www.nuovavicenza.it, 5 febbraio 2014 La Londra musicale al centro Ada Lab
Stanchi del solito spritz in centro? Allora venerdì 7 febbraio, dalle 18.30, venite al centro culturale Ada Lab, in via Framarin, 42, a Vicenza. Vi sarà servito un viaggio nelle tendenze musicali londinesi, tra jungle, grime e dubstep, con Dj Quasar e Lorenzo Fe, autore di Londra zero zero, un libro-inchiesta sull’argomento. Con il giovane scrittore (classe 1988, trevigiano, all’anagrafe Lorenzo Feltrin) abbiamo discusso del suo lavoro, che negli anni scorsi lo ha portato ad esplorare i quartieri più alternativi della City.
Com’è nata l’idea del libro?
Nel 2007, dopo il diploma, ho fatto un viaggio a Londra, mantenendomi con alcuni lavoretti. Lì ho conosciuto nuove subculture musicali giovanili, come grime e dubstep. Al ritorno in Italia, ho iniziato a studiare a Milano, dove ho conosciuto la casa editrice Agenzia X, che mi ha suggerito di realizzare un libro sulle periferie di Londra e la musica che vi si è sviluppata. Così, nell’estate 2009, sono ritornato nella capitale inglese per altri tre mesi, per raccogliere interviste.
Come si articola la tua inchiesta?
Nella prima parte ricostruisco le vicende di alcuni quartieri di East London, con interviste a sindacalisti, attivisti politici, ambientalisti, ex lavoratori portuali. Nella seconda mi occupo dei due generi musicali che si sono diffusi nella zona, grazie ai racconti di dj, mc, musicisti, direttori di piccole case discografiche. Il libro è uscito nel 2010, prima dell’esplosione del dubstep e della sua commercializzazione, nel 2011.
Dopo questa ricerca ne hai realizzate altre?
Sì, quando è scoppiata la Primavera Araba, ho iniziato a seguirne gli sviluppi tramite il web. Quindi ho trascorso un mese a Il Cairo, grazie al couchsurfing. Lì ho raccolto interviste alla popolazione locale, ai giovani militanti. Ho trattato l’argomento nella mia tesi di laurea specialistica e nel libro In ogni strada. Voci di rivoluzione dal Cairo, curato anche da Mohamed Hossny. Attualmente collaboro con Agenzia X, ad esempio per una collana che si occupa di sociologia urbana.
P.S. L’evento di venerdì 7 febbraio si inserisce negli aperitivi Dj Who di Ada Lab. Ogni settimana, dalle 18.30 alle 21.30, una persona nuova alla console vi porta ad esplorare un Paese diverso. La musica è accompagnata da video e cibo vegan a tema. Se volete essere i prossimi Dj Who, non vi resta che contattare Ada Lab.
di Marta Dalla PozzaCom’è nata l’idea del libro?
Nel 2007, dopo il diploma, ho fatto un viaggio a Londra, mantenendomi con alcuni lavoretti. Lì ho conosciuto nuove subculture musicali giovanili, come grime e dubstep. Al ritorno in Italia, ho iniziato a studiare a Milano, dove ho conosciuto la casa editrice Agenzia X, che mi ha suggerito di realizzare un libro sulle periferie di Londra e la musica che vi si è sviluppata. Così, nell’estate 2009, sono ritornato nella capitale inglese per altri tre mesi, per raccogliere interviste.
Come si articola la tua inchiesta?
Nella prima parte ricostruisco le vicende di alcuni quartieri di East London, con interviste a sindacalisti, attivisti politici, ambientalisti, ex lavoratori portuali. Nella seconda mi occupo dei due generi musicali che si sono diffusi nella zona, grazie ai racconti di dj, mc, musicisti, direttori di piccole case discografiche. Il libro è uscito nel 2010, prima dell’esplosione del dubstep e della sua commercializzazione, nel 2011.
Dopo questa ricerca ne hai realizzate altre?
Sì, quando è scoppiata la Primavera Araba, ho iniziato a seguirne gli sviluppi tramite il web. Quindi ho trascorso un mese a Il Cairo, grazie al couchsurfing. Lì ho raccolto interviste alla popolazione locale, ai giovani militanti. Ho trattato l’argomento nella mia tesi di laurea specialistica e nel libro In ogni strada. Voci di rivoluzione dal Cairo, curato anche da Mohamed Hossny. Attualmente collaboro con Agenzia X, ad esempio per una collana che si occupa di sociologia urbana.
P.S. L’evento di venerdì 7 febbraio si inserisce negli aperitivi Dj Who di Ada Lab. Ogni settimana, dalle 18.30 alle 21.30, una persona nuova alla console vi porta ad esplorare un Paese diverso. La musica è accompagnata da video e cibo vegan a tema. Se volete essere i prossimi Dj Who, non vi resta che contattare Ada Lab.
www.fuoridisound.it, 4 dicembre 2013 Rumori Indistinti: il Noise incomincia con Lorenzo Fe
Rapporto tra realtà culturale e musica: una cosa in cui ho sempre creduto.
La musica è un linguaggio e in quanto tale esprime valori, stili di vita, pensieri di un certo tipo di cultura o classe sociale in un determinato periodo storico, trasmettendo e comunicando valori (scusate la ripetizione) spesso visti come sovversivi dalla classe dominante. E’ stato così per l’Hip Hop in America dagli anni Settanta del Novecento in poi come anche in Inghilterra (in particolare a Londra) nello stesso periodo con le realtà musicali legate all’Elettronica e all’Hardcore.
E proprio di queste realtà si è parlato venerdì della settimana scorsa nel primo di un ciclo di tre incontri legati alla musica elettronica. Rumori Indistinti è una rassegna di musica elettronica raccontata che si sta tenendo questo mese nella zona della città in cui abito io (drìo casa mia, si direbbe da queste parti), e vuole fare un analisi del rapporto esistente tra un certo tipo di musica e le culture/sottoculture che l’hanno generata, quindi il tessuto sociale da cui si origina un certo tipo di sound e di esperienza musicale.
Rumore in inglese è Noise, e con noise qui si vuole indicare qualcosa che, proprio come questi tipi di musica, sfugge alla categorizzazione e alle etichette per crescere in un suo substrato artistico e culturale.
Non so se riuscirò ad andare agli altri due incontri per impegni vari che avevo preso in precedenza, ma all’incontro con Lorenzo Fe in cui si parlava di Londra Zero Zero non potevo mancare.
Volevo pubblicare la registrazione dell’evento su YouTube, ma purtroppo causa strumenti “rudimentali” (vado ancora in giro con la mia povera Olympus, che in quanto macchinetta fotografica non può fare grandi cose in qualità di videocamer! Dovrei decidermi a comprare una videocamera decente…!) devo ripiegare e fare quello che posso.
Lorenzo ha vissuto a Londra per qualche tempo tra il 2007 e il 2008, ha lavorato per mantenersi lì (cosa che con il costo altissimo della vita a Londra, soprattutto per quello che riguarda gli affitti, non è esattamente facile, come non è nemmeno facile trovare un lavoro con una paga che permetta di vivere in qualche modo), ed è stato proprio grazie alla sua permanenza nella metropoli britannica che ha conosciuto ed è entrato in contatto di realtà musicali come la Dubstep o il Grime.
Durante l’incontro sono state affrontate le tematiche più disparate.
Libro diviso in due parti (Quartieri e Musica), Londra Zero Zero affronta un unico argomento da punti di vista diversi. Non si possono capire veramente i generi musicali che si ascoltano se non cercando di tracciare la storia che li ha creati e resi possibile, ed è per questo che il libro è diviso in due parti. Nel libro si sono affiancate interviste fatte a musicisti (Musica) con la tecnica della narrazione orale (amata da Marco Philopat, guru del Punk italiano amante delle controculture e editore di Agenzia X, la casa editrice che ha pubblicato il libro) ai resoconti sui quartieri periferici di Londra e la loro storia (Quartieri).
Dall’Hardcore, passando per la Black Music, la Jungle, la Drum’n'Bass, la UK Garage, l’R&B, e tornando di nuovo alla Black Music, sono stati ripercorsi i passaggi che hanno portato alla nascita di realtà musicali come il Grime (per capirci l’Hip Hop Inglese) e la Dubstep.
Si è parlato di ragazzi dei quartieri con voglia di sperimentare e creare suoni nuovi, di studenti bianchi che si interessano a fenomeni musicali nati nei quartieri di periferia, di contrapposizioni tra fasce diverse di popolazione, ondate diverse di immigrazione che hanno portato realtà sociali e culturali differenti che si sono poi incontrate, scontrate e mescolate negli anni ’80 del Novecento, de-industrializzazione, capannoni e quartieri abbandonati e trasformati in centri di creatività. Cockney, derivazioni dal Punk, Hackney, forte presenza di asiatici, africani e caraibici in seguito alle immigrazioni degli anni ’80 che hanno portato il loro contributo all’evoluzione e allo sviluppo di certe sonorità, Simon Reynolds e il suo Hardcore continuum, e molto altro.
Centri geografici distanti tra loro ma che incontrandosi a Londra hanno creato qualcosa di unico. Mondi e generi musicali che si sono fusi dando vita ad una corrente che sta conquistando non solo l’underground ma anche i club e le discoteche di tutta Europa. Cockney locale (derivazione del punk), Hip Hop Americano, e Raggae e Dub Giamaicano nella capitale britannica hanno dato vita a realtà impossibili da rinchiudere all’interno di determinati confini geografici. E che nel momento stesso in cui sto scrivendo stanno cambiando ancora.
La Dubstep nasce da un incontro tra la cultura di quartiere e la realtà bohemienne degli studenti bianchi. E forse è proprio questo il suo successo.
Le cose non sempre si possono spiegare e classificare. Quando ci si riesce, poi perdono tutta la loro magia. Quindi tanto vale godersele e seguirle per quello che sono.
La serata, che si è tenuta all’Osteria ai Preti, si è chiusa con un bel dj set Dubstep e Drum’n'Bass a cura di Infuzion Verona.
Potrei raccontare di più, ma non voglio rovinarvi il gusto della lettura. Quindi non vi resta da fare altro che andare a cercare il libro (o comprarlo online) e leggerlo tutto d’un fiato. Poi fatemi sapere cosa ne pensate.
Ah, e se avete occasione, fate un salto alle prossime serate in programma per la rassegna. Qui il programma: rumori.para-doxa.org.
Rapporto tra realtà culturale e musica: una cosa in cui ho sempre creduto.
La musica è un linguaggio e in quanto tale esprime valori, stili di vita, pensieri di un certo tipo di cultura o classe sociale in un determinato periodo storico, trasmettendo e comunicando valori (scusate la ripetizione) spesso visti come sovversivi dalla classe dominante. E’ stato così per l’Hip Hop in America dagli anni Settanta del Novecento in poi come anche in Inghilterra (in particolare a Londra) nello stesso periodo con le realtà musicali legate all’Elettronica e all’Hardcore.
