Il Fatto Quotidiano,, 18 dicembre 2023 La vendetta di Zarathustra, la nuova raccolta di saggi del vecchio sufi anarchico Hakim Bey
Al nome suggestivo di Hakim Bey (all’anagrafe Peter Lamborn Wilson, 1945-2022) e alla sua figura fascinosa di sciamano anarco-nichilista è collegata la teoria rivoluzionaria che dà il nome al suo libro più famoso, T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome (pubblicato in Italia da Shake Edizioni): libro di culto delle controculture libertarie (dalla rinascita dionisiaca dei rave alla resistenza digitale degli hacker), amato dai padri della cultura beat Allen Ginsberg e William Burroughs.
Il testo-manifesto del “terrorista poetico” e dell’”anarchico ontologico”, come Bey si definiva, mescolava la saggezza spirituale sufi alla rivolta cyberpunk e alle tesi di Deleuze e Guattari, indicando nella T.A.Z. “un luogo liberato, dove la verticalità del potere viene sostituita spontaneamente con reti orizzontali di rapporti”; dunque sia un Altrove interiore che un luogo fisico, circoscritto fuori dalle regole del “Sistema”, come appunto le comunità dei rave o di eventi come Burning Man: “un corteo, una flashmob, una casa occupata, le iniziative di “Critical Mass” o “Reclaim the Streets”, spazi temporanei liberati che possono essere di breve durata temporale e che comunque non devono mai divenire “istituzionalizzati”, zone pirata fuori dal controllo dell’autorità che si spostano, compaiono e scompaiono, riapparendo o meno in altri tempi e luoghi o modalità a seconda delle circostanze e della volontà delle persone che hanno dato vita alla realtà liberata”.
Ora, grazie all’interessante cooperazione di Agenzia X e Ampère Books, è arrivata una raccolta di saggi folgoranti del vecchio sufi anarchico: La vendetta di Zarathustra. Il nuovo nichilismo e altri saggi, tradotto da due dei ricercatori filosofici più vivaci del panorama culturale nostrano contemporaneo, Alessandro Mazzi e Gianluca Didino. La vendetta di cui si parla nel titolo è spiegata in un passo particolarmente rivelatore del libro, in cui Bey indica una terza via di rivolta rispetto all’escapismo passivo (“Tieni la testa bassa, non farti notare (…) Trovati una nicchia in una categoria permessa”) e a quello attivo (appunto, la T.A.Z.: “Creati la tua utopia piratesca”). Ecco come la spiega l’autore: “La chiamo la Vendetta di Zarathustra perché, come ha detto Nietzsche, «una piccola vendetta è più umana di nessuna vendetta» (…) In passato ho sostenuto che il Terrorismo Poetico fosse meglio della violenza reale, perché l’arte può essere brandita come un’arma (…) la distruzione può servire come una forma di creatività, in se stessa o per ragioni puramente estetiche, senza farsi nessuna illusione sulla rivoluzione. Oscar Wilde incontra l’acte gratuit: un dandismo della disperazione”.
In questa citazione si riassumono le diverse anime della raccolta: il saggio introduttivo Il nuovo nichilismo, da cui è tratta la citazione precedente, che descrive la variegata costellazione di pensatori critici nei confronti del mondo moderno (dagli scrittori profetici Ballard e Dick a Guy Debord, dagli esistenzialisti Gide e Camus al “malvagio illuminato” Evola) e in cui Bey dichiara di aderire “a un certo tipo di anarchismo spirituale, ma solo in quanto eresia e paganesimo, non in quanto ortodossia e monoteismo”; il brillante saggio breve Comix, vertiginosa rassegna della controcultura nei fumetti, con riflessioni diacroniche che vanno dai Veda a Marcel Duchamp; veri e propri pamphlet rivoltosi come Perché odio i borghesi, Contro la sostenibilità, Inferno medico, Il declino della criminalità; le riflessioni a partire da Jerusalem, l’ardente profezia di William Blake, raccolte nel testo Officine sataniche che evocano figure come Jung e Benjamin, Eliade e Nietzsche.
Blake ritorna spesso come punto di riferimento, addirittura accanto a Culianu, nel capitolo Hermes redivivo in cui Bey raggiunge una consapevolezza archetipica cristallina: “È Hermes a gettare un ponte tra il metalinguistico e il sublinguistico in forma di messaggio inteso come medium e linguaggio: egli è il trickster che conduce alla meta disorientando, il tremendum che echeggia tra gli anfratti delle parole. Hermes è quindi politico, o piuttosto ambasciatore: patrono dell’intelligenza e della crittografia, nonché di un’alchimia che ricerca l’incorporazione nel reale, Hermes si muove tra il testo e l’immagine (…) in quanto colui che si muove “come in alto così in basso” tra gli spiriti e gli umani, Hermes psicopompo è la coscienza sciamanica”.
Che le ali di Hermes possano accompagnare l’anima di Bey alle delizie soprannaturali che merita.
di Adriano ErcolaniIl testo-manifesto del “terrorista poetico” e dell’”anarchico ontologico”, come Bey si definiva, mescolava la saggezza spirituale sufi alla rivolta cyberpunk e alle tesi di Deleuze e Guattari, indicando nella T.A.Z. “un luogo liberato, dove la verticalità del potere viene sostituita spontaneamente con reti orizzontali di rapporti”; dunque sia un Altrove interiore che un luogo fisico, circoscritto fuori dalle regole del “Sistema”, come appunto le comunità dei rave o di eventi come Burning Man: “un corteo, una flashmob, una casa occupata, le iniziative di “Critical Mass” o “Reclaim the Streets”, spazi temporanei liberati che possono essere di breve durata temporale e che comunque non devono mai divenire “istituzionalizzati”, zone pirata fuori dal controllo dell’autorità che si spostano, compaiono e scompaiono, riapparendo o meno in altri tempi e luoghi o modalità a seconda delle circostanze e della volontà delle persone che hanno dato vita alla realtà liberata”.
Ora, grazie all’interessante cooperazione di Agenzia X e Ampère Books, è arrivata una raccolta di saggi folgoranti del vecchio sufi anarchico: La vendetta di Zarathustra. Il nuovo nichilismo e altri saggi, tradotto da due dei ricercatori filosofici più vivaci del panorama culturale nostrano contemporaneo, Alessandro Mazzi e Gianluca Didino. La vendetta di cui si parla nel titolo è spiegata in un passo particolarmente rivelatore del libro, in cui Bey indica una terza via di rivolta rispetto all’escapismo passivo (“Tieni la testa bassa, non farti notare (…) Trovati una nicchia in una categoria permessa”) e a quello attivo (appunto, la T.A.Z.: “Creati la tua utopia piratesca”). Ecco come la spiega l’autore: “La chiamo la Vendetta di Zarathustra perché, come ha detto Nietzsche, «una piccola vendetta è più umana di nessuna vendetta» (…) In passato ho sostenuto che il Terrorismo Poetico fosse meglio della violenza reale, perché l’arte può essere brandita come un’arma (…) la distruzione può servire come una forma di creatività, in se stessa o per ragioni puramente estetiche, senza farsi nessuna illusione sulla rivoluzione. Oscar Wilde incontra l’acte gratuit: un dandismo della disperazione”.
In questa citazione si riassumono le diverse anime della raccolta: il saggio introduttivo Il nuovo nichilismo, da cui è tratta la citazione precedente, che descrive la variegata costellazione di pensatori critici nei confronti del mondo moderno (dagli scrittori profetici Ballard e Dick a Guy Debord, dagli esistenzialisti Gide e Camus al “malvagio illuminato” Evola) e in cui Bey dichiara di aderire “a un certo tipo di anarchismo spirituale, ma solo in quanto eresia e paganesimo, non in quanto ortodossia e monoteismo”; il brillante saggio breve Comix, vertiginosa rassegna della controcultura nei fumetti, con riflessioni diacroniche che vanno dai Veda a Marcel Duchamp; veri e propri pamphlet rivoltosi come Perché odio i borghesi, Contro la sostenibilità, Inferno medico, Il declino della criminalità; le riflessioni a partire da Jerusalem, l’ardente profezia di William Blake, raccolte nel testo Officine sataniche che evocano figure come Jung e Benjamin, Eliade e Nietzsche.
