www.rivistaunaspecie.com, 7 febbraio 2014 La velocità di Lotta, Andrea Scarabelli
Milano. Giorni nostri. Diego, trent’anni, pubblicitario. Creativo, un tempo. Affetto, ora, dal male di vivere. Sfiduciato verso il genere umano, soprattutto verso sé stesso, perso nell’apatia, incapace di reagire, di riscattarsi, in perenne attesa della scossa, ma sempre con la messa a terra ben posizionata.
Fino a che gli precipita addosso Carlotta “Lotta” con i suoi quindici anni, con la sua combattività inarrestabile. Una ragazzina introversa, che non piace ai suoi coetanei, scappata di casa, decisa a vincere una guerra contro il mostro delle banche, che ha ridotto la sua famiglia in pezzi, che gli deve una qualche forma di riscatto per la spensieratezza infantile che le è stata privata.
Lui statico, lei dinamica, lui decide di aiutarla, lei di lasciarsi salvare, seppure a modo suo. Ma vero anche il contrario: lui abbandona a poco a poco la sua codardia, si tuffa in sciocchezze da adolescente con la consapevolezza degli adulti e si lascia andare alla spensieratezza dei lunghi giri in bicicletta nella città addormentata, dei piccoli furti e delle notti passate a ballare. Po lentamente si risveglia.
Andrea Scarabelli racconta della sua città, cinque anni dopo il suo esordio da scrittore, della Milano attuale dove non basta il privilegio di essere “nato dalla parte giusta del mondo”, ma dove bisogna sempre rincorrere qualcosa, guadagnarsela, spesso senza sapere cosa sia questo qualcosa.
Un libro che si legge bene, scritto con l’urgenza di una generazione insoddisfatta e immobile, la nostra, che si rianima per merito di un’adolescente troppo matura per la sua età, che ritrova la velocità, l’energia. Due generazioni a confronto, o meglio il futuro che si scontra con quello che è stato il suo passato, domandandosi come mai la vita abbia portato mutamenti così sostanziali.
di Martina FabbriFino a che gli precipita addosso Carlotta “Lotta” con i suoi quindici anni, con la sua combattività inarrestabile. Una ragazzina introversa, che non piace ai suoi coetanei, scappata di casa, decisa a vincere una guerra contro il mostro delle banche, che ha ridotto la sua famiglia in pezzi, che gli deve una qualche forma di riscatto per la spensieratezza infantile che le è stata privata.
Lui statico, lei dinamica, lui decide di aiutarla, lei di lasciarsi salvare, seppure a modo suo. Ma vero anche il contrario: lui abbandona a poco a poco la sua codardia, si tuffa in sciocchezze da adolescente con la consapevolezza degli adulti e si lascia andare alla spensieratezza dei lunghi giri in bicicletta nella città addormentata, dei piccoli furti e delle notti passate a ballare. Po lentamente si risveglia.
Andrea Scarabelli racconta della sua città, cinque anni dopo il suo esordio da scrittore, della Milano attuale dove non basta il privilegio di essere “nato dalla parte giusta del mondo”, ma dove bisogna sempre rincorrere qualcosa, guadagnarsela, spesso senza sapere cosa sia questo qualcosa.
Un libro che si legge bene, scritto con l’urgenza di una generazione insoddisfatta e immobile, la nostra, che si rianima per merito di un’adolescente troppo matura per la sua età, che ritrova la velocità, l’energia. Due generazioni a confronto, o meglio il futuro che si scontra con quello che è stato il suo passato, domandandosi come mai la vita abbia portato mutamenti così sostanziali.
Il Sole 24Ore, 2 febbraio 2014 Precariato di lotta
Andrea Scarabelli, trentenne milanese, cerca con La velocità di lotta di dare altra sostanza alle decine di copertine dei settimanali dedicate al precariato, di andare la profondità, oltre il cerchio dei talk politici col giovane che si alza in piedi con le mani su una balconata - finta, da studio televisivo - e racconta la sua storia di smarrimento quotidiano fra università e lavoro. L’epidemia non accenna a placarsi, ogni giorno un indice socio economico scava un baratro più profondo; isolati, senza rappresentanza, a parte qualche sito web che ne raccoglie umori e storie così vivono ormai milioni di giovani e meno giovani nel tardo capitalismo smarrito.