E proprio di queste realtà si è parlato venerdì della settimana scorsa nel primo di un ciclo di tre incontri legati alla musica elettronica. Rumori Indistinti è una rassegna di musica elettronica raccontata che si sta tenendo questo mese nella zona della città in cui abito io (drìo casa mia, si direbbe da queste parti), e vuole fare un analisi del rapporto esistente tra un certo tipo di musica e le culture/sottoculture che l’hanno generata, quindi il tessuto sociale da cui si origina un certo tipo di sound e di esperienza musicale.
Rumore in inglese è Noise, e con noise qui si vuole indicare qualcosa che, proprio come questi tipi di musica, sfugge alla categorizzazione e alle etichette per crescere in un suo substrato artistico e culturale.
Non so se riuscirò ad andare agli altri due incontri per impegni vari che avevo preso in precedenza, ma all’incontro con Lorenzo Fe in cui si parlava di Londra Zero Zero non potevo mancare.
Volevo pubblicare la registrazione dell’evento su YouTube, ma purtroppo causa strumenti “rudimentali” (vado ancora in giro con la mia povera Olympus, che in quanto macchinetta fotografica non può fare grandi cose in qualità di videocamer! Dovrei decidermi a comprare una videocamera decente…!) devo ripiegare e fare quello che posso.
Lorenzo ha vissuto a Londra per qualche tempo tra il 2007 e il 2008, ha lavorato per mantenersi lì (cosa che con il costo altissimo della vita a Londra, soprattutto per quello che riguarda gli affitti, non è esattamente facile, come non è nemmeno facile trovare un lavoro con una paga che permetta di vivere in qualche modo), ed è stato proprio grazie alla sua permanenza nella metropoli britannica che ha conosciuto ed è entrato in contatto di realtà musicali come la Dubstep o il Grime.
Durante l’incontro sono state affrontate le tematiche più disparate.
Libro diviso in due parti (Quartieri e Musica), Londra Zero Zero affronta un unico argomento da punti di vista diversi. Non si possono capire veramente i generi musicali che si ascoltano se non cercando di tracciare la storia che li ha creati e resi possibile, ed è per questo che il libro è diviso in due parti. Nel libro si sono affiancate interviste fatte a musicisti (Musica) con la tecnica della narrazione orale (amata da Marco Philopat, guru del Punk italiano amante delle controculture e editore di Agenzia X, la casa editrice che ha pubblicato il libro) ai resoconti sui quartieri periferici di Londra e la loro storia (Quartieri).
Dall’Hardcore, passando per la Black Music, la Jungle, la Drum’n'Bass, la UK Garage, l’R&B, e tornando di nuovo alla Black Music, sono stati ripercorsi i passaggi che hanno portato alla nascita di realtà musicali come il Grime (per capirci l’Hip Hop Inglese) e la Dubstep.
Si è parlato di ragazzi dei quartieri con voglia di sperimentare e creare suoni nuovi, di studenti bianchi che si interessano a fenomeni musicali nati nei quartieri di periferia, di contrapposizioni tra fasce diverse di popolazione, ondate diverse di immigrazione che hanno portato realtà sociali e culturali differenti che si sono poi incontrate, scontrate e mescolate negli anni ’80 del Novecento, de-industrializzazione, capannoni e quartieri abbandonati e trasformati in centri di creatività. Cockney, derivazioni dal Punk, Hackney, forte presenza di asiatici, africani e caraibici in seguito alle immigrazioni degli anni ’80 che hanno portato il loro contributo all’evoluzione e allo sviluppo di certe sonorità, Simon Reynolds e il suo Hardcore continuum, e molto altro.
Centri geografici distanti tra loro ma che incontrandosi a Londra hanno creato qualcosa di unico. Mondi e generi musicali che si sono fusi dando vita ad una corrente che sta conquistando non solo l’underground ma anche i club e le discoteche di tutta Europa. Cockney locale (derivazione del punk), Hip Hop Americano, e Raggae e Dub Giamaicano nella capitale britannica hanno dato vita a realtà impossibili da rinchiudere all’interno di determinati confini geografici. E che nel momento stesso in cui sto scrivendo stanno cambiando ancora.
La Dubstep nasce da un incontro tra la cultura di quartiere e la realtà bohemienne degli studenti bianchi. E forse è proprio questo il suo successo.
Le cose non sempre si possono spiegare e classificare. Quando ci si riesce, poi perdono tutta la loro magia. Quindi tanto vale godersele e seguirle per quello che sono.
La serata, che si è tenuta all’Osteria ai Preti, si è chiusa con un bel dj set Dubstep e Drum’n'Bass a cura di Infuzion Verona.
Potrei raccontare di più, ma non voglio rovinarvi il gusto della lettura. Quindi non vi resta da fare altro che andare a cercare il libro (o comprarlo online) e leggerlo tutto d’un fiato. Poi fatemi sapere cosa ne pensate.
Ah, e se avete occasione, fate un salto alle prossime serate in programma per la rassegna. Qui il programma: rumori.para-doxa.org.
Radio popolare veneto, 21 aprile 2012Lorenzo Fe a Radio popolare veneto
Lorenzo Fe parla di Londra zero zero Ascolta qui l’intervista
www.mixcloud.com, 19 aprile 2012Lorenzo Fe a radio Maliboom Boom
Lorenzo Fe parla di Londra zero zero e All Crews Ascolta qui l’intervista
http://nowboardingradio.wordpress.com, 13 marzo 2012Londra zero zero. Strade bastarde musica bastarda
Squat: esercizio fondamentale per migliorare la forza dei quadricipiti, ma anche esercizio più completo per allenare gli arti inferiori, permette infatti di far lavorare intensamente tutti i muscoli delle gambe, i glutei, gli addominali ed anche i lombari. Con affetto, a tutti coloro che sono appena tornati dalla palestra.
A tutti gli altri invece, che ci guardano sempre da un punto di vista diverso, diamo un assaggio dei prossimi 45 minuti: Londra, zona East End, squatters, dubstep, grime, jungle e drum & bass, occupazione, skipping, do it yourself. Come avrete capito non vi parleremo della ginnastica british, ma spulceremo una ben più utile guida “non turistica” a Londra.
Londra zero zero. Strade bastarde musica bastarda è il titolo datole dall’autore Lorenzo Fe, che in questo mixbook ci narra le esperienze più impensabili della vita di uno squatter nella zona più viva e in evoluzione di Londra, per l’appunto l’East End.
Un quotidiano del tutto imprevedibile porta ad una mutazione dello stile di vita, lavorare di meno per consumare di meno, riciclare e barattare sono i punti cardine della vita in un edificio occupato. Il tutto condito da un’atmosfera di mescolanze etniche contrastanti, di esperimenti musicali e culture alternative che solo un tale contesto sociale può originare.
Se state pensando di trasferirvi a Londra ma gli affitti sono troppo alti, allora siete nel posto giusto. Come ci dice Lorenzo: “la prima volta a Londra devi andare alla British e al London Eye, ma la seconda capisci che le cose che ti interessano sono altrove”. Bene, con questa guida ci azzeccherete già alla prima.
A tutti gli altri invece, che ci guardano sempre da un punto di vista diverso, diamo un assaggio dei prossimi 45 minuti: Londra, zona East End, squatters, dubstep, grime, jungle e drum & bass, occupazione, skipping, do it yourself. Come avrete capito non vi parleremo della ginnastica british, ma spulceremo una ben più utile guida “non turistica” a Londra.
Londra zero zero. Strade bastarde musica bastarda è il titolo datole dall’autore Lorenzo Fe, che in questo mixbook ci narra le esperienze più impensabili della vita di uno squatter nella zona più viva e in evoluzione di Londra, per l’appunto l’East End.
Un quotidiano del tutto imprevedibile porta ad una mutazione dello stile di vita, lavorare di meno per consumare di meno, riciclare e barattare sono i punti cardine della vita in un edificio occupato. Il tutto condito da un’atmosfera di mescolanze etniche contrastanti, di esperimenti musicali e culture alternative che solo un tale contesto sociale può originare.
Se state pensando di trasferirvi a Londra ma gli affitti sono troppo alti, allora siete nel posto giusto. Come ci dice Lorenzo: “la prima volta a Londra devi andare alla British e al London Eye, ma la seconda capisci che le cose che ti interessano sono altrove”. Bene, con questa guida ci azzeccherete già alla prima.
http://telepassblog.wordpress.com, 7 febbraio 2012Dieci e lode a Londra zero zero
Lorenzo Fe, classe 1988, ha una passione: scoprire l’anima delle città, sviscerare i segreti e raccogliere pezzi di verità. Lo ha fatto ad Al Cairo durante i giorni della Primavera Araba, e ancora prima nelle strade meno battute di una Londra affascinante e alternativa, da cui ne è nato un romanzo.
Eppure Londra zero zero non è solamente un romanzo: potremmo quasi definirlo una testimonianza, un reportage sul campo.
A fare il ruolo di protagonista sono le strade di East London, sulle quali si muovono artisti, musicisti, giovani uomini e donne provenienti da tutto il mondo, con pochi soldi in tasca e tante idee per la mente. L’occhio sempre curioso di Lorenzo Fe ce li fa conoscere uno ad uno, all’interno di ostelli sgangherati e locali di ultimo grido, invitandoci a scoprire attraverso le loro vite una Londra underground incredibilmente frenetica, alla continua rincorsa delle scene emergenti e dei suoni più cool (si racconta soprattutto l’evoluzione del grime e del dubstep).
Lontana dagli stereotipi più consumati e dai luoghi “da cartolina”, la penna asciutta e potente dell’autore si sofferma sugli aspetti più eccentrici del melting pot londinese, una specie di neo-popolazione urbana che abita periferie multietniche in continua ristrutturazione… Come lettore è davvero difficile non subirne il fascino!
Insomma, 250 pagine di adrenalina e fotografie in bianco e nero, un’istantanea degli anni zero irriverente e fuori dagli schemi.
All’alba di un mattino estivo, alla tenera età di diciassette anni, mi stavo dedicando alla nobile arte dell’autostop. A un certo punto sento in lontananza una cassa dritta a 160 bpm. Nel giro di un istante una Fiat dei tempi andati mi supera e si ferma cinque metri più avanti lasciando due strisce di copertone sull’asfalto. Come mi siedo il ragazzo alla guida domanda se mi piace la musica, se per caso ho presente il mitico giro delle feste nei magazzini abbandonati di Londra. Io dico “Ovvio che ce l’ho presente”, bugia, lui assente compiaciuto e rialza il volume al massimo.