Blake ritorna spesso come punto di riferimento, addirittura accanto a Culianu, nel capitolo Hermes redivivo in cui Bey raggiunge una consapevolezza archetipica cristallina: “È Hermes a gettare un ponte tra il metalinguistico e il sublinguistico in forma di messaggio inteso come medium e linguaggio: egli è il trickster che conduce alla meta disorientando, il tremendum che echeggia tra gli anfratti delle parole. Hermes è quindi politico, o piuttosto ambasciatore: patrono dell’intelligenza e della crittografia, nonché di un’alchimia che ricerca l’incorporazione nel reale, Hermes si muove tra il testo e l’immagine (…) in quanto colui che si muove “come in alto così in basso” tra gli spiriti e gli umani, Hermes psicopompo è la coscienza sciamanica”.
Che le ali di Hermes possano accompagnare l’anima di Bey alle delizie soprannaturali che merita.
altreconomia.it, 21 luglio 2023 Così parlò Hakim Bey
Una neonata casa editrice ha pubblicato l’ultimo libro di uno dei pensatori contemporanei più alternativi e influenti, nato a Baltimora nel 1945 e morto lo scorso anno negli Stati Uniti. La vendetta di Zarathustra di Hakim Bey è un invito alla lettura e un ritratto di un pensatore originale.
Probabilmente nessuno, o quasi, conosce il nome e la vita di uno dei più influenti e originali pensatori contemporanei: Peter Lamborn Wilson.
Nato a Baltimora nel 1945 e iscritto alla facoltà di Lettere classiche alla Columbia University, intraprese un percorso di vita fuori dal comune. Dopo un’iniziazione nella chiesa psichedelica di Timothy Leary, Wilson decise di abbandonare gli Stati Uniti nel 1968 per condurre una vita nomade tra l’Estremo e il Medio Oriente.
Dopo essere stato espulso dall’India, trascorse quasi un decennio in Iran, fino alla rivoluzione di Khomeini. Durante quel periodo, lavorò come giornalista, si unì all’Accademia imperiale di filosofia persiana e assunse la responsabilità delle pubblicazioni in lingua inglese. Le sue prime opere consistettero principalmente in traduzioni di poesie.
Le sue ricerche nell’ambito della storia delle religioni, della mitologia comparata e delle culture esoteriche, a partire dall’ermetismo, ebbero l’intenzione di minare la visione riduzionista, scientista e tecnoentusiasta con uno spirito situazionista. Wilson auspicava il recupero di aspetti cari a culture e tradizioni che precedettero la rivoluzione industriale.
Un intellettuale di spicco che condivideva intenti simili fu Elémire Zolla, uno dei massimi esperti di storia delle religioni, mistica e dottrine esoteriche. Zolla invitò Wilson a collaborare alla sua rivista trimestrale “Conoscenza Religiosa” (La Nuova Italia), fondata nel 1969. Proprio su queste pagine, dal 1977 al 1983, Wilson maturò la sua concezione di un “anarchismo spirituale” che sarebbe stato il filo rosso a unire tutta la sua produzione.
Nel 1980, dopo essere tornato negli Stati Uniti, visse con William Burroughs e pubblicò Angeli (Pantheon Books), un libro unico e iconograficamente dirompente. In quel testo effettuò una ricognizione storico-filosofica sul culto dei messaggeri di Dio, dalle religioni monoteiste all’Oriente, dagli antichi Greci allo sciamanesimo, dalle cerimonie pagane di possessione all’attualità.
Angeli lasciò trapelare, in vari punti, il tono provocatorio di Wilson, che divenne sempre più sarcastico quando scrisse nel 1985 il testo: “Chaos: The Broadsheets of Ontological Anarchism” (Grim Reaper Press). Nello stesso periodo iniziò a scrivere sotto lo pseudonimo di Hakim Bey (la fusione di due parole arabe che rimandano alla saggezza ma anche all’anonimato), iniziando a teorizzare una sorta di escapismo attivo con la fortunata espressione Taz, Temporary autonomous zone. Le Zone temporaneamente autonome rappresentano una strategia sociopolitica finalizzata a creare spazi temporanei che sfuggono alle normali strutture di controllo sociale. Queste zone offrono la possibilità di un sistema non gerarchico basato sulle relazioni, concentrandosi sul presente e consentendo a ciascuno di liberare la propria mente dai meccanismi imposti. In Italia il suo libro sulle Taz venne pubblicato nel 1993 da Shake edizioni e divenne un testo seminale soprattutto per i movimenti e per le culture undeground.
L’ultima opera di Hakim Bey - che intanto è morto l’anno scorso negli Usa -, La vendetta di Zarathustra, è stata pubblicata, trent’anni dopo da quella prima pubblicazione italiana, per merito di una neonata casa editrice, Ampère Books diretta da Niccolò de Mojana, in co-edizione con Agenzia X.
La vendetta di Zarathustra, tradotto da Alessandro Mazzi e Gianluca Didino, con un’introduzione di Marco Philopat e una nota conclusiva bio-bibliografica di Tobia D’Onofrio, è una raccolta eterogenea di saggi politici e culturali. Il filo conduttore che li unisce è rappresentato dalla riscoperta del pensiero di Nietzsche, come suggerisce il titolo. La scrittura di Hakim Bey sfugge alle definizioni perché, proprio come lui stesso teorizza, deve essere parte di un “terrorismo poetico”, che mira a sabotare il potere e le convenzioni, spiazzando chi se ne avvicina.
I vari pezzi che compongono il libro sono saggi politici che affrontano una vasta gamma di tematiche. Si parte dalla contestazione del nuovo nichilismo e si procede con analisi socioculturali della rivoluzione industriale e del capitalismo. Viene critica la iper-medicalizzazione delle società occidentali, con l’introduzione del concetto di “nemesi medica” di Ivan Illich. Si trova anche un’apologia della microcriminalità giovanile e una riflessione sui problemi associati al suo declino.
Inoltre, vi sono vere e proprie rassegne culturali che esplorano le origini del fumetto statunitense, la sua natura pedagogica e anarchica, e la scoperta della cultura celtica. Alcuni testi sono gustosamente provocatori, come ad esempio “Ammazziamo tutti gli avvocati”, mentre altri affrontano tematiche più elevate, apprezzabili soprattutto da studiosi di storia delle religioni, come il saggio sulla nascita e l’evoluzione del concetto di coscienza.
Se alcuni riferimenti nietzschiani e illichiani non stupiscono, lasciano spiazzati continui rimandi al pensiero e alla vita della sindacalista cattolica statunitense Dorothy Day, rivelando la curiosità e la capacità di Hakim Bey di connettere pensieri e culture alternative molto distanti tra loro.
In definitiva la forza del suo messaggio dirompente, finalizzato all’insurrezione, al sabotaggio del conformismo, sono finalizzati alla possibilità, spirituale e materiale, di “una vita autentica”, alla scommessa che la partita non sia finita: “Anch’io credo che il capitalismo predatorio abbia vinto e nessuna rivoluzione sia più possibile nel senso classico del termine. Ma per qualche ragione non riesco a essere ‘contro tutto’”.
di Nicola VillaProbabilmente nessuno, o quasi, conosce il nome e la vita di uno dei più influenti e originali pensatori contemporanei: Peter Lamborn Wilson.
Nato a Baltimora nel 1945 e iscritto alla facoltà di Lettere classiche alla Columbia University, intraprese un percorso di vita fuori dal comune. Dopo un’iniziazione nella chiesa psichedelica di Timothy Leary, Wilson decise di abbandonare gli Stati Uniti nel 1968 per condurre una vita nomade tra l’Estremo e il Medio Oriente.
Dopo essere stato espulso dall’India, trascorse quasi un decennio in Iran, fino alla rivoluzione di Khomeini. Durante quel periodo, lavorò come giornalista, si unì all’Accademia imperiale di filosofia persiana e assunse la responsabilità delle pubblicazioni in lingua inglese. Le sue prime opere consistettero principalmente in traduzioni di poesie.
Le sue ricerche nell’ambito della storia delle religioni, della mitologia comparata e delle culture esoteriche, a partire dall’ermetismo, ebbero l’intenzione di minare la visione riduzionista, scientista e tecnoentusiasta con uno spirito situazionista. Wilson auspicava il recupero di aspetti cari a culture e tradizioni che precedettero la rivoluzione industriale.
