio 2013Louder Than A Bomb
Come in ogni puntata due ore di black music in compagnia di Barge Man e Frank Strong con rap Usa e Italiano, il Rubricone, le news rap Usa e italiano, la news r’n’b inoltre, le storie dietro i dischi e le canzoni che hanno fatto la storia del rap e della black music, in questa puntata parliamo di Bizarre Ride II The Pharcyde dei The Pharcyde e di Everything Is Everything di DOnny Hathaway. In vetrina abbiamo Louder Than A Bomb libro sulla golden age del rap Usa scritto da u.net e moltissime novità!Ascolta la registrazione della puntata qui
di Black Markethttp://hotmc.rockit.it/, 17 gennaio 2013Speciale Knowledge is Power: intervista a U.Net
Knowledge is power, il motto della nostra rubrica libri, è perfetto per descrivere Giuseppe ‘U.Net’ Pipitone, una vera eccellenza italiana. È uno dei più instancabili ed accurati saggisti hip hop del mondo, tanto che grazie alla sua opera si è guadagnato la fiducia di una impressionante sequela di personaggi storici, che concedono a lui interviste esclusive e approfondite che nessun americano probabilmente otterrà mai. La sua trilogia, pubblicata per Agenzia X, è stata scritta nell’arco di 10 anni: comincia con Bigger than hip hop, prosegue con Renegades of funk e si conclude con Louder than a bomb, esplorando le evoluzioni della cultura black e urban dagli albori fino all’inizio degli anni 2000. Prestandosi per una volta al ruolo di intervistato anziché fare come d’abitudine l’intervistatore, ci ha raccontato la sua storia, le sue esperienze e, soprattutto, ci ha svelato i segreti del mestiere. Perché la sua missione è quella di forgiare una schiera di nuovi hip hop writer tra le nuove generazioni: come dice lui, c’è così tanto da raccontare…
Come hai cominciato a scrivere di hip hop, e perché?
L’intera trilogia, ma soprattutto il primo capitolo Bigger than hip hop, è nata come progetto collaterale a una serie di viaggi che ho portato avanti fin dalla metà degli anni ’90, per raccogliere una storia orale del Black Panther Party. All’epoca mi concentravo sugli anni immediatamente precedenti alla nascita dell’hip hop, prendendo in esame la comunità nera a 360 gradi. Grazie a diversi attivisti ed ex membri delle Black Panther ho iniziato a conoscere meglio i gruppi hip hop più vicini a queste organizzazioni politiche. Con grande piacere, tra l’altro, perché sono sempre stato un grande fan del rap; ad esempio ho avuto l’onore di conoscere M1 dei Dead Prez, che quando mi hanno presentato durante una manifestazione era uno dei miei idoli e che negli anni è diventato un amico. Dopo essere stato introdotto a quel mondo, ho pensato di provare a descrivere la storia dei neri d’America attraverso la lente di ingrandimento dell’hip hop: musica, ma anche libri, cinema, costume e tutto il resto. In sostanza si potrebbe dire che non volevo propriamente scrivere di hip hop, ma volevo utilizzarlo come strumento per parlare d’altro. Uno dei libri che più mi ha ispirato in questo percorso è stato quello di Bakari Kitwana, The hip hop generation; e anche in questo caso, tra l’altro, l’autore ormai è diventato un amico.
Sei uno degli studiosi più rispettati nel panorama internazionale. Che tipo di lavoro c’è dietro ogni tuo libro?
Tanti contatti personali e lunghe chiacchierate. All’inizio tutti i miei incontri nascevano per passaparola o dal vivo, anche perché quando ho cominciato a scrivere avevo appena comprato il mio primo computer per scrivere la tesi, e Internet ancora non era così diffuso. All’epoca ero un po’ come Fonzie: avevo dei parenti a New York che mi lasciavano usare un monolocale sopra il loro garage, con un’entrata indipendente… (ride) Mi bastava mettere via 600.000 lire per il biglietto dell’aereo, e poi avevo la possibilità di restare in America per mesi a fare ricerche e vivere in prima persona quell’atmosfera. Sia in ambito politico che in ambito hip hop, ho avuto la fortuna di avere dei mentori. Personalità chiave dei vari movimenti che mi hanno preso in simpatia e mi hanno aperto molte porte, aiutandomi e facilitandomi in tutti i modi: è soprattutto loro che devo ringraziare. Oggi, invece, molti dei miei contatti nascono sui social network o via mail. E ovviamente è tutto molto più facile, anche perché i miei lavori precedenti mi danno la credibilità indispensabile a far sì che la gente che voglio intervistare si fidi di me. È un po’ come quando tiri un sasso in uno stagno: i cerchi nell’acqua si allargano e non li puoi più fermare, e arrivano a toccare sponde che non ti eri immaginato.
Da come parli si evince che sei un grande appassionato di hip hop a 360 gradi, ma ti concentri soprattutto sul passato, vicino o lontano che sia. Perché?
Non è sempre un passato lontanissimo, in effetti: Bigger than hip hop parla dei primi anni ’00, ad esempio. Con Renegades of funk e Louder than a bomb, invece, sono andato più lontano. È stato soprattutto perché mi sono reso conto che se volevo effettivamente usare l’hip hop per educare e spiegare determinati avvenimenti dovevo fornire delle basi storiche approfondite, visto che molte vicende non sono mai state davvero raccontate per iscritto: la storia dell’hip hop è soprattutto orale. Tra l’altro Louder than a bomb è anche una celebrazione della mia adolescenza, perché tutto quello che è raccontato nel libro l’ho vissuto in diretta. Agenzia X ha voluto farmi una sorpresa e ha pubblicato nelle prime pagine alcune mie foto dell’epoca: un ragazzino impacciato e brufoloso con l’Invicta in spalla che posa insieme a Chuck D… (ride) Quell’incontro mi ha cambiato la vita. Ero andato davanti a Radio Deejay, dove erano ospiti i Run Dmc, che avrebbero suonato il giorno dopo insieme ai Public Enemy. Qualcuno mi disse che la mattina dopo ci sarebbe stata una loro conferenza stampa in un albergo del centro: io saltai la scuola e andai direttamente lì. Rimasi lì davanti per ore, da solo, finché un portinaio ebbe pietà di me e mi disse che se promettevo di starmene zitto e buono potevo entrare. Mi sedetti in ultima fila, timidissimo, ma una celebre (e bellissima) giornalista musicale dell’epoca, Kay Rush, mi vide e si intenerì: “Vieni con me in prima fila, fai finta di essere il mio fotografo, così puoi scattare tutte le foto che vuoi”. Un’emozione incredibile! (ride) L’amore per i Public Enemy mi ha accompagnato per il resto della mia vita, soprattutto perché quando sono cresciuto un po’ ho capito fino a che punto riuscivano a intrecciare musica d’impatto a elementi politici e militanti.
Restando in tema di periodi storici, c’è un argomento più “contemporaneo” che ti piacerebbe affrontare in un libro, o che secondo te meriterebbe di essere affrontato?
Ce ne sono davvero tantissimi, e tutti meriterebbero di essere portati avanti. Non è detto che debba farlo per forza io, però. La tecnologia in questo momento permette a chiunque di produrre un libro da zero e di venderlo e distribuirlo da solo: per questo invito tutti coloro che avessero un’interesse specifico a provare a scrivere. Per quanto riguarda me, invece, prossimamente mi dedicherò alla scrittura di un romanzo un po’ autobiografico, che prende spunto dagli 8 mesi che trascorsi a Cuba, anni fa. Cercherò di mascherare il più possibile i fatti realmente accaduti, però, perché non voglio che i miei genitori o mio figlio scoprano che cosa è vero e che cosa no… (ride)
Parlando invece di hip hop italiano: prima o poi ne scriverai?
Ci sto ragionando. L’anno scorso si parlava di realizzare una storia orale delle posse, corredata da quattro eventi a Bologna, Roma, Milano e Napoli: dalle registrazioni del dibattito e da varie ulteriori interviste avremmo dovuto ricavare un libro. Alla fine, però, purtroppo è finito tutto in nulla. Vedremo in futuro.
Restando in Italia: Louder than a bomb parla di come l’hip hop all’estero è diventato parte della cultura di massa. Da noi l’hip hop si sta trasformando in una cultura di massa solo adesso, con vent’anni di distanza. Secondo te cosa dovremmo imparare noi italiani da quel periodo?
È difficile rispondere a questa domanda. Il nostro Paese è l’ultimo in ordine di tempo a farsi coinvolgere dalla massificazione dell’hip hop. Quando l’hip hop è sbarcato nel music business, negli anni ’80, i discografici non sapevano bene cosa farsene e quindi sperimentavano a 360°, dalla visione street-knowledge di KRS-One ai nerd e borghesissimi De La Soul, passando per i Public Enemy, gli X-Clan, gli NWA. Decine di versioni e visioni diverse del rap, eppure gli ascoltatori erano comunque stimolati a comprare qualsiasi tipo di disco uscisse. Oggi, invece, in Italia a livello di massa si produce solo l’hip hop che garantisce vendite e visibilità: se usiamo solo questo come metro di giudizio difficilmente ci sarà mai nulla di veramente creativo, ma solo una rivisitazione continua della stessa formula. Magari con rime diverse o mc più o meno bravi, ma la sostanza sarà sempre quella. Ultimamente c’è una sorta di appiattimento sul modello dominante americano, anche a livello di testi; ci sono etichette indipendenti che sperimentano (ad esempio la Macro Beats Records, che ha prodotto dischi ottimi come quelli di Ghemon e Kiave), e tra l’altro io sono personalmente convinto che molti artisti cosiddetti “mainstream” in realtà vendano molto meno di loro. Con questo, però, non voglio fare una stupida contrapposizione underground vs mainstream. Negli anni ’90 la scena italiana era sì bellissima, ma divisa tra i sostenitori delle posse e quelli meno impegnati politicamente; a rivedere la situazione a posteriori, erano due anime che avrebbero dovuto integrarsi e fondersi in una sola.
Tornando al tuo lavoro, qual è l’intervista più significativa che hai fatto, secondo te?
In generale io cerco sempre di intervistare persone che non mi parlino solo di hip hop, ma di come l’hip hop ha cambiato la loro vita. Ed è difficilissimo scegliere, soprattutto per l’eccezionalità di alcuni eventi. Kool Herc, ad esempio, non rilasciava interviste da quasi dieci anni, e quando sono stato chiamato all’Mc Hip Hop Contest di Rimini per moderare la sua conferenza non mi sembrava quasi vero; un’emozione enorme. Uno dei personaggi più eclettici che ho avuto l’onore di intervistare, però, è sicuramente Melvin Van Peebles (leggendario regista, sceneggiatore e compositore che, tra le molte altre cose, ha segnato il cinema blaxploitation come nessun altro, ndr), un ottantenne più vitale di un ragazzino! (ride) Mi ha tenuto quattro ore nel suo appartamento a New York facendomi ascoltare musica, guardare film, leggere libri… Un altro incontro interessantissimo è stato quello con Just Ice, forse uno dei primi artisti ad incorporare lo stile gangsta nel rap. Mi ha raccontato episodi allucinanti: era costantemente ricercato, e l’FBI veniva a cercarlo in studio di registrazione o ai concerti perché erano gli unici luoghi dove erano certi di poterlo rintracciare… (ride) Sto anche lavorando ad un documentario sulle origini della scena di londinese, che mi sta appassionando tantissimo: quella città è stata il mio primo amore, quando da ragazzino facevo tappa lì ogni estate con la scusa di imparare meglio l’inglese. Scoprire che le persone che vedevo esibirsi per strada a Covent Garden nell’89 sarebbero poi diventati i veri pionieri della scena hip hop britannica è stato in qualche modo commovente. Lo stesso tipo di sensazione incredibile che ho sperimentato quando stavo scrivendo la parte musicale di Renegades of funk: ero in un centro giovanile di Harlem dove moltissimi pionieri del rap di New York stavano provando per uno spettacolo che avrebbero fatto nei giorni successivi. Mi hanno messo al centro di un cypher e ciascuno di loro ha fatto un freestyle in onore del libro: da brividi! Soprattutto se pensi che, come dico sempre io, una volta terminate queste interviste io smetto i panni di supereroe e torno a fare l’impiegato…
Infatti: tu non fai lo scrittore a tempo pieno, hai un lavoro normalissimo e dedichi tutto il tuo tempo libero alla ricerca sull’hip hop, cosa davvero lodevole…
I più giovani non se ne capacitano: pensano che il mio vero lavoro sia questo, e quando spiego che invece si tratta solo della mia passione, e che per lavoro sono in ufficio come tutti gli altri, restano a bocca aperta. I libri in effetti li scrivo nel mio tempo libero. E avendo un bambino di quattro anni, in pratica li scrivo di notte! (ride) Ma ne vale la pena, non ho alcun rimpianto. Lo dico sempre nella presentazione dei miei libri, e non finirò mai di ripeterlo: sono ovviamente felice delle recensioni positive e degli apprezzamenti, ma quello che ho fatto io lo può fare chiunque, basta un po’ di buona volontà. C’è bisogno di più libri di approfondimento, sugli argomenti più svariati, e ciascuno dovrebbe provare a scrivere di quello che gli interessa, mettendosi un po’ d’impegno. Bisogna sviluppare e portare avanti le proprie idee. Spero che in futuro le nuove generazioni riescano a fare più e meglio di me; solo allora tutto ciò che ho provato a fare avrà un senso.
Parliamo invece della definizione di golden age. Tu la identifichi soprattutto come il periodo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90: spesso, però, per golden age si intende soprattutto il periodo attorno alla metà degli anni ’90. Come la risolviamo?
Per prepararmi a rispondere ho fatto un sondaggio tra le mie conoscenze! (ride) Di solito si fa coincidere la nascita della golden age con una specifica battle, quella tra KRS-One e Melle Mel al Latin Quarter, nel 1986. Melle Mel era sicuro della sua supremazia ed era pronto a scommettere che avrebbe battuto chiunque lo avesse sfidato, ma non aveva fatto i conti con un giovanissimo KRS-One, affamato di visibilità e di gloria. Il pubblico, giovane e scalpitante come lui, vide nella sua vittoria un momento di rivalsa nei confronti della generazione precedente, e quella sfida fu un vero e proprio catalizzatore per il nuovo movimento. Il momento in cui secondo me la golden age si chiude, invece, è la fine del 1992, con l’uscita di The Chronic di Dr. Dre, che in un verso dice pressappoco “È iniziato un altro giorno da negri, ma non voglio vedere né pugni chiusi, né dreadlocks, né medaglioni africani”, mettendo una distanza enorme tra sé e i simboli dell’hip hop conscious e politicizzato. Però, confrontandomi con Damir Ivic e David Nerattini, è emerso che secondo loro quello è uno dei momenti di passaggio, ma non necessariamente quello conclusivo. In particolare, per David la golden age finisce tra il ’95 e il ’96, con l’avvento della Bad Boy di Puff Daddy. In effetti, quei due o tre anni di scarto sono quelli in cui iniziarono a farsi conoscere dal grande pubblico personaggi come 2pac o i Gangstarr, però era sempre più difficile scegliere cosa ascoltare, perché la varietà di cui parlavamo prima andava spegnendosi: la discografia si concentrava soprattutto su un certo tipo di hip hop un po’ superficiale, che quindi diventò il modello imperante anche per le radio e le tv. Insomma, sulla golden age esistono due versioni: una più rigida e una un po’ più ampia. Io comprendo perfettamente chi aderisce a quella più ampia, perché le motivazioni addotte a sostegno di questa tesi sono sicuramente degne di riflessione, ma continuo a mantenere la più rigida! (ride)
Non è un po’ rischioso, però, affermare che la golden age di un genere musicale è così vicina all’inizio della sua vita discografica (quella dell’hip hop risale al 1979 con la pubblicazione di Rapper’s Delight della Sugar Hill Gang, ndr)? Sembrerebbe quasi implicare che l’hip hop sia morto in partenza…
Assolutamente no, implica solo che l’hip hop sia un genere musicale che ha rischiato di atrofizzarsi e di perdere la sua vena più creativa. Credo però che, visto che a livello underground e indipendente è possibile essere dei veri artisti, maturi e completi, e contemporaneamente vivere della propria arte, l’hip hop non è morto affatto. Sia in Italia che all’estero, ci sono realtà molto interessanti che lo tengono vivo. E, anche se non è quella la via maestra, esistono anche moltissimi esperimenti crossover che regalano grande vitalità al rap. Non mi sento nella posizione di poter dare dei giudizi, ma mi sento di dire che se siamo sopravvissuti al periodo di fine anni ’90, in cui l’industria musicale imponeva le sue condizioni e i musicisti potevano solo scegliere se aderire e farne parte o rifiutare e restarne esclusi, sopravviveremo a tutto. Oggi ciascuno può scegliere e, se sceglie di non militare nel mainstream a tutti i costi, ha un’ampissima libertà a livello creativo, per poi magari finire ad essere comunque corteggiato dal mainstream, come nel caso dei già citati Kiave e Ghemon, o anche di Ensi o The Night Skinny. Insomma: l’hip hop non morirà mai, rinascerà sempre dalle sue ceneri e si reinventerà partendo da se stesso. Anche perché, nei suoi quasi quarant’anni di vita, è stato un genere segnato da decine di trasformazioni fondamentali, ma non per questo si è mai estinto. Già i primissimi dischi hip hop sono molto diversi dall’hip hop che si praticava nei bloc party o alle feste, se ci pensi…
Last but not least: progetti futuri?
Mentre stavo lavorando a Louder than a bomb ho cominciato anche a curare un progetto insieme a Paradise The Architect, produttore degli X-Clan: una storia orale e fotografica di un locale storico di New York, il Latin Quarter che già citavo prima, in cui tutti gli artisti si sono fatti le ossa. Inoltre, insieme alla crew romana Woka Production, sono impegnato nella realizzazione di un documentario sulle origini dell’hip hop a Londra. L’entusiasmo per questo lungometraggio è enorme, tanto che diversi pionieri inglesi mi scrivono per auto-candidarsi a un’intervista o per lamentarsi del fatto che sono stati coinvolti altri anziché loro… (ride) Inoltre c’è il romanzo di cui abbiamo parlato in precedenza. Insomma, la carne al fuoco è tanta!
di BlumiCome hai cominciato a scrivere di hip hop, e perché?
L’intera trilogia, ma soprattutto il primo capitolo Bigger than hip hop, è nata come progetto collaterale a una serie di viaggi che ho portato avanti fin dalla metà degli anni ’90, per raccogliere una storia orale del Black Panther Party. All’epoca mi concentravo sugli anni immediatamente precedenti alla nascita dell’hip hop, prendendo in esame la comunità nera a 360 gradi. Grazie a diversi attivisti ed ex membri delle Black Panther ho iniziato a conoscere meglio i gruppi hip hop più vicini a queste organizzazioni politiche. Con grande piacere, tra l’altro, perché sono sempre stato un grande fan del rap; ad esempio ho avuto l’onore di conoscere M1 dei Dead Prez, che quando mi hanno presentato durante una manifestazione era uno dei miei idoli e che negli anni è diventato un amico. Dopo essere stato introdotto a quel mondo, ho pensato di provare a descrivere la storia dei neri d’America attraverso la lente di ingrandimento dell’hip hop: musica, ma anche libri, cinema, costume e tutto il resto. In sostanza si potrebbe dire che non volevo propriamente scrivere di hip hop, ma volevo utilizzarlo come strumento per parlare d’altro. Uno dei libri che più mi ha ispirato in questo percorso è stato quello di Bakari Kitwana, The hip hop generation; e anche in questo caso, tra l’altro, l’autore ormai è diventato un amico.
Sei uno degli studiosi più rispettati nel panorama internazionale. Che tipo di lavoro c’è dietro ogni tuo libro?