“E adesso dove vorresti andare?” gli abbiamo chiesto. “Di nuovo in Egitto” ci risponde senza pensarci troppo, “Oppure in Australia… Di sicuro non vorrei tornare a Treviso, anche se la mia fidanzata ci vive e non le dispiacerebbe se tornassi”.
E noi facciamo il nostro in bocca al lupo a Lorenzo per i suoi studi e per la carriera letteraria, e un altro più generico anche alla sua fidanzata… Londra zero zero è pubblicato dalla casa editrice indipendente Agenzia X. Vi consigliamo di fare un giro anche sul gruppo Facebook.
Il prossimo libro di Lorenzo Fe, In ogni strada. Voci di rivolUzione dal Cairo
di TelepassblogEppure Londra zero zero non è solamente un romanzo: potremmo quasi definirlo una testimonianza, un reportage sul campo.
A fare il ruolo di protagonista sono le strade di East London, sulle quali si muovono artisti, musicisti, giovani uomini e donne provenienti da tutto il mondo, con pochi soldi in tasca e tante idee per la mente. L’occhio sempre curioso di Lorenzo Fe ce li fa conoscere uno ad uno, all’interno di ostelli sgangherati e locali di ultimo grido, invitandoci a scoprire attraverso le loro vite una Londra underground incredibilmente frenetica, alla continua rincorsa delle scene emergenti e dei suoni più cool (si racconta soprattutto l’evoluzione del grime e del dubstep).
Lontana dagli stereotipi più consumati e dai luoghi “da cartolina”, la penna asciutta e potente dell’autore si sofferma sugli aspetti più eccentrici del melting pot londinese, una specie di neo-popolazione urbana che abita periferie multietniche in continua ristrutturazione… Come lettore è davvero difficile non subirne il fascino!
Insomma, 250 pagine di adrenalina e fotografie in bianco e nero, un’istantanea degli anni zero irriverente e fuori dagli schemi.
All’alba di un mattino estivo, alla tenera età di diciassette anni, mi stavo dedicando alla nobile arte dell’autostop. A un certo punto sento in lontananza una cassa dritta a 160 bpm. Nel giro di un istante una Fiat dei tempi andati mi supera e si ferma cinque metri più avanti lasciando due strisce di copertone sull’asfalto. Come mi siedo il ragazzo alla guida domanda se mi piace la musica, se per caso ho presente il mitico giro delle feste nei magazzini abbandonati di Londra. Io dico “Ovvio che ce l’ho presente”, bugia, lui assente compiaciuto e rialza il volume al massimo.
“E adesso dove vorresti andare?” gli abbiamo chiesto. “Di nuovo in Egitto” ci risponde senza pensarci troppo, “Oppure in Australia… Di sicuro non vorrei tornare a Treviso, anche se la mia fidanzata ci vive e non le dispiacerebbe se tornassi”.
E noi facciamo il nostro in bocca al lupo a Lorenzo per i suoi studi e per la carriera letteraria, e un altro più generico anche alla sua fidanzata… Londra zero zero è pubblicato dalla casa editrice indipendente Agenzia X. Vi consigliamo di fare un giro anche sul gruppo Facebook.
Il prossimo libro di Lorenzo Fe, In ogni strada. Voci di rivolUzione dal Cairo
www.sentireascoltare.com, 2 febbraio 2011Londra zero zero
Il dubstep ormai è stato ampiamente sdoganato, e oggi siamo in molti ad interrogarci sulle molteplici direzioni che questo genere prenderà, siano esse vicoli ciechi o nuove autostrade soniche. Un libro che fa il punto sulla situazione è difficile a trovarlo, figuriamoci poi in italiano. In inglese vengono in mente i capitoli di Reynolds sull’edizione revisited di Energy Flash e la mega antologia curata da Rob Young di Wire (The Wire Primers: A Guide To Modern Music), da poco tradotta dai bravi ragazzi di ISBN.
L’operazione che Lorenzo Fe porta avanti in questo suo Londra Zero Zero. Strade bastarde musica bastarda è un’indagine sul campo di quello che sta succedendo “now” nei sobborghi londinesi che hanno dato origine al dubstep. Prima di parlare dei protagonisti della scena, si infogna nei sobborghi più malfamati, accetta i lavori più umili e parla con la gente, con i ragazzi che lavano i piatti e con chi va a pulire le scale per pagare l’affitto. E ci fa capire che la protesta, la cupezza della musica di Burial, Kode9, Scuba e soci non nasce solo da un immaginario UK che storicamente ha nel suo DNA i racconti di Dickens, bensì trova ispirazione dal quotidiano, dallo sfruttamento e dalla condizione precaria di chi in teoria dovrebbe costruire il futuro, ma che sempre di più vede profilarsi come profetico il famigerato No Future dei Sex Pistols.
Nella seconda parte del libro si passa ad analizzare con interviste e dichiarazioni di personaggi del grime e del dubstep – meno noti all’aficionado medio – quello che è (stata?) la rivoluzione sonica degli Anni Zero per la Londra più undergound. Anche se non ci va di enciclopedismo e di filologia musicale, Feltrin riesce a trasmetterci in modo personale e sentito l’atmosfera dei sobborghi e delle feste nei club più sperduti delle notti londinesi.
Tra i nomi più mainstream compaiono lo stesso Simon Reynolds, EL-B e Ikonika. In appendice troviamo pure una succosa puntatina in Italia con le interviste a LNRipley, a Tode della crew Mother Inc. e ai ragazzi della Numa Crew di Firenze. Uno spaccato di vita e musica vissute al 100%, una “guida non-turistica” delle periferie di Tower Hamlets e Hackney che si valorizza grazie anche alle buone foto “neorealiste” di Alberto Dubito.
di Marco BraggionL’operazione che Lorenzo Fe porta avanti in questo suo Londra Zero Zero. Strade bastarde musica bastarda è un’indagine sul campo di quello che sta succedendo “now” nei sobborghi londinesi che hanno dato origine al dubstep. Prima di parlare dei protagonisti della scena, si infogna nei sobborghi più malfamati, accetta i lavori più umili e parla con la gente, con i ragazzi che lavano i piatti e con chi va a pulire le scale per pagare l’affitto. E ci fa capire che la protesta, la cupezza della musica di Burial, Kode9, Scuba e soci non nasce solo da un immaginario UK che storicamente ha nel suo DNA i racconti di Dickens, bensì trova ispirazione dal quotidiano, dallo sfruttamento e dalla condizione precaria di chi in teoria dovrebbe costruire il futuro, ma che sempre di più vede profilarsi come profetico il famigerato No Future dei Sex Pistols.
Nella seconda parte del libro si passa ad analizzare con interviste e dichiarazioni di personaggi del grime e del dubstep – meno noti all’aficionado medio – quello che è (stata?) la rivoluzione sonica degli Anni Zero per la Londra più undergound. Anche se non ci va di enciclopedismo e di filologia musicale, Feltrin riesce a trasmetterci in modo personale e sentito l’atmosfera dei sobborghi e delle feste nei club più sperduti delle notti londinesi.
Tra i nomi più mainstream compaiono lo stesso Simon Reynolds, EL-B e Ikonika. In appendice troviamo pure una succosa puntatina in Italia con le interviste a LNRipley, a Tode della crew Mother Inc. e ai ragazzi della Numa Crew di Firenze. Uno spaccato di vita e musica vissute al 100%, una “guida non-turistica” delle periferie di Tower Hamlets e Hackney che si valorizza grazie anche alle buone foto “neorealiste” di Alberto Dubito.
Il mucchio selvaggio, settembre 2010Spot on/2. Turismi
In questo numero estivo non potevano mancare le guide, no? Senza con tare che, ammettetelo, anche se Ibiza a parole vi fa abbastanza senso, col suo clubbing ormai mostruosamente industrializzato e la sua trasgressione in servizio permanente effettivo? in fondo la curiosità di farci un salto, massì, perché no, cioè, sarà un incubo ma magari… chissà... Che l’isola balearica sia ormai una faccenda pop è dimostrato dal fatto che pure le Guide del Touring hanno deciso dedicar loro un volume, Un viaggio a... Ibiza!, un volume che fosse a misura di, uhmmm, Easyjet raver; o come dicono le note del comunicato stampa, “La prima guida di Ibiza destinata ai ventenni”. Fortunatamente, però, l’hanno fatta scrivere a Pierfrancesco Pacoda, navigatissimo frequentatore di tutto ciò che è loisir (con approccio scanzonato e leggero, entusiasta sì ma non piattamente apologetico). L’impostazione è quella tipica da guida dei Touring, quindi non propriamente da Lonely Planet, ma probabilmente l’Ibiza di oggi va raccontata esattamente così per un pubblico esattamente di questo tipo; senza contare che effettivamente l’aver commissionato la guida alla persona giusta evita quell’effetto di “ecco come si sballano i giovani”, tipico di qualsiasi produzione editoriale italiana su Ibiza fatta negli ultimi dieci anni, film di Salvatores compresi. Che poi, appunto, magari una volta nella vita anche noi accigliati alternativi vorremo farci una vacanza mainstream, di meta e di fatto, ma se ancora non ci sentiamo pronti per questo, o se non lo sono le nostre tasche, consigliatissimo Londra zero zero del giovanissimo (ventidue anni) Lorenzo Fe. Un viaggio nella Londra odierna, quella che trova i battiti piu vitali ad est di Brick Lane e nelle frequenze sporche e cattive del grime. Un po’ guida, un po’ saggio musicale, un po’ autobiografia, il libro racconta benissimo il sapore della città. Un sapore per nulla facile, con la crisi economica incombente, con quartieri tanto vitali quanto complessi, soprattutto con la necessità di sopravvivere facendo lavori di merda (perché a Berlino puoi andare a fare l’artistoide nullafacente, ma a Londra se ci provi dopo cinque minuti o muori o ti hanno ammazzato). Che in queste pagine si sia filolondinesi l’avrete capito anche dalla comparsa dello spazio “Headroom”. Leggere queste pagine, per quanto contrassegnate da un po’ di ingenuità, è fondamentale per farvi capire che non stiamo parlando a caso. Quella scintilla cattiva che lei sola sa sprigionare musica in grado di cambiare davvero, di descrivere gli spigoli e le vertigini della contemporaneità, ha cittadinanza a Londra più che in qualsiasi altra città. Londra zero zero lo racconta e lo conferma con bellissimo piglio. Tanto di cappello.
di Damir IvicRolling Stone, agosto 2010Londra zero zero
Il viaggio del 22enne Lorenzo Fe nel grime e nel dubstep, generi sbocciati negli anni Zero nell’East London, è un vero backpacking book. Zaino in spalla, l’autore ha vissuto in uno squat, lavorando da Burger King, intervistando e scrivendo un libro che anche per chi non ama certi sound, offre un buon modello di indagine. Le sezioni Strade e Musica sono due facce della stessa medaglia: il genere nasce dal conflitto sociale, traduce in subcultura i problemi delle strade. Il mix etnico della periferia londinese, in questo senso, è l’avanguardia, sia nel dare ritmo al nichilismo dei margini, sia nel diffonderlo tra radio pirata e social network. Così, mentre alcuni grimers svettano nelle charts, in basso le cose seguono una verità tecnologicamente aggiornata e antica: “I pirati sono ancora indispensabili per l’autogestione della scena”.
di Alessandro Berettahttp://ondarock.it, 20 agosto 2010Londra zero zero
I palpitii della metropoli. Lorenzo Feltrin, trevisano, classe 1988, li ha ascoltati e conosciuti in diretta per sette mesi, vivendo in case occupate, facendosi il culo nel retrobottega dei fast food, incontrando uno per uno i protagonisti dell’underground londinese.