Un intellettuale di spicco che condivideva intenti simili fu Elémire Zolla, uno dei massimi esperti di storia delle religioni, mistica e dottrine esoteriche. Zolla invitò Wilson a collaborare alla sua rivista trimestrale “Conoscenza Religiosa” (La Nuova Italia), fondata nel 1969. Proprio su queste pagine, dal 1977 al 1983, Wilson maturò la sua concezione di un “anarchismo spirituale” che sarebbe stato il filo rosso a unire tutta la sua produzione.
Nel 1980, dopo essere tornato negli Stati Uniti, visse con William Burroughs e pubblicò Angeli (Pantheon Books), un libro unico e iconograficamente dirompente. In quel testo effettuò una ricognizione storico-filosofica sul culto dei messaggeri di Dio, dalle religioni monoteiste all’Oriente, dagli antichi Greci allo sciamanesimo, dalle cerimonie pagane di possessione all’attualità.
Angeli lasciò trapelare, in vari punti, il tono provocatorio di Wilson, che divenne sempre più sarcastico quando scrisse nel 1985 il testo: “Chaos: The Broadsheets of Ontological Anarchism” (Grim Reaper Press). Nello stesso periodo iniziò a scrivere sotto lo pseudonimo di Hakim Bey (la fusione di due parole arabe che rimandano alla saggezza ma anche all’anonimato), iniziando a teorizzare una sorta di escapismo attivo con la fortunata espressione Taz, Temporary autonomous zone. Le Zone temporaneamente autonome rappresentano una strategia sociopolitica finalizzata a creare spazi temporanei che sfuggono alle normali strutture di controllo sociale. Queste zone offrono la possibilità di un sistema non gerarchico basato sulle relazioni, concentrandosi sul presente e consentendo a ciascuno di liberare la propria mente dai meccanismi imposti. In Italia il suo libro sulle Taz venne pubblicato nel 1993 da Shake edizioni e divenne un testo seminale soprattutto per i movimenti e per le culture undeground.
L’ultima opera di Hakim Bey - che intanto è morto l’anno scorso negli Usa -, La vendetta di Zarathustra, è stata pubblicata, trent’anni dopo da quella prima pubblicazione italiana, per merito di una neonata casa editrice, Ampère Books diretta da Niccolò de Mojana, in co-edizione con Agenzia X.
La vendetta di Zarathustra, tradotto da Alessandro Mazzi e Gianluca Didino, con un’introduzione di Marco Philopat e una nota conclusiva bio-bibliografica di Tobia D’Onofrio, è una raccolta eterogenea di saggi politici e culturali. Il filo conduttore che li unisce è rappresentato dalla riscoperta del pensiero di Nietzsche, come suggerisce il titolo. La scrittura di Hakim Bey sfugge alle definizioni perché, proprio come lui stesso teorizza, deve essere parte di un “terrorismo poetico”, che mira a sabotare il potere e le convenzioni, spiazzando chi se ne avvicina.
I vari pezzi che compongono il libro sono saggi politici che affrontano una vasta gamma di tematiche. Si parte dalla contestazione del nuovo nichilismo e si procede con analisi socioculturali della rivoluzione industriale e del capitalismo. Viene critica la iper-medicalizzazione delle società occidentali, con l’introduzione del concetto di “nemesi medica” di Ivan Illich. Si trova anche un’apologia della microcriminalità giovanile e una riflessione sui problemi associati al suo declino.
Inoltre, vi sono vere e proprie rassegne culturali che esplorano le origini del fumetto statunitense, la sua natura pedagogica e anarchica, e la scoperta della cultura celtica. Alcuni testi sono gustosamente provocatori, come ad esempio “Ammazziamo tutti gli avvocati”, mentre altri affrontano tematiche più elevate, apprezzabili soprattutto da studiosi di storia delle religioni, come il saggio sulla nascita e l’evoluzione del concetto di coscienza.
Se alcuni riferimenti nietzschiani e illichiani non stupiscono, lasciano spiazzati continui rimandi al pensiero e alla vita della sindacalista cattolica statunitense Dorothy Day, rivelando la curiosità e la capacità di Hakim Bey di connettere pensieri e culture alternative molto distanti tra loro.
In definitiva la forza del suo messaggio dirompente, finalizzato all’insurrezione, al sabotaggio del conformismo, sono finalizzati alla possibilità, spirituale e materiale, di “una vita autentica”, alla scommessa che la partita non sia finita: “Anch’io credo che il capitalismo predatorio abbia vinto e nessuna rivoluzione sia più possibile nel senso classico del termine. Ma per qualche ragione non riesco a essere ‘contro tutto’”.
www.minimaetmoralia.it , 24 maggio 2023 L’unico Sé che ha valore è il Sé borghese
Pubblichiamo, ringraziando l’editore, la prefazione di Marco Philopat a La vendetta di Zarathustra di Hakim Bey (traduzione di Alessandro Mazzi e Gianluca Didino, pubblicato da Agenzia X in collaborazione con Ampère Books)
Per chi ha partecipato all’esperienza controculturale, la lettura dei testi di Hakim Bey è simile all’osservazione di un quadro di Jackson Pollock. Nel caleidoscopio cromatico lanciato sulla tela e sugli occhi del pubblico, si può ritrovare un’intuizione annidata nel cervello chissà da quanto tempo, un’idea che magicamente si trasforma nel momento della lettura in un pensiero sublime e spiazzante.
La sua scrittura è una lama frattalica di luce, un flusso inarrestabile di tesi e controtesi, di ragionamenti collegati con fili più sottili di capelli, concatenazioni che si affidano al caso e si ricompongono in un puzzle di associazioni mentali che l’autore ha avuto nel momento stesso in cui muoveva la penna sul foglio. La sua sfilata di immaginari e percorsi interiori, attraverso tutti i suoi scritti, musiche e azioni, vanno molto al di là del lessico e del razionale, proprio come in un dipinto realizzato in modo impulsivo e istintivo, facendo sgocciolare i colori su una tela.
Nato a Baltimora nel 1945 con il nome di Peter Lamborn Wilson, si era interessato fin da giovane alla filosofia e all’islamismo e aveva stabilito contatti con la rete controculturale dei primi anni sessanta, conoscendo fra gli altri Timothy Leary. Disgustato dal clima di repressione che colpiva i movimenti rivoluzionari statunitensi a seguito dell’assassinio di Martin Luther King, era andato in India con l’intenzione di studiare il sufismo, passando il resto del tempo a fumare grasse cime di cannabis, come lui stesso ci disse quella volta che lo ospitammo a Milano per una serie di conferenze.
Dopo qualche anno in Pakistan, nel 1974 si era fermato in Iran traducendo in inglese diversi classici persiani e sufi. Allo scoppio della rivoluzione khomeinista era stato costretto a rimpatriare, trovando casa a New York con William Burroughs come coinquilino. In quel periodo aveva iniziato ad appassionarsi alle punkzine, così si era messo a scrivere pezzi come se fossero comunicati politici e psichedelici sotto lo pseudonimo di Hakim Bey, in uno stile letterario molto particolare a metà tra cut-up burroughsiani e collage punk. Grazie ai suoi contenuti esplosivi e rigorosamente no copyright, quei testi erano diventati molto popolari tra i giovani ribelli dell’epoca, infatti per qualche tempo si potevano leggere su volantini attacchinati per le strade dell’East Village di Manhattan. Fu quella la prima notizia su Hakim Bey che ci giunse nei nostri covi punk milanesi.
Quel linguaggio quasi subliminale e quella capacità di mischiare teorie, pensieri e informazioni come fossero un mazzo di carte da gioco è ancora presente ne La vendetta di Zarathustra. Da Plotinio e Giamblico al wabi delle tazze di tè, dalla differenza tra escapismo passivo e quello attivo, fino ad arrivare ai terrificanti incubi degni di Max Ernst o a Felix the Cat, ma non prima di averci portato lungo una spirale cerebrale con una disquisizione sulle tradizioni celtiche e celtoscettiche.
Dentro queste pagine ci si può perdere come un’Alice nella scrittura delle meraviglie, andare sulla luna, infilarsi in una fumeria d’oppio in Cina, danzare come un derviscio sotto l’influenza psicoverbale dell’esperienza globale dell’autore, vedere sprazzi di meravigliosa anarchia nel panorama nuvoloso del millennio, fare un viaggio senza ritorno con una massiccia dose di Lsd… Una porzione aliena ben cucinata con decine e decine di ingredienti misteriosi e sovversivi, una miscela esplosiva per qualsiasi cervello nutrito dalle utopie dell’undergound passate e presenti, a partire dal suo libro più importante e influente: T.A.Z.