Tanti contatti personali e lunghe chiacchierate. All’inizio tutti i miei incontri nascevano per passaparola o dal vivo, anche perché quando ho cominciato a scrivere avevo appena comprato il mio primo computer per scrivere la tesi, e Internet ancora non era così diffuso. All’epoca ero un po’ come Fonzie: avevo dei parenti a New York che mi lasciavano usare un monolocale sopra il loro garage, con un’entrata indipendente… (ride) Mi bastava mettere via 600.000 lire per il biglietto dell’aereo, e poi avevo la possibilità di restare in America per mesi a fare ricerche e vivere in prima persona quell’atmosfera. Sia in ambito politico che in ambito hip hop, ho avuto la fortuna di avere dei mentori. Personalità chiave dei vari movimenti che mi hanno preso in simpatia e mi hanno aperto molte porte, aiutandomi e facilitandomi in tutti i modi: è soprattutto loro che devo ringraziare. Oggi, invece, molti dei miei contatti nascono sui social network o via mail. E ovviamente è tutto molto più facile, anche perché i miei lavori precedenti mi danno la credibilità indispensabile a far sì che la gente che voglio intervistare si fidi di me. È un po’ come quando tiri un sasso in uno stagno: i cerchi nell’acqua si allargano e non li puoi più fermare, e arrivano a toccare sponde che non ti eri immaginato.
Da come parli si evince che sei un grande appassionato di hip hop a 360 gradi, ma ti concentri soprattutto sul passato, vicino o lontano che sia. Perché?
Non è sempre un passato lontanissimo, in effetti: Bigger than hip hop parla dei primi anni ’00, ad esempio. Con Renegades of funk e Louder than a bomb, invece, sono andato più lontano. È stato soprattutto perché mi sono reso conto che se volevo effettivamente usare l’hip hop per educare e spiegare determinati avvenimenti dovevo fornire delle basi storiche approfondite, visto che molte vicende non sono mai state davvero raccontate per iscritto: la storia dell’hip hop è soprattutto orale. Tra l’altro Louder than a bomb è anche una celebrazione della mia adolescenza, perché tutto quello che è raccontato nel libro l’ho vissuto in diretta. Agenzia X ha voluto farmi una sorpresa e ha pubblicato nelle prime pagine alcune mie foto dell’epoca: un ragazzino impacciato e brufoloso con l’Invicta in spalla che posa insieme a Chuck D… (ride) Quell’incontro mi ha cambiato la vita. Ero andato davanti a Radio Deejay, dove erano ospiti i Run Dmc, che avrebbero suonato il giorno dopo insieme ai Public Enemy. Qualcuno mi disse che la mattina dopo ci sarebbe stata una loro conferenza stampa in un albergo del centro: io saltai la scuola e andai direttamente lì. Rimasi lì davanti per ore, da solo, finché un portinaio ebbe pietà di me e mi disse che se promettevo di starmene zitto e buono potevo entrare. Mi sedetti in ultima fila, timidissimo, ma una celebre (e bellissima) giornalista musicale dell’epoca, Kay Rush, mi vide e si intenerì: “Vieni con me in prima fila, fai finta di essere il mio fotografo, così puoi scattare tutte le foto che vuoi”. Un’emozione incredibile! (ride) L’amore per i Public Enemy mi ha accompagnato per il resto della mia vita, soprattutto perché quando sono cresciuto un po’ ho capito fino a che punto riuscivano a intrecciare musica d’impatto a elementi politici e militanti.
Restando in tema di periodi storici, c’è un argomento più “contemporaneo” che ti piacerebbe affrontare in un libro, o che secondo te meriterebbe di essere affrontato?
Ce ne sono davvero tantissimi, e tutti meriterebbero di essere portati avanti. Non è detto che debba farlo per forza io, però. La tecnologia in questo momento permette a chiunque di produrre un libro da zero e di venderlo e distribuirlo da solo: per questo invito tutti coloro che avessero un’interesse specifico a provare a scrivere. Per quanto riguarda me, invece, prossimamente mi dedicherò alla scrittura di un romanzo un po’ autobiografico, che prende spunto dagli 8 mesi che trascorsi a Cuba, anni fa. Cercherò di mascherare il più possibile i fatti realmente accaduti, però, perché non voglio che i miei genitori o mio figlio scoprano che cosa è vero e che cosa no… (ride)
Parlando invece di hip hop italiano: prima o poi ne scriverai?
Ci sto ragionando. L’anno scorso si parlava di realizzare una storia orale delle posse, corredata da quattro eventi a Bologna, Roma, Milano e Napoli: dalle registrazioni del dibattito e da varie ulteriori interviste avremmo dovuto ricavare un libro. Alla fine, però, purtroppo è finito tutto in nulla. Vedremo in futuro.
Restando in Italia: Louder than a bomb parla di come l’hip hop all’estero è diventato parte della cultura di massa. Da noi l’hip hop si sta trasformando in una cultura di massa solo adesso, con vent’anni di distanza. Secondo te cosa dovremmo imparare noi italiani da quel periodo?
È difficile rispondere a questa domanda. Il nostro Paese è l’ultimo in ordine di tempo a farsi coinvolgere dalla massificazione dell’hip hop. Quando l’hip hop è sbarcato nel music business, negli anni ’80, i discografici non sapevano bene cosa farsene e quindi sperimentavano a 360°, dalla visione street-knowledge di KRS-One ai nerd e borghesissimi De La Soul, passando per i Public Enemy, gli X-Clan, gli NWA. Decine di versioni e visioni diverse del rap, eppure gli ascoltatori erano comunque stimolati a comprare qualsiasi tipo di disco uscisse. Oggi, invece, in Italia a livello di massa si produce solo l’hip hop che garantisce vendite e visibilità: se usiamo solo questo come metro di giudizio difficilmente ci sarà mai nulla di veramente creativo, ma solo una rivisitazione continua della stessa formula. Magari con rime diverse o mc più o meno bravi, ma la sostanza sarà sempre quella. Ultimamente c’è una sorta di appiattimento sul modello dominante americano, anche a livello di testi; ci sono etichette indipendenti che sperimentano (ad esempio la Macro Beats Records, che ha prodotto dischi ottimi come quelli di Ghemon e Kiave), e tra l’altro io sono personalmente convinto che molti artisti cosiddetti “mainstream” in realtà vendano molto meno di loro. Con questo, però, non voglio fare una stupida contrapposizione underground vs mainstream. Negli anni ’90 la scena italiana era sì bellissima, ma divisa tra i sostenitori delle posse e quelli meno impegnati politicamente; a rivedere la situazione a posteriori, erano due anime che avrebbero dovuto integrarsi e fondersi in una sola.
Tornando al tuo lavoro, qual è l’intervista più significativa che hai fatto, secondo te?
In generale io cerco sempre di intervistare persone che non mi parlino solo di hip hop, ma di come l’hip hop ha cambiato la loro vita. Ed è difficilissimo scegliere, soprattutto per l’eccezionalità di alcuni eventi. Kool Herc, ad esempio, non rilasciava interviste da quasi dieci anni, e quando sono stato chiamato all’Mc Hip Hop Contest di Rimini per moderare la sua conferenza non mi sembrava quasi vero; un’emozione enorme. Uno dei personaggi più eclettici che ho avuto l’onore di intervistare, però, è sicuramente Melvin Van Peebles (leggendario regista, sceneggiatore e compositore che, tra le molte altre cose, ha segnato il cinema blaxploitation come nessun altro, ndr), un ottantenne più vitale di un ragazzino! (ride) Mi ha tenuto quattro ore nel suo appartamento a New York facendomi ascoltare musica, guardare film, leggere libri… Un altro incontro interessantissimo è stato quello con Just Ice, forse uno dei primi artisti ad incorporare lo stile gangsta nel rap. Mi ha raccontato episodi allucinanti: era costantemente ricercato, e l’FBI veniva a cercarlo in studio di registrazione o ai concerti perché erano gli unici luoghi dove erano certi di poterlo rintracciare… (ride) Sto anche lavorando ad un documentario sulle origini della scena di londinese, che mi sta appassionando tantissimo: quella città è stata il mio primo amore, quando da ragazzino facevo tappa lì ogni estate con la scusa di imparare meglio l’inglese. Scoprire che le persone che vedevo esibirsi per strada a Covent Garden nell’89 sarebbero poi diventati i veri pionieri della scena hip hop britannica è stato in qualche modo commovente. Lo stesso tipo di sensazione incredibile che ho sperimentato quando stavo scrivendo la parte musicale di Renegades of funk: ero in un centro giovanile di Harlem dove moltissimi pionieri del rap di New York stavano provando per uno spettacolo che avrebbero fatto nei giorni successivi. Mi hanno messo al centro di un cypher e ciascuno di loro ha fatto un freestyle in onore del libro: da brividi! Soprattutto se pensi che, come dico sempre io, una volta terminate queste interviste io smetto i panni di supereroe e torno a fare l’impiegato…
Infatti: tu non fai lo scrittore a tempo pieno, hai un lavoro normalissimo e dedichi tutto il tuo tempo libero alla ricerca sull’hip hop, cosa davvero lodevole…
I più giovani non se ne capacitano: pensano che il mio vero lavoro sia questo, e quando spiego che invece si tratta solo della mia passione, e che per lavoro sono in ufficio come tutti gli altri, restano a bocca aperta. I libri in effetti li scrivo nel mio tempo libero. E avendo un bambino di quattro anni, in pratica li scrivo di notte! (ride) Ma ne vale la pena, non ho alcun rimpianto. Lo dico sempre nella presentazione dei miei libri, e non finirò mai di ripeterlo: sono ovviamente felice delle recensioni positive e degli apprezzamenti, ma quello che ho fatto io lo può fare chiunque, basta un po’ di buona volontà. C’è bisogno di più libri di approfondimento, sugli argomenti più svariati, e ciascuno dovrebbe provare a scrivere di quello che gli interessa, mettendosi un po’ d’impegno. Bisogna sviluppare e portare avanti le proprie idee. Spero che in futuro le nuove generazioni riescano a fare più e meglio di me; solo allora tutto ciò che ho provato a fare avrà un senso.
Parliamo invece della definizione di golden age. Tu la identifichi soprattutto come il periodo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90: spesso, però, per golden age si intende soprattutto il periodo attorno alla metà degli anni ’90. Come la risolviamo?
Per prepararmi a rispondere ho fatto un sondaggio tra le mie conoscenze! (ride) Di solito si fa coincidere la nascita della golden age con una specifica battle, quella tra KRS-One e Melle Mel al Latin Quarter, nel 1986. Melle Mel era sicuro della sua supremazia ed era pronto a scommettere che avrebbe battuto chiunque lo avesse sfidato, ma non aveva fatto i conti con un giovanissimo KRS-One, affamato di visibilità e di gloria. Il pubblico, giovane e scalpitante come lui, vide nella sua vittoria un momento di rivalsa nei confronti della generazione precedente, e quella sfida fu un vero e proprio catalizzatore per il nuovo movimento. Il momento in cui secondo me la golden age si chiude, invece, è la fine del 1992, con l’uscita di The Chronic di Dr. Dre, che in un verso dice pressappoco “È iniziato un altro giorno da negri, ma non voglio vedere né pugni chiusi, né dreadlocks, né medaglioni africani”, mettendo una distanza enorme tra sé e i simboli dell’hip hop conscious e politicizzato. Però, confrontandomi con Damir Ivic e David Nerattini, è emerso che secondo loro quello è uno dei momenti di passaggio, ma non necessariamente quello conclusivo. In particolare, per David la golden age finisce tra il ’95 e il ’96, con l’avvento della Bad Boy di Puff Daddy. In effetti, quei due o tre anni di scarto sono quelli in cui iniziarono a farsi conoscere dal grande pubblico personaggi come 2pac o i Gangstarr, però era sempre più difficile scegliere cosa ascoltare, perché la varietà di cui parlavamo prima andava spegnendosi: la discografia si concentrava soprattutto su un certo tipo di hip hop un po’ superficiale, che quindi diventò il modello imperante anche per le radio e le tv. Insomma, sulla golden age esistono due versioni: una più rigida e una un po’ più ampia. Io comprendo perfettamente chi aderisce a quella più ampia, perché le motivazioni addotte a sostegno di questa tesi sono sicuramente degne di riflessione, ma continuo a mantenere la più rigida! (ride)
Non è un po’ rischioso, però, affermare che la golden age di un genere musicale è così vicina all’inizio della sua vita discografica (quella dell’hip hop risale al 1979 con la pubblicazione di Rapper’s Delight della Sugar Hill Gang, ndr)? Sembrerebbe quasi implicare che l’hip hop sia morto in partenza…
Assolutamente no, implica solo che l’hip hop sia un genere musicale che ha rischiato di atrofizzarsi e di perdere la sua vena più creativa. Credo però che, visto che a livello underground e indipendente è possibile essere dei veri artisti, maturi e completi, e contemporaneamente vivere della propria arte, l’hip hop non è morto affatto. Sia in Italia che all’estero, ci sono realtà molto interessanti che lo tengono vivo. E, anche se non è quella la via maestra, esistono anche moltissimi esperimenti crossover che regalano grande vitalità al rap. Non mi sento nella posizione di poter dare dei giudizi, ma mi sento di dire che se siamo sopravvissuti al periodo di fine anni ’90, in cui l’industria musicale imponeva le sue condizioni e i musicisti potevano solo scegliere se aderire e farne parte o rifiutare e restarne esclusi, sopravviveremo a tutto. Oggi ciascuno può scegliere e, se sceglie di non militare nel mainstream a tutti i costi, ha un’ampissima libertà a livello creativo, per poi magari finire ad essere comunque corteggiato dal mainstream, come nel caso dei già citati Kiave e Ghemon, o anche di Ensi o The Night Skinny. Insomma: l’hip hop non morirà mai, rinascerà sempre dalle sue ceneri e si reinventerà partendo da se stesso. Anche perché, nei suoi quasi quarant’anni di vita, è stato un genere segnato da decine di trasformazioni fondamentali, ma non per questo si è mai estinto. Già i primissimi dischi hip hop sono molto diversi dall’hip hop che si praticava nei bloc party o alle feste, se ci pensi…
Last but not least: progetti futuri?
Mentre stavo lavorando a Louder than a bomb ho cominciato anche a curare un progetto insieme a Paradise The Architect, produttore degli X-Clan: una storia orale e fotografica di un locale storico di New York, il Latin Quarter che già citavo prima, in cui tutti gli artisti si sono fatti le ossa. Inoltre, insieme alla crew romana Woka Production, sono impegnato nella realizzazione di un documentario sulle origini dell’hip hop a Londra. L’entusiasmo per questo lungometraggio è enorme, tanto che diversi pionieri inglesi mi scrivono per auto-candidarsi a un’intervista o per lamentarsi del fatto che sono stati coinvolti altri anziché loro… (ride) Inoltre c’è il romanzo di cui abbiamo parlato in precedenza. Insomma, la carne al fuoco è tanta!
Blow up, gennaio 2013U.NET. Louder Than A Bomb
Competente, ultra-dettagliato, ricco di aneddoti e testimonianze dirette. Non delude le aspettative neanche al terzo appuntamento la fedele cronistoria del movimento hip hop curata da u.net. Mostra semmai un po’ la corda l’idea editoriale: tre libri basati sostanzialmente sull’assemblaggio di interviste, raccolte comunque, va detto, con perizia assolutamente maniacale. Ma il progetto u.net in fondo è proprio questo, prendere o lasciare: una storia orale raccontata dalla viva voce dei protagonisti, raccordata in maniera fluida e scrupolosa dall’attivista milanese. Non una storia qualsiasi del resto. L’autorevole Greg Tate, proprio sulle pagine del libro, lo definisce “il più innovativo e rivoluzionario fenomeno culturale del XX secolo”. Tanti e di peso come sempre i contributi: da Melvin Van Peebles ai Last Poets passando per Chuck D e il leggendario Kool Herc. Menzione speciale per l’annuario, 11 preziose schede cronologiche che dal ’79 all’89 scandiscono il ritmo del libro attraverso un’immersione a 360° nell’universo afroamericano d’allora, tra politica, sport, costume e cinema. L’epicentro temporale ed emotivo della storia, tuttavia, coincide col luglio del 1986 e racconta la nascita della Golden Age dell’hip hop. La data, forse solo un pretesto, fa riferimento a quanto accadde in un famoso concerto dei Run-DMC al Madison Square Garden, e descrive perfettamente il passaggio di un’epoca: un pugno di giovani newcomers prende quasi con forza lo scettro detenuto fin lì dai pionieri della vecchia scuola, allargando sensibilmente lo spettro del movimento: dall’underground al mainstream, dal ghetto nero alla suburbia bianca. Motore trainante della svolta, ciò che sempre Tate definisce “il valore economico dell’estetica dei prodotti culturali della modernità nera”. Strepitoso in tal senso il racconto sul direttore marketing di Adidas che, invitato al suddetto concerto dei Run-DMC da quel volpone di Russell Simmons, assiste stupefatto alla scena di 20 mila ragazzi che, sulle note di My Adidas, si sfilano lo sneaker dai piedi e lo agitano fieri in cielo. Una rivoluzione non solo musicale che, cavalcando lo spirito del proprio tempo, seppe percorrere direttrici anche incoerenti tra loro: la ritrovata consapevolezza politica (da Malcolm X all’afro-centrismo), il bisogno di trasferire il suono street-party su dischi troppo spesso edulcorati e, ultimo ma non ultimo, l’assunzione di un codice filosofico/comportamentale che inglobava in un’unica forma moda, marketing, arte, identità e stile. Per la cronaca, vale la pena ricordarlo, i Run-DMC furono la prima entità extra-sportiva a sottoscrivere un contratto milionario con un brand dell’abbigliamento. Dal R&B al Rap&Business? Anche, non proprio, non solo. Leggete con attenzione il libro e scoprirete cose più fragorose di una bomba.
di Mauro Zandawww.distorsioni.net, 24 dicembre 2012Louder than a bomb, la golden age dell’hip hop + Public Enemy
Speciale Hip Hop: libro e dischi
Il libro: la storia dell’hip hop
Tra le rivoluzioni musicali germogliate durante gli anni ’70, l’hip hop è sicuramente quella che ha meglio rappresentato la complessità e le aspirazioni della popolazione afroamericana dagli ’80 ad oggi. Due termini, complessità e aspirazioni, che emergono con forza in Louder then a bomb. La golden age dell’hip hop, il nuovo saggio che u.net, al secolo Giuseppe Pipitone (giunto al suo quarto libro), ha scritto ripercorrendo la storia dell’hip hop dalla sua nascita nel Bronx fino all’esplosione di quella che è stata definita come Golden Age (dalla metà degli anni 80 ai primi ’90), ovvero il periodo della sua affermazione tanto nel mercato mainstream, con modalità spesso peculiari, quanto nell’immaginario non solo dei giovani neri ma anche di bianchi ed ispanici. Un percorso narrato rielaborando citazioni, informazioni, discografie, riportando elementi storici utili alla comprensione del contesto nel quale è nato e si è sviluppato l’hip hop ma anche e soprattutto avvalendosi di preziose testimonianze rilasciate direttamente all’autore da alcuni tra i più importanti personaggi che hanno contribuito alla storia di questo movimento culturale.
Gli inizi
Si inizia da lontano, dalle interviste al letterato, musicista e regista Melvin Van Peebles ed al trio di poeti militanti Last Poets, figure imprescindibili per il rap associabili a James Brown e Gil Scott-Heron, che ricordano i loro esordi (1968), le loro difficoltà e la loro determinazione nell’affermazione di un’alterità artistica fortemente radicata nella cultura sociale e politica afroamericana. Forse partito con ambizioni minori, il DJ giamaicano Kool Herc è colui al quale quasi unanimemente viene riconosciutà la paternità dell’hip hop, l’inventore della tecnica del breakbeat che ha permesso che si sviluppassero arti come il B-Boying (breakdance) e MCing (rapping). Il breakbeat consiste nel far suonare due copie dello stesso vinile prolungando la parte strumentale dei pezzi, quella con la predominanza del ritmo, espandendo alcuni secondi in minuti, tecnica poi successivamente perfezionata da Grandmaster Flash che consentì ai rappers di articolare metriche più complesse. Herc ci restituisce l’atmosfera del suo arrivo nel Bronx, la nascita del suo mito come DJ e le feste nei parchi dove a vincere era il sound system più potente.