Ne sono uscite le duecento e rotte pagine di una spettacolare guida anti-turistica ai bassifondi di Londra; un’endoscopia lucida e passionale di quel dedalo di suoni e sottoculture che è il cuore pulsante del Regno Unito. Un viaggio a metà tra l’autobiografia e l’affresco socioculturale, che si fa sempre più intenso e illuminante via via che si addentra nell’anima meticcia dei sobborghi, nei loro ritmi, contrasti, sbalzi d’umore.
Il doppio volto della periferia
Londra zero zero esplora in prima persona il tratto più recente dell’hardcore continuum, la galassia di scene e personaggi che ha avuto nella rave culture di fine Ottanta il suo Big Bang. Grime e dubstep sono le sue principali incarnazioni in questi ultimi anni, due facce di un’unica geografia musicale che il libro analizza in tutte le sue interconnessioni.
“L’hardcore continuum non potrebbe esistere senza Londra”, mi spiega Lorenzo per email. “È una città meno violenta e segregata rispetto alle sue omologhe americane, quindi le contaminazioni avvengono più facilmente sia sul piano del suono che su quello dell’interazione sociale in senso stretto. Inoltre Londra ha tutta una struttura economica ai limiti (spesso esterni) della legalità, che permette a una rete di locali e radio pirata intimamente black&white di fare da punto d’incoltro tra il ribellismo punk di derivazione cockney e la cultura sonica dell’immigrazione giamaicana.”
L’hardcore continuum è frutto di questo cortocicuito etno-culturale. Grime e dubstep nascono da genitori comuni: da una parte, l’UK garage, un’estremizzazione della house music del Paradise Garage che veniva suonata a tempo accelerato nella seconda sala degli eventi jungle; dall’altra il 2-step, garage dal passo svuotato, portato da 4/4 a 2/4 lasciando più spazio a bassi e asimmetrie ritmiche. Da questo punto di partenza, grime e dubstep prendono però strade diverse. Il primo enfatizza la funzione dell’MC, lascia che i beat spezzati vengano cavalcati da un flow caustico che fa il verso al gangsta statunitense e diventa presto bersaglio dell’identificazione per i giovani delle periferie. Il secondo, invece, sviluppa il metro halftime e prosegue sul cammino dello svuotamento ritmico, diventando musica stratificata, da ascolto concentrato, decisamente meno efficace come collante sociale.
Le differenze tra i due stili riflettono un’integrazione non completa tra le diverse culture che popolano il grigiore suburbano. “Il dubstep è più legato ai sobborghi middle class bianchi, mentre il grime alle periferie del post-proletariato nero.” Eppure, un produttore bianco e “intellettuale” come Burial va alla ricerca dei vocals giamaicaneggianti di Spaceape, mentre il flow acre del grime è fondato sull’ostentazione di un accento cockney. “Curiosamente, è in atto una sorta di scambio linguistico: il dubstep parla nero mentre il grime bianco. A dire il vero, però, lo slang grime non è propriamente cockney: il cockney ora come ora è abbastanza morto nella sua forma originale. Il gergo delle periferie dell’est è già un ibrido in cui la struttura cockney è pesantemente infiltrata di elementi del patois giamaicano, e nei testi grime si inserice anche una dose significativa di slang americano.”
Simbiosi, conflitti e globalizzazioni
Sono le contraddizioni di un’integrazione incompleta che permettono questi meccanismi di scambio e imitazione, e mantiengono le periferie londinesi una fucina attiva di commistioni e metamorfosi musicali. Qua le novità non sono frutto dei lampi di genio di qualche rampollo di scuola d’arte: la prospettiva critica usuale, che vede il “genio” del singolo artista come fulcro di ogni innovazione esce completamente ribaltata. I cambiamenti musicali sono frutto di un “genio” inconsapevole distribuito su un’intera scena - di uno “scenius”, per usare un termine di Simon Reynolds.
In questo contesto, l’azione dei fantomatici “genietti” intellettuali incensati dalla critica risulta quasi parassitaria. Scrive Lorenzo sul suo libro: “Ogni volta che l’underground di strada produce un nuovo stile, questo viene raccolto da esperti di musica che ne costruiscono una versione ‘intelligente’, di solito rivolta agli studenti. Questi produttori hanno una libertà illimitata perché possono permettersi di non tener conto della reazione dei quartieri e del dancefloor. Ma tutte queste innovazioni slegate da un contesto sociale hanno spesso un’influenza effimera, perché non hanno nessun criterio per concentrarsi su alcuni stilemi sonici e svilupparli con costanza dando vita a un genere nuovo. Spesso sono condannati ad aspettare che arrivi il prossimo genere, spontaneo e con largo seguito, per trarne una nuova versione intellettuale”.
Gli ho chiesto di approfondire il discorso anche sul piano dell’esperienza personale: “La musica più interessante, e quella che poi mi risulta più piacevole da ascoltare, è quella che ha un background sociale dietro le spalle. Provo piacere nell’essere proiettato verso un mondo altro, ma sono ancora più intrigato dall’esser cosciente che non si tratta di evasione o di misticismo ma piuttosto di un rimando terreno ad altra gente che vive una certa vita in un certo ecosistema, e che l’ha distorto e interpretato in quello che sto ascoltando.”
Il panorama etnico della Londra suburbana non può essere ristretto alla dicotomia UK vs. Giamaica. Tra i molti immigrati di seconda o terza generazione provenienti dalle colonie, svettano quelli di origine asiatica. Lorenzo si sofferma in particolare sull’anglo-cingalese M.I.A. e sull’esperienza quasi ventennale degli Asian Dub Foundation. Ma trova lo spazio anche di esprimere un’idea che circola da un po’: quella che “la geografia del futuro sta cambiando, e le prossime subculture giovanili in grado di parlare a chiunque verranno dai paesi emergenti del Sud”. Il testimone della comunicazione generazionale globale passerà ad artisti musulmani o hindu, nonostante il clima di “scontro tra civiltà” così asfissiante? “Dubito che in paesi dove la repressione religiosa è così forte ci siano molte speranze. In Iran c’è una scena hip-hop piuttosto grossa, ostile al regime. La mia impressione è però che la maggior parte dei lavori soffra inevitabilmente della troppa distanza tra i due mondi - quello orientale e quello occidentale. È un po’ il problema del banghragga: i due ordini simbolici sono presi di peso e messi in una canzone - il risultato non può essere troppo convincente. Diverso è il caso della cosiddetta global ghettotech, che viene da posti dove gli ingredienti culturali hanno già avuto modo di mischiarsi in profondità anche a livello sociale: America, Africa... Per ora in Europa solo UK e magari la Francia.” Anche in questo senso, dunque, Londra e il dinamismo del suo meltin’ pot sarebbero in pole position per gli sviluppi dei nuovi linguaggi post-eurocentrici.
Si inquadra in questo contesto anche il gioco di scambi che si è instaurato in questi anni con la scena losangelina legata alla Alpha Pup. Se ne parla in termini di glitch-hop, ma anche di wonky beats (Flying Lotus) e vengono fatti diversi parallelismi col dubstep. “C’è stata comunicazione tra le due sponde dell’oceano, soprattutto da quando il dubstep ha cominciato ha fare largo uso di synth wonky. Non credo però si tratti di un ritorno della dialettica USA-UK. La dinamica centrale ora è decisamente più orientalizzata: è quella della rete della global ghettotech, non più un modello dialettico e quindi dualistico ma un modello policentrico. Il wonky della West Coast sembra rientrare in quel misto di tradizioni hip hop-elettronica-reggaedancehall che si regionalizza ovunque trovi un ambiente sociale adatto e si dialettizza declinandosi nei tratti del folklore locale. Crunk, kwaito, reggaeton, kuduro ecc... La dialettica USA-UK era ancora ‘fordista’, basata su grandi blocchi verticalizzati al loro interno, la polialettica ghettotech è uno dei tanti esempi di rete postfordista in cui entrano anche elementi esterni al mondo anglosassone.”
Il suono delle sottoculture
Questo taglio socioculturale alla critica musicale, che vede gli stili come insiemi di dialetti o creoli frutto di specifiche dinamiche comunitarie, si è diffuso in Inghilterra con Simon Reynolds. In Italia, al di là delle unanimi dichiarazioni di stima, l’approccio del giornalista ha riscosso poche proseliti. Una possibile motivazione è che l’ambiente naturale della “sociologia musicale” di questo tipo siano le contraddizioni delle metropoli: essendo prevalentemente un paese di piccole città, l’Italia rimane necessariamente un po’ provinciale in questo senso, e difficilmente analizzabile con gli stessi schemi adatti alle scene metropolitane.
“L’undergound popolare ormai è un fenomeno d’importazione, quindi gli ecosistemi sociali che l’hanno generato sono al di fuori dei patri confini. La recezione in Italia di questo tipo di culture è sempre passata attraverso movimenti di sinistra, per cui paradossalmente negli anni ‘70 chi era politicamente anti-americano era culturalmente il più americanofilo di tutti. D’altra parte, ancora oggi in Italia abbiamo una tendenza a sovrapporre un significato politico a musica che originariamente non ne ha. Ricordo che tutti gli appassionati italiani di hip-hop che conoscevo si rifacevano a un’estetica molto underground resistance ed erano tutti assai scandalizzati e offesi dal fatto che tutti i nostri coetanei rappusi neri e marocchini se ne fottevano e dell’underground e della resistance ed erano più interessati ai vestiti di marca e alle tipe in tiro. Ma i più vicini al ‘vero hip-hop’ erano i secondi. C’è poi ancora un sottofondo culturale che rende difficile applicare il metodo reynoldsiano in Italia: porterebbe a scontrarsi con forzature e contraddizioni, e magari a temi che uno che scrive di musica preferirebbe evitare.” Insomma, mentre diverse sottoculture musicali italiane associano elementi politici a musiche in origine assai meno partigiane, chi scrive di musica coltiva l’illusione di potere occuparsi solo di Arte, lasciando da parte dinamiche socioculturali e connotazioni politiche. Non si accorge che in questo modo finisce per essere profondamente ideologico, legato a una specifica classe sociale, e in fin dei conti un po’ fuori dal mondo - incapace di interpretare il panorama sociomusicale che lo circonda.