Hakim Bey diceva di non aver inventato quel termine, aveva semplicemente notato che, all’epoca dei primi rave party di fine anni ottanta, i giovani realizzavano e rendevano possibili ampi spazi di libertà e in quel modo si allontanavano dalla farsa della società dello spettacolo e dal controllo del potere, almeno per brevi periodi di tempo. Il potere per lui era la somma tra capitale e stato, una macchina di distruzione di massa sempre attenta a sfruttare ogni aspetto della vita degli individui, sbranando chi non si mette in fila nelle cattedrali del consumo. Un mostro ben rappresentato in questi anni dalla diffusione dei social e da tutto ciò che lui definiva tecnopatocrazia, come una pistola puntata alla tempia ogni ora del giorno per ammazzare sul nascere lo spirito libero e contraddittorio della nostra umanità.
Attraverso l’esposizione di un progetto spazio-temporale tra storia, politica di movimento, filosofia, religione e sufismo, Bey proponeva un’azione di attacco sotterraneo, una controrete che chiamava tela, capace di installarsi laddove la voracità del potere lasciava delle bolle d’aria all’interno della stasi universale dell’immaginario. Una controrete autogenerata come tante ragnatele che si riproducono negli interstizi o nelle crepe dei muri, unite da una struttura non gerarchica e decentralizzata.
L’erosione di porzioni di territorio al nemico e la creazione di esperienze collettive contro l’ordinamento civilizzato erano alla base del suo studio: covi di pirati, quartieri liberati, comunità rurali, i comunardi di Parigi, le popolazioni native o quelle nomadi, i falansteri di Charles Fourier, le occupazioni e tutte le storie di movimento, ma anche i gruppi che si basano sul misticismo e sulla magia, tutto ciò che nasce e si riproduce “al di fuori della realtà dominante dell’oppressione e della noia”.
Una mappa di informazioni sulle leggi del caos, con continui rimandi a quelle che compaiono nel mondo delle comunicazioni: un rullo compressore di notizie su cataclismi ambientali, crisi politiche, guerre, virus… Per lui era necessario un processo caotico, alimentato dalla guerriglia hacker, per generare la controrete destinata poi a prosperare nel momento in cui la rete del potere cominciava a sgretolarsi fino a soccombere.
“È possibile hackerare il denaro?” “Ci sono ancora zone non mappate della terra in cui si può scappare per sfuggire ai padroni?” Come si può rispondere a tali domande? Ormai rapiti dalle sue turbolenze rivoluzionarie, a chi non viene voglia per davvero di trasferirsi in un’area remota insieme a centinaia di altri soci, rovesciare il governo locale, eleggere politici e giudici solidali, fondare una società per il mutuo beneficio e i piaceri estatici, in grado di sovvenzionarsi con l’hacking finance o la coltivazione di funghi allucinogeni… “Meglio godersela finché dura. So per certo che questo piano viene attuato in diversi luoghi in America, ma ovviamente non dirò dove.”
Il suo mix di utopie psichedeliche era sempre venato da una sorta di humour macabro: “La natura sta scomparendo, anzi forse è già scomparsa ed è stata rimpiazzata dai documentari sugli animali”, “Il progresso è reazione”, “La civiltà è i suoi nemici”.
Il concetto di terrorismo poetico, non violento nella pratica ma violentissimo nel linguaggio, colpiva persino i militanti del movimento, scagliandogli contro uno sciame di vespe per demolire la base etica di chi si proponeva come avanguardia.
Alle volte il suo flusso di critica radicale era intriso di provocazioni taglienti: “La rivoluzione del 1968 fallì per essere repressa dal capitalismo e dal comunismo, il suo gemello malvagio”. Oppure quando se la prendeva con l’icona pop di Che Guevara, criticando aspramente chi ancora si appiattiva nel culto di quel personaggio. E come dimenticare le polemiche sulla presupposta origine libertaria dell’impresa di D’Annunzio a Fiume che aveva fatto imbufalire molti circoli anarchici.
Coltivava inoltre un disprezzo totale per le nuove tecnologie portatili: “Un’intelligenza aliena in tasca per 200 euro, tutto su un piccolo schermo, il nostro specchio magico portatile. Siamo o no i più belli del reame?”, “Il dominio delle macchine impazzite, la tecnopatocrazia, ci permette di vivere tutti come zombie felici, mangiatori dei nostri stessi cervelli, consumatori dei nostri falsi Sé. Sotto il segno del Valore Universale, il denaro, la lunga e triste storia della coscienza vacilla verso una piagnucolosa conclusione”.
Proprio come le tele di Pollock che venivano inchiodate a terra, i suoi testi erano strettamente legati alla dura realtà di outsiders, diseredati e soprattutto dei dissidenti.
Bey si schiera continuamente su quelle barricate dove agli ideali di efficienza e profitto si preferiscono le sfere dell’emozione e della realizzazione di un’unità con la natura. Poveri e dissidenti che sebbene oppressi, sono meno repressi dei loro padroni: “Hanno i loro piaceri: il sesso, le droghe, le feste sfrenate e il caos. […] I nativi con le loro danze degli spiriti senza speranza, i contadini con le loro stupide ribellioni agrarie, sono davvero in qualche modo più in contatto con la “divina natura” di quanto lo sia la borghesia? Io dico di sì”.
Per chi ancora non ha avuto il piacere di soffiare via la nebbia viola che nasconde la bellezza della letteratura di Hakim Bey, consiglio di leggere come primo approccio il capitolo Odio i borghesi. Sono le pagine più deflagranti del libro. “L’unico Sé che ha valore è il Sé borghese.” Sono sputi d’inchiostro velenoso contro il presente, grumi di rabbia generati dal troppo osservare il fondo del precipizio in cui la nostra società è sprofondata: “[La coscienza malata della borghesia] si preoccupa solo del Sé, lo gestisce come fosse un portafoglio di investimenti ma lo teme come un Mr. Hyde”.
Fantastico.
In ultimo, dimenticavo di dirvi, quello che colpisce le nostre corde emotive più nascoste quando leggiamo pagine simili a quelle di Odio i borghesi, sono i suoi racconti autobiografici, qui esposti nella forma più semplice per dare risalto alla tenerezza che ti avvolge quando scorri le righe con gli occhi. E non si risparmia di certo con l’autocritica, cercando di mettersi a nudo per scovare l’inconscio borghese che si nasconde in lui come un fantasma. Una sincerità disarmante, alla quale debbono ora abdicare anche i suoi più accaniti detrattori, talmente tanti che è impossibile farne un elenco. Li potete incontrare ovunque, vi circondano. Dopo tanta bile e dopo tanto tribolare… Raggiunto il nirvana, Bey è capace di darti qualche dritta: “Riusciamo a immaginare un Sé più ‘primitivo’ e autentico, spontaneo, che agisce diret- tamente il desiderio eppure che desidera una vera communitas con gli altri, un Sé allo stesso tempo più libero e non-alienato?”.
Per chi ha partecipato all’esperienza controculturale, la lettura dei testi di Hakim Bey è simile all’osservazione di un quadro di Jackson Pollock. Nel caleidoscopio cromatico lanciato sulla tela e sugli occhi del pubblico, si può ritrovare un’intuizione annidata nel cervello chissà da quanto tempo, un’idea che magicamente si trasforma nel momento della lettura in un pensiero sublime e spiazzante.
La sua scrittura è una lama frattalica di luce, un flusso inarrestabile di tesi e controtesi, di ragionamenti collegati con fili più sottili di capelli, concatenazioni che si affidano al caso e si ricompongono in un puzzle di associazioni mentali che l’autore ha avuto nel momento stesso in cui muoveva la penna sul foglio. La sua sfilata di immaginari e percorsi interiori, attraverso tutti i suoi scritti, musiche e azioni, vanno molto al di là del lessico e del razionale, proprio come in un dipinto realizzato in modo impulsivo e istintivo, facendo sgocciolare i colori su una tela.