Afrika Bambaataa
Ma a caratterizzare la vita nel Bronx, così come in buona parte di New York, non erano solo le feste nei parchi. Di guerra nelle strade per il controllo del territorio e del lungo e tenace lavoro per portare la pace tra le varie gang ci parla invece Afrika Bambaataa. DJ eclettico, leader carismatico, profondo conoscitore della musica oltre le classificazioni di genere, Afrika Bambaataa è il creatore della Zulu Nation, sorta di organizzazione dedita alla fratellanza ed alla diffusione della cultura hip hop. Viene anche riconosciuto come iniziatore della cosiddetta “quinta arte”, la conoscenza o consapevolezza. Effettivamente nel suo background politico e culturale convivono richiami all’Africa guerriera (Zulu), riflessioni religiose ed insegnamenti provenienti dalle varie frange del Black Power, come Pantere Nere e Nation of Islam. Sul versante discografico, invece, è uno dei pionieri dell’electro funk ed oggi, oltre che per le numerose collaborazioni ed i DJ set, viene ricordato e celebrato per aver combinato i Kraftwerk con Ryuichi Sakamoto registrando nel 1982 il seminale Planet Rock.
La golden age dell’hip hop – la Def Jam
Il 1986 può essere considerato l’anno del cambiamento dell’hip hop, quello in cui entra nella sua Golden Age. L’evento detonatore, così come riportato dalle numerose testimonianze raccolte da u.net, si può far risalire ad una sera del 1986 in cui il Latin Quarter, il mitico club dal quale uscivano tutte le novità più rappresentative, è stato teatro di una sfida epica tra i rappers Melle Mel, appartenente alla old school, e KRS-ONE, espressione di un rap pù fluido ed elaborato. Portandoci nel vivo dell’argomento, u.net focalizza l’attenzione su due personaggi chiave per l’innovazione dell’hip hop: Russell Simmons e Rick Rubin, i fondatori della leggendaria Def Jam. L’importanza nell’ambiente hip hop di questa etichetta discografica non è paragonabile a niente del genere prima della sua fondazione.
Le capacità di Simmons, nel portare a segno vincenti strategie di marketing e comunicazione, unite a quelle di Rubin, come produttore artistico e tecnico del suono, hanno segnato un vero e proprio punto di svolta, un riferimento per intere generazioni a venire. In termini di marketing, Simmons è riuscito a strappare alle grosse compagnie discografiche spazi di distribuzione e visibilità fino a quel momento impensabili per chiunque provenisse dall’ hip hop, mentre, per quel che riguarda il sound, l’intenzione di Rubin è stata quella di prendere come punto di partenza la musica che veniva suonata nei club e nei parchi ma che in pochi riproponevano, al contrario dei successi commerciali della Sugarhill Gang come Rapper’s Delight o Christmas Rappin’ di Kurtis Blow, seppur importanti in quanto primi pezzi hip hop a raggiungere una discreta notorietà.
Sicuramente le scelte di Rubin sono state influenzate dalla sua passione per il metal (nel 1986 produce Reign In Blood degli Slayer) e dall’ambiente culturale poliedrico della Grande Mela, dove convivevano in continui e mutui attraversamenti musiche come punk, rock, jazz, no-wave, new wave, oltre che ovviamente hip hop. Tra le punte di diamante della produzione targata Def Jam del 1986 troviamo Raising Hell, il più classico dei dischi dei Run DMC (licenziato dalla Profile) ed il debutto dei Beastie Boys Licensed To Ill. U.net ci riporta anche alcune curiosità riguardanti le modalità con le quali è avvenuta l’insolita collaborazione tra Run DMC ed Aerosmith per il remake del singolo Walk This Way, pezzo che nella sua versione originale era già stato metabolizzato dai B-Boy come ottima base su cui ballare, mentre in questa nuova veste oltre ad avere avuto un grosso appeal commerciale viene considerato da molti come un ottimo esempio di ibridazione tra rock ed hip hop.
Hip hop e politicizzazione dei ghetti neri
In breve tempo nuove figure si affacciano sulla scena sfruttando non solo le tecniche sempre più evolute nell’utilizzo dei giradischi (i Technics SL1200 diventano delle vere e proprie icone) ma anche le innovative possibilità offerte dai campionatori. Nel 1987 è il turno di colui che è stato definito il Coltrane del rap, Eric B. Per quanto altisonante ed esagerato possa suonare quest’accostamento, è un dato di fatto che lo stile di Eric B. abbia rappresentato un altro di quei cambiamenti con il quale tutti i futuri rappers avrebbero necessariamente dovuto confrontarsi. Ma il 1987 è anche l’anno di esordio dei Public Enemy, che su Def Jam pubblicano alcuni dei più importanti album di tutta la storia dell’hip hop. Naturale, quindi, che u.net abbia deciso di dedicare loro un capitolo a parte.
Dalle origini a Long Island al primo concerto al Latin Quarter, dalla preparazione del primo album Yo! Bum Rush the Show (1987) alle pietre miliari rappresentate da It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back (1988) e Fear of a Black Planet (1990), dalla dichiarazione di guerra ad un realtà fortemente razzista come quella statunitense alle collaborazioni con il regista Spike Lee, l’intero capitolo rappresenta un fondamentale e prezioso tassello per comprendere quella complessità di cui si faceva cenno all’inizio dell’articolo. E molto a realtà come Public Enemy, KRS-ONE e ancor prima Afrika Bambaataa, che si deve una nuova ondata di politicizzazione dei ghetti neri, i quali sembravano come implosi dopo l’assassinio di Martin Luther King, ucciso come Malcom X dal servizio di controspionaggio Cointelpro direttamente collegato all’FBI.
Ed è proprio di politica e dell’influenza che Malcom X ha avuto su numerosi esponenti della cultura hip-hop che tratta un altro capitolo tra i più interessanti del libro. In definitiva, bisogna ammettere che è davvero difficile riassumere il prodotto del lungo e devizioso lavoro svolto da u.net senza correre il rischio di sminuirne il valore. Numerose altre sezioni, oltre a quelle già citate, completano il quadro di un periodo nel quale, prendendo a prestito le parole di Chuck D, “una serie di dischi [...] fecero comprendere al mondo come il rap poteva essere un genere significativo come il rock, generando rispetto”. Non mi rimane che ringraziare l’autore per l’ottima opportunità che Louder Than a Bomb mi ha offerto, quella di approfondire attraverso un libro appassionato ed autentico la conoscenza di una parte essenziale della storia della musica.
Dischi: Public Enemy
Most Of My Heroes Still Don’t Appear On No Stamp - luglio 2012, Slam Jamz
Dopo cinque anni di silenzio discografico, i Public Enemy sono tornati in questo 2012 con ben due album nei quali ritroviamo intatto il loro marchio di fabbrica: beat potenti dal tiro funk, con numerosi riferimenti al soul e al rock, sui quali Chuck D e compagni portano avanti la loro forma di guerriglia verbale intessendo liriche ruvide e lucide. Dopo venticinque anni di assalti musicali condotti sotto il vessillo dell’hip hop bisogna ammettere che si avverte un po’ di stanchezza, soprattutto considerando The Evil Empire Of Everything. Detto questo, pur essendo distanti dai propri capolavori, la posse di New York dimostra di essere ancora ben determinata nel mettere in luce gli aspetti più crudi e controversi degli States contemporanei come anche di tutto il mondo occidentale.
Most Of My Heroes Still Don’t Appear On No Stamp , il primo dei due fratelli, prende il proprio titolo da un verso della celeberrima Fight The Power (da Fear Of A Black Planet del 1990), un’autocitazione che sembrerebbe voler evidenziare come la condizione della popolazione afroamericana non sia poi così diversa oggi sotto Obama di quanto lo fosse ai tempi di Bush Senior, ed è ciò che si afferma con forza anche in Run Til It’s Dark. In Catch The Thrown i toni si fanno accesi e le accuse al sistema americano di razzismo endemico e sistematico, corruzione ed ipocrisia, indipendentemente dal presidente di turno, diventano esplicite. E chi si pone in antitesi a tale sistema non viene certamente celebrato sui francobolli commemorativi, come appunto recita Most Of My Heroes, nel quale vengono ricordate le figure di Angela Davis, Huey P. Newton, Marcus Garvey, Che Guevara, Steven Biko, Fidel Castro e Chavez. L’old school di Rltk, brano dedicato alla memoria di Jammaster Jay e Adam MCA Yauch, è invece l’occasione per Chuck D e l’illustre ospite DMC di esprimere la mancanza di stima nei confronti di quei rapper che cercano solo la notorietà avendo poco o nulla da dire, ma anche per coloro i quali manifestano posizioni sessiste ed omofobe.
The Evil Empire Of Everything - ottobre 2012, Enemy
Passando al secondo album The Evil Empire Of Everything, come già accennato, suona piuttosto fiacco. In quasi tutti i pezzi le rime di Chuck D risultano depotenziate dalla mancanza di quell’intesa sinergica con dei beat che sappiano davvero coinvolgere il corpo, ancora prima che le rime intrighino la mente. Gli intenti di brani come Don’t Give Up The Fight, che vede la presenza di Ziggy Marley, oppure Everything, ballata ispirata ad Otis Redding, sono buoni ma sfortunatamente il risultato non convince. I momenti migliori arrivano superando la metà dell’album. Riotstarter, che si avvale del contributo degli amici Henry Rollins e Tom Morello e riprende le liriche di Rightstarter (da Yo! Bum Rush The Show del 1987), pur percorrendo le strade già battute di un crossover ormai datato è comunque uno di quei pezzi che avresti voglia di sparare ad alto volume in preda ad un’euforia adolescenziale. Interessante anche il patchwork di Icebreaker, brano incentrato sul tema spinoso del confine tra Usa e Messico e sul dramma di chi cerca un valico diretto a nord, trovando invece la brutalità della polizia di frontiera a stelle e strisce. Ad ogni modo, i Public Enemy sono tornati e non sembra che siano semplicemente intenzionati a festeggiare un quarto di secolo di presenza militante nella scena hip hop.
di Aldo De SanctisIl libro: la storia dell’hip hop
Tra le rivoluzioni musicali germogliate durante gli anni ’70, l’hip hop è sicuramente quella che ha meglio rappresentato la complessità e le aspirazioni della popolazione afroamericana dagli ’80 ad oggi. Due termini, complessità e aspirazioni, che emergono con forza in Louder then a bomb. La golden age dell’hip hop, il nuovo saggio che u.net, al secolo Giuseppe Pipitone (giunto al suo quarto libro), ha scritto ripercorrendo la storia dell’hip hop dalla sua nascita nel Bronx fino all’esplosione di quella che è stata definita come Golden Age (dalla metà degli anni 80 ai primi ’90), ovvero il periodo della sua affermazione tanto nel mercato mainstream, con modalità spesso peculiari, quanto nell’immaginario non solo dei giovani neri ma anche di bianchi ed ispanici. Un percorso narrato rielaborando citazioni, informazioni, discografie, riportando elementi storici utili alla comprensione del contesto nel quale è nato e si è sviluppato l’hip hop ma anche e soprattutto avvalendosi di preziose testimonianze rilasciate direttamente all’autore da alcuni tra i più importanti personaggi che hanno contribuito alla storia di questo movimento culturale.
Gli inizi
Si inizia da lontano, dalle interviste al letterato, musicista e regista Melvin Van Peebles ed al trio di poeti militanti Last Poets, figure imprescindibili per il rap associabili a James Brown e Gil Scott-Heron, che ricordano i loro esordi (1968), le loro difficoltà e la loro determinazione nell’affermazione di un’alterità artistica fortemente radicata nella cultura sociale e politica afroamericana. Forse partito con ambizioni minori, il DJ giamaicano Kool Herc è colui al quale quasi unanimemente viene riconosciutà la paternità dell’hip hop, l’inventore della tecnica del breakbeat che ha permesso che si sviluppassero arti come il B-Boying (breakdance) e MCing (rapping). Il breakbeat consiste nel far suonare due copie dello stesso vinile prolungando la parte strumentale dei pezzi, quella con la predominanza del ritmo, espandendo alcuni secondi in minuti, tecnica poi successivamente perfezionata da Grandmaster Flash che consentì ai rappers di articolare metriche più complesse. Herc ci restituisce l’atmosfera del suo arrivo nel Bronx, la nascita del suo mito come DJ e le feste nei parchi dove a vincere era il sound system più potente.
Afrika Bambaataa
Ma a caratterizzare la vita nel Bronx, così come in buona parte di New York, non erano solo le feste nei parchi. Di guerra nelle strade per il controllo del territorio e del lungo e tenace lavoro per portare la pace tra le varie gang ci parla invece Afrika Bambaataa. DJ eclettico, leader carismatico, profondo conoscitore della musica oltre le classificazioni di genere, Afrika Bambaataa è il creatore della Zulu Nation, sorta di organizzazione dedita alla fratellanza ed alla diffusione della cultura hip hop. Viene anche riconosciuto come iniziatore della cosiddetta “quinta arte”, la conoscenza o consapevolezza. Effettivamente nel suo background politico e culturale convivono richiami all’Africa guerriera (Zulu), riflessioni religiose ed insegnamenti provenienti dalle varie frange del Black Power, come Pantere Nere e Nation of Islam. Sul versante discografico, invece, è uno dei pionieri dell’electro funk ed oggi, oltre che per le numerose collaborazioni ed i DJ set, viene ricordato e celebrato per aver combinato i Kraftwerk con Ryuichi Sakamoto registrando nel 1982 il seminale Planet Rock.
La golden age dell’hip hop – la Def Jam
Il 1986 può essere considerato l’anno del cambiamento dell’hip hop, quello in cui entra nella sua Golden Age. L’evento detonatore, così come riportato dalle numerose testimonianze raccolte da u.net, si può far risalire ad una sera del 1986 in cui il Latin Quarter, il mitico club dal quale uscivano tutte le novità più rappresentative, è stato teatro di una sfida epica tra i rappers Melle Mel, appartenente alla old school, e KRS-ONE, espressione di un rap pù fluido ed elaborato. Portandoci nel vivo dell’argomento, u.net focalizza l’attenzione su due personaggi chiave per l’innovazione dell’hip hop: Russell Simmons e Rick Rubin, i fondatori della leggendaria Def Jam. L’importanza nell’ambiente hip hop di questa etichetta discografica non è paragonabile a niente del genere prima della sua fondazione.
Le capacità di Simmons, nel portare a segno vincenti strategie di marketing e comunicazione, unite a quelle di Rubin, come produttore artistico e tecnico del suono, hanno segnato un vero e proprio punto di svolta, un riferimento per intere generazioni a venire. In termini di marketing, Simmons è riuscito a strappare alle grosse compagnie discografiche spazi di distribuzione e visibilità fino a quel momento impensabili per chiunque provenisse dall’ hip hop, mentre, per quel che riguarda il sound, l’intenzione di Rubin è stata quella di prendere come punto di partenza la musica che veniva suonata nei club e nei parchi ma che in pochi riproponevano, al contrario dei successi commerciali della Sugarhill Gang come Rapper’s Delight o Christmas Rappin’ di Kurtis Blow, seppur importanti in quanto primi pezzi hip hop a raggiungere una discreta notorietà.
Sicuramente le scelte di Rubin sono state influenzate dalla sua passione per il metal (nel 1986 produce Reign In Blood degli Slayer) e dall’ambiente culturale poliedrico della Grande Mela, dove convivevano in continui e mutui attraversamenti musiche come punk, rock, jazz, no-wave, new wave, oltre che ovviamente hip hop. Tra le punte di diamante della produzione targata Def Jam del 1986 troviamo Raising Hell, il più classico dei dischi dei Run DMC (licenziato dalla Profile) ed il debutto dei Beastie Boys Licensed To Ill. U.net ci riporta anche alcune curiosità riguardanti le modalità con le quali è avvenuta l’insolita collaborazione tra Run DMC ed Aerosmith per il remake del singolo Walk This Way, pezzo che nella sua versione originale era già stato metabolizzato dai B-Boy come ottima base su cui ballare, mentre in questa nuova veste oltre ad avere avuto un grosso appeal commerciale viene considerato da molti come un ottimo esempio di ibridazione tra rock ed hip hop.
Hip hop e politicizzazione dei ghetti neri
In breve tempo nuove figure si affacciano sulla scena sfruttando non solo le tecniche sempre più evolute nell’utilizzo dei giradischi (i Technics SL1200 diventano delle vere e proprie icone) ma anche le innovative possibilità offerte dai campionatori. Nel 1987 è il turno di colui che è stato definito il Coltrane del rap, Eric B. Per quanto altisonante ed esagerato possa suonare quest’accostamento, è un dato di fatto che lo stile di Eric B. abbia rappresentato un altro di quei cambiamenti con il quale tutti i futuri rappers avrebbero necessariamente dovuto confrontarsi. Ma il 1987 è anche l’anno di esordio dei Public Enemy, che su Def Jam pubblicano alcuni dei più importanti album di tutta la storia dell’hip hop. Naturale, quindi, che u.net abbia deciso di dedicare loro un capitolo a parte.
Dalle origini a Long Island al primo concerto al Latin Quarter, dalla preparazione del primo album Yo! Bum Rush the Show (1987) alle pietre miliari rappresentate da It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back (1988) e Fear of a Black Planet (1990), dalla dichiarazione di guerra ad un realtà fortemente razzista come quella statunitense alle collaborazioni con il regista Spike Lee, l’intero capitolo rappresenta un fondamentale e prezioso tassello per comprendere quella complessità di cui si faceva cenno all’inizio dell’articolo. E molto a realtà come Public Enemy, KRS-ONE e ancor prima Afrika Bambaataa, che si deve una nuova ondata di politicizzazione dei ghetti neri, i quali sembravano come implosi dopo l’assassinio di Martin Luther King, ucciso come Malcom X dal servizio di controspionaggio Cointelpro direttamente collegato all’FBI.
Ed è proprio di politica e dell’influenza che Malcom X ha avuto su numerosi esponenti della cultura hip-hop che tratta un altro capitolo tra i più interessanti del libro. In definitiva, bisogna ammettere che è davvero difficile riassumere il prodotto del lungo e devizioso lavoro svolto da u.net senza correre il rischio di sminuirne il valore. Numerose altre sezioni, oltre a quelle già citate, completano il quadro di un periodo nel quale, prendendo a prestito le parole di Chuck D, “una serie di dischi [...] fecero comprendere al mondo come il rap poteva essere un genere significativo come il rock, generando rispetto”. Non mi rimane che ringraziare l’autore per l’ottima opportunità che Louder Than a Bomb mi ha offerto, quella di approfondire attraverso un libro appassionato ed autentico la conoscenza di una parte essenziale della storia della musica.
Dischi: Public Enemy
Most Of My Heroes Still Don’t Appear On No Stamp - luglio 2012, Slam Jamz
Dopo cinque anni di silenzio discografico, i Public Enemy sono tornati in questo 2012 con ben due album nei quali ritroviamo intatto il loro marchio di fabbrica: beat potenti dal tiro funk, con numerosi riferimenti al soul e al rock, sui quali Chuck D e compagni portano avanti la loro forma di guerriglia verbale intessendo liriche ruvide e lucide. Dopo venticinque anni di assalti musicali condotti sotto il vessillo dell’hip hop bisogna ammettere che si avverte un po’ di stanchezza, soprattutto considerando The Evil Empire Of Everything. Detto questo, pur essendo distanti dai propri capolavori, la posse di New York dimostra di essere ancora ben determinata nel mettere in luce gli aspetti più crudi e controversi degli States contemporanei come anche di tutto il mondo occidentale.