A parlare di Italia però Lorenzo ci prova, e accanto a pirati radiofonici, agitatori di club e pezzi da novanta della scena londinese (si va da El-B a Ikonika a Dr. Das degli Asian Dub Foundation) intervista anche alcuni “pesci piccoli” della scena nostrana. LNRipley, Tode, Numa Crew: ragazzi italiani che guardano all’elettronica inglese cercando una formula propria, non strettamente emulativa.
Proietta così il suo bigino di sociomusicologia metropolitana, in sé perfettamente compiuto, verso lo sprawl post-urbano del Nordest e il suo apparente torpore culturale. C’è da augurarsi che, dopo un esordio così acuto e ben scritto su un contesto lontano e complesso, continui a coltivare il suo interesse per la geografia musicale, magari volgendo lo sguardo proprio a casa nostra.
di Marco SgrignoliNe sono uscite le duecento e rotte pagine di una spettacolare guida anti-turistica ai bassifondi di Londra; un’endoscopia lucida e passionale di quel dedalo di suoni e sottoculture che è il cuore pulsante del Regno Unito. Un viaggio a metà tra l’autobiografia e l’affresco socioculturale, che si fa sempre più intenso e illuminante via via che si addentra nell’anima meticcia dei sobborghi, nei loro ritmi, contrasti, sbalzi d’umore.
Il doppio volto della periferia
Londra zero zero esplora in prima persona il tratto più recente dell’hardcore continuum, la galassia di scene e personaggi che ha avuto nella rave culture di fine Ottanta il suo Big Bang. Grime e dubstep sono le sue principali incarnazioni in questi ultimi anni, due facce di un’unica geografia musicale che il libro analizza in tutte le sue interconnessioni.
“L’hardcore continuum non potrebbe esistere senza Londra”, mi spiega Lorenzo per email. “È una città meno violenta e segregata rispetto alle sue omologhe americane, quindi le contaminazioni avvengono più facilmente sia sul piano del suono che su quello dell’interazione sociale in senso stretto. Inoltre Londra ha tutta una struttura economica ai limiti (spesso esterni) della legalità, che permette a una rete di locali e radio pirata intimamente black&white di fare da punto d’incoltro tra il ribellismo punk di derivazione cockney e la cultura sonica dell’immigrazione giamaicana.”
L’hardcore continuum è frutto di questo cortocicuito etno-culturale. Grime e dubstep nascono da genitori comuni: da una parte, l’UK garage, un’estremizzazione della house music del Paradise Garage che veniva suonata a tempo accelerato nella seconda sala degli eventi jungle; dall’altra il 2-step, garage dal passo svuotato, portato da 4/4 a 2/4 lasciando più spazio a bassi e asimmetrie ritmiche. Da questo punto di partenza, grime e dubstep prendono però strade diverse. Il primo enfatizza la funzione dell’MC, lascia che i beat spezzati vengano cavalcati da un flow caustico che fa il verso al gangsta statunitense e diventa presto bersaglio dell’identificazione per i giovani delle periferie. Il secondo, invece, sviluppa il metro halftime e prosegue sul cammino dello svuotamento ritmico, diventando musica stratificata, da ascolto concentrato, decisamente meno efficace come collante sociale.
Le differenze tra i due stili riflettono un’integrazione non completa tra le diverse culture che popolano il grigiore suburbano. “Il dubstep è più legato ai sobborghi middle class bianchi, mentre il grime alle periferie del post-proletariato nero.” Eppure, un produttore bianco e “intellettuale” come Burial va alla ricerca dei vocals giamaicaneggianti di Spaceape, mentre il flow acre del grime è fondato sull’ostentazione di un accento cockney. “Curiosamente, è in atto una sorta di scambio linguistico: il dubstep parla nero mentre il grime bianco. A dire il vero, però, lo slang grime non è propriamente cockney: il cockney ora come ora è abbastanza morto nella sua forma originale. Il gergo delle periferie dell’est è già un ibrido in cui la struttura cockney è pesantemente infiltrata di elementi del patois giamaicano, e nei testi grime si inserice anche una dose significativa di slang americano.”
Simbiosi, conflitti e globalizzazioni
Sono le contraddizioni di un’integrazione incompleta che permettono questi meccanismi di scambio e imitazione, e mantiengono le periferie londinesi una fucina attiva di commistioni e metamorfosi musicali. Qua le novità non sono frutto dei lampi di genio di qualche rampollo di scuola d’arte: la prospettiva critica usuale, che vede il “genio” del singolo artista come fulcro di ogni innovazione esce completamente ribaltata. I cambiamenti musicali sono frutto di un “genio” inconsapevole distribuito su un’intera scena - di uno “scenius”, per usare un termine di Simon Reynolds.
In questo contesto, l’azione dei fantomatici “genietti” intellettuali incensati dalla critica risulta quasi parassitaria. Scrive Lorenzo sul suo libro: “Ogni volta che l’underground di strada produce un nuovo stile, questo viene raccolto da esperti di musica che ne costruiscono una versione ‘intelligente’, di solito rivolta agli studenti. Questi produttori hanno una libertà illimitata perché possono permettersi di non tener conto della reazione dei quartieri e del dancefloor. Ma tutte queste innovazioni slegate da un contesto sociale hanno spesso un’influenza effimera, perché non hanno nessun criterio per concentrarsi su alcuni stilemi sonici e svilupparli con costanza dando vita a un genere nuovo. Spesso sono condannati ad aspettare che arrivi il prossimo genere, spontaneo e con largo seguito, per trarne una nuova versione intellettuale”.
Gli ho chiesto di approfondire il discorso anche sul piano dell’esperienza personale: “La musica più interessante, e quella che poi mi risulta più piacevole da ascoltare, è quella che ha un background sociale dietro le spalle. Provo piacere nell’essere proiettato verso un mondo altro, ma sono ancora più intrigato dall’esser cosciente che non si tratta di evasione o di misticismo ma piuttosto di un rimando terreno ad altra gente che vive una certa vita in un certo ecosistema, e che l’ha distorto e interpretato in quello che sto ascoltando.”
Il panorama etnico della Londra suburbana non può essere ristretto alla dicotomia UK vs. Giamaica. Tra i molti immigrati di seconda o terza generazione provenienti dalle colonie, svettano quelli di origine asiatica. Lorenzo si sofferma in particolare sull’anglo-cingalese M.I.A. e sull’esperienza quasi ventennale degli Asian Dub Foundation. Ma trova lo spazio anche di esprimere un’idea che circola da un po’: quella che “la geografia del futuro sta cambiando, e le prossime subculture giovanili in grado di parlare a chiunque verranno dai paesi emergenti del Sud”. Il testimone della comunicazione generazionale globale passerà ad artisti musulmani o hindu, nonostante il clima di “scontro tra civiltà” così asfissiante? “Dubito che in paesi dove la repressione religiosa è così forte ci siano molte speranze. In Iran c’è una scena hip-hop piuttosto grossa, ostile al regime. La mia impressione è però che la maggior parte dei lavori soffra inevitabilmente della troppa distanza tra i due mondi - quello orientale e quello occidentale. È un po’ il problema del banghragga: i due ordini simbolici sono presi di peso e messi in una canzone - il risultato non può essere troppo convincente. Diverso è il caso della cosiddetta global ghettotech, che viene da posti dove gli ingredienti culturali hanno già avuto modo di mischiarsi in profondità anche a livello sociale: America, Africa... Per ora in Europa solo UK e magari la Francia.” Anche in questo senso, dunque, Londra e il dinamismo del suo meltin’ pot sarebbero in pole position per gli sviluppi dei nuovi linguaggi post-eurocentrici.
Si inquadra in questo contesto anche il gioco di scambi che si è instaurato in questi anni con la scena losangelina legata alla Alpha Pup. Se ne parla in termini di glitch-hop, ma anche di wonky beats (Flying Lotus) e vengono fatti diversi parallelismi col dubstep. “C’è stata comunicazione tra le due sponde dell’oceano, soprattutto da quando il dubstep ha cominciato ha fare largo uso di synth wonky. Non credo però si tratti di un ritorno della dialettica USA-UK. La dinamica centrale ora è decisamente più orientalizzata: è quella della rete della global ghettotech, non più un modello dialettico e quindi dualistico ma un modello policentrico. Il wonky della West Coast sembra rientrare in quel misto di tradizioni hip hop-elettronica-reggaedancehall che si regionalizza ovunque trovi un ambiente sociale adatto e si dialettizza declinandosi nei tratti del folklore locale. Crunk, kwaito, reggaeton, kuduro ecc... La dialettica USA-UK era ancora ‘fordista’, basata su grandi blocchi verticalizzati al loro interno, la polialettica ghettotech è uno dei tanti esempi di rete postfordista in cui entrano anche elementi esterni al mondo anglosassone.”
Il suono delle sottoculture
Questo taglio socioculturale alla critica musicale, che vede gli stili come insiemi di dialetti o creoli frutto di specifiche dinamiche comunitarie, si è diffuso in Inghilterra con Simon Reynolds. In Italia, al di là delle unanimi dichiarazioni di stima, l’approccio del giornalista ha riscosso poche proseliti. Una possibile motivazione è che l’ambiente naturale della “sociologia musicale” di questo tipo siano le contraddizioni delle metropoli: essendo prevalentemente un paese di piccole città, l’Italia rimane necessariamente un po’ provinciale in questo senso, e difficilmente analizzabile con gli stessi schemi adatti alle scene metropolitane.
“L’undergound popolare ormai è un fenomeno d’importazione, quindi gli ecosistemi sociali che l’hanno generato sono al di fuori dei patri confini. La recezione in Italia di questo tipo di culture è sempre passata attraverso movimenti di sinistra, per cui paradossalmente negli anni ‘70 chi era politicamente anti-americano era culturalmente il più americanofilo di tutti. D’altra parte, ancora oggi in Italia abbiamo una tendenza a sovrapporre un significato politico a musica che originariamente non ne ha. Ricordo che tutti gli appassionati italiani di hip-hop che conoscevo si rifacevano a un’estetica molto underground resistance ed erano tutti assai scandalizzati e offesi dal fatto che tutti i nostri coetanei rappusi neri e marocchini se ne fottevano e dell’underground e della resistance ed erano più interessati ai vestiti di marca e alle tipe in tiro. Ma i più vicini al ‘vero hip-hop’ erano i secondi. C’è poi ancora un sottofondo culturale che rende difficile applicare il metodo reynoldsiano in Italia: porterebbe a scontrarsi con forzature e contraddizioni, e magari a temi che uno che scrive di musica preferirebbe evitare.” Insomma, mentre diverse sottoculture musicali italiane associano elementi politici a musiche in origine assai meno partigiane, chi scrive di musica coltiva l’illusione di potere occuparsi solo di Arte, lasciando da parte dinamiche socioculturali e connotazioni politiche. Non si accorge che in questo modo finisce per essere profondamente ideologico, legato a una specifica classe sociale, e in fin dei conti un po’ fuori dal mondo - incapace di interpretare il panorama sociomusicale che lo circonda.