Nato a Baltimora nel 1945 con il nome di Peter Lamborn Wilson, si era interessato fin da giovane alla filosofia e all’islamismo e aveva stabilito contatti con la rete controculturale dei primi anni sessanta, conoscendo fra gli altri Timothy Leary. Disgustato dal clima di repressione che colpiva i movimenti rivoluzionari statunitensi a seguito dell’assassinio di Martin Luther King, era andato in India con l’intenzione di studiare il sufismo, passando il resto del tempo a fumare grasse cime di cannabis, come lui stesso ci disse quella volta che lo ospitammo a Milano per una serie di conferenze.
Dopo qualche anno in Pakistan, nel 1974 si era fermato in Iran traducendo in inglese diversi classici persiani e sufi. Allo scoppio della rivoluzione khomeinista era stato costretto a rimpatriare, trovando casa a New York con William Burroughs come coinquilino. In quel periodo aveva iniziato ad appassionarsi alle punkzine, così si era messo a scrivere pezzi come se fossero comunicati politici e psichedelici sotto lo pseudonimo di Hakim Bey, in uno stile letterario molto particolare a metà tra cut-up burroughsiani e collage punk. Grazie ai suoi contenuti esplosivi e rigorosamente no copyright, quei testi erano diventati molto popolari tra i giovani ribelli dell’epoca, infatti per qualche tempo si potevano leggere su volantini attacchinati per le strade dell’East Village di Manhattan. Fu quella la prima notizia su Hakim Bey che ci giunse nei nostri covi punk milanesi.
Quel linguaggio quasi subliminale e quella capacità di mischiare teorie, pensieri e informazioni come fossero un mazzo di carte da gioco è ancora presente ne La vendetta di Zarathustra. Da Plotinio e Giamblico al wabi delle tazze di tè, dalla differenza tra escapismo passivo e quello attivo, fino ad arrivare ai terrificanti incubi degni di Max Ernst o a Felix the Cat, ma non prima di averci portato lungo una spirale cerebrale con una disquisizione sulle tradizioni celtiche e celtoscettiche.
Dentro queste pagine ci si può perdere come un’Alice nella scrittura delle meraviglie, andare sulla luna, infilarsi in una fumeria d’oppio in Cina, danzare come un derviscio sotto l’influenza psicoverbale dell’esperienza globale dell’autore, vedere sprazzi di meravigliosa anarchia nel panorama nuvoloso del millennio, fare un viaggio senza ritorno con una massiccia dose di Lsd… Una porzione aliena ben cucinata con decine e decine di ingredienti misteriosi e sovversivi, una miscela esplosiva per qualsiasi cervello nutrito dalle utopie dell’undergound passate e presenti, a partire dal suo libro più importante e influente: T.A.Z.
Hakim Bey diceva di non aver inventato quel termine, aveva semplicemente notato che, all’epoca dei primi rave party di fine anni ottanta, i giovani realizzavano e rendevano possibili ampi spazi di libertà e in quel modo si allontanavano dalla farsa della società dello spettacolo e dal controllo del potere, almeno per brevi periodi di tempo. Il potere per lui era la somma tra capitale e stato, una macchina di distruzione di massa sempre attenta a sfruttare ogni aspetto della vita degli individui, sbranando chi non si mette in fila nelle cattedrali del consumo. Un mostro ben rappresentato in questi anni dalla diffusione dei social e da tutto ciò che lui definiva tecnopatocrazia, come una pistola puntata alla tempia ogni ora del giorno per ammazzare sul nascere lo spirito libero e contraddittorio della nostra umanità.
Attraverso l’esposizione di un progetto spazio-temporale tra storia, politica di movimento, filosofia, religione e sufismo, Bey proponeva un’azione di attacco sotterraneo, una controrete che chiamava tela, capace di installarsi laddove la voracità del potere lasciava delle bolle d’aria all’interno della stasi universale dell’immaginario. Una controrete autogenerata come tante ragnatele che si riproducono negli interstizi o nelle crepe dei muri, unite da una struttura non gerarchica e decentralizzata.
L’erosione di porzioni di territorio al nemico e la creazione di esperienze collettive contro l’ordinamento civilizzato erano alla base del suo studio: covi di pirati, quartieri liberati, comunità rurali, i comunardi di Parigi, le popolazioni native o quelle nomadi, i falansteri di Charles Fourier, le occupazioni e tutte le storie di movimento, ma anche i gruppi che si basano sul misticismo e sulla magia, tutto ciò che nasce e si riproduce “al di fuori della realtà dominante dell’oppressione e della noia”.
Una mappa di informazioni sulle leggi del caos, con continui rimandi a quelle che compaiono nel mondo delle comunicazioni: un rullo compressore di notizie su cataclismi ambientali, crisi politiche, guerre, virus… Per lui era necessario un processo caotico, alimentato dalla guerriglia hacker, per generare la controrete destinata poi a prosperare nel momento in cui la rete del potere cominciava a sgretolarsi fino a soccombere.
“È possibile hackerare il denaro?” “Ci sono ancora zone non mappate della terra in cui si può scappare per sfuggire ai padroni?” Come si può rispondere a tali domande? Ormai rapiti dalle sue turbolenze rivoluzionarie, a chi non viene voglia per davvero di trasferirsi in un’area remota insieme a centinaia di altri soci, rovesciare il governo locale, eleggere politici e giudici solidali, fondare una società per il mutuo beneficio e i piaceri estatici, in grado di sovvenzionarsi con l’hacking finance o la coltivazione di funghi allucinogeni… “Meglio godersela finché dura. So per certo che questo piano viene attuato in diversi luoghi in America, ma ovviamente non dirò dove.”
Il suo mix di utopie psichedeliche era sempre venato da una sorta di humour macabro: “La natura sta scomparendo, anzi forse è già scomparsa ed è stata rimpiazzata dai documentari sugli animali”, “Il progresso è reazione”, “La civiltà è i suoi nemici”.
Il concetto di terrorismo poetico, non violento nella pratica ma violentissimo nel linguaggio, colpiva persino i militanti del movimento, scagliandogli contro uno sciame di vespe per demolire la base etica di chi si proponeva come avanguardia.
Alle volte il suo flusso di critica radicale era intriso di provocazioni taglienti: “La rivoluzione del 1968 fallì per essere repressa dal capitalismo e dal comunismo, il suo gemello malvagio”. Oppure quando se la prendeva con l’icona pop di Che Guevara, criticando aspramente chi ancora si appiattiva nel culto di quel personaggio. E come dimenticare le polemiche sulla presupposta origine libertaria dell’impresa di D’Annunzio a Fiume che aveva fatto imbufalire molti circoli anarchici.
Coltivava inoltre un disprezzo totale per le nuove tecnologie portatili: “Un’intelligenza aliena in tasca per 200 euro, tutto su un piccolo schermo, il nostro specchio magico portatile. Siamo o no i più belli del reame?”, “Il dominio delle macchine impazzite, la tecnopatocrazia, ci permette di vivere tutti come zombie felici, mangiatori dei nostri stessi cervelli, consumatori dei nostri falsi Sé. Sotto il segno del Valore Universale, il denaro, la lunga e triste storia della coscienza vacilla verso una piagnucolosa conclusione”.
Proprio come le tele di Pollock che venivano inchiodate a terra, i suoi testi erano strettamente legati alla dura realtà di outsiders, diseredati e soprattutto dei dissidenti.
Bey si schiera continuamente su quelle barricate dove agli ideali di efficienza e profitto si preferiscono le sfere dell’emozione e della realizzazione di un’unità con la natura. Poveri e dissidenti che sebbene oppressi, sono meno repressi dei loro padroni: “Hanno i loro piaceri: il sesso, le droghe, le feste sfrenate e il caos. […] I nativi con le loro danze degli spiriti senza speranza, i contadini con le loro stupide ribellioni agrarie, sono davvero in qualche modo più in contatto con la “divina natura” di quanto lo sia la borghesia? Io dico di sì”.
Per chi ancora non ha avuto il piacere di soffiare via la nebbia viola che nasconde la bellezza della letteratura di Hakim Bey, consiglio di leggere come primo approccio il capitolo Odio i borghesi. Sono le pagine più deflagranti del libro. “L’unico Sé che ha valore è il Sé borghese.” Sono sputi d’inchiostro velenoso contro il presente, grumi di rabbia generati dal troppo osservare il fondo del precipizio in cui la nostra società è sprofondata: “[La coscienza malata della borghesia] si preoccupa solo del Sé, lo gestisce come fosse un portafoglio di investimenti ma lo teme come un Mr. Hyde”.
Fantastico.