Most Of My Heroes Still Don’t Appear On No Stamp , il primo dei due fratelli, prende il proprio titolo da un verso della celeberrima Fight The Power (da Fear Of A Black Planet del 1990), un’autocitazione che sembrerebbe voler evidenziare come la condizione della popolazione afroamericana non sia poi così diversa oggi sotto Obama di quanto lo fosse ai tempi di Bush Senior, ed è ciò che si afferma con forza anche in Run Til It’s Dark. In Catch The Thrown i toni si fanno accesi e le accuse al sistema americano di razzismo endemico e sistematico, corruzione ed ipocrisia, indipendentemente dal presidente di turno, diventano esplicite. E chi si pone in antitesi a tale sistema non viene certamente celebrato sui francobolli commemorativi, come appunto recita Most Of My Heroes, nel quale vengono ricordate le figure di Angela Davis, Huey P. Newton, Marcus Garvey, Che Guevara, Steven Biko, Fidel Castro e Chavez. L’old school di Rltk, brano dedicato alla memoria di Jammaster Jay e Adam MCA Yauch, è invece l’occasione per Chuck D e l’illustre ospite DMC di esprimere la mancanza di stima nei confronti di quei rapper che cercano solo la notorietà avendo poco o nulla da dire, ma anche per coloro i quali manifestano posizioni sessiste ed omofobe.
The Evil Empire Of Everything - ottobre 2012, Enemy
Passando al secondo album The Evil Empire Of Everything, come già accennato, suona piuttosto fiacco. In quasi tutti i pezzi le rime di Chuck D risultano depotenziate dalla mancanza di quell’intesa sinergica con dei beat che sappiano davvero coinvolgere il corpo, ancora prima che le rime intrighino la mente. Gli intenti di brani come Don’t Give Up The Fight, che vede la presenza di Ziggy Marley, oppure Everything, ballata ispirata ad Otis Redding, sono buoni ma sfortunatamente il risultato non convince. I momenti migliori arrivano superando la metà dell’album. Riotstarter, che si avvale del contributo degli amici Henry Rollins e Tom Morello e riprende le liriche di Rightstarter (da Yo! Bum Rush The Show del 1987), pur percorrendo le strade già battute di un crossover ormai datato è comunque uno di quei pezzi che avresti voglia di sparare ad alto volume in preda ad un’euforia adolescenziale. Interessante anche il patchwork di Icebreaker, brano incentrato sul tema spinoso del confine tra Usa e Messico e sul dramma di chi cerca un valico diretto a nord, trovando invece la brutalità della polizia di frontiera a stelle e strisce. Ad ogni modo, i Public Enemy sono tornati e non sembra che siano semplicemente intenzionati a festeggiare un quarto di secolo di presenza militante nella scena hip hop.
http://groovisionary-x.blogspot.it, 12 dicembre 2012Giuseppe Pipitone aka u.net - Louder Than A Bomb
Louder Than a Bomb è il titolo del nuovo libro di Giuseppe Pipitone aka u.net, uscito per la casa editrice Agenzia X, come tutte le sue precedenti pubblicazioni: il tema centrale è ancora una volta la cultura Hip Hop, e nello specifico la Golden Age culturale e musicale, che ha caratterizzato gli States e la cultura afroamericana nel profondo. Il libro è disponibile nelle librerie dal 10 ottobre scorso, ed ordinabile anche dal sito della casa editrice. A seguire vi lascio il testo di presentazione, ripreso direttamente dal sito dell’Agenzia X:
“Louder Than a Bomb è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione della golden age dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane. Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell’hip hop in Europa. u.net con il suo stile narrativo sincopato costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione rap. Il suo obiettivo è sempre quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico”.
Come già accennato, u.net è già autore di altri due libri, Renegades of Funk e Bigger Than Hip Hop, entrambi stra-consigliati e davvero ben scritti (tra l’altro, usati anche da noi del blog come spunto e ispirazione per diversi articoli). Quello che trovate a seguire è il video della presentazione del libro (http://youtu.be/FlmV6V_Ug2E), realizzato allo Strike SPA di Roma (in occasione del decennale del centro sociale): Giuseppe Pipitone è accompagnato da Dj Stile (storico membro dell’altrettanto storico collettivo di djs Alien Army), che delizia come al solito le nostre orecchie.
Vi auguriamo una buona visione, nella speranza che possiate apprezzare ancor di più l’iniziativa e, di conseguenza, supportarla. In aggiunta al video, a fine articolo trovate anche un’intervista realizzata con l’autore, nella quale ci parla del suo rapporto con la doppia H e dei tre libri sinora pubblicati. Enjoy it!
INTERVISTA
1. Primo contatto con la cultura HH (video, musica, fanzine, b-boys), e cosa ti ha ispirato e colpito del movimento, portandoti a studiarlo negli anni.
Il primo contatto con la cultura Hip Hop è avvenuto tramite due video musicali, Walk this Way dei Run DMC e Fight For Your Right to Party dei Beastie Boys. Quei riff rock su basi hip hop e le immagini di quei due incredibili video catturarono da subito la mia immaginazione. Erano accattivanti, duri e ribelli. Grazie ad amici che mi duplicarono alcune musicassette, mi avvicinai quasi da subito anche ad altri artisti venendo catturato dal sound e dalle liriche di Rakim e KRS One. Criminal Minded e Paid in Full furono due pietre miliari nel mio percorso, ma l’immersione totale in questo movimento avvenne con l’ascolto di It Takes a Nation of Million to Hold us Back dei Public Enemy. Se Rakim e KRS One mi affascinavano per le liriche che raccontavano la dura realtà quotidiana nei ghetti neri urbani dell’epoca, Chuck D si rifaceva alle esperienze di lotta e leader politici del passato nel tentativo di dare vita a un rinascimento culturale e politico all’interno della comunità afro americana.
2. Renegades of Funk e Bigger Than Hip Hop: dall’idea di realizzarli alla stesura finale. Parlaci di questi due progetti, di qualche aneddoto magari a loro legato.
Bigger than Hip Hop nasce dopo anni di viaggi ed esperienze con diverse organizzazioni politiche nere e dall’esigenza di raccontare le condizioni sociali, economiche, sanitarie e politiche della comunità nera all’alba del 21esimo secolo. I primi viaggi negli Stati Uniti erano motivati dall’esigenza di scrivere una storia orale sul Partito delle Pantere Nere, ecco perché per i primi anni le mie relazioni facevano riferimento al solo ambito storico e politico. Nel corso degli anni sono riuscito però a crearmi un network di contatti e, in molti casi, amicizie con personaggi che afferivano a un panorama più ampio e diversificato della cultura e della politica. Dall’incontro con diversi esponenti dell’universo Hip Hop e dalla comprensione del profondo radicamento di questa cultura nella realtà nera contemporanea, è nata l’idea di presentare lo stato della comunità nera attraverso una lente d’ingrandimento chiamata Hip Hop. Durante la promozione del libro, confrontandomi con numerosi giovani, ho realizzato quanto fosse indispensabile un approfondimento sulla scena originale, su quei primi dieci anni nel Bronx, periodo sul quale c’erano poche testimonianze a disposizione. Per utilizzare l’Hip Hop come strumento di educazione era indispensabile educare sulle origini dell’Hip Hop. Così è nato il progetto di Renegades of Funk, una storia orale e musicale sulla old school, con interviste con oltre trenta pionieri. I due degli aneddoti a cui son più legato fanno riferimento all’MCing. Nel luglio 2008 viaggiavo su un pulman che mi stava portando da Manchester a Birmingham. Viaggiavo con alcuni degli artisti Hip Hop più in vista della scena underground e non internazionale, tra questi alcuni tra i miei preferiti: Black Thought (The Roots), Lord Finesse, Ursula Rucker. Non era tanto stare tra di loro quanto il loro rappare a cappella alcuni tra i pezzi più noti degli anni ’90 insieme a leggende della scena europea e a giovani emergenti MC provenienti realmente da tutto il mondo. Il secondo episodio è avvenuto l’anno dopo in un liceo di Harlem. In quell’occasione i Ground Breakers, un super gruppo formato da alcuni tra gli MC più noti della old school, stavano facendo le prove per un loro spettacolo imminente. Durante una pausa, KK Rockwell(Funky4/Double Trouble), LA Sunshine (Threacherous3), T Ski Valley, Reggie Reg (Crash Crew), The flyest Booski (Grandmaster DST & The Infinity 4 MCs), hanno formato un cerchio intorno a me e hanno iniziato un freestyle chyper dedicato alla mia celebrazione della old school, Renegades of Funk.
3. Come hai selezionato gli artisti che sono presenti nella raccolta allegata a Renegades of Funk.
In realtà, non c’è stata una reale selezione da parte mia. È stata più una selezione naturale. Mi spiego meglio. Sono partito alla ricerca dei personaggi più conosciuti grazie ai contatti che la mia profonda amicizia con Henry Chalfant (Subway Art/Style Wars/From Mambo to Hip Hop) e con Charlie Ahearn (Wyld Style/Yes Yes Y’all) mi garantiva. Approfondendo lo studio e imparando in prima persona nuovi elementi su quel periodo, ho provato ad allargare il mio network di relazioni e conoscenze. In questo sono stato aiutato dalla crescente popolarità di Myspace utilizzato come primo punto di contatto con alcuni personaggi. Il lavoro svolto con Bigger Than Hip Hop e la benedizione della maggior parte di questi artisti sono stati fondamentali per avere accesso a quasi tutta la scena. Dico quasi poiché, seppur in rari casi, non sono riuscito a trovare alcun contatto fruibile (tra questi Kool Herc, intervistato poi a Rimini nel gennaio 2009), non ho ricevuto risposta e, in tre occasioni sole, mi sono stati chiesti dei soldi per poter realizzare l’intervista. Da parte mia ho cercato di individuare tutti i protagonisti principali delle diverse discipline per offrire una visione d’insieme sulla nascita ed evoluzione della cultura Hip Hop durante quell’incredibile decennio (1973-1983).
4. Introduci ai tuoi lettori Louder than a bomb.
Louder than a Bomb nasce come progetto collaterale alla storia orale e fotografica sul leggendario club Latin Quarter di NYC che sto portando avanti da qualche anno con Paradise The Architek (X Clan). L’immersione totale negli anni ’80, le interviste che mi parlavano della New York di quegli anni e della nascita ed evoluzione della nuova scuola del rap che conquistò la scena nella seconda metà degli anni ’80, mi hanno spinto ad approfondire quei temi che avevo solo lasciato intravedere in Renegades of Funk e raccontare quella rivoluzione musicale, estetica e lirica chiamata Golden Age. Una cronologia su politica, moda, sport e cinema aiutano quest’immersione nella realtà dell’America nera degli anni ’80.
5. Qual è il tuo artista preferito, in ambito strettamente Hip Hop?
Il personaggio di riferimento per la storia della cultura Hip Hop è sicuramente Afrika Bambaataa. Il miglior gruppo di tutti i tempi i Public Enemy. Nella scena contemporanea apprezzo diversi artisti come Talib Kweli, Mos Def, Common, Pharoahe Monch, Lupe Fiasco, Immortal Technique e altri ancora, ma tutto il mio rispetto e affetto è per due grandi MC e amici come Boots Riley (The Coup) e M1 (Dead Prez/AP2P), entrambi impegnati sia sul fronte politico sia culturale/musicale.
di fra.u“Louder Than a Bomb è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione della golden age dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane. Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell’hip hop in Europa. u.net con il suo stile narrativo sincopato costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione rap. Il suo obiettivo è sempre quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico”.
Come già accennato, u.net è già autore di altri due libri, Renegades of Funk e Bigger Than Hip Hop, entrambi stra-consigliati e davvero ben scritti (tra l’altro, usati anche da noi del blog come spunto e ispirazione per diversi articoli). Quello che trovate a seguire è il video della presentazione del libro (http://youtu.be/FlmV6V_Ug2E), realizzato allo Strike SPA di Roma (in occasione del decennale del centro sociale): Giuseppe Pipitone è accompagnato da Dj Stile (storico membro dell’altrettanto storico collettivo di djs Alien Army), che delizia come al solito le nostre orecchie.
Vi auguriamo una buona visione, nella speranza che possiate apprezzare ancor di più l’iniziativa e, di conseguenza, supportarla. In aggiunta al video, a fine articolo trovate anche un’intervista realizzata con l’autore, nella quale ci parla del suo rapporto con la doppia H e dei tre libri sinora pubblicati. Enjoy it!
INTERVISTA
1. Primo contatto con la cultura HH (video, musica, fanzine, b-boys), e cosa ti ha ispirato e colpito del movimento, portandoti a studiarlo negli anni.
Il primo contatto con la cultura Hip Hop è avvenuto tramite due video musicali, Walk this Way dei Run DMC e Fight For Your Right to Party dei Beastie Boys. Quei riff rock su basi hip hop e le immagini di quei due incredibili video catturarono da subito la mia immaginazione. Erano accattivanti, duri e ribelli. Grazie ad amici che mi duplicarono alcune musicassette, mi avvicinai quasi da subito anche ad altri artisti venendo catturato dal sound e dalle liriche di Rakim e KRS One. Criminal Minded e Paid in Full furono due pietre miliari nel mio percorso, ma l’immersione totale in questo movimento avvenne con l’ascolto di It Takes a Nation of Million to Hold us Back dei Public Enemy. Se Rakim e KRS One mi affascinavano per le liriche che raccontavano la dura realtà quotidiana nei ghetti neri urbani dell’epoca, Chuck D si rifaceva alle esperienze di lotta e leader politici del passato nel tentativo di dare vita a un rinascimento culturale e politico all’interno della comunità afro americana.
2. Renegades of Funk e Bigger Than Hip Hop: dall’idea di realizzarli alla stesura finale. Parlaci di questi due progetti, di qualche aneddoto magari a loro legato.
Bigger than Hip Hop nasce dopo anni di viaggi ed esperienze con diverse organizzazioni politiche nere e dall’esigenza di raccontare le condizioni sociali, economiche, sanitarie e politiche della comunità nera all’alba del 21esimo secolo. I primi viaggi negli Stati Uniti erano motivati dall’esigenza di scrivere una storia orale sul Partito delle Pantere Nere, ecco perché per i primi anni le mie relazioni facevano riferimento al solo ambito storico e politico. Nel corso degli anni sono riuscito però a crearmi un network di contatti e, in molti casi, amicizie con personaggi che afferivano a un panorama più ampio e diversificato della cultura e della politica. Dall’incontro con diversi esponenti dell’universo Hip Hop e dalla comprensione del profondo radicamento di questa cultura nella realtà nera contemporanea, è nata l’idea di presentare lo stato della comunità nera attraverso una lente d’ingrandimento chiamata Hip Hop. Durante la promozione del libro, confrontandomi con numerosi giovani, ho realizzato quanto fosse indispensabile un approfondimento sulla scena originale, su quei primi dieci anni nel Bronx, periodo sul quale c’erano poche testimonianze a disposizione. Per utilizzare l’Hip Hop come strumento di educazione era indispensabile educare sulle origini dell’Hip Hop. Così è nato il progetto di Renegades of Funk, una storia orale e musicale sulla old school, con interviste con oltre trenta pionieri. I due degli aneddoti a cui son più legato fanno riferimento all’MCing. Nel luglio 2008 viaggiavo su un pulman che mi stava portando da Manchester a Birmingham. Viaggiavo con alcuni degli artisti Hip Hop più in vista della scena underground e non internazionale, tra questi alcuni tra i miei preferiti: Black Thought (The Roots), Lord Finesse, Ursula Rucker. Non era tanto stare tra di loro quanto il loro rappare a cappella alcuni tra i pezzi più noti degli anni ’90 insieme a leggende della scena europea e a giovani emergenti MC provenienti realmente da tutto il mondo. Il secondo episodio è avvenuto l’anno dopo in un liceo di Harlem. In quell’occasione i Ground Breakers, un super gruppo formato da alcuni tra gli MC più noti della old school, stavano facendo le prove per un loro spettacolo imminente. Durante una pausa, KK Rockwell(Funky4/Double Trouble), LA Sunshine (Threacherous3), T Ski Valley, Reggie Reg (Crash Crew), The flyest Booski (Grandmaster DST & The Infinity 4 MCs), hanno formato un cerchio intorno a me e hanno iniziato un freestyle chyper dedicato alla mia celebrazione della old school, Renegades of Funk.
3. Come hai selezionato gli artisti che sono presenti nella raccolta allegata a Renegades of Funk.
In realtà, non c’è stata una reale selezione da parte mia. È stata più una selezione naturale. Mi spiego meglio. Sono partito alla ricerca dei personaggi più conosciuti grazie ai contatti che la mia profonda amicizia con Henry Chalfant (Subway Art/Style Wars/From Mambo to Hip Hop) e con Charlie Ahearn (Wyld Style/Yes Yes Y’all) mi garantiva. Approfondendo lo studio e imparando in prima persona nuovi elementi su quel periodo, ho provato ad allargare il mio network di relazioni e conoscenze. In questo sono stato aiutato dalla crescente popolarità di Myspace utilizzato come primo punto di contatto con alcuni personaggi. Il lavoro svolto con Bigger Than Hip Hop e la benedizione della maggior parte di questi artisti sono stati fondamentali per avere accesso a quasi tutta la scena. Dico quasi poiché, seppur in rari casi, non sono riuscito a trovare alcun contatto fruibile (tra questi Kool Herc, intervistato poi a Rimini nel gennaio 2009), non ho ricevuto risposta e, in tre occasioni sole, mi sono stati chiesti dei soldi per poter realizzare l’intervista. Da parte mia ho cercato di individuare tutti i protagonisti principali delle diverse discipline per offrire una visione d’insieme sulla nascita ed evoluzione della cultura Hip Hop durante quell’incredibile decennio (1973-1983).
4. Introduci ai tuoi lettori Louder than a bomb.
Louder than a Bomb nasce come progetto collaterale alla storia orale e fotografica sul leggendario club Latin Quarter di NYC che sto portando avanti da qualche anno con Paradise The Architek (X Clan). L’immersione totale negli anni ’80, le interviste che mi parlavano della New York di quegli anni e della nascita ed evoluzione della nuova scuola del rap che conquistò la scena nella seconda metà degli anni ’80, mi hanno spinto ad approfondire quei temi che avevo solo lasciato intravedere in Renegades of Funk e raccontare quella rivoluzione musicale, estetica e lirica chiamata Golden Age. Una cronologia su politica, moda, sport e cinema aiutano quest’immersione nella realtà dell’America nera degli anni ’80.
5. Qual è il tuo artista preferito, in ambito strettamente Hip Hop?
Il personaggio di riferimento per la storia della cultura Hip Hop è sicuramente Afrika Bambaataa. Il miglior gruppo di tutti i tempi i Public Enemy. Nella scena contemporanea apprezzo diversi artisti come Talib Kweli, Mos Def, Common, Pharoahe Monch, Lupe Fiasco, Immortal Technique e altri ancora, ma tutto il mio rispetto e affetto è per due grandi MC e amici come Boots Riley (The Coup) e M1 (Dead Prez/AP2P), entrambi impegnati sia sul fronte politico sia culturale/musicale.
http://hotmc.rockit.it, 11 dicembre 2012La trilogia si chiude: Louder than a bomb
Louder Than a Bomb è il nuovo libro di Giuseppe Pipitone alias u.net: il terzo, per l’esattezza, ultimo capito di una sorta di trilogia – iniziata con Bigger Than Hip Hop e proseguita con Renegades of Funk – dedicata all’hip hop delle origini e non solo. A metà tra il saggio critico e la storia orale, il libro prende in considerazione la decade che va dal 1979 al 1989, focalizzandosi sui vari passaggi che hanno portato l’hip hop dal South Bronx all’intero Pianeta.
Scansionato da una funzionale introduzione “anno per anno”, utile a contestualizzare il tutto a livello politico e sociale, il libro procede per capitoli tematici, cercando di fornire una visione di insieme oltre i soliti Africa Bambaataa e Dj Kool Herc. È così che troviamo interviste a personaggi piuttosto laterali quali il seminale regista afroamericano Martin Van Peebles – a proposito: uscirà mai il suo progetto assieme a Madlib? – Sal Abbatiello, proprietario del mitico club del Bronx Disco Fever, Patti Astor, performer e gallerista newyorchese, e altri ancora.