A parlare di Italia però Lorenzo ci prova, e accanto a pirati radiofonici, agitatori di club e pezzi da novanta della scena londinese (si va da El-B a Ikonika a Dr. Das degli Asian Dub Foundation) intervista anche alcuni “pesci piccoli” della scena nostrana. LNRipley, Tode, Numa Crew: ragazzi italiani che guardano all’elettronica inglese cercando una formula propria, non strettamente emulativa.
Proietta così il suo bigino di sociomusicologia metropolitana, in sé perfettamente compiuto, verso lo sprawl post-urbano del Nordest e il suo apparente torpore culturale. C’è da augurarsi che, dopo un esordio così acuto e ben scritto su un contesto lontano e complesso, continui a coltivare il suo interesse per la geografia musicale, magari volgendo lo sguardo proprio a casa nostra.
Rumore, 19 luglio 2010Londra zero zero
“Per quanto riguarda il dubstep (…) forse il futuro della scena sarà il wobble, è il wobble che crea veramente energia sul dancefloor: suoni meccanici, rumorosi e astratti che partono da quello che Coki aveva fatto con Spongebob. Mi sembra una direzione piuttosto eccitante, nonostante molti esperti la detestino”. Un po’ lo abbiamo sempre pensato, ma quando a pagina 119 lo sdoganamento del kebabstep (vedere privé del sottoscritto sul numero 217) come futuro del dupstep arriva nientemeno che dalla bocca di Simon Reynolds, mica l’ultimo incappucciato pieno di pillole sulla District Line, la voglia di batterci un cinque da soli e davvero tanta. Bene ha fatto il veneto Lorenzo Fe a intervistare uno dei massimi critici musicali viventi, per un lavoro che si pone come obbiettivo l’eplorazione di quello che lo stesso Reynolds ha definito “hardcore continuum”, ovvero l’evoluzione continua dei suoni urbani britannici, e l’eplorazione parallela dei quartieri londinesi, orientali soprattutto, dove essa prende forma.
Come da sottotitolo (Strade bastarde musica bastarda), il libro è diviso in due parti, entrambe strutturate come un misto di diario personale di vita nella metropoli e interviste ai suoi protagonisti sociali o musicali: attivisti, produttori, promoter, occupanti di case, DJ, musicisti, lavoratori precari. Una sorta di giuda “non-turistica” in forma di “mixbook”, per citare l’autore. Un progetto interessante e ambizioso, anche se evidentemente pensato per chi queste cose almeno un po’ già le conosce. Ricco di contenuto, ma purtroppo indebolito da mancanze pratiche (una cartina, cazzo!) e incertezze metodologiche/linguistiche. Pesa soprattutto l’ondeggiare incontrollato – e temiamo voluto, che fa molto “élite transnazional-nomadica proveniente in gran parte dalla classe media”, sempre per citare l’autore – fra approccio accademico e prima persona di strada, fra citazioni colte e abuso di gergo da insider. Un’assenza di redazione e revisione del testo che rende la lettura un’esperienza meno piacevole del previsto.
di Andrea PominiCome da sottotitolo (Strade bastarde musica bastarda), il libro è diviso in due parti, entrambe strutturate come un misto di diario personale di vita nella metropoli e interviste ai suoi protagonisti sociali o musicali: attivisti, produttori, promoter, occupanti di case, DJ, musicisti, lavoratori precari. Una sorta di giuda “non-turistica” in forma di “mixbook”, per citare l’autore. Un progetto interessante e ambizioso, anche se evidentemente pensato per chi queste cose almeno un po’ già le conosce. Ricco di contenuto, ma purtroppo indebolito da mancanze pratiche (una cartina, cazzo!) e incertezze metodologiche/linguistiche. Pesa soprattutto l’ondeggiare incontrollato – e temiamo voluto, che fa molto “élite transnazional-nomadica proveniente in gran parte dalla classe media”, sempre per citare l’autore – fra approccio accademico e prima persona di strada, fra citazioni colte e abuso di gergo da insider. Un’assenza di redazione e revisione del testo che rende la lettura un’esperienza meno piacevole del previsto.
Alias, 17 luglio 2010Londra vs Marsiglia. Lotte e conflitti tra dubstep e hip hop
Il Grande Est londinese degli anni Zero – con qualche dovuto excursus a Croydon, nel sud – tra squat, radio pirata, street art, crew al confine con gang, mc rapper, dj e producer, slammer e blogger. Nati anche sulle ceneri del movimento di Seattle (per i londinesi J18), sull’esperienza degli anni Novanta e grazie all’unicità e alla ricchezza del tessuto sociale londinese, i due stili musicali protagonisti del saggio di Lorenzo Fe (1988), Londra zero zero sono il grime e il dubstep. La storia parte dai conflitti sociali londinesi del secolo scorso ma il motore primo è il soggiorno nella capitale britannica dell’autore tra precarietà, flessibilità, attivismo e passione musicale. Così, pagina dopo pagina si delinea un quadro sociologico che conduce senza troppe ellissi a jungle, drum’n’bass, asian underground, uk garage e, appunto, grime e dubstep; con le naturali tensioni che si portano dietro le subculture nate ai margini del mercato. Tante interviste ai testimoni diretti di ciò che si racconta, non solo musicisti quindi, e sullo sfondo i cantieri per le Olimpiadi 2012, ennesimo evento causa di una prossima “gentrificazione”. Fe dimostra di aver ragionato a dovere sulla materia, di avere un sapere tutt’altro che settoriale e un’intraprendenza che mette in luce il paradosso per cui un ventiduenne cresciuto con internet scrive un saggio intrufolandosi e vivendo i fenomeni sul campo, da giornalista d’altri tempi. Il linguaggio gergale-giovanile a volte stona ma fa parte minima quantità del pacchetto e non scalfisce l’importanza di un punto di vista interno che, altro pregio non scontato, consegna all’Italia un saggio aggiornato. Da segnalare il ruolo fuori campo dell’hip hop, ritmo formativo di molto dei musicisti interpellati.
di Luca GricinellaSherwood Festival Web TV, 15 luglio 2o10Intervista a Lorenzo Fe autore di Londra zero zero
Guarda QUI!
di Sherwood FestivalRadio Popolare, 21 maggio 2010Speciale a Say Waaad
Lorenzo Fe intervistato nella puntata di Say Waaad.
Audio QUI
di Michele Wad CaporossoAudio QUI
Milano X, 14/20 maggio 2010Londra00
Dal punto di vista della musica elettronica (e non solo), l’Italia è provincia dell’impero. E chi leggerà questo bel libro, pubblicato da Agenzia X, non potrà che essere d’accordo con me. Sono decenni che dj e i produttori nostrani, ma anche semplici appassionati, migrano a nord verso le capitali europee del suono, Londra e Berlino. Proprio la capitale inglese è la meta del viaggio di Lorenzo Fe, classe 1988, giovane e talentuoso autore di “Londra Zero Zero”. Non parliamo della Londra dei turisti fighetti, dei finti punk in Camden Town, delle foto pacchiane ai fanti di guardia a Buckingham Palace. Questa è la Londra che ci piace, delle strade e dei quartieri proletari del sud e dell’est. La città dei moli e dei capannoni abbandonati, scenari dei rave
illegali degli anni Novanta. La metropoli meticcia che si barcamena tra precariato diffuso, squat,
skipping e piccola delinquenza. L’area urbana che da decenni è fucina di suoni innovativi che da lì si dipartono raggiungendo i quattro angoli del globo. “Londra Zero Zero” è il racconto di un viaggio ribelle nei luoghi oscuri della città. Ma è anche un’immersione totale nelle contro/sottoculture londinesi. Ed è pure un saggio di storia sociale che parla di immigrazione, lavoro, autorganizzazione, radicalismo politico e attivismo sociale. La narrazione è spesso in prima persona: è la voce curiosa di Lorenzo che ci racconta quel che si muove dentro alla storia, tra appartamenti troppo piccoli, cari e sovraffollati e club, case occupate, centri sociali. Ma la sua voce non è isolata. Nel suo randagismo l’autore incontra molti abitanti dell’East London: dagli attivisti dei centri sociali a Bill Fishman, autorevole storico, dai sindacalisti del Swp agli ecoattivisti vegani, dai migranti in attesa di asilo politico ai colleghi nelle catene dei minimarket o dei fastfood. Le testimonianze dirette, senza filtro, ci calano in maniera convincente in uno dei laboratori urbani (l’East London, dove convivono centinaia di razze e culture) più importanti del globo. Nella seconda parte del libro si parla soprattutto di musica. Di quel fenomeno musicale nato nell’East London cui è stato appioppato il nome di grime (che significa sporco ma suona come crime, crimine). Un mix di rap, jungle e ragga prodotto in studi artigianalissimi da toasters e dj (adolescenti o poco più) che è diventato popolare prima grazie alle radio pirata e poi grazie a internet. E del fenomeno dubstep, genere che ha i suoi progenitori nella jungle, nella garage e in certa techno oscura. Un suono urbano, industriale e paranoico che ha spodestato il drum’n’bass nei club e che ora (a differenza del grime che è un fenomeno locale) sta attecchendo anche nel circuito dell’Europa continentale. Tra gli intervistati voglio ricordare Simon Reynolds (probabilmente il più importante critico musicale britannico), Dr.Das (ex Asian Dub Foundation), Akala (Mc hip hop e grime), Broken Note (un collettivo che mischia hardtekno e dubstep). Nella terza parte del libro si parla di come questo tipo di suono nato nel Grande est di Londra stia cominciando a contaminare il nostro paese. Eh sì! Anche da noi qualcosa comincia (lentamente) a muoversi e le interviste a LnRipley, Mother Inc e Numa crew lo testimoniano. Speriamo che la scena esploda al più presto con un boom fragoroso.
di Pablito el dritoCorriere del Veneto, 11 maggio 2010Feltrin: 'Io, Londra e il popolo degli abissi'
Jack London è citato proprio all’inizio, assieme a Nick Hornby (em>Alta fedeltà) e a Hanif Kureishi (Il Buddha delle periferie), letture solo apparentemente più appropriate per un ragazzo nato a Treviso un anno prima della caduta del Muro. Lorenzo Fe, per calarsi negli abissi dell’East End londinese, ha fatto un viaggio a ritroso fino al 1903, anni di pubblicazione de Il popolo degli abissi. London decise di camuffarsi da marinaio alla ricerca di un imbarco, per capire fino in fondo il quartiere ghetto di Londra, il famigerato East End, la zona del porto. Lorenzo, la scorsa estate, nel Grande Est ha trovato il nuovo popolo degli abissi: yuppie-hippy, la working class bianca, bangladesi, squatter, punkabbestia, manager della City, precari dell’industria culturale, nomadi transnazionali. La musica è “coltivazione di semi culturali nel cemento” e il ragazzo, nella sua ricerca, ha selezionato i suoini in cui si è imbattuto, reallizzando un affresco delle subculture musicali della Londra degli anni Zero.