In ultimo, dimenticavo di dirvi, quello che colpisce le nostre corde emotive più nascoste quando leggiamo pagine simili a quelle di Odio i borghesi, sono i suoi racconti autobiografici, qui esposti nella forma più semplice per dare risalto alla tenerezza che ti avvolge quando scorri le righe con gli occhi. E non si risparmia di certo con l’autocritica, cercando di mettersi a nudo per scovare l’inconscio borghese che si nasconde in lui come un fantasma. Una sincerità disarmante, alla quale debbono ora abdicare anche i suoi più accaniti detrattori, talmente tanti che è impossibile farne un elenco. Li potete incontrare ovunque, vi circondano. Dopo tanta bile e dopo tanto tribolare… Raggiunto il nirvana, Bey è capace di darti qualche dritta: “Riusciamo a immaginare un Sé più ‘primitivo’ e autentico, spontaneo, che agisce diret- tamente il desiderio eppure che desidera una vera communitas con gli altri, un Sé allo stesso tempo più libero e non-alienato?”.
www.indiscreto.org, 17 maggio 2023Chi ha bisogno della coscienza?
La coscienza viene spesso descritta come una casualità evolutiva. Un incidente di percorso. Allo stesso tempo però la coscienza stessa sembra esserci essenziale, ed essere ben più che una consapevolezza di esistere.
Questo testo è tratto da “La vendetta di Zarathustra” di Hakim Bey. Ringraziamo Agenzia X e Ampère Books per la gentile concessione.
Dato che né la scienza né la filosofia sembrano essere riuscite a definire la coscienza, dovremmo dedurne che sarebbe inutile tentare di indagare le sue origini e il suo divenire? Possiamo anche solo dare per scontato che la coscienza esista per davvero, e non sia semplicemente un epifenomeno della fisiologia cerebrale, per non dire un’illusione? A mio avviso queste domande cadono nella stessa categoria del paradosso del solipsismo. Forse tutto ciò che esiste è la mia coscienza, e quindi la mia coscienza è falsa se attribuisce coscienza a tutto tranne che a me. O forse sto solo immaginando di pensare. E così via. Certo, forse è così, ma che importa? Non significherebbe niente in ogni caso. Per semplificare il nostro scritto, diamo per assunto che tutto sia sufficientemente reale quanto basta perché possa esistere, e che siamo nati in una condizione ontologica o esistenziale comunemente chiamata coscienza.
In breve, accettiamo la nostra percezione, sensazione o estetica dell’essere consci, e procediamo con l’indagare la natura di uno stato così probabile, o almeno possibile.
La coscienza sembra essere qualcosa di diverso o di più rispetto alla consapevolezza. È possibile che, come credevano gli scienziati romantici e gli ermetici, anche le pietre siano consapevoli, ma in una dimensione temporale praticamente inaccessibile per noi – se non attraverso l’alchimia, la quale consisterebbe allora nell’arte di accelerare la consapevolezza della pietra al livello visionario della coscienza. Certe piante e animali sono consapevoli: possiamo lasciar perdere la prospettiva cartesiana di una materia inerte e di animali intesi come macchine insensibili. L’universo è, per così dire, consapevole. Forse la natura della coscienza riguarda la consapevolezza di questa consapevolezza, come il mito di Narciso. Abbiamo già ripreso in questo senso la metafora dello specchio.
L’universo richiederebbe la coscienza da parte del Sé percipiente per divenire consapevole della propria consapevolezza. «Ero un tesoro nascosto», dice Allah, «e amai essere conosciuto. Ho creato la creazione affinché mi conosca».
Se così fosse potremmo affermare che la coscienza non è un accidente ma gioca un ruolo nell’evoluzione – se definiamo l’evoluzione come più di una concatenazione accidentale di materia inanimata in una condizione senza significato che chiamiamo vita. La coscienza potrebbe essere vista come la condizione necessaria per il sorgere del senso o del valore, come lo chiama Nietzsche. Potremmo definirlo l’amore o il desiderio che l’universo ha per se stesso.
Fatte queste premesse, dovremmo porci la domanda principale: perché ci ritroviamo oggi di fronte a quella che viene chiamata la crisi o persino la catastrofe del senso, al punto che le certezze e i sistemi simbolici della spiritualità tradizionale non ricoprono più per l’umanità il ruolo di roccaforti contro l’abisso, dall’esistenzialismo chiamato banalmente l’assurdo? E perché c’è questa cupa negazione dell’importanza del senso da parte degli scienziati e filosofi che non riconoscono la funzione evolutiva della coscienza?
Abbiamo ragioni pratiche per sollevare la questione, dato che la posizione volgarmente materialista ha condotto a una condizione moderna fondata sulla riduzione di tutto il valore in prezzo, e a quel trionfo della bruttezza sulla bellezza che chiamiamo civiltà. L’azione più rivoluzionaria che ci rimane è la restituzione del valore al valore, come ha proposto Nietzsche. Ma non possiamo cominciare l’opera senza prima chiederci, non cosa sia la coscienza, ma cosa faccia, e ovviamente, senza prima risalire all’inizio del declino, tornare al momento in cui la coscienza ha smesso di ricoprire la sua funzione evolutiva.
Continua a leggere qui.
Questo testo è tratto da “La vendetta di Zarathustra” di Hakim Bey. Ringraziamo Agenzia X e Ampère Books per la gentile concessione.
Dato che né la scienza né la filosofia sembrano essere riuscite a definire la coscienza, dovremmo dedurne che sarebbe inutile tentare di indagare le sue origini e il suo divenire? Possiamo anche solo dare per scontato che la coscienza esista per davvero, e non sia semplicemente un epifenomeno della fisiologia cerebrale, per non dire un’illusione? A mio avviso queste domande cadono nella stessa categoria del paradosso del solipsismo. Forse tutto ciò che esiste è la mia coscienza, e quindi la mia coscienza è falsa se attribuisce coscienza a tutto tranne che a me. O forse sto solo immaginando di pensare. E così via. Certo, forse è così, ma che importa? Non significherebbe niente in ogni caso. Per semplificare il nostro scritto, diamo per assunto che tutto sia sufficientemente reale quanto basta perché possa esistere, e che siamo nati in una condizione ontologica o esistenziale comunemente chiamata coscienza.
In breve, accettiamo la nostra percezione, sensazione o estetica dell’essere consci, e procediamo con l’indagare la natura di uno stato così probabile, o almeno possibile.
La coscienza sembra essere qualcosa di diverso o di più rispetto alla consapevolezza. È possibile che, come credevano gli scienziati romantici e gli ermetici, anche le pietre siano consapevoli, ma in una dimensione temporale praticamente inaccessibile per noi – se non attraverso l’alchimia, la quale consisterebbe allora nell’arte di accelerare la consapevolezza della pietra al livello visionario della coscienza. Certe piante e animali sono consapevoli: possiamo lasciar perdere la prospettiva cartesiana di una materia inerte e di animali intesi come macchine insensibili. L’universo è, per così dire, consapevole. Forse la natura della coscienza riguarda la consapevolezza di questa consapevolezza, come il mito di Narciso. Abbiamo già ripreso in questo senso la metafora dello specchio.
L’universo richiederebbe la coscienza da parte del Sé percipiente per divenire consapevole della propria consapevolezza. «Ero un tesoro nascosto», dice Allah, «e amai essere conosciuto. Ho creato la creazione affinché mi conosca».
Se così fosse potremmo affermare che la coscienza non è un accidente ma gioca un ruolo nell’evoluzione – se definiamo l’evoluzione come più di una concatenazione accidentale di materia inanimata in una condizione senza significato che chiamiamo vita. La coscienza potrebbe essere vista come la condizione necessaria per il sorgere del senso o del valore, come lo chiama Nietzsche. Potremmo definirlo l’amore o il desiderio che l’universo ha per se stesso.
Fatte queste premesse, dovremmo porci la domanda principale: perché ci ritroviamo oggi di fronte a quella che viene chiamata la crisi o persino la catastrofe del senso, al punto che le certezze e i sistemi simbolici della spiritualità tradizionale non ricoprono più per l’umanità il ruolo di roccaforti contro l’abisso, dall’esistenzialismo chiamato banalmente l’assurdo? E perché c’è questa cupa negazione dell’importanza del senso da parte degli scienziati e filosofi che non riconoscono la funzione evolutiva della coscienza?