Anche se spesso è la musica a farla da padrona, con interessanti capitoli dedicati a Def Jam, Eric B e Public Enemy (ottimo in questo senso il racconto del loro primo concerto a New York), non mancano neppure divagazioni di carattere tecnologico – e il rap, paradossalmente, è un genere musicale eminentemente tecnologico – e artistico, con paragrafi dedicati a Keith Haring e a Rammellzee.
In breve: spinto più dalla passione che dal rigore metodologico, che comunque non manca, U.Net è riuscito anche questa volta a scrivere un libro ricco di informazioni e davvero godibile: un vero e proprio must have per coloro che si avvicinano all’hip hop inteso come autentico movimento culturale.
Per approfondire l’argomento, in arrivo a breve l’intervista all’autore.
di Filippo PapettiScansionato da una funzionale introduzione “anno per anno”, utile a contestualizzare il tutto a livello politico e sociale, il libro procede per capitoli tematici, cercando di fornire una visione di insieme oltre i soliti Africa Bambaataa e Dj Kool Herc. È così che troviamo interviste a personaggi piuttosto laterali quali il seminale regista afroamericano Martin Van Peebles – a proposito: uscirà mai il suo progetto assieme a Madlib? – Sal Abbatiello, proprietario del mitico club del Bronx Disco Fever, Patti Astor, performer e gallerista newyorchese, e altri ancora.
Anche se spesso è la musica a farla da padrona, con interessanti capitoli dedicati a Def Jam, Eric B e Public Enemy (ottimo in questo senso il racconto del loro primo concerto a New York), non mancano neppure divagazioni di carattere tecnologico – e il rap, paradossalmente, è un genere musicale eminentemente tecnologico – e artistico, con paragrafi dedicati a Keith Haring e a Rammellzee.
In breve: spinto più dalla passione che dal rigore metodologico, che comunque non manca, U.Net è riuscito anche questa volta a scrivere un libro ricco di informazioni e davvero godibile: un vero e proprio must have per coloro che si avvicinano all’hip hop inteso come autentico movimento culturale.
Per approfondire l’argomento, in arrivo a breve l’intervista all’autore.
Radio popolare, 4 dicembre 2012Louder than a bomb a Jalla! Jalla!
Nella seconda parte di trasmissione, un viaggio nell’affascinante mondo della cultura hip-hop e della musica rap guidati da Andrea Cegna.
Ascolta qui
di Radio popolareAscolta qui
Rumore, dicembre 2012Louder than a bomb. La golden age dell’hip hop
1979 – 1989, è questo lo spazio cronologico scelto dal quarantenne Giuseppe Pipitone per raccontare la sottocultura afroamericana come rivoluzione di codici, suoni, mercato, prospettiva sociale. Prima il fermento era underground ed estraneo al mercato discografico quanto ai media di larga diffusione; dopo il movimento avrebbe cominciato a perdere la sua carica dirompente fino alle derive odierne. u.net ha una scrittura hip hop nel DNA, che ben si adatta alla materia. E ha scavato in tanti incontri diretti per costruire un puzzle di rara efficacia, pieno di testimonianze di prima mano e personaggi rimasti in ombra nelle tante ricostruzioni ufficiali. Scandito da capitoli annuali incaricati di contestualizzare gli interventi, il viaggio propone figure come Sal Abbatiello, italo americano che gestiva nella seconda metà dei ’70 il Disco Fever, l’interlocutore ideale per descrivere il ruolo dei club prima dell’accesso alle sale di registrazione; o Patti Astor, attrice e cineasta esemplare del moto che all’improvviso portò la New York nata bene a cercare nuovi stimoli nel Bronx e a Harlem. Sono trame oblique e illuminanti, tessute intorno a un granitico nucleo di interviste più classiche, da Afrika Bambaataa a Kurtis Blow, Just Ice, KRS-One, T La Rock, Kool Herc. Altrove vince il taglia e cuci, esemplare nella carrellata di testimoni presenti al primo concerto ufficiale dei Public Enemy a New York, nel gennaio 1987 al Latin Quarter; tra gli altri, parlano lo stesso Chuck D e Daddy O degli Stetsasonic.
di Paolo Ferrarihttp://rapmaniacz.blogspot.it, 20 novembre 2012Letture Hip Hop: Louder Than a Bomb
«C.I.A. F.B.I. all they tell us is lies / and when I say it they get alarmed / ’cause I’m louder than a bomb».Questa leggendaria linea di Chuck D riassumeva con pochissime parole il pensiero, la natura, l’identità di un movimento culturale che stava crescendo con proporzioni tali da permettersi di sputare in faccia alla massa la propria opinione, mettendo sotto seria minaccia l’America conservatrice, potente, alla quale faceva comodo reprimere e ghettizzare facendo finta che i problemi distintivi di una realtà violenta e crudele non fossero mai esistiti.
Louder Than a Bomb è altresì il titolo del nuovo libro di Giuseppe Pipitone a.k.a. u.net, già autore di Bigger Than Hip Hop e Renegades of Funk, e seguendo il filone di questi, non analizza semplicemente un genere musicale descrivendone la nascita, lo sviluppo tecnico e mediatico fino ad arrivare ai giorni nostri sottolineando come esso abbia reiventato tutto senza in realtà aver inventato nulla. Ne spiega soprattutto il contesto, ne evidenzia le tradizioni culturali, lo collega a tutta una serie di eventi di cronaca occorsi negli Stati Uniti che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta dettarono la reazione della comunità nera nei confronti del confinamento urbano messo in atto dai piani alti, gettando le basi per la creazione di uno strumento di protesta che diventerà sempre più importante e minaccioso.
La storia della cultura Hip Hop viene descritta a partire dalle prime forme di espressione, grazie ai preziosi contributi del filmmaker afroamericano Melvin Van Peebles, talentuoso regista che pur avendo la possibilità di immettersi nelle grandi produzioni hollywoodiane decise di seguire la strada dell’indipendenza, e di alcuni membri dei Last Poets, gruppo che attraverso strofe eseguite sopra a delle percussioni ebbe il coraggio di esporre i disagi della comunità nera, di raccontare le cose da un punto di vista diverso sottolineando l’inequità della condizione sociale, di propagandare i primi concetti di Black Nationalism che molte organizzazioni e crew avrebbero ripreso più avanti.
Si passa quindi alla nascita del Rap come genere musicale analizzando la scena dei block party e delle feste nei parchi, eventi promossi ed eseguiti da figure emblematiche quali Kool Herc, Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash, ingrandendo il panorama su genesi e sviluppo delle figure di MC e DJ, inglobando nel discorso la realtà del graffiti writing tracciando continui paragoni tra arti diverse, e facendo costantemente notare come le stesse siano figlie degli stessi concetti rivoluzionari e reazionari espressi da tutti quei giovani che desideravano far segnalare con decisione la loro presenza, i quali prendendo un microfono, facendo impazzire le folle con due giradischi ed un mixer, o con una bomboletta in mano, cominciarono a creare qualcosa di unico ed irripetibile.
L’attezione si sposta poi su momenti particolarmente memorabili della storia della cultura, facendo un giro attraverso i luoghi determinanti per mettere in luce tutti quegli artisti che oggi conosciamo come leggende. Si parla dell’indiscutibile importanza del Latin Quarter, locale dove ebbero luogo concerti e battaglie da leggenda, del Disco Fever, grazie all’intervista con Sal Abbatiello, aprendo un interessante spunto su come la cultura stesse catturando l’interesse anche della gente bianca, contribuendo ad un’integrazione che l’America non era mai completamente riuscita ad attuare politicamente.
L’Hip Hop viene infine trattato nell’ottica del suo successivo sviluppo a livello mondiale sancendo il passaggio tra Old School e Golden Age, dove la sempre maggiore esposizione fu catturata per merito di gruppi come i Run Dmc, attraverso i quali vengono trattati anche i fenomeni commerciali legati alla cultura, ed i Public Enemy, i paladini del Rap di stampo politico-sociale e dei quali vengono proposti degli aneddoti di sicuro interesse. La globalizzazione del movimento viene approfondita nella parte conclusiva, con una particolare attenzione alla scena londinese ed ai pionieri della stessa.
Gli eventi raccontati e le testimonianze raccolte direttamente dalla voce degli artisti viene di tanto in tanto interrotta per lasciare spazio ad opportune segnalazioni dei più importanti eventi storici vissuti negli Stati Uniti nel decennio 1979-1989, la cui lettura fa comprendere più chiaramente lo stato d’animo della comunità nera, il suo modo di organizzarsi per superare le difficoltà non potendo che contare su se stessa, e citando le prime importanti conquiste politiche giunte attraverso l’assunzione di importanti cariche da parte di persone afroamericane.
Il libro coglie nel segno togliendo dalla mente tanti luoghi comuni sull’Hip Hop e sulla violenza che i media hanno, talvolta forzatamente, associato ad esso. Il movimento viene fotografato nella sua natura vera, quello di arte espressiva multiforme che se da un lato doveva fare con la violenza stessa per via dell’impossibilità di alterare la realtà dei contesti urbani dove è nato e cresciuto, dall’altra cercava di condannarla facendo il possibile per entrare nella mente della comunità di colore, predicando la pace e l’unità, creando alleanze tra gang, spostando la competizione sul palcoscenico e ballando tutti al ritmo della medesima musica, con inevitabili riferimenti alla Zulu Nation, ai Native Tongues ed al loro ruolo nella connessione con la madre patria, quell’Africa che aiutò a ritrovare le origini e l’orgoglio razziale.
Louder Than a Bomb ha il pregio di presentare l’Hip Hop nella vastità delle sue ramificazioni, di individuare le sue cause scatenanti rapportandole alla condizione sociale dei suoi protagonisti e dei suoi avi, è una passeggiata a 360 gradi che trasporta idealmente il lettore nei playground e nelle metropolitane del Bronx, nei marciapiedi di Brooklyn, nell’attitudine gangsta del Queens e nelle feste dei locali più gettonati di Manhattan, trovandone con puntualità il minimo comune denominatore, sia artistico che politico.
L’Hip Hop è qui raccontato come merita andando molto più in là del suo mero lato musicale, identificandone la natura di vero e proprio stile di vita, un modo di essere il cui impatto a livello prima locale e poi globale causò un rumore assordante, che fu ed è ancora oggi più forte di qualsiasi bomba.
di MistadaveLouder Than a Bomb è altresì il titolo del nuovo libro di Giuseppe Pipitone a.k.a. u.net, già autore di Bigger Than Hip Hop e Renegades of Funk, e seguendo il filone di questi, non analizza semplicemente un genere musicale descrivendone la nascita, lo sviluppo tecnico e mediatico fino ad arrivare ai giorni nostri sottolineando come esso abbia reiventato tutto senza in realtà aver inventato nulla. Ne spiega soprattutto il contesto, ne evidenzia le tradizioni culturali, lo collega a tutta una serie di eventi di cronaca occorsi negli Stati Uniti che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta dettarono la reazione della comunità nera nei confronti del confinamento urbano messo in atto dai piani alti, gettando le basi per la creazione di uno strumento di protesta che diventerà sempre più importante e minaccioso.
La storia della cultura Hip Hop viene descritta a partire dalle prime forme di espressione, grazie ai preziosi contributi del filmmaker afroamericano Melvin Van Peebles, talentuoso regista che pur avendo la possibilità di immettersi nelle grandi produzioni hollywoodiane decise di seguire la strada dell’indipendenza, e di alcuni membri dei Last Poets, gruppo che attraverso strofe eseguite sopra a delle percussioni ebbe il coraggio di esporre i disagi della comunità nera, di raccontare le cose da un punto di vista diverso sottolineando l’inequità della condizione sociale, di propagandare i primi concetti di Black Nationalism che molte organizzazioni e crew avrebbero ripreso più avanti.
Si passa quindi alla nascita del Rap come genere musicale analizzando la scena dei block party e delle feste nei parchi, eventi promossi ed eseguiti da figure emblematiche quali Kool Herc, Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash, ingrandendo il panorama su genesi e sviluppo delle figure di MC e DJ, inglobando nel discorso la realtà del graffiti writing tracciando continui paragoni tra arti diverse, e facendo costantemente notare come le stesse siano figlie degli stessi concetti rivoluzionari e reazionari espressi da tutti quei giovani che desideravano far segnalare con decisione la loro presenza, i quali prendendo un microfono, facendo impazzire le folle con due giradischi ed un mixer, o con una bomboletta in mano, cominciarono a creare qualcosa di unico ed irripetibile.
L’attezione si sposta poi su momenti particolarmente memorabili della storia della cultura, facendo un giro attraverso i luoghi determinanti per mettere in luce tutti quegli artisti che oggi conosciamo come leggende. Si parla dell’indiscutibile importanza del Latin Quarter, locale dove ebbero luogo concerti e battaglie da leggenda, del Disco Fever, grazie all’intervista con Sal Abbatiello, aprendo un interessante spunto su come la cultura stesse catturando l’interesse anche della gente bianca, contribuendo ad un’integrazione che l’America non era mai completamente riuscita ad attuare politicamente.
L’Hip Hop viene infine trattato nell’ottica del suo successivo sviluppo a livello mondiale sancendo il passaggio tra Old School e Golden Age, dove la sempre maggiore esposizione fu catturata per merito di gruppi come i Run Dmc, attraverso i quali vengono trattati anche i fenomeni commerciali legati alla cultura, ed i Public Enemy, i paladini del Rap di stampo politico-sociale e dei quali vengono proposti degli aneddoti di sicuro interesse. La globalizzazione del movimento viene approfondita nella parte conclusiva, con una particolare attenzione alla scena londinese ed ai pionieri della stessa.
Gli eventi raccontati e le testimonianze raccolte direttamente dalla voce degli artisti viene di tanto in tanto interrotta per lasciare spazio ad opportune segnalazioni dei più importanti eventi storici vissuti negli Stati Uniti nel decennio 1979-1989, la cui lettura fa comprendere più chiaramente lo stato d’animo della comunità nera, il suo modo di organizzarsi per superare le difficoltà non potendo che contare su se stessa, e citando le prime importanti conquiste politiche giunte attraverso l’assunzione di importanti cariche da parte di persone afroamericane.
Il libro coglie nel segno togliendo dalla mente tanti luoghi comuni sull’Hip Hop e sulla violenza che i media hanno, talvolta forzatamente, associato ad esso. Il movimento viene fotografato nella sua natura vera, quello di arte espressiva multiforme che se da un lato doveva fare con la violenza stessa per via dell’impossibilità di alterare la realtà dei contesti urbani dove è nato e cresciuto, dall’altra cercava di condannarla facendo il possibile per entrare nella mente della comunità di colore, predicando la pace e l’unità, creando alleanze tra gang, spostando la competizione sul palcoscenico e ballando tutti al ritmo della medesima musica, con inevitabili riferimenti alla Zulu Nation, ai Native Tongues ed al loro ruolo nella connessione con la madre patria, quell’Africa che aiutò a ritrovare le origini e l’orgoglio razziale.
Louder Than a Bomb ha il pregio di presentare l’Hip Hop nella vastità delle sue ramificazioni, di individuare le sue cause scatenanti rapportandole alla condizione sociale dei suoi protagonisti e dei suoi avi, è una passeggiata a 360 gradi che trasporta idealmente il lettore nei playground e nelle metropolitane del Bronx, nei marciapiedi di Brooklyn, nell’attitudine gangsta del Queens e nelle feste dei locali più gettonati di Manhattan, trovandone con puntualità il minimo comune denominatore, sia artistico che politico.
L’Hip Hop è qui raccontato come merita andando molto più in là del suo mero lato musicale, identificandone la natura di vero e proprio stile di vita, un modo di essere il cui impatto a livello prima locale e poi globale causò un rumore assordante, che fu ed è ancora oggi più forte di qualsiasi bomba.
www.goldworld.it, 15 novembre 2012La golden age dell’hip hop raccontata nel terzo libro di U.net
È uscito in questi giorni, nelle migliori librerie (come si suol dire) Louder than a bomb il nuovo libro del giornalista scrittore Giuseppe Pipitone, in arte U.net.
Il volume (256 pagine, 15 euro) sottotitolato La golden age dell’hip hop è la terza opera di Pipitone per i tipi di Agenzia X e segue, in ordine cronologico, Bigger than hip hop (2006) e Renegades of funk (2008).
All’interno del libro si segnalano le partecipazioni di alto profilo di personaggi come Last Poets, Rick Rubin della Def Jam, Run DMC e Chuck D dei Public Enemy (il titolo è, infatti, ripreso dall’omonima canzone del gruppo di Flavor Flav) in un rincorrersi di ricordi che ripercorrono quello straordinario periodo storico compreso tra il 1986 ed il 1992.
Restate sintonizzati perché è in arrivo (a breve!) l’intervista con Pipitone.
Volume consigliato.
Stop the press! A questo link http://soundcloud.com/dj-stile/louder-than-a-podcast/s-54T3E potete ascoltarvi anche Louder than a podcast l’esclusivo mix realizzato da Dj Stile che accompagna idealmente il libro.
di Davide Deiv AgazziIl volume (256 pagine, 15 euro) sottotitolato La golden age dell’hip hop è la terza opera di Pipitone per i tipi di Agenzia X e segue, in ordine cronologico, Bigger than hip hop (2006) e Renegades of funk (2008).
All’interno del libro si segnalano le partecipazioni di alto profilo di personaggi come Last Poets, Rick Rubin della Def Jam, Run DMC e Chuck D dei Public Enemy (il titolo è, infatti, ripreso dall’omonima canzone del gruppo di Flavor Flav) in un rincorrersi di ricordi che ripercorrono quello straordinario periodo storico compreso tra il 1986 ed il 1992.
Restate sintonizzati perché è in arrivo (a breve!) l’intervista con Pipitone.
Volume consigliato.
Stop the press! A questo link http://soundcloud.com/dj-stile/louder-than-a-podcast/s-54T3E potete ascoltarvi anche Louder than a podcast l’esclusivo mix realizzato da Dj Stile che accompagna idealmente il libro.
www.rapburger.com, 2 novembre 2012Intervista a u.net
Giuseppe Pipitone, più noto con lo pseudonimo di u.net, è uno scrittore appassionato di storia e cultura afroamericana e collaboratore di Alias del manifesto. Giunge ora al suo terzo saggio, Louder Than a Bomb, che ripercorre il periodo in cui l’hip hop da cultura underground radicata nell’ambiente urbano diventa fenomeno mainstream. La casa editrice che ha scelto di pubblicare questo viaggio nella golden age dell’hip hop è Agenzia X, con cui l’artista ha già pubblicato Bigger than hip hop nel 2006 e Renegades of funk nel 2008.
Il suo obiettivo è quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico.
Tra le persone coinvolte direttamente e indirettamente in Louder Than a Bomb ci sono Melvin Van Peebles, i Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin della Def Jam, i Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy.
L’abbiamo incontrato per farci raccontare un po’ del suo lavoro e delle sue esperienze.
Ci sono molti libri che parlano di hip hop, ma quasi nessuno va così in profondità sulla realtà e sulla cultura afroamericana come i tuoi. Raccontaci come nasce la tua ricerca, dove ti ha portato e chi ti ha fatto conoscere.