Londra zero zero. Strade bastarde musica bastarda (in libreria dal 20 maggio, foto di Alberto Dubito, fratello dell’autore, presentazione il 14 all’Arci La Mela di Newton, a Padova) è l’esordio, per i tipi di Agenzia X, di Lorenzo “Fe” Feltrin, 22 anni, trevigiano, laureando in Filosofia a Milano con una tesi su Thomas Hobbes.
“Londra zero zero - spiega Lorenzo – è un incrocio fra narrazione orale, giornalismo, psicogeografia e autofiction. Mentre lavoravo mi sentivo un dj alle prese con il suo primo mixtape”.
Le quaranta interviste realizzate dall’autore a gente come Simon Reynolds (autore di Post-punk) e Dr. Das (ex Asian Dub Foundation), ma anche a storici, ex portuali, sindacalisti e street artist, sono un remix di narrazioni. Lorenzo si è calato nella realtà, diventandone parte attiva: ha abitato al Dalston Social Centre, ha lavorato da Mark&Spencer e al Burger King. Ha calpestato una Londra reale, distante dal centro, e ha tracciato una mappa dei quartieri periferici che rende il libro una preziosa guida “non turistica”.
Ovunque, la musica degli anni Zero, erede dell’hardcore continuum, la musica elettronica generata dai nuovi popoli degli abissi, che ebbe il suo apice nei primi anni Novanta coi rave.
Il grime, Uk garage combinato con l’hip hop e la dancehall. Il dubstep, erede della drun’n’bass. Per entrare in questi nuovi territori musicali, Lorenzo consiglia M.I.A., Dizzee Rascal, Skream e Burial. Dopo la laurea, il giovane autore partirà per Berlino, “a fare il barbone per un po’”. Chissà cosa scoprirà da quelle parti.
di Federica BarettiLondra zero zero. Strade bastarde musica bastarda (in libreria dal 20 maggio, foto di Alberto Dubito, fratello dell’autore, presentazione il 14 all’Arci La Mela di Newton, a Padova) è l’esordio, per i tipi di Agenzia X, di Lorenzo “Fe” Feltrin, 22 anni, trevigiano, laureando in Filosofia a Milano con una tesi su Thomas Hobbes.
“Londra zero zero - spiega Lorenzo – è un incrocio fra narrazione orale, giornalismo, psicogeografia e autofiction. Mentre lavoravo mi sentivo un dj alle prese con il suo primo mixtape”.
Le quaranta interviste realizzate dall’autore a gente come Simon Reynolds (autore di Post-punk) e Dr. Das (ex Asian Dub Foundation), ma anche a storici, ex portuali, sindacalisti e street artist, sono un remix di narrazioni. Lorenzo si è calato nella realtà, diventandone parte attiva: ha abitato al Dalston Social Centre, ha lavorato da Mark&Spencer e al Burger King. Ha calpestato una Londra reale, distante dal centro, e ha tracciato una mappa dei quartieri periferici che rende il libro una preziosa guida “non turistica”.
Ovunque, la musica degli anni Zero, erede dell’hardcore continuum, la musica elettronica generata dai nuovi popoli degli abissi, che ebbe il suo apice nei primi anni Novanta coi rave.
Il grime, Uk garage combinato con l’hip hop e la dancehall. Il dubstep, erede della drun’n’bass. Per entrare in questi nuovi territori musicali, Lorenzo consiglia M.I.A., Dizzee Rascal, Skream e Burial. Dopo la laurea, il giovane autore partirà per Berlino, “a fare il barbone per un po’”. Chissà cosa scoprirà da quelle parti.
D di Repubblica, 1 maggio 2010Londra zero zero
Più che un libro Londra zero zero, strade bastarde musica bastarda e un mixbook. Scritto come un mixtape musicale. Perché Lorenzo Fe (22 anni, laureando in Filosofia) mentre ci lavorava si sentiva un dj. Le interviste sono nate come un insieme di chiacchiere, incontri, racconti, esperienze il tutto poi “mixato in un flusso testuale scorrevole”.
Dove vivi adesso?
Sono a Milano per la laurea e dopo non so, sono indeciso se trasferirmi a Berlino per imparare il tedesco o andare in Australia. Ho letto che stanno promuovendo l’ingresso di italiani, poi ho scoperto che lo fanno per bloccare l’immigrazione asiatica. Non credo di voler partecipare a questa guerra tra poveri.
Cosa cercavi a Londra?
L’avanguardia culturale, e sono rimasto deluso. Nella società inglese la cultura musicale è molto radicata. L’immigrazione lì ha sempre portato uno sradicamento che si traduce in creatività: dalle seconde generazioni di neri e giamaicani e da quelle asiatiche adesso si è sviluppato il grime, evoluzione dell’hip hop.
Cosa ti aspetti dalle prossime elezioni inglesi?
Nei quartieri che ho frequentato si respirava un’aria di sinistra, sono delle roccaforti che finora hanno resistito. Ma in tutta Europa tira un vento di destra.C’è un nuovo “popolo degli abissi” che vive a East London, tra lavoratori precari, tradizione cockney e avanguardie musicali. Lo racconta (in un capitolo del suo libro che qui anticipiamo) un ventiduenne scrittore italiano, Lorenzo FeOra io e Stefano abbiamo una stanza in affitto a Shadwell, zona limitrofa tra la fine della cosiddetta Banglatown e l’inizio dei docks, un buco sconosciuto appena a sud di Whitechapel. Stiamo proprio su una laterale di Cable Street. E adesso mi tocca svegliarmi alle 5,37, fuori è buio e arrivo al lavoro che è ancora buio. Nei giorni d’inverno, quando torno a casa e mi tolgo la divisa, il sole minaccia già di tramontare.
A sud-est si intravedono le sagome dei palazzi di Canary Wharf. Limehouse, a una fermata da qui, è diventato un posto per ricchi di lusso, con le barche a vela e i motoscafi in un canale del Tamigi sotto ai condomini di design. Della vecchia working class a Shadwell resta un pub che non è fallito solo grazie a pochi alcolisti affezionati e ultrasessantenni. Tutto il resto è bangla. Sotto al viadotto dei treni Dlr, quelli che vanno senza conducente a una serie di metri al di sopra delle strade, ci sta un negozietto a ogni arcata. Mi sto convincendo che per ciascuna famiglia ci sia un negozietto. Fosse un po’ più tardi, sentirei già il brusio di quando tagliano quegli enormi pesci surgelati che a me, con quegl’occhi grandi e immobili e quei denti lì, mettono una soggezione non da poco. Quando c’era il Ramadan uscivano da una porticina tra i mattoni sotto ai binari decine e decine di vecchi con il bastone e la barba, e donne tutte nere a cui si vedono soltanto gli occhi. Pregano là, sotto tre arcate del viadotto ferroviario. Il resto del tempo lo dedicano agli affari, come d’altra parte insegnò Maometto, che si dice avesse una mentalità più imprenditoriale di Gesù.
La Dlr scende sotto il grande formicaio della London Underground. Cerco di vedere da un punto di vista esterno lo spettacolo della gente che va a lavoro il sabato mattina alle sei, mezzi svegli e mezzi no, con le divise sotto le giacche, o i pantaloni da lavoro sporchi di vernice e fango, oppure la giacca e la cravatta e il cellulare che inizia a ricevere le prime telefonate. Il punto nevralgico dell’integrazione a Londra è che tutta la città si muove ogni giorno in una miriade di direzioni con pressoché un unico imponente motivo: i soldi.
Risalendo i gradini metallici e umidi fino alle angliche nebbie di Notting Hill, incrocio spesso gli altri precari, la maggior parte che vengono da est. Leyton, Stratford, Hackney, Upton Park, Bow, Mile End, Whitechapel, tutti finiti dall’altra parte di Londra nella pancia della Central Line. Quelli della mia età sono tutti giovani dell’hip hop; anche gli asiatici, così diversi dai vecchietti in tunica dei negozi di Banglatown. Rabiya, per esempio, la mia amica indiana, non ha avuto problemi a dire “tanto meglio” quando hanno licenziato un musulmano della sicurezza perché aveva chiesto a una cliente di coprire un pezzo di biancheria intima che sporgeva dai pantaloni.
Quelli del turno delle sei e mezza hanno già tirato fuori dall’ascensore i cassonetti e li hanno addossati sul retro del supermercato, tutta roba scaduta ieri che non lasciano portare a casa nemmeno a noi. Invece ci sono già sei o sette ombre in fila per le provviste. E pensare che adesso Notting Hill è un quartiere di lusso. Distinguo nel buio il section manager Kevin, quello da 120 chili. Si precipita fuori e si mette tra i bidoni e il gruppetto di sagome: “Se vi vedo qui un’altra volta, vi spacco tutte e due le gambe!”, sembra addirittura che stia cercando di controllarsi. Manca un minuto alle sette, devo perdermi il resto della scenetta. […]
Mettersi a scaricare il camion. In verità oltre ai dipendenti è il negozio in sé a essere fotoallucinogeno: pura globalizzazione, sembra di averla sul palmo della mano. Per prodotti, lavoratori, clienti. È piccolo, ma ogni giorno si fanno più di ventimila sterle. Aperto sette giorni alla settimana, dalle otto del mattino alle dieci di sera, ovviamente orario continuato, aperto persino il primo dell’anno. Circa quaranta dipendenti, più sicurezza, pulizia e trasporti esternalizzati. […]
Quando il negozio apre spero sempre che non mi mandino in cassa ma in magazzino. Io odio stare alla cassa e c’è un motivo preciso. Per me che non l’ho mai fatto per più di qualche mese di fila, lavorare è anche un modo di stare a contatto con la realtà più concreta, con la corporeità materiale. Ma il negozio ha poco di materiale. Tutto sta nel mantenere i prodotti negli scaffali in modo che siano sempre invitanti e facili da mettere nel carrello, qui lo chiamano facing. Poi in cassa bisogna offrire il meglio del servizio, sorridere e salutare sempre. Periodicamente vengono dei falsi clienti per controllare la qualità del servizio e se non sorridi sei fregato, c’è il tuo nome scritto sulla spilla attaccata alla camicia della divisa. La comunicazione è fondamentale, anche quando si tratta della cosa più elementare dell’universo, il cibo. Ma questo era tutto ciò da cui volevo scappare. Infatti qui mi vogliono bene perché mi offro sempre di andare fuori a lavorare con i camion. Perché il retro del negozio, come il magazzino, è la realtà che sta dietro al facing e rompermici la schiena sopra mi ricorda che le cose, in qualche modo, esistono.