Abbiamo ragioni pratiche per sollevare la questione, dato che la posizione volgarmente materialista ha condotto a una condizione moderna fondata sulla riduzione di tutto il valore in prezzo, e a quel trionfo della bruttezza sulla bellezza che chiamiamo civiltà. L’azione più rivoluzionaria che ci rimane è la restituzione del valore al valore, come ha proposto Nietzsche. Ma non possiamo cominciare l’opera senza prima chiederci, non cosa sia la coscienza, ma cosa faccia, e ovviamente, senza prima risalire all’inizio del declino, tornare al momento in cui la coscienza ha smesso di ricoprire la sua funzione evolutiva.
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Rai Radio 3, 11 maggio 2023Guerra artificiale
La prossima guerra mondiale sarà sull’intelligenza artificiale, profetizza Michelangelo Cocco. Partiamo dall’analisi del giornalista esperto in Cina per proseguire con il nuovo libro di Hakim Bey [minuto 15], un’intervista a Massimo Livi Bacci sulle politiche di natalità, infine la ripubblicazione di Il rovescio della storia contemporanea di Balzac. Il brano che accompagna la puntata è Tonight con Oscar Peterson, Ray Brown e Ed Thigpem.
not.neroeditions.com , 9 maggio 2023 Il nuovo nichilismo
In un epoca in cui ogni rivoluzione è destinata a fallire, come sopravvivere al capitalismo apocalittico? Ce lo spiega Hakim Bey
Pubblichiamo un estratto da La vendetta di Zarathustra. Il nuovo nichilismo e altri saggi, il nuovo libro di Hakim Bey appena pubblicato per Ampère Books e Agenzia X, ringraziando gli editori per la disponibilità.
È sempre più difficile capire la differenza tra essere vecchi, malati e sconfitti, da un lato e, dall’altro, vivere in un tempo e luogo che è esso stesso senile, stanco e sconfitto. A volte penso di essere io il problema, ma poi scopro che anche persone più giovani e sane di me sembrano attraversare simili sensazioni di ennui, disperazione e rabbia impotente. Forse non sono solo io, in fondo. Un amico ha attribuito questa disillusione nei confronti di tutto, incluse le posizioni radicali e gli attivismi di vecchio stampo, alla delusione provocata dal governo Obama, dal quale ci si aspettava un allontanamento dai decenni reazionari che hanno seguito gli anni ottanta o addirittura un “progresso” verso qualche sorta di socialismo democratico.
Anche se personalmente non ho mai condiviso il suo ottimismo (parto sempre dal presupposto che chiunque anche solo voglia diventare presidente degli Stati Uniti debba essere per forza un assassino psicopatico) capisco perché la “gioventù” abbia sofferto di una grave delusione nel constatare il fallimento totale del liberalismo e del suo tentativo di ribaltare la marea del capitalismo trionfalista. La disillusione ha dato vita a Occupy Wall Street e il fallimento del movimento ha portato all’assoluto rifiuto di ogni coinvolgimento politico.
Tuttavia, ritengo che questa analisi puramente politica del “nuovo niente” sia troppo bidimensionale per dare l’idea di quanto ogni speranza di cambiamento sia morta nel kapitalismo kognitivo e nella tecnopatocrazia. Nonostante ciò che rimane dei miei sentimenti da figlio dei fiori, io stesso percepisco questa condizione «terminale», come l’ha chiamata Nietzsche, della quale mi piace dire, tra il serio e il faceto, che alla fine abbiamo raggiunto il futuro e l’unica certezza realmente terribile della fine del mondo è che non finisce davvero.
Un grande centro commerciale online alla J.G. Ballard o alla Philip K. Dick da qui all’eternità, praticamente. Questo è il futuro, che te ne pare? La vita tra le macerie: non così terribile per i borghesi, i servi leali dell’uno percento. Rovine con l’aria condizionata! Niente Ragnarök, niente rapimento, nessuna chiusura drammatica: solo una replica infinita di reality show polizieschi. Il 2012 profetizzato dai Maya è arrivato, se n’è andato, e noi siamo ancora indebitati con qualche banca senza volto, incatenati tuttora ai nostri schermi.
Oggi esiste denaro a sufficienza per comprare il mondo intero almeno dieci volte, eppure le specie si estinguono, lo spazio incontaminato svanisce, le calotte polari si sciolgono, l’aria e l’acqua diventano tossiche, la cultura stessa diventa tossica.
Per sopravvivere, la maggioranza delle persone sembra aver bisogno intorno a sé di una «coltre di illusione», per citare ancora Nietzsche: di convincersi che il mondo vada avanti come sempre, con i suoi giorni buoni e meno buoni, ma sostanzialmente non diverso da com’era nel 10.000 a.C., nel 1492 o come sarà l’anno prossimo. Qualcuno ha persino bisogno di credere nel progresso, che il futuro risolverà tutti i nostri problemi, e addirittura che la vita sia meglio oggi di quanto fosse, per esempio,per le persone nel V secolo dopo Cristo. Viviamo più a lungo grazie alla scienza moderna, anche se ovviamente i nostri anni extra li trascorriamo in gran parte come “oggetti medici”, malati ed esausti ma mantenuti in funzione da macchine e pillole che generano enormi profitti per poche mega corporazioni e compagnie di assicurazioni. Una nazione di struldbrugg.
È vero, stiamo soffocando nel pantano generato dalla dittatura di macchine impazzite sotto la numisfera del denaro. Oggi esiste denaro a sufficienza per comprare il mondo intero almeno dieci volte, eppure le specie si estinguono, lo spazio incontaminato svanisce, le calotte polari si sciolgono, l’aria e l’acqua diventano tossiche, la cultura stessa diventa tossica, il paesaggio è sacrificato all’industria agricola e ai centri commerciali, al fascismo del rumore e via dicendo. Ma la scienza curerà tutti i mali che la scienza ha creato, nel futuro («sul lungo periodo», quando saremo tutti morti, come diceva Lord Keynes). Così, nel frattempo, possiamo continuare a consumare il mondo e cacarlo sotto forma di rifiuto, perché è comodo, efficiente e redditizio farlo, e perché ci piace.
Va bene, sono un mucchio di cliché da piagnucolone liberale di sinistra. L’ho già sentito un milione di volte, mi sto addormentando. Che noioso, che infantile, che inutile! Anche se fosse tutto vero… che possiamo farci? Se i nostri leader designati non possono o non vogliono fermare tutto questo, chi può farlo? Dio? Satana? Il “popolo”?
Quale forza è in grado, anche solo in teoria, di provocare una tale rivoluzione? La religione? In 6000 anni di religione organizzata le cose sono soltanto peggiorate. Le droghe psichedeliche negli acquedotti? Il calendario Maya? La nostalgia? Il terrore?
Tutte le soluzioni alla moda per uscire dalla “crisi”, dalla democrazia elettronica alla violenza rivoluzionaria, dal locavorismo alle abitazioni a energia solare, dalle regolamentazioni dei mercati finanziari allo sciopero generale, tutte queste cose, per quanto ridicole o sublimi possano sembrare, dipendono da un cambiamento radicale a priori, un cambiamento epocale nella coscienza umana. Senza una trasformazione del genere ogni speranza di riforma è futile. E se una trasformazione del genere dovesse per qualche ragione accadere, nessuna riforma sarebbe necessaria. Il mondo semplicemente cambierebbe. Le balene sarebbero salve. Niente più guerra. E così via.
Quale forza è in grado, anche solo in teoria, di provocare una tale rivoluzione? La religione? In 6000 anni di religione organizzata le cose sono soltanto peggiorate. Le droghe psichedeliche negli acquedotti? Il calendario Maya? La nostalgia? Il terrore? Se la catastrofe è ormai inevitabile, forse si realizzerà lo scenario immaginato dai survivalisti e i pochi milioni di coraggiosi rimasti creeranno un’utopia verde tra le macerie fumanti. Ma il capitalismo non troverà un modo di trarre profitto anche dalla fine del mondo? Qualcuno potrebbe dire che lo stia già facendo. La catastrofe potrebbe essere l’apoteosi finale del feticismo per le merci.