Il mio percorso di ricerca è iniziato quando ho posato la puntina del mio giradischi sui solchi del vinile di It Takes a Nation of Millions to Hold us Back dei Public Enemy. Le liriche di quell’album mi parlavano di luoghi, persone, movimenti di cui capivo poco o nulla ma la confusione organizzata, la ribellione sonora prodotta dalla bomb squad associata alla voce dell’MC del gruppo Chuck D, risuonavano nella mia testa creando un vortice di domande a cui desideravo dare risposta. Sebbene altri gruppi avessero richiamato la mia attenzione verso la musica rap sul finire del 1985 – artisti quali Run DMC, LL Cool J, Kool Moe Dee, Beastie Boys, T La Rock – fu con gruppi come Eric B and Rakim e Boogie Down production che quella fascinazione si trasformò in interesse per la dura realtà dei ghetti urbani neri per divenire vera e propria passione con i Public Enemy e quelle tematiche di carattere politico, militante. A distanza di dieci anni da quel 1988, mi laureavo con una testi sulle Pantere Nere e quei programmi di controspionaggio dell’FBI che avevano fottuto King, Malcolm e Huey [Newton], come rappava Chuck D in Party For Your Right To Fight. Da allora la voglia di realizzare una storia orale sulle Pantere Nere mi ha portato a fare una serie di viaggi a New York e nella Bay Area alla ricerca di protagonisti e avvenimenti di quegli anni. Le riunioni presso la Colazione di New York a sostegno di Mumia Abu Jamal mi hanno dato la possibilità di entrare in contatto con un gran numero di ex militanti, attivisti, artisti e avvocati. Nel giro di pochi anni con molti di quegli individui si sono create amicizie profonde e il cerchio delle relazioni si è allargato a macchia d’olio, passando dagli ambiti strettamente politici a quelli artistici, culturali e accademici. Questo percorso è alla base di Bigger than hip hop, nel quale ho provato a descrivere la complessità della realtà dei neri in America utilizzando prodotti culturali associati all’hip hop – canzoni, film, libri, ecc. – e sfruttando la complicità di artisti, critici musicali, attivisti, intellettuali e accademici. Ma per poter utilizzare l’Hiphop come strumento di educazione si è rivelato necessario chiarire le idee sulla nascita di questa cultura e così è nato Renegades of Funk, il mio omaggio alla old school, una storia orale e musicale sulla scena originaria del Bronx e sulle diverse forme espressive alla base di questa cultura. Louder than a Bomb è un viaggio nella rivoluzione del rap negli anni ottanta, quando passò da essere elemento urbano e associato alla gioventù di colore a divenire elemento mainstream associato alla gioventù suburbana. In oltre quindici anni di viaggi di ricerca tra nord America ed Europa, tra jam, concerti, studi di registrazioni e dibattiti, gli incontri e gli episodi degni di nota sono moltissimi: dall’aver visto pionieri dell’MCing (Reggie Reg, LA Sunshine, KK Rockwell, T SKI Valley, The Flyest Booski) fare un freestyle chyper come omaggio a Renegades of Funk, al passare quattro giorni tra Birmingham e Manchester con Black Thought, Rich Medina, DJ Spooky, Ursula Rucker e Lord Finesse durante l’evento MCs For Life nel 2008, dal dover lasciar spazio per apparecchiare il posto di fianco a me durante una cena ad Harvard e scoprire che l’ospite in ritardo è Chuck D al passare un pomeriggio ad ascoltare una leggenda della cultura nera come Melvin Van Peebles che racconta le ragioni per cui nel 1971 all’apice del successo decise di intraprendere la carriera indipendente e realizzare un capolavoro come Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Ma questi episodi potrebbero da soli essere argomento di un altro libro, magari il prossimo…
Parlaci di questo nuovo libro. Come nasce? Prosegue il discorso iniziato con i precedenti? C’è un filo conduttore tra le tue produzioni?
Louder than a Bomb nasce come progetto collaterale di un libro che sto realizzando con Paradise The Architek (X Clan), una storia orale e fotografica su un leggendario club che fu l’incubatore di tutti gli artisti associati alla Golden Age: il Latin Quarter. Quelle interviste mi hanno permesso di approfondire tematiche ed eventi sulla nascita e l’origine della nuova scuola che conquistò la scena nella seconda metà degli anni ottanta. L’analisi e il racconto di quella rivoluzione musicale, estetica e lirica riprendono ciò che avevo lasciato solo intravedere in Renegades of Funk, e i due libri possono a tutti gli effetti essere considerati degli approfondimenti su quelle due decadi di storia hip hop. E sebbene i tre i libri siano caratterizzati da una struttura e stili narrativi differenti, essi evidenziano un minimo comun denominatore, ovvero il metodo d’analisi che si basa sulla storia orale e sulle testimonianze dirette, nel tentativo di creare un storia dal basso attraverso le memorie dei protagonisti. Niente nozionismi, solo la riproposizione di ricordi, situazioni, sensazioni, emozioni e speranze. Dei libri che si propongono tutti di fornire gli strumenti culturali per comprendere la complessità di questa cultura e della realtà afro americana. Sono oltre centocinquanta ormai i file audio che compongo il mio archivio di interviste.
Tra tutte queste interviste raccolte ce ne saranno alcune che, per via del personaggio o della situazione, ti saranno rimaste nel cuore più di altre. Raccontaci qualche altro aneddoto.
Citavo prima alcuni episodi storici per la storia dei personaggi e per la mia crescita personale. Ce ne sono moltissimi. Ti racconto meglio l’episodio riguardante Chuck D e Melvin Van Peebles perché sono avvenuti durante lo stesso viaggio. Nel marzo del 2009 sono stato invitato a partecipare a una conferenza sull’hip hop tenutasi ad Harvard presso l’Hip Hop Archive ospitato dalla facoltà di studi afro americani presieduto da Henry Louis Gates (celebrità accademica divenuto celebre a livello internazionale per il diverbio avuto con un agente di polizia e per il suo successivo arresto, episodio per il quale Obama definì stupido l’operato dell’agente con tutte le conseguenze del caso e le successive spiegazioni e pacificazione). Durante quell’evento, da quella prima sera in cui mi fu chiesto di far posto a un’ospite in ritardo rivelatosi poi appunto l’MC dei Public Enemy, ho condiviso momenti informali con alcuni dei personaggi più rispettati della scena hip hop: Chuck D leader dei PE, il giornalista Davey D, il fotografo e autore Brian Cross aka B+, e intellettuali quali Murray Forman, Bakari Kitwana e Marcyliena Morgan. Come ti dicevo, quattro giorni di convivenza mi hanno permesso di andare al di là delle conversazioni su musica, storia, politica per conoscere più a fondo gli individui e non solo la loro immagine pubblica. Nonostante quell’esperienza incredibile ho lasciato Harvard con un giorno di anticipo poiché la domenica pomeriggio dovevo essere a New York. Grazie a una cara amica ero riuscito ad assicurarmi un’intervista con Melvin Van Peebles, figura leggendaria per la cultura nera in America. Sin dai primi contatti telefonici da Milano sapevo che l’intervista si sarebbe rivelata qualcosa di eccezionale. Mai però mi sarei aspettato di passare più di quattro ore durante le quali Melvin, preso benissimo, mi raccontava la sua vita mostrandomi libri, articoli, filmati, e facendomi ascoltare vinile dopo vinile i suoi dischi. La situazione era irreale e la location, casa sua, assurda. Un appartamento al 46esimo piano di un edificio situato sulla 58esima tra 7a e 8a Av, complicato come planimetria e incasinatissimo, con il retro di un furgone wolskwagen che usciva dal muro del soggiorno, ali di piume ad adornare la cornice di alcuni quadri, abbaini che spuntano dal pavimento e salsicce supersoniche incastrate in vecchi bauli. Difficile spiegare le emozioni ma soprattutto le sensazioni provate durante quelle ore davvero surreali.
Senza nulla togliere ad altri giornalisti ed autori, è difficile trovare libri che trattino l’argomento hip hop in modo qualitativamente elevato come i tuoi. Che tipo di riscontro riescono ad ottenere queste tue pubblicazioni? Sono uscite anche versioni in inglese per il mercato estero? Quali sono gli obiettivi che ti poni per le tue uscite editoriali?
Il primo riscontro avviene durante le presentazioni del libro, momenti nei quali raccolgo le più grandi soddisfazioni, l’unica moneta (nel vero senso della parola) che ripaga i sacrifici di un percorso di ricerca e documentazione indipendente e sempre autofinanziato. Un secondo riscontro sono i numeri delle vendite, anche questi molto positivi in riferimento all’ambito di cui stiamo trattando. Bigger Than Hip Hop è alla seconda edizione; Renegades of Funk, ormai alla terza. Vediamo ora che succede con Louder Than a Bomb. Un altro elemento per me di particolare soddisfazione sono gli studenti che mi contattano e/o che citano i miei libri per le loro tesi di laurea. Tutte queste valutazioni fanno riferimento al mercato italiano, nessuno dei miei libri è stato mai tradotto all’estero. Non credo ci sia mai stata qualche azione da parte della casa editrice in questo senso, a dire il vero. Nonostante ciò, sto provando a realizzare un progetto in inglese per il mercato americano. Si tratta di una storia orale e fotografica sul Latin Quarter, il fulcro della cultura hip hop dal 1984 al 1988. Il progetto è realizzato in collaborazione con Paradise The Architek, produttore del leggendario gruppo degli XClan. All’epoca Paradise era il promoter del locale, con i suoi jeri curls, le lenti a contatto colorate blu, il cappello di Louis Vuitton, catene d’oro, e abiti Gucci o Fila. Da quei giorni al Latin Quarter per arrivare alla nascita degli Xclan e del Blackwatch Movement, Paradise ha raccolto una serie di foto e locandine divenute un vero e proprio archivio fotografico della Golden Age, che andranno a impreziosire le mie interviste con i principali protagonisti di quella scena. Questo è il prossimo passo, sto lavorando anche a un progetto video e alla performance spettacolo che sto creando con DJ Stile per la promozione di Louder Than a Bomb.
Ecco, stai presentando il libro al pubblico con Dj Stile in un modo non proprio classico: come si può definire? Una via di mezzo tra una lezione di storia dell’hip hop e una rappresentazione teatrale? Insomma, come racconteresti il “format” a chi non ha assistito alle prime presentazioni?
Con il cd allegato a Renegades of Funk ho provato a realizzare un primo esperimento letterario-musicale con l’intento di andare oltre la pagina scritta e l’immagine stampata. In quel mix tra lezione e rappresentazione che è il live che sto proponendo come presentazione del libro, c’è il tentativo di andare oltre e provare nuovi format per presentare la musica e la cultura hip hop. Insieme a DJ Stile abbiamo individuato otto sezioni incentrate su episodi, persone, sfide, concerti e meeting che hanno plasmato la nascita e l’evoluzione dell’hip hop, dalla old school alla Golden Age. Ogni sezione alterna le parole alla musica, la storia al groove. DJ Stile ai piatti illustra in musica ciò che io racconto al pubblico. Il riscontro sia a Milano sia a Roma è stato entusiasmante. DJ Stile ai piatti offre esibizioni di cuttin da lasciare senza fiato, i pezzi dell’epoca sono dei classici, ho notato che è davvero difficile seguire la presentazione seduti su una sedia. A breve ripeteremo l’esperimento a Bologna e Pisa e aggiungeremo i visual per arricchire questi momenti di vera festa.
di RapBurgerIl suo obiettivo è quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico.
Tra le persone coinvolte direttamente e indirettamente in Louder Than a Bomb ci sono Melvin Van Peebles, i Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin della Def Jam, i Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy.
L’abbiamo incontrato per farci raccontare un po’ del suo lavoro e delle sue esperienze.
Ci sono molti libri che parlano di hip hop, ma quasi nessuno va così in profondità sulla realtà e sulla cultura afroamericana come i tuoi. Raccontaci come nasce la tua ricerca, dove ti ha portato e chi ti ha fatto conoscere.
Il mio percorso di ricerca è iniziato quando ho posato la puntina del mio giradischi sui solchi del vinile di It Takes a Nation of Millions to Hold us Back dei Public Enemy. Le liriche di quell’album mi parlavano di luoghi, persone, movimenti di cui capivo poco o nulla ma la confusione organizzata, la ribellione sonora prodotta dalla bomb squad associata alla voce dell’MC del gruppo Chuck D, risuonavano nella mia testa creando un vortice di domande a cui desideravo dare risposta. Sebbene altri gruppi avessero richiamato la mia attenzione verso la musica rap sul finire del 1985 – artisti quali Run DMC, LL Cool J, Kool Moe Dee, Beastie Boys, T La Rock – fu con gruppi come Eric B and Rakim e Boogie Down production che quella fascinazione si trasformò in interesse per la dura realtà dei ghetti urbani neri per divenire vera e propria passione con i Public Enemy e quelle tematiche di carattere politico, militante. A distanza di dieci anni da quel 1988, mi laureavo con una testi sulle Pantere Nere e quei programmi di controspionaggio dell’FBI che avevano fottuto King, Malcolm e Huey [Newton], come rappava Chuck D in Party For Your Right To Fight. Da allora la voglia di realizzare una storia orale sulle Pantere Nere mi ha portato a fare una serie di viaggi a New York e nella Bay Area alla ricerca di protagonisti e avvenimenti di quegli anni. Le riunioni presso la Colazione di New York a sostegno di Mumia Abu Jamal mi hanno dato la possibilità di entrare in contatto con un gran numero di ex militanti, attivisti, artisti e avvocati. Nel giro di pochi anni con molti di quegli individui si sono create amicizie profonde e il cerchio delle relazioni si è allargato a macchia d’olio, passando dagli ambiti strettamente politici a quelli artistici, culturali e accademici. Questo percorso è alla base di Bigger than hip hop, nel quale ho provato a descrivere la complessità della realtà dei neri in America utilizzando prodotti culturali associati all’hip hop – canzoni, film, libri, ecc. – e sfruttando la complicità di artisti, critici musicali, attivisti, intellettuali e accademici. Ma per poter utilizzare l’Hiphop come strumento di educazione si è rivelato necessario chiarire le idee sulla nascita di questa cultura e così è nato Renegades of Funk, il mio omaggio alla old school, una storia orale e musicale sulla scena originaria del Bronx e sulle diverse forme espressive alla base di questa cultura. Louder than a Bomb è un viaggio nella rivoluzione del rap negli anni ottanta, quando passò da essere elemento urbano e associato alla gioventù di colore a divenire elemento mainstream associato alla gioventù suburbana. In oltre quindici anni di viaggi di ricerca tra nord America ed Europa, tra jam, concerti, studi di registrazioni e dibattiti, gli incontri e gli episodi degni di nota sono moltissimi: dall’aver visto pionieri dell’MCing (Reggie Reg, LA Sunshine, KK Rockwell, T SKI Valley, The Flyest Booski) fare un freestyle chyper come omaggio a Renegades of Funk, al passare quattro giorni tra Birmingham e Manchester con Black Thought, Rich Medina, DJ Spooky, Ursula Rucker e Lord Finesse durante l’evento MCs For Life nel 2008, dal dover lasciar spazio per apparecchiare il posto di fianco a me durante una cena ad Harvard e scoprire che l’ospite in ritardo è Chuck D al passare un pomeriggio ad ascoltare una leggenda della cultura nera come Melvin Van Peebles che racconta le ragioni per cui nel 1971 all’apice del successo decise di intraprendere la carriera indipendente e realizzare un capolavoro come Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Ma questi episodi potrebbero da soli essere argomento di un altro libro, magari il prossimo…
Parlaci di questo nuovo libro. Come nasce? Prosegue il discorso iniziato con i precedenti? C’è un filo conduttore tra le tue produzioni?
Louder than a Bomb nasce come progetto collaterale di un libro che sto realizzando con Paradise The Architek (X Clan), una storia orale e fotografica su un leggendario club che fu l’incubatore di tutti gli artisti associati alla Golden Age: il Latin Quarter. Quelle interviste mi hanno permesso di approfondire tematiche ed eventi sulla nascita e l’origine della nuova scuola che conquistò la scena nella seconda metà degli anni ottanta. L’analisi e il racconto di quella rivoluzione musicale, estetica e lirica riprendono ciò che avevo lasciato solo intravedere in Renegades of Funk, e i due libri possono a tutti gli effetti essere considerati degli approfondimenti su quelle due decadi di storia hip hop. E sebbene i tre i libri siano caratterizzati da una struttura e stili narrativi differenti, essi evidenziano un minimo comun denominatore, ovvero il metodo d’analisi che si basa sulla storia orale e sulle testimonianze dirette, nel tentativo di creare un storia dal basso attraverso le memorie dei protagonisti. Niente nozionismi, solo la riproposizione di ricordi, situazioni, sensazioni, emozioni e speranze. Dei libri che si propongono tutti di fornire gli strumenti culturali per comprendere la complessità di questa cultura e della realtà afro americana. Sono oltre centocinquanta ormai i file audio che compongo il mio archivio di interviste.
Tra tutte queste interviste raccolte ce ne saranno alcune che, per via del personaggio o della situazione, ti saranno rimaste nel cuore più di altre. Raccontaci qualche altro aneddoto.
Citavo prima alcuni episodi storici per la storia dei personaggi e per la mia crescita personale. Ce ne sono moltissimi. Ti racconto meglio l’episodio riguardante Chuck D e Melvin Van Peebles perché sono avvenuti durante lo stesso viaggio. Nel marzo del 2009 sono stato invitato a partecipare a una conferenza sull’hip hop tenutasi ad Harvard presso l’Hip Hop Archive ospitato dalla facoltà di studi afro americani presieduto da Henry Louis Gates (celebrità accademica divenuto celebre a livello internazionale per il diverbio avuto con un agente di polizia e per il suo successivo arresto, episodio per il quale Obama definì stupido l’operato dell’agente con tutte le conseguenze del caso e le successive spiegazioni e pacificazione). Durante quell’evento, da quella prima sera in cui mi fu chiesto di far posto a un’ospite in ritardo rivelatosi poi appunto l’MC dei Public Enemy, ho condiviso momenti informali con alcuni dei personaggi più rispettati della scena hip hop: Chuck D leader dei PE, il giornalista Davey D, il fotografo e autore Brian Cross aka B+, e intellettuali quali Murray Forman, Bakari Kitwana e Marcyliena Morgan. Come ti dicevo, quattro giorni di convivenza mi hanno permesso di andare al di là delle conversazioni su musica, storia, politica per conoscere più a fondo gli individui e non solo la loro immagine pubblica. Nonostante quell’esperienza incredibile ho lasciato Harvard con un giorno di anticipo poiché la domenica pomeriggio dovevo essere a New York. Grazie a una cara amica ero riuscito ad assicurarmi un’intervista con Melvin Van Peebles, figura leggendaria per la cultura nera in America. Sin dai primi contatti telefonici da Milano sapevo che l’intervista si sarebbe rivelata qualcosa di eccezionale. Mai però mi sarei aspettato di passare più di quattro ore durante le quali Melvin, preso benissimo, mi raccontava la sua vita mostrandomi libri, articoli, filmati, e facendomi ascoltare vinile dopo vinile i suoi dischi. La situazione era irreale e la location, casa sua, assurda. Un appartamento al 46esimo piano di un edificio situato sulla 58esima tra 7a e 8a Av, complicato come planimetria e incasinatissimo, con il retro di un furgone wolskwagen che usciva dal muro del soggiorno, ali di piume ad adornare la cornice di alcuni quadri, abbaini che spuntano dal pavimento e salsicce supersoniche incastrate in vecchi bauli. Difficile spiegare le emozioni ma soprattutto le sensazioni provate durante quelle ore davvero surreali.
Senza nulla togliere ad altri giornalisti ed autori, è difficile trovare libri che trattino l’argomento hip hop in modo qualitativamente elevato come i tuoi. Che tipo di riscontro riescono ad ottenere queste tue pubblicazioni? Sono uscite anche versioni in inglese per il mercato estero? Quali sono gli obiettivi che ti poni per le tue uscite editoriali?