Tra le nove e le dieci arriva e un camion bisogna riempirlo con torri di cassette vuote, rotelle impilate, gabbie di metallo chiuse nonché contenitori per fiori. Il tutto verrà lavato e colmato di nuovi prodotti. I camionisti sono uomini bianchi e tatuati della vecchia scuola, parlano una lingua strana che usa mate al posto delle virgole e che all’inizio mi ha dato un bel po’ di filo da torcere. Sono dentro ai lavori protetti, guadagnano in una settimana quel che noi facciamo in un mese. […]
Così quando arriva la pausa, mentre mi scaldo due porzioni di Chicken and mushroom risotto nel microonde, ascolto le storie e cerco di farmi un’idea di come stiano le cose in giro. Delle guerre in Sierra Leone, dei rapporti tra Bangladesh e Pakistan, del razzismo in Sud Africa, del tribalismo africano, della memoria dello schiavismo, delle mafie internazionali, delle democrazie truccate. Ovviamente a me chiedono tutti della mafia o della violenza negli stadi, e non restano delusi. Io cerco di raccontare anche della democrazia bloccata e degli anni di piombo ma non riscuoto lo stesso interesse: qui il nichilismo politico è all’incirca totale. Non ho trovato in tutto il negozio qualcuno che sia andato a votare. Il disprezzo e la sfiducia colpiscono tutti i politici indistintamente. Keron non riesce a credere che David Cameron sia venuto al negozio un giorno in cui lui non c’era, avrebbe faticato a trattenersi dal dargli una lezione. Dice anche che se vedesse Gordon Brown per strada lo prenderebbe a schiaffi perché prima di fare il primo ministro si occupava delle tasse. Persino Paul che è il più anziano, nato dopo la guerra da un’inglese e un soldato nero americano, esponente degli anni ’60 londinesi, non ha più nessuna illusione. Non è tanto il voto. Niente sindacato, niente attivismo, niente di niente. […]
di Olga D’AlìDove vivi adesso?
Sono a Milano per la laurea e dopo non so, sono indeciso se trasferirmi a Berlino per imparare il tedesco o andare in Australia. Ho letto che stanno promuovendo l’ingresso di italiani, poi ho scoperto che lo fanno per bloccare l’immigrazione asiatica. Non credo di voler partecipare a questa guerra tra poveri.
Cosa cercavi a Londra?
L’avanguardia culturale, e sono rimasto deluso. Nella società inglese la cultura musicale è molto radicata. L’immigrazione lì ha sempre portato uno sradicamento che si traduce in creatività: dalle seconde generazioni di neri e giamaicani e da quelle asiatiche adesso si è sviluppato il grime, evoluzione dell’hip hop.
Cosa ti aspetti dalle prossime elezioni inglesi?
Nei quartieri che ho frequentato si respirava un’aria di sinistra, sono delle roccaforti che finora hanno resistito. Ma in tutta Europa tira un vento di destra.C’è un nuovo “popolo degli abissi” che vive a East London, tra lavoratori precari, tradizione cockney e avanguardie musicali. Lo racconta (in un capitolo del suo libro che qui anticipiamo) un ventiduenne scrittore italiano, Lorenzo FeOra io e Stefano abbiamo una stanza in affitto a Shadwell, zona limitrofa tra la fine della cosiddetta Banglatown e l’inizio dei docks, un buco sconosciuto appena a sud di Whitechapel. Stiamo proprio su una laterale di Cable Street. E adesso mi tocca svegliarmi alle 5,37, fuori è buio e arrivo al lavoro che è ancora buio. Nei giorni d’inverno, quando torno a casa e mi tolgo la divisa, il sole minaccia già di tramontare.
A sud-est si intravedono le sagome dei palazzi di Canary Wharf. Limehouse, a una fermata da qui, è diventato un posto per ricchi di lusso, con le barche a vela e i motoscafi in un canale del Tamigi sotto ai condomini di design. Della vecchia working class a Shadwell resta un pub che non è fallito solo grazie a pochi alcolisti affezionati e ultrasessantenni. Tutto il resto è bangla. Sotto al viadotto dei treni Dlr, quelli che vanno senza conducente a una serie di metri al di sopra delle strade, ci sta un negozietto a ogni arcata. Mi sto convincendo che per ciascuna famiglia ci sia un negozietto. Fosse un po’ più tardi, sentirei già il brusio di quando tagliano quegli enormi pesci surgelati che a me, con quegl’occhi grandi e immobili e quei denti lì, mettono una soggezione non da poco. Quando c’era il Ramadan uscivano da una porticina tra i mattoni sotto ai binari decine e decine di vecchi con il bastone e la barba, e donne tutte nere a cui si vedono soltanto gli occhi. Pregano là, sotto tre arcate del viadotto ferroviario. Il resto del tempo lo dedicano agli affari, come d’altra parte insegnò Maometto, che si dice avesse una mentalità più imprenditoriale di Gesù.
La Dlr scende sotto il grande formicaio della London Underground. Cerco di vedere da un punto di vista esterno lo spettacolo della gente che va a lavoro il sabato mattina alle sei, mezzi svegli e mezzi no, con le divise sotto le giacche, o i pantaloni da lavoro sporchi di vernice e fango, oppure la giacca e la cravatta e il cellulare che inizia a ricevere le prime telefonate. Il punto nevralgico dell’integrazione a Londra è che tutta la città si muove ogni giorno in una miriade di direzioni con pressoché un unico imponente motivo: i soldi.
Risalendo i gradini metallici e umidi fino alle angliche nebbie di Notting Hill, incrocio spesso gli altri precari, la maggior parte che vengono da est. Leyton, Stratford, Hackney, Upton Park, Bow, Mile End, Whitechapel, tutti finiti dall’altra parte di Londra nella pancia della Central Line. Quelli della mia età sono tutti giovani dell’hip hop; anche gli asiatici, così diversi dai vecchietti in tunica dei negozi di Banglatown. Rabiya, per esempio, la mia amica indiana, non ha avuto problemi a dire “tanto meglio” quando hanno licenziato un musulmano della sicurezza perché aveva chiesto a una cliente di coprire un pezzo di biancheria intima che sporgeva dai pantaloni.
Quelli del turno delle sei e mezza hanno già tirato fuori dall’ascensore i cassonetti e li hanno addossati sul retro del supermercato, tutta roba scaduta ieri che non lasciano portare a casa nemmeno a noi. Invece ci sono già sei o sette ombre in fila per le provviste. E pensare che adesso Notting Hill è un quartiere di lusso. Distinguo nel buio il section manager Kevin, quello da 120 chili. Si precipita fuori e si mette tra i bidoni e il gruppetto di sagome: “Se vi vedo qui un’altra volta, vi spacco tutte e due le gambe!”, sembra addirittura che stia cercando di controllarsi. Manca un minuto alle sette, devo perdermi il resto della scenetta. […]
Mettersi a scaricare il camion. In verità oltre ai dipendenti è il negozio in sé a essere fotoallucinogeno: pura globalizzazione, sembra di averla sul palmo della mano. Per prodotti, lavoratori, clienti. È piccolo, ma ogni giorno si fanno più di ventimila sterle. Aperto sette giorni alla settimana, dalle otto del mattino alle dieci di sera, ovviamente orario continuato, aperto persino il primo dell’anno. Circa quaranta dipendenti, più sicurezza, pulizia e trasporti esternalizzati. […]
Quando il negozio apre spero sempre che non mi mandino in cassa ma in magazzino. Io odio stare alla cassa e c’è un motivo preciso. Per me che non l’ho mai fatto per più di qualche mese di fila, lavorare è anche un modo di stare a contatto con la realtà più concreta, con la corporeità materiale. Ma il negozio ha poco di materiale. Tutto sta nel mantenere i prodotti negli scaffali in modo che siano sempre invitanti e facili da mettere nel carrello, qui lo chiamano facing. Poi in cassa bisogna offrire il meglio del servizio, sorridere e salutare sempre. Periodicamente vengono dei falsi clienti per controllare la qualità del servizio e se non sorridi sei fregato, c’è il tuo nome scritto sulla spilla attaccata alla camicia della divisa. La comunicazione è fondamentale, anche quando si tratta della cosa più elementare dell’universo, il cibo. Ma questo era tutto ciò da cui volevo scappare. Infatti qui mi vogliono bene perché mi offro sempre di andare fuori a lavorare con i camion. Perché il retro del negozio, come il magazzino, è la realtà che sta dietro al facing e rompermici la schiena sopra mi ricorda che le cose, in qualche modo, esistono.
Tra le nove e le dieci arriva e un camion bisogna riempirlo con torri di cassette vuote, rotelle impilate, gabbie di metallo chiuse nonché contenitori per fiori. Il tutto verrà lavato e colmato di nuovi prodotti. I camionisti sono uomini bianchi e tatuati della vecchia scuola, parlano una lingua strana che usa mate al posto delle virgole e che all’inizio mi ha dato un bel po’ di filo da torcere. Sono dentro ai lavori protetti, guadagnano in una settimana quel che noi facciamo in un mese. […]
Così quando arriva la pausa, mentre mi scaldo due porzioni di Chicken and mushroom risotto nel microonde, ascolto le storie e cerco di farmi un’idea di come stiano le cose in giro. Delle guerre in Sierra Leone, dei rapporti tra Bangladesh e Pakistan, del razzismo in Sud Africa, del tribalismo africano, della memoria dello schiavismo, delle mafie internazionali, delle democrazie truccate. Ovviamente a me chiedono tutti della mafia o della violenza negli stadi, e non restano delusi. Io cerco di raccontare anche della democrazia bloccata e degli anni di piombo ma non riscuoto lo stesso interesse: qui il nichilismo politico è all’incirca totale. Non ho trovato in tutto il negozio qualcuno che sia andato a votare. Il disprezzo e la sfiducia colpiscono tutti i politici indistintamente. Keron non riesce a credere che David Cameron sia venuto al negozio un giorno in cui lui non c’era, avrebbe faticato a trattenersi dal dargli una lezione. Dice anche che se vedesse Gordon Brown per strada lo prenderebbe a schiaffi perché prima di fare il primo ministro si occupava delle tasse. Persino Paul che è il più anziano, nato dopo la guerra da un’inglese e un soldato nero americano, esponente degli anni ’60 londinesi, non ha più nessuna illusione. Non è tanto il voto. Niente sindacato, niente attivismo, niente di niente. […]