Ipotizziamo, per amore della discussione, che questo paradiso di gadget elettrici e allarmi di emergenza sia tutto ciò che abbiamo e che avremo da qui in poi. Il capitalismo può gestire il riscaldamento globale – può vendere braccioli e assicurazioni contro le catastrofi naturali. Quindi diciamo che è tutto finito, solo che abbiamo ancora la televisione e Twitter. La fine della giovinezza, i bambini come consumatori perfetti, che smaniano per il marchio. Terrorismo o televendite, scegliete voi. In fondo democrazia significa scelta.
È dalla fine del movimento sociale nel 1989, l’ultimo sussulto dell’odioso secolo breve iniziato nel 1914, che l’unica “alternativa” al totalitarismo capitalista neoliberale sembra essere il neofascismo religioso. Capisco perché qualcuno possa voler diventare un fondamentalista violento e bigotto – davvero, lo comprendo – ma solo perché provo pena per i lebbrosi non significa che voglia diventare uno di loro.
Pubblichiamo un estratto da La vendetta di Zarathustra. Il nuovo nichilismo e altri saggi, il nuovo libro di Hakim Bey appena pubblicato per Ampère Books e Agenzia X, ringraziando gli editori per la disponibilità.
È sempre più difficile capire la differenza tra essere vecchi, malati e sconfitti, da un lato e, dall’altro, vivere in un tempo e luogo che è esso stesso senile, stanco e sconfitto. A volte penso di essere io il problema, ma poi scopro che anche persone più giovani e sane di me sembrano attraversare simili sensazioni di ennui, disperazione e rabbia impotente. Forse non sono solo io, in fondo. Un amico ha attribuito questa disillusione nei confronti di tutto, incluse le posizioni radicali e gli attivismi di vecchio stampo, alla delusione provocata dal governo Obama, dal quale ci si aspettava un allontanamento dai decenni reazionari che hanno seguito gli anni ottanta o addirittura un “progresso” verso qualche sorta di socialismo democratico.
Anche se personalmente non ho mai condiviso il suo ottimismo (parto sempre dal presupposto che chiunque anche solo voglia diventare presidente degli Stati Uniti debba essere per forza un assassino psicopatico) capisco perché la “gioventù” abbia sofferto di una grave delusione nel constatare il fallimento totale del liberalismo e del suo tentativo di ribaltare la marea del capitalismo trionfalista. La disillusione ha dato vita a Occupy Wall Street e il fallimento del movimento ha portato all’assoluto rifiuto di ogni coinvolgimento politico.
Tuttavia, ritengo che questa analisi puramente politica del “nuovo niente” sia troppo bidimensionale per dare l’idea di quanto ogni speranza di cambiamento sia morta nel kapitalismo kognitivo e nella tecnopatocrazia. Nonostante ciò che rimane dei miei sentimenti da figlio dei fiori, io stesso percepisco questa condizione «terminale», come l’ha chiamata Nietzsche, della quale mi piace dire, tra il serio e il faceto, che alla fine abbiamo raggiunto il futuro e l’unica certezza realmente terribile della fine del mondo è che non finisce davvero.
Un grande centro commerciale online alla J.G. Ballard o alla Philip K. Dick da qui all’eternità, praticamente. Questo è il futuro, che te ne pare? La vita tra le macerie: non così terribile per i borghesi, i servi leali dell’uno percento. Rovine con l’aria condizionata! Niente Ragnarök, niente rapimento, nessuna chiusura drammatica: solo una replica infinita di reality show polizieschi. Il 2012 profetizzato dai Maya è arrivato, se n’è andato, e noi siamo ancora indebitati con qualche banca senza volto, incatenati tuttora ai nostri schermi.
Oggi esiste denaro a sufficienza per comprare il mondo intero almeno dieci volte, eppure le specie si estinguono, lo spazio incontaminato svanisce, le calotte polari si sciolgono, l’aria e l’acqua diventano tossiche, la cultura stessa diventa tossica.
Per sopravvivere, la maggioranza delle persone sembra aver bisogno intorno a sé di una «coltre di illusione», per citare ancora Nietzsche: di convincersi che il mondo vada avanti come sempre, con i suoi giorni buoni e meno buoni, ma sostanzialmente non diverso da com’era nel 10.000 a.C., nel 1492 o come sarà l’anno prossimo. Qualcuno ha persino bisogno di credere nel progresso, che il futuro risolverà tutti i nostri problemi, e addirittura che la vita sia meglio oggi di quanto fosse, per esempio,per le persone nel V secolo dopo Cristo. Viviamo più a lungo grazie alla scienza moderna, anche se ovviamente i nostri anni extra li trascorriamo in gran parte come “oggetti medici”, malati ed esausti ma mantenuti in funzione da macchine e pillole che generano enormi profitti per poche mega corporazioni e compagnie di assicurazioni. Una nazione di struldbrugg.
È vero, stiamo soffocando nel pantano generato dalla dittatura di macchine impazzite sotto la numisfera del denaro. Oggi esiste denaro a sufficienza per comprare il mondo intero almeno dieci volte, eppure le specie si estinguono, lo spazio incontaminato svanisce, le calotte polari si sciolgono, l’aria e l’acqua diventano tossiche, la cultura stessa diventa tossica, il paesaggio è sacrificato all’industria agricola e ai centri commerciali, al fascismo del rumore e via dicendo. Ma la scienza curerà tutti i mali che la scienza ha creato, nel futuro («sul lungo periodo», quando saremo tutti morti, come diceva Lord Keynes). Così, nel frattempo, possiamo continuare a consumare il mondo e cacarlo sotto forma di rifiuto, perché è comodo, efficiente e redditizio farlo, e perché ci piace.
Va bene, sono un mucchio di cliché da piagnucolone liberale di sinistra. L’ho già sentito un milione di volte, mi sto addormentando. Che noioso, che infantile, che inutile! Anche se fosse tutto vero… che possiamo farci? Se i nostri leader designati non possono o non vogliono fermare tutto questo, chi può farlo? Dio? Satana? Il “popolo”?
Quale forza è in grado, anche solo in teoria, di provocare una tale rivoluzione? La religione? In 6000 anni di religione organizzata le cose sono soltanto peggiorate. Le droghe psichedeliche negli acquedotti? Il calendario Maya? La nostalgia? Il terrore?
Tutte le soluzioni alla moda per uscire dalla “crisi”, dalla democrazia elettronica alla violenza rivoluzionaria, dal locavorismo alle abitazioni a energia solare, dalle regolamentazioni dei mercati finanziari allo sciopero generale, tutte queste cose, per quanto ridicole o sublimi possano sembrare, dipendono da un cambiamento radicale a priori, un cambiamento epocale nella coscienza umana. Senza una trasformazione del genere ogni speranza di riforma è futile. E se una trasformazione del genere dovesse per qualche ragione accadere, nessuna riforma sarebbe necessaria. Il mondo semplicemente cambierebbe. Le balene sarebbero salve. Niente più guerra. E così via.
Quale forza è in grado, anche solo in teoria, di provocare una tale rivoluzione? La religione? In 6000 anni di religione organizzata le cose sono soltanto peggiorate. Le droghe psichedeliche negli acquedotti? Il calendario Maya? La nostalgia? Il terrore? Se la catastrofe è ormai inevitabile, forse si realizzerà lo scenario immaginato dai survivalisti e i pochi milioni di coraggiosi rimasti creeranno un’utopia verde tra le macerie fumanti. Ma il capitalismo non troverà un modo di trarre profitto anche dalla fine del mondo? Qualcuno potrebbe dire che lo stia già facendo. La catastrofe potrebbe essere l’apoteosi finale del feticismo per le merci.
Ipotizziamo, per amore della discussione, che questo paradiso di gadget elettrici e allarmi di emergenza sia tutto ciò che abbiamo e che avremo da qui in poi. Il capitalismo può gestire il riscaldamento globale – può vendere braccioli e assicurazioni contro le catastrofi naturali. Quindi diciamo che è tutto finito, solo che abbiamo ancora la televisione e Twitter. La fine della giovinezza, i bambini come consumatori perfetti, che smaniano per il marchio. Terrorismo o televendite, scegliete voi. In fondo democrazia significa scelta.
È dalla fine del movimento sociale nel 1989, l’ultimo sussulto dell’odioso secolo breve iniziato nel 1914, che l’unica “alternativa” al totalitarismo capitalista neoliberale sembra essere il neofascismo religioso. Capisco perché qualcuno possa voler diventare un fondamentalista violento e bigotto – davvero, lo comprendo – ma solo perché provo pena per i lebbrosi non significa che voglia diventare uno di loro.