Il primo riscontro avviene durante le presentazioni del libro, momenti nei quali raccolgo le più grandi soddisfazioni, l’unica moneta (nel vero senso della parola) che ripaga i sacrifici di un percorso di ricerca e documentazione indipendente e sempre autofinanziato. Un secondo riscontro sono i numeri delle vendite, anche questi molto positivi in riferimento all’ambito di cui stiamo trattando. Bigger Than Hip Hop è alla seconda edizione; Renegades of Funk, ormai alla terza. Vediamo ora che succede con Louder Than a Bomb. Un altro elemento per me di particolare soddisfazione sono gli studenti che mi contattano e/o che citano i miei libri per le loro tesi di laurea. Tutte queste valutazioni fanno riferimento al mercato italiano, nessuno dei miei libri è stato mai tradotto all’estero. Non credo ci sia mai stata qualche azione da parte della casa editrice in questo senso, a dire il vero. Nonostante ciò, sto provando a realizzare un progetto in inglese per il mercato americano. Si tratta di una storia orale e fotografica sul Latin Quarter, il fulcro della cultura hip hop dal 1984 al 1988. Il progetto è realizzato in collaborazione con Paradise The Architek, produttore del leggendario gruppo degli XClan. All’epoca Paradise era il promoter del locale, con i suoi jeri curls, le lenti a contatto colorate blu, il cappello di Louis Vuitton, catene d’oro, e abiti Gucci o Fila. Da quei giorni al Latin Quarter per arrivare alla nascita degli Xclan e del Blackwatch Movement, Paradise ha raccolto una serie di foto e locandine divenute un vero e proprio archivio fotografico della Golden Age, che andranno a impreziosire le mie interviste con i principali protagonisti di quella scena. Questo è il prossimo passo, sto lavorando anche a un progetto video e alla performance spettacolo che sto creando con DJ Stile per la promozione di Louder Than a Bomb.
Ecco, stai presentando il libro al pubblico con Dj Stile in un modo non proprio classico: come si può definire? Una via di mezzo tra una lezione di storia dell’hip hop e una rappresentazione teatrale? Insomma, come racconteresti il “format” a chi non ha assistito alle prime presentazioni?
Con il cd allegato a Renegades of Funk ho provato a realizzare un primo esperimento letterario-musicale con l’intento di andare oltre la pagina scritta e l’immagine stampata. In quel mix tra lezione e rappresentazione che è il live che sto proponendo come presentazione del libro, c’è il tentativo di andare oltre e provare nuovi format per presentare la musica e la cultura hip hop. Insieme a DJ Stile abbiamo individuato otto sezioni incentrate su episodi, persone, sfide, concerti e meeting che hanno plasmato la nascita e l’evoluzione dell’hip hop, dalla old school alla Golden Age. Ogni sezione alterna le parole alla musica, la storia al groove. DJ Stile ai piatti illustra in musica ciò che io racconto al pubblico. Il riscontro sia a Milano sia a Roma è stato entusiasmante. DJ Stile ai piatti offre esibizioni di cuttin da lasciare senza fiato, i pezzi dell’epoca sono dei classici, ho notato che è davvero difficile seguire la presentazione seduti su una sedia. A breve ripeteremo l’esperimento a Bologna e Pisa e aggiungeremo i visual per arricchire questi momenti di vera festa.
www.ciroma.org, 31 ottobre 2012Lock the book intervista u.net
Lock the book, il nuovo programma culturale dedicato ai libri di Radio Ciroma, in onda il martedì dalle 17.30, (all’interno del contenitore cultural-musicale “il Ciromiggio” in onda dalle 17 alle 19), intervista U.net.Giuseppe Pipitone aka U.net, classe 1972, è appassionato di storia e cultura afro-americana, temi fortemente ispiranti e ricorrenti nella sua vita e attività professionale. In particolare u.net crede con fervore nel potere evocativo della storia e della narrazione orale; immagini, parole, ritmi e atmosfere si rincorrono continuamente per segnare il racconto, che ritrova nella memoria la sua prima ragione d’essere.
Dopo Bigger than hip hop e Renegades of funk, lo scrittore continua la sua serie di saggi incentrati sulla cultura hip hop con Louder than a bomb. La golden age dell’hip hop. Uscito sempre per Agenzia X, Louder Than a bomb, si concentra su quella che lui stesso definisce gli anni d’oro di quella cultura, ossia quando l’hip hop, partendo dall’underground è arrivato nei canali mainstream.
Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell’hip hop in Europa.
Ascolta l’intervista qui
di Francesco a.k.a. ChinaDopo Bigger than hip hop e Renegades of funk, lo scrittore continua la sua serie di saggi incentrati sulla cultura hip hop con Louder than a bomb. La golden age dell’hip hop. Uscito sempre per Agenzia X, Louder Than a bomb, si concentra su quella che lui stesso definisce gli anni d’oro di quella cultura, ossia quando l’hip hop, partendo dall’underground è arrivato nei canali mainstream.
Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell’hip hop in Europa.
Ascolta l’intervista qui
http://www.myhiphop.it, 18 ottobre 2012Louder than a bomb, il nuovo libro di u.net
Giuseppe Pipitone aka u.net, classe 1972, ha scritto tra le migliori pagine che si ricordino, in italiano, sulla nostra cultura. Le sue due pubblicazioni precedenti, Bigger than hip hop e Renegades of funk mostravano una coscienza e conoscenza dalla storia e cultura afroamericana imponenti. Louder than a bomb, riportiamo: “ ripercorre il periodo in cui l’hip hop da cultura underground radicata nell’ambiente urbano diventa fenomeno mainstream. Un viaggio nella golden age dell’hip hop attraverso i racconti dei protagonisti e dei saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta. A complemento di questo quadro, una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell’hip hop in Europa.
u.net con il suo stile narrativo sincopato costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione rap. Il suo obiettivo è quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico.”
Tra le persone coinvolte direttamente e indirettamente inLouder than a bomb ci sono Melvin Van Peebles, i Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin della Def Jam, i Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy.
Venerdì 19 ottobre dalle 21.30 a Milano in Cox 18 (via Conchetta, 18) si terrà la presentazione del libro. Interverranno DJ Stile, Napal Naps Kids e Paper Resistance, la crew che ha collaborato alla realizzazione del progetto.
u.net con il suo stile narrativo sincopato costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione rap. Il suo obiettivo è quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico.”
Tra le persone coinvolte direttamente e indirettamente inLouder than a bomb ci sono Melvin Van Peebles, i Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin della Def Jam, i Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy.
Venerdì 19 ottobre dalle 21.30 a Milano in Cox 18 (via Conchetta, 18) si terrà la presentazione del libro. Interverranno DJ Stile, Napal Naps Kids e Paper Resistance, la crew che ha collaborato alla realizzazione del progetto.
http://flatlandia.radiondadurto.org, 16 ottobre 2012Louder Than a Bomb
Louder Than a Bomb. La golden age dell’hip hop è il nuovo libro di u. net uscito per Agenzia X. Un libro che è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane. Ne abbiamo parlato con l’autore. Ascolta l’intervista
di Radio Onda d’urtohttp://daily.wired.it, 15 ottobre 2012La Rete litiga sull’età dell’oro del Rap. Un libro prova a fare chiarezza
Proprio nei giorni in cui si discute sull’attuale qualità del rap italiano esce in libreria Louder Than a Bomb sulla Golden Age americana.
Il mondo del rap in subbuglio. Esce il film The Art of Rap in Italia e alla prima vengono intervistate alcune personalità del mondo dell’hip hop. Tra queste Paola Zukar, fondatrice della Big Picture Mngmnt e già uno dei nomi dietro la pionieristica rivista “Aelle”, che tra le altre cose dice: “Negli anni ’90 gli italiani che cominciavano erano scarsissimi”. In tempo record la rete esplode. Chi ha vissuto quegli anni sulla propria pelle non la prende benissimo e, per farla breve, si formano due squadre: chi dice che al momento il rap italiano è al massimo delle sue potenzialità e chi invece sostiene che quello che c’era da dire è già stato detto. E anche molto meglio.
Contemporaneamente, ironia della sorte, esce Louder Than a Bomb. La Golden Age dell’hip hop. Edito da Agenzia X e a firma Giuseppe Pipitone in arte u.net, il libro ripercorre le tappe storiche del momento più florido del rap statunitense. Ne abbiamo approfittato per fare due chiacchiere con l’autore.
Oltre a citare un pezzo dei Public Enemy, il titolo del tuo libro è più che esplicito: si parla di Golden Age del rap. Visto che in questi giorni in rete l’espressione sembra essere particolarmente usata, vuoi spiegarci di cosa parliamo quando parliamo di Golden Age?
Si fa riferimento al periodo più innovativo, originale e impegnato nella storia della cultura hip hop. Un periodo che va dal 1985/1986 fino al 1992, e che poteva vantare artisti come Run DMC, LL Cool J, Beastie Boys, Public Enemy, Eric B. & Rakim, Boogie Down Production, Big Daddy Kane, Biz Markie, Jungle Brothers, Stetsasonic, Queen Latifah, MC Lyte, A Tribe Called Quest, De la Soul, Xclan, solo per citarne alcuni. Ho raccolto una serie di interviste ai protagonisti di questa scena in cui emerge un passaggio di consegne tra old e new school non facile, caratterizzato da resistenze e battle, documentate nel libro. Qualcuno cominciò a denunciare un allontanamento dalla strada, luogo di nascita e ispirazione di questa cultura. Contemporaneamente nasce l’uso dei sample e dal loop. Il risultato fu la nascita di un’infinità di stili musicali nel rap. L’evoluzione non fu solo a livello di produzione: da genere musicale underground e radicato nell’ambiente urbano, a fenomeno mainstream con largo seguito nell’America suburbana.
La tua è un’analisi storica molto complessa e completa, non solo musicale, che parte dalla fine dei ’70 per arrivare alla fine degli ’80. Che tipo di lavoro di ricerca hai dovuto fare per compilare questo tuo libro?
L’obiettivo delle mie ricerche è il recupero della memoria storica attraverso testimonianze dirette. L’oggetto è la storia, la cultura e la musica afroamericana contemporanea. Lo strumento sono le interviste e lunghe immersioni nel contesto politico e sociale.
Cerco sempre di presentare i diversi temi attraverso i personaggi, artisti, intellettuali, critici, attivisti, che meglio possano rappresentare determinate istanze. Una caratteristica che forse mi differenzia dagli altri è che nella maggior parte dei casi le interviste sono parte di un rapporto più ampio, non si chiudono nel corso di una conversazione, ma possono protrarsi per mesi attraverso diversi media garantendo così una complessità e profondità difficilmente raggiungibili in altro modo. Dalla politica alla musica, dallo sport al costume, dal cinema alla moda, per cercare di presentare la realtà schizofrenica dell’America nera negli anni ottanta.
Due giradischi ed un microfono. Questo bastava a fare i dischi un tempo. Oggi ci sono i computer e la Rete. Come hanno cambiato questi due elementi l’HH?
All’epoca dei party nei parchi si parla di impianti casalinghi, quelli seri stavano nei club o, meglio ancora, negli studi di registrazione, quindi distanti dalla portata dei più. E si parla ancora di tecnologia analogica. Il digitale arrivò a prezzi più o meno popolari nel corso degli anni ottanta. Pubblicare un disco all’epoca significava firmare un contratto con un’etichetta. Con l’avvento dei pc e di internet il mondo è cambiato. Dagli anni novanta a oggi, l’evoluzione è stata sempre più veloce così come l’abbattimento dei prezzi progressivo. Risultato, la possibilità di crearsi un home studio è alla portata di tutti, così come la possibilità di realizzare un disco. Con il digitale, soprattutto ora con le piattaforme di social e l’evoluzione delle piattaforme di comunicazione e di ecommerce, il branding, la promozione e la distribuzione e la vendita sono gestibili senza intermediari. In pratica le etichette, a causa dell’evoluzione dei pc e della rete e della loro incapacità, o estremo ritardo nell’adattarsi al nuovo business system, rischiano di scomparire molto, molto presto.
Oggi in Italia, il rap è riesploso dal punto di vista commerciale come non accadeva da una 15ina d’anni. C’è qualcosa che ti piace? Pensi ci sia consapevolezza di quelle che sono le origini del movimento? La Golden Age è ancora una fonte d’ispirazione, un modello?
Ciò che è pompato a livello mainstream è caratterizzato da un appiattimento musicale ai canoni americani e da una mancanza di originalità dei testi. Questo, ovviamente, non vale per chi opera in ambito indipendente. Per cui la risposta è no. Sia da parte degli artisti sia del pubblico afferente a questa scena ritengo ci sia una conoscenza sommaria, non certo una consapevolezza, sulle origini o complessità della cultura hip hop, nonostante la mole di informazioni (articoli, saggi, filmati e file audio) a disposizione in rete. Ma questa è un’opinione personale, non voglio certo erigermi a giudice di una scena che, volente o nolente, seguo ma non conosco.
di Federico BernocchiIl mondo del rap in subbuglio. Esce il film The Art of Rap in Italia e alla prima vengono intervistate alcune personalità del mondo dell’hip hop. Tra queste Paola Zukar, fondatrice della Big Picture Mngmnt e già uno dei nomi dietro la pionieristica rivista “Aelle”, che tra le altre cose dice: “Negli anni ’90 gli italiani che cominciavano erano scarsissimi”. In tempo record la rete esplode. Chi ha vissuto quegli anni sulla propria pelle non la prende benissimo e, per farla breve, si formano due squadre: chi dice che al momento il rap italiano è al massimo delle sue potenzialità e chi invece sostiene che quello che c’era da dire è già stato detto. E anche molto meglio.
Contemporaneamente, ironia della sorte, esce Louder Than a Bomb. La Golden Age dell’hip hop. Edito da Agenzia X e a firma Giuseppe Pipitone in arte u.net, il libro ripercorre le tappe storiche del momento più florido del rap statunitense. Ne abbiamo approfittato per fare due chiacchiere con l’autore.
Oltre a citare un pezzo dei Public Enemy, il titolo del tuo libro è più che esplicito: si parla di Golden Age del rap. Visto che in questi giorni in rete l’espressione sembra essere particolarmente usata, vuoi spiegarci di cosa parliamo quando parliamo di Golden Age?
Si fa riferimento al periodo più innovativo, originale e impegnato nella storia della cultura hip hop. Un periodo che va dal 1985/1986 fino al 1992, e che poteva vantare artisti come Run DMC, LL Cool J, Beastie Boys, Public Enemy, Eric B. & Rakim, Boogie Down Production, Big Daddy Kane, Biz Markie, Jungle Brothers, Stetsasonic, Queen Latifah, MC Lyte, A Tribe Called Quest, De la Soul, Xclan, solo per citarne alcuni. Ho raccolto una serie di interviste ai protagonisti di questa scena in cui emerge un passaggio di consegne tra old e new school non facile, caratterizzato da resistenze e battle, documentate nel libro. Qualcuno cominciò a denunciare un allontanamento dalla strada, luogo di nascita e ispirazione di questa cultura. Contemporaneamente nasce l’uso dei sample e dal loop. Il risultato fu la nascita di un’infinità di stili musicali nel rap. L’evoluzione non fu solo a livello di produzione: da genere musicale underground e radicato nell’ambiente urbano, a fenomeno mainstream con largo seguito nell’America suburbana.
La tua è un’analisi storica molto complessa e completa, non solo musicale, che parte dalla fine dei ’70 per arrivare alla fine degli ’80. Che tipo di lavoro di ricerca hai dovuto fare per compilare questo tuo libro?
L’obiettivo delle mie ricerche è il recupero della memoria storica attraverso testimonianze dirette. L’oggetto è la storia, la cultura e la musica afroamericana contemporanea. Lo strumento sono le interviste e lunghe immersioni nel contesto politico e sociale.
Cerco sempre di presentare i diversi temi attraverso i personaggi, artisti, intellettuali, critici, attivisti, che meglio possano rappresentare determinate istanze. Una caratteristica che forse mi differenzia dagli altri è che nella maggior parte dei casi le interviste sono parte di un rapporto più ampio, non si chiudono nel corso di una conversazione, ma possono protrarsi per mesi attraverso diversi media garantendo così una complessità e profondità difficilmente raggiungibili in altro modo. Dalla politica alla musica, dallo sport al costume, dal cinema alla moda, per cercare di presentare la realtà schizofrenica dell’America nera negli anni ottanta.
Due giradischi ed un microfono. Questo bastava a fare i dischi un tempo. Oggi ci sono i computer e la Rete. Come hanno cambiato questi due elementi l’HH?
All’epoca dei party nei parchi si parla di impianti casalinghi, quelli seri stavano nei club o, meglio ancora, negli studi di registrazione, quindi distanti dalla portata dei più. E si parla ancora di tecnologia analogica. Il digitale arrivò a prezzi più o meno popolari nel corso degli anni ottanta. Pubblicare un disco all’epoca significava firmare un contratto con un’etichetta. Con l’avvento dei pc e di internet il mondo è cambiato. Dagli anni novanta a oggi, l’evoluzione è stata sempre più veloce così come l’abbattimento dei prezzi progressivo. Risultato, la possibilità di crearsi un home studio è alla portata di tutti, così come la possibilità di realizzare un disco. Con il digitale, soprattutto ora con le piattaforme di social e l’evoluzione delle piattaforme di comunicazione e di ecommerce, il branding, la promozione e la distribuzione e la vendita sono gestibili senza intermediari. In pratica le etichette, a causa dell’evoluzione dei pc e della rete e della loro incapacità, o estremo ritardo nell’adattarsi al nuovo business system, rischiano di scomparire molto, molto presto.
Oggi in Italia, il rap è riesploso dal punto di vista commerciale come non accadeva da una 15ina d’anni. C’è qualcosa che ti piace? Pensi ci sia consapevolezza di quelle che sono le origini del movimento? La Golden Age è ancora una fonte d’ispirazione, un modello?
Ciò che è pompato a livello mainstream è caratterizzato da un appiattimento musicale ai canoni americani e da una mancanza di originalità dei testi. Questo, ovviamente, non vale per chi opera in ambito indipendente. Per cui la risposta è no. Sia da parte degli artisti sia del pubblico afferente a questa scena ritengo ci sia una conoscenza sommaria, non certo una consapevolezza, sulle origini o complessità della cultura hip hop, nonostante la mole di informazioni (articoli, saggi, filmati e file audio) a disposizione in rete. Ma questa è un’opinione personale, non voglio certo erigermi a giudice di una scena che, volente o nolente, seguo ma non conosco.
www.sentireascoltare.com, 14 ottobre 2012Libri sull’hip hop: Louder than a bomb + Rapropos
Segnaliamo una nuova uscita per la milanese AgenziaX e sodali e cogliamo l’occasione per un ripescaggio a tema.
Il primo libro è il nuovo volume della saga sulle radici e gli sviluppi dell’hip hop classic/old school di Giuseppe Pipitone alias u.net. Da anni Giuseppe, classe 1972, si occupa di storia e cultura afroamericana, viaggiando e studiando dall’interno le comunità urbane nere e i loro gruppi musicali e artistici.
Curatore di hiphopreader.it (sito nato nel 2004), collaboratore di “Alias-il manifesto”, è stato membro dell’Advisory Board del Black Soil International Film Festival di Rotterdam. Nel 2006 pubblica il primo capitolo, Bigger than hip hop. Storie della nuova resistenza afroamericana, una “mappa sui più recenti sviluppi della cultura hip hop statunitense, punto di riferimento obbligato della musica, del linguaggio e dello stile di vita nero. [... Con] le testimonianze di artisti quali M1 dei Dead Prez e Boots Riley di The Coup e alle riflessioni di critici quali Bakari Kitwana e Greg Tate, [... il volume] traccia un itinerario attraverso il rap, la street art, il cinema e le componenti politiche e sociali che stanno alla base di quest’ondata di creatività proveniente dai ghetti postindustriali”.
Nel 2008, il secondo, Renegades of funk. Il Bronx e le radici dell’hip hop, dedicato appunto al ruolo centrale che il quartiere newyorkese ha avuto nella nascita e nella definizione della cultura old school. La struttura è ancora quella di una oral history, con le testimonianze dirette di chi c’era: “da Trac2 a Tracy 168, da Charlie Chase a Rodney C!, da Rammellzee a Busy Bee”. In allegato un cd, in cui i “più noti musicisti hip hop italiani [...] rappano i diversi capitoli” del libro: Donald D, DJ Pandaj, Cuba Cabbal, Dsastro, Esa, Shablo, Painè, Lord Bean, NightSkinny, Mastino, Militant A, Bonnot, Tormento, TDC21, Vaitea, Polo, Kiave, Lugi, Ghemon Science, MacroMarco, DJ Mike, DJ Aladyn. Sia i libri, che il disco, sono stati resi disponili in free download in regime creative commons (link a fine testo).
Chiude - per il momento - la serie il nuovo (10 ottobre) Louder than a bomb. La golden age dell’hip hop, che attraverso le testimonianze di prime movers come Melvin Van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin, Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy, ricostruisce il momento cruciale in cui l’hip hop è uscito dal ghetto ed è diventato un fenomeno mainstream. Il volume racconta quindi l’influenza di questa cultura street e inurbata nella aree suburbane americane, il suo arrivo in Europa e il suo impatto in generale sul lifestyle e la cultura popolare mondiali. Anche per Louder è stata realizzata una colonna sonora, un godibilissimo mixone di 40 minuti (embed a fine testo) - con dentro Erik B & Rakim, Public Enemy, Boogie Down Productions, Jazzy Jeff & Fresh Prince, Run DMC, Beastie Boyes, LL Cool J - realizzato da uno che di vecchia scuola se ne intende, ovvero Dj Stile, storico turntablista della scena italiana anni Novanta (lo trovate per esempio a scratchare su La Morte dei Miracoli di Frankie Hi-Nrg, 1997).
Il recupero a tema è invece il saggio Rapropos. Il rap racconta la Francia (marzo, sempre per Agenzia X) di Luca Gricinella, giornalista freelance (“Alias-il manifesto”, “Rumore”), curatore dell’ufficio stampa BlaLuca Press e del blog BlaLuca (sempre molto attento alla scena dei beatmakers e dei rapper italiani). Il libro è un’analisi del rap francese degli ultimi vent’anni e in particolare del suo ruolo politico. Qui di seguito la presentazione dalla quarta di copertina.
"Preso di mira dai politici, denigrato dalla stampa, temuto dalla classe media, boicottato dall’estrema destra, corteggiato dal cinema e citato dalla letteratura. In Francia da oltre vent’anni il rap è il genere musicale che anima maggiormente il dibattito pubblico, a cui partecipa anche senza invito: che si parli di religione, omosessualità, sessismo, identità nazionale o calcio, l’hip hop esprime le sue opinioni senza giri di parole. Rapropos è un libro di analisi, narrazioni orali e documenti storici che raggiunge il climax nell’autunno 2005, quando le banlieue francesi prendono fuoco in nome di due adolescenti, Bouna Traoré e Zyed Benna, inseguiti dalla polizia e “morti per niente”. NTM, Diam’s, Akhenaton, Keny Arkana, Abd Al Malik, Booba, La Rumeur, Médine e Orelsan sono solo alcune delle voci più note che raccontano in rima il loro paese. In questo testo le loro storie si mischiano a quelle di figuranti come il “piccolo Napoleone” Nicolas Sarkozy, il calciatore disobbediente Nicolas Anelka, l’attore e regista Mathieu Kassovitz o lo scrittore Jean-Claude Izzo. Lo sguardo acuto e il flirt col pop costituiscono non solo un invito a comprare dischi, accolto puntualmente da migliaia di persone, ma anche una nitida fotografia dell’intera società contemporanea occidentale."
di Gabriele MarinoIl primo libro è il nuovo volume della saga sulle radici e gli sviluppi dell’hip hop classic/old school di Giuseppe Pipitone alias u.net. Da anni Giuseppe, classe 1972, si occupa di storia e cultura afroamericana, viaggiando e studiando dall’interno le comunità urbane nere e i loro gruppi musicali e artistici.
Curatore di hiphopreader.it (sito nato nel 2004), collaboratore di “Alias-il manifesto”, è stato membro dell’Advisory Board del Black Soil International Film Festival di Rotterdam. Nel 2006 pubblica il primo capitolo, Bigger than hip hop. Storie della nuova resistenza afroamericana, una “mappa sui più recenti sviluppi della cultura hip hop statunitense, punto di riferimento obbligato della musica, del linguaggio e dello stile di vita nero. [... Con] le testimonianze di artisti quali M1 dei Dead Prez e Boots Riley di The Coup e alle riflessioni di critici quali Bakari Kitwana e Greg Tate, [... il volume] traccia un itinerario attraverso il rap, la street art, il cinema e le componenti politiche e sociali che stanno alla base di quest’ondata di creatività proveniente dai ghetti postindustriali”.
Nel 2008, il secondo, Renegades of funk. Il Bronx e le radici dell’hip hop, dedicato appunto al ruolo centrale che il quartiere newyorkese ha avuto nella nascita e nella definizione della cultura old school. La struttura è ancora quella di una oral history, con le testimonianze dirette di chi c’era: “da Trac2 a Tracy 168, da Charlie Chase a Rodney C!, da Rammellzee a Busy Bee”. In allegato un cd, in cui i “più noti musicisti hip hop italiani [...] rappano i diversi capitoli” del libro: Donald D, DJ Pandaj, Cuba Cabbal, Dsastro, Esa, Shablo, Painè, Lord Bean, NightSkinny, Mastino, Militant A, Bonnot, Tormento, TDC21, Vaitea, Polo, Kiave, Lugi, Ghemon Science, MacroMarco, DJ Mike, DJ Aladyn. Sia i libri, che il disco, sono stati resi disponili in free download in regime creative commons (link a fine testo).
Chiude - per il momento - la serie il nuovo (10 ottobre) Louder than a bomb. La golden age dell’hip hop, che attraverso le testimonianze di prime movers come Melvin Van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin, Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy, ricostruisce il momento cruciale in cui l’hip hop è uscito dal ghetto ed è diventato un fenomeno mainstream. Il volume racconta quindi l’influenza di questa cultura street e inurbata nella aree suburbane americane, il suo arrivo in Europa e il suo impatto in generale sul lifestyle e la cultura popolare mondiali. Anche per Louder è stata realizzata una colonna sonora, un godibilissimo mixone di 40 minuti (embed a fine testo) - con dentro Erik B & Rakim, Public Enemy, Boogie Down Productions, Jazzy Jeff & Fresh Prince, Run DMC, Beastie Boyes, LL Cool J - realizzato da uno che di vecchia scuola se ne intende, ovvero Dj Stile, storico turntablista della scena italiana anni Novanta (lo trovate per esempio a scratchare su La Morte dei Miracoli di Frankie Hi-Nrg, 1997).
Il recupero a tema è invece il saggio Rapropos. Il rap racconta la Francia (marzo, sempre per Agenzia X) di Luca Gricinella, giornalista freelance (“Alias-il manifesto”, “Rumore”), curatore dell’ufficio stampa BlaLuca Press e del blog BlaLuca (sempre molto attento alla scena dei beatmakers e dei rapper italiani). Il libro è un’analisi del rap francese degli ultimi vent’anni e in particolare del suo ruolo politico. Qui di seguito la presentazione dalla quarta di copertina.
"Preso di mira dai politici, denigrato dalla stampa, temuto dalla classe media, boicottato dall’estrema destra, corteggiato dal cinema e citato dalla letteratura. In Francia da oltre vent’anni il rap è il genere musicale che anima maggiormente il dibattito pubblico, a cui partecipa anche senza invito: che si parli di religione, omosessualità, sessismo, identità nazionale o calcio, l’hip hop esprime le sue opinioni senza giri di parole. Rapropos è un libro di analisi, narrazioni orali e documenti storici che raggiunge il climax nell’autunno 2005, quando le banlieue francesi prendono fuoco in nome di due adolescenti, Bouna Traoré e Zyed Benna, inseguiti dalla polizia e “morti per niente”. NTM, Diam’s, Akhenaton, Keny Arkana, Abd Al Malik, Booba, La Rumeur, Médine e Orelsan sono solo alcune delle voci più note che raccontano in rima il loro paese. In questo testo le loro storie si mischiano a quelle di figuranti come il “piccolo Napoleone” Nicolas Sarkozy, il calciatore disobbediente Nicolas Anelka, l’attore e regista Mathieu Kassovitz o lo scrittore Jean-Claude Izzo. Lo sguardo acuto e il flirt col pop costituiscono non solo un invito a comprare dischi, accolto puntualmente da migliaia di persone, ma anche una nitida fotografia dell’intera società contemporanea occidentale."
www.milanox.eu, 13 ottobre 2012Louder than a bomb
Questo è il terzo titolo che u.net, profondo conoscitore della cultura afroamericana, scrive su hip hop e dintorni.
Infatti al suo appassionato libro d’esordio Bigger than hip hop (Agenzia X, 2006), che delineava i recenti sviluppi della cultura hip hop statunitense, è seguito l’ottimo Renegades of funk (Agenzia X, 2009) una narrazione sulle origini del movimento nel Bronx a metà degli anni 70.
Questo terzo libro, che integra i primi due, si concentra invece sugli anni ottanta, la “Golden Age” dell’hip hop, quello in cui “la musica divenne impegnata, rumorosa, esplicita nelle proprie richieste ed affermazioni” (cit. Postive K).
Para insomma degli anni in cui l’hip hop vide la sua esplosione, passando da fenomeno di quartiere a epidemia nazionale, per poi conquistare rapidamente le periferie globali e infine i media mainstream di tutto il mondo.
La narrazione di u.net è avvincente, ben rodata, più fluida rispetto ai primi due volumi della trilogia, divenuti dei veri classici della letteratura musicale.
Questa volta le preziose interviste ai protagonisti (Melvin van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Afrika Bambataa, Kurtis Blow, Chuck D tra gli altri) sono integrate non solo da alcuni brevi saggi che focalizzano l’attenzione su questioni specifiche, ma anche da sintetiche cronologie che ci aiutano ad comprendere i profondi cambiamenti che gli Stati Uniti hanno vissuto negli eighties.
Anni dominati dalla Reaganomics, dall’individualismo, dal crack e dalla violenza nei ghetti. Un decennio schizofrenico per la comunità nera.
Quindici anni dopo la fine della segregazione razziale infatti (Civil Rights Act del 1964, Voting Right Act 1965) pochi fortunati divennero superstar dello sport, dell’ arte, nel business dei media, mentre la maggioranza dei neri continuò a sopravvivere a fatica in un contesto economico depresso, dominato da droga ed emarginazione.
Devo dire che ho molto gradito la lettura di Louder than a bomb, soprattutto per la sua esplicita volontà di connettere storia musicale e storia sociale, politica, della cultura e del costume. Ritengo che sia uno dei migliori titoli pubblicati da Agenzia X e concordo con il mio amico dj Balli che due giorni fa mi ha detto “U.net è il più serio tra i conoscitori del fenomeno hip hop nel nostro paese”.
Il libro si conclude con un’appendice sulla scena londinese, la prima ad avere filtrato il messaggio dei fratelli americani e ad averlo ricombinato con la cultura della dancehall giamaicana.
di Pablito el DritoInfatti al suo appassionato libro d’esordio Bigger than hip hop (Agenzia X, 2006), che delineava i recenti sviluppi della cultura hip hop statunitense, è seguito l’ottimo Renegades of funk (Agenzia X, 2009) una narrazione sulle origini del movimento nel Bronx a metà degli anni 70.
Questo terzo libro, che integra i primi due, si concentra invece sugli anni ottanta, la “Golden Age” dell’hip hop, quello in cui “la musica divenne impegnata, rumorosa, esplicita nelle proprie richieste ed affermazioni” (cit. Postive K).
Para insomma degli anni in cui l’hip hop vide la sua esplosione, passando da fenomeno di quartiere a epidemia nazionale, per poi conquistare rapidamente le periferie globali e infine i media mainstream di tutto il mondo.
La narrazione di u.net è avvincente, ben rodata, più fluida rispetto ai primi due volumi della trilogia, divenuti dei veri classici della letteratura musicale.
Questa volta le preziose interviste ai protagonisti (Melvin van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Afrika Bambataa, Kurtis Blow, Chuck D tra gli altri) sono integrate non solo da alcuni brevi saggi che focalizzano l’attenzione su questioni specifiche, ma anche da sintetiche cronologie che ci aiutano ad comprendere i profondi cambiamenti che gli Stati Uniti hanno vissuto negli eighties.
Anni dominati dalla Reaganomics, dall’individualismo, dal crack e dalla violenza nei ghetti. Un decennio schizofrenico per la comunità nera.
Quindici anni dopo la fine della segregazione razziale infatti (Civil Rights Act del 1964, Voting Right Act 1965) pochi fortunati divennero superstar dello sport, dell’ arte, nel business dei media, mentre la maggioranza dei neri continuò a sopravvivere a fatica in un contesto economico depresso, dominato da droga ed emarginazione.
Devo dire che ho molto gradito la lettura di Louder than a bomb, soprattutto per la sua esplicita volontà di connettere storia musicale e storia sociale, politica, della cultura e del costume. Ritengo che sia uno dei migliori titoli pubblicati da Agenzia X e concordo con il mio amico dj Balli che due giorni fa mi ha detto “U.net è il più serio tra i conoscitori del fenomeno hip hop nel nostro paese”.
Il libro si conclude con un’appendice sulla scena londinese, la prima ad avere filtrato il messaggio dei fratelli americani e ad averlo ricombinato con la cultura della dancehall giamaicana.
Junks, ottobre/novembre 2012Louder Than a Bomb
Durante la golden age la musica divenne impegnata, rumorosa, esplicita nelle proprie affermazioni e richieste. In quel periodo il rap voleva richiamare l’attenzione sui problemi e scatenare una presa di coscienza.
Louder Than a Bomb è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione della golden age dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane.
Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell'hip hop in Europa.
u.net con il suo stile narrativo sincopato costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione rap. Il suo obiettivo è sempre quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico.
Partecipano: Melvin Van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin della Def Jam, Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy e molti altri.
Louder Than a Bomb è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione della golden age dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane.
Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell'hip hop in Europa.
u.net con il suo stile narrativo sincopato costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione rap. Il suo obiettivo è sempre quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico.
Partecipano: Melvin Van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin della Def Jam, Run DMC, Just Ice e Chuck D dei Public Enemy e molti altri.
http://groovisionary-x.blogspot.it, 9 ottobre 2012Giuseppe Pipitone aka u.net - Louder Than a Bomb
Sono entusiasta nel proporvi questa nuova uscita: stiamo parlando di Louder Than a Bomb, nuovo libro di Giuseppe Pipitone aka u.net, in uscita per Agenzia X (come i suoi precedenti lavori), nelle librerie dal 10 ottobre ed ordinabile già dal sito della casa editrice. Anche questa volta la cultura Hip Hop è il tema centrale, e nello specifico la Golden Age culturale e musicale nello specifico, che ha caratterizzato gli States e la cultura afroamericana nel profondo. A seguire vi lascio il testo di presentazione, ripreso direttamente dal sito dell’Agenzia X:
“Louder Than a Bomb è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione della golden age dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane. Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell'hip hop in Europa. u.net con il suo stile narrativo sincopato costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione rap. Il suo obiettivo è sempre quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico”.
Partecipano: Melvin Van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin della Def Jam, Run DMC, Just Ice, Chuck D dei Public Enemy e molti altri.
Come già accennato, u.net è già autore di altri due libri, Renegades of Funk e Bigger Than Hip Hop, entrambi stra-consigliati e davvero ben scritti (tra l’altro, usati anche da noi del blog come spunto e ispirazione per diversi articoli). Sicuramente l’uscita sarà meritevole, siete tutti invitati alla presentazione del libro (alcuni dettagli già nell’immagine dell'articolo), che si terrà a Roma (sabato 13 ottobre) e Milano (venerdì 19 ottobre).
di fra.u“Louder Than a Bomb è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione della golden age dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane. Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell'hip hop in Europa. u.net con il suo stile narrativo sincopato costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione rap. Il suo obiettivo è sempre quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico”.
Partecipano: Melvin Van Peebles, Last Poets, Kool Herc, Keith Haring, Patti Astor, Rick Rubin della Def Jam, Run DMC, Just Ice, Chuck D dei Public Enemy e molti altri.
Come già accennato, u.net è già autore di altri due libri, Renegades of Funk e Bigger Than Hip Hop, entrambi stra-consigliati e davvero ben scritti (tra l’altro, usati anche da noi del blog come spunto e ispirazione per diversi articoli). Sicuramente l’uscita sarà meritevole, siete tutti invitati alla presentazione del libro (alcuni dettagli già nell’immagine dell'articolo), che si terrà a Roma (sabato 13 ottobre) e Milano (venerdì 19 ottobre).
http://rapmaniacz.blogspot.it, 28 settembre 2012Louder Than a Bomb
Agenzia X, un laboratorio editoriale sempre molto attento alle tematiche che coinvolgono l’interazione tra società, cultura e hip hop, ha appena pubblicato due titoli molto interessanti che vi invitiamo a leggere quanto prima. Eccoli.Louder Than a Bomb. La golden age dell’hip hop di u.net
Louder Than a Bomb è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione della golden age dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane. Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell’hip hop in Europa. u.net, con il suo stile narrativo sincopato, costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione Rap. Il suo obiettivo è sempre quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico.
Erravamo giovani stranieri. Poesie, prose, canzoni, immagini di Alberto Dubito
Erravamo giovani stranieri presenta una scelta tra poesie e prose, tra canzoni e immagini di Alberto Dubito, giovane artista che ci ha lasciato troppo presto. Alberto era dotato di un talento profondo e precoce che gli ha consentito di lasciare una mole impressionante di scritti in pochissimi anni. Ne emerge un quadro dell’Italia contemporanea cupo, a tratti disperato, eppure tagliente e acuto, attraversato da spiazzanti lampi d’ironia, grazie a un’irriverente abilità nel giocare con le parole. In queste pagine, la ribellione esistenziale e politica si alterna, spesso in modi imprevisti, all’introspezione e all’empatia. I suoi personaggi erranti popolano un immaginario che sovrappone periferie dell’animo e realismo sociale, dipingendo affreschi visionari dai molteplici piani di lettura. Lo stile espressivo contamina suoni, immagini e parole; la scrittura è fortemente influenzata dal Rap. Il raddoppio delle sillabe sul verso, le sovrapposizioni continue su ritmo veloce trasmettono al lettore una vera e propria colonna sonora testuale, che non ha nulla da invidiare alla forza evocativa della musica.
di BraLouder Than a Bomb è un viaggio attraverso le origini e l’esplosione della golden age dell’hip hop, il periodo in cui da cultura underground radicata nell’ambiente urbano divenne un fenomeno mainstream, con largo seguito nelle aree suburbane. Il volume raccoglie una serie di racconti orali dei protagonisti e alcuni brevi saggi introdotti da una cronologia su politica, moda, sport e cinema dell’America nera degli anni ottanta, ed è completato da una panoramica sulla scena londinese che mette in risalto il primo impatto dell’hip hop in Europa. u.net, con il suo stile narrativo sincopato, costruisce un collage di immagini, digressioni, salti temporali, agganci e aperture per presentare i diversi argomenti, come in un cut & paste di una produzione Rap. Il suo obiettivo è sempre quello di fornire al lettore gli strumenti utili a comprendere un movimento culturale in rapporto alla complessità del periodo storico.
Erravamo giovani stranieri. Poesie, prose, canzoni, immagini di Alberto Dubito
Erravamo giovani stranieri presenta una scelta tra poesie e prose, tra canzoni e immagini di Alberto Dubito, giovane artista che ci ha lasciato troppo presto. Alberto era dotato di un talento profondo e precoce che gli ha consentito di lasciare una mole impressionante di scritti in pochissimi anni. Ne emerge un quadro dell’Italia contemporanea cupo, a tratti disperato, eppure tagliente e acuto, attraversato da spiazzanti lampi d’ironia, grazie a un’irriverente abilità nel giocare con le parole. In queste pagine, la ribellione esistenziale e politica si alterna, spesso in modi imprevisti, all’introspezione e all’empatia. I suoi personaggi erranti popolano un immaginario che sovrappone periferie dell’animo e realismo sociale, dipingendo affreschi visionari dai molteplici piani di lettura. Lo stile espressivo contamina suoni, immagini e parole; la scrittura è fortemente influenzata dal Rap. Il raddoppio delle sillabe sul verso, le sovrapposizioni continue su ritmo veloce trasmettono al lettore una vera e propria colonna sonora testuale, che non ha nulla da invidiare alla forza evocativa della musica.