La storia di Scarabelli coinvolge quasi tre generazioni, a dimostrazione dell’enorme durata di questo tempo grigio: c’è Diego, un trentenne che fa il copywriter: «Intercetto brandelli di tendenze linguistiche e costume, li organizzo secondo i segmenti di mercato», lavora m un’agenzia pubblicitaria che è solo un pallido ricordo dei fasti di decenni fa che ne faceva il luogo per antonomasia di creativi ricchi e viziati, ora sono tutti impauriti che il contratto non venga rinnovato, mentre il turnover degli stagisti è continuo. Diego, in una sera uguale a tante altre, mentre pensa di essere una delle menti migliori della sua generazione («e questo è del tutto inutile»), incontra una quindicenne, Carlotta detta Lotta, che è fuggita di casa da qualche giorno. La famiglia di Carlotta è andata in frantumi non da molto, i genitori entrambi bancari sono stati licenziati, poi litigi, separazione e nuovi fatiscenti rapporti.
Questo il campo di battaglia, peraltro già noto, tra Milano e hinterland, fra i già resti dell’Expo. Presto l’alternarsi delle voci di Diego e Carlotta costruisce un dialogo tra chi a trent’anni si sente già fallito e chi non sa dove rivolgere l’adolescenziale binomio di rabbia e gioia insieme, entrambi feriti per amore mai cauterizzato trovano nell’altro un aiuto insperato, una molla per provare a far girare le cose in un altro modo. Questa Zazie milanese per una email inviata da Diego a una televisione locale diventa presto un boccone per Tg e giornali: ora è caccia a lei e alla banca cattiva che ha prodotto alla fine del domino la sua fuga, insomma un’altra storia per riempire per qualche giorno palinsesti e pagine e poi dimenticare?
di Michele De MieriLa storia di Scarabelli coinvolge quasi tre generazioni, a dimostrazione dell’enorme durata di questo tempo grigio: c’è Diego, un trentenne che fa il copywriter: «Intercetto brandelli di tendenze linguistiche e costume, li organizzo secondo i segmenti di mercato», lavora m un’agenzia pubblicitaria che è solo un pallido ricordo dei fasti di decenni fa che ne faceva il luogo per antonomasia di creativi ricchi e viziati, ora sono tutti impauriti che il contratto non venga rinnovato, mentre il turnover degli stagisti è continuo. Diego, in una sera uguale a tante altre, mentre pensa di essere una delle menti migliori della sua generazione («e questo è del tutto inutile»), incontra una quindicenne, Carlotta detta Lotta, che è fuggita di casa da qualche giorno. La famiglia di Carlotta è andata in frantumi non da molto, i genitori entrambi bancari sono stati licenziati, poi litigi, separazione e nuovi fatiscenti rapporti.
Questo il campo di battaglia, peraltro già noto, tra Milano e hinterland, fra i già resti dell’Expo. Presto l’alternarsi delle voci di Diego e Carlotta costruisce un dialogo tra chi a trent’anni si sente già fallito e chi non sa dove rivolgere l’adolescenziale binomio di rabbia e gioia insieme, entrambi feriti per amore mai cauterizzato trovano nell’altro un aiuto insperato, una molla per provare a far girare le cose in un altro modo. Questa Zazie milanese per una email inviata da Diego a una televisione locale diventa presto un boccone per Tg e giornali: ora è caccia a lei e alla banca cattiva che ha prodotto alla fine del domino la sua fuga, insomma un’altra storia per riempire per qualche giorno palinsesti e pagine e poi dimenticare?
rubric.it, 15 ottobre 2013 Odio i Libri, ovvero 5 antipasti di lettura da digerire in 7 giorni
Gira ormai da qualche mese il primo romanzo di Andrea Scarabelli, La velocità di Lotta. La storia ruota attorno a Diego, ragazzo di talento a secco di creatività, e Lotta, adolescente cleptomane, tanti colori in testa, ribelle, incazzata col mondo. Diego e Lotta sono agli antipodi: lui non sa più dove ha smarrito la sua vita, lei di vita, dentro, ne ha troppa, ma non sa dove lasciarla sfogare. Attorno c’è la periferia, quella che soffoca di inerzia, e poi gli uffici a schiera, le banche, le carceri, il rullo compressore delle agenzie di stampa. Prendete questo libro e mandatelo giù d’un sorso: fatelo senza chiedervi cosa state bevendo, come avete fatto già tante altre volte e poi non ve ne siete pentiti.
di Rocco BellantoneRadio Capodistria, 23 settembre 2013 La velocità di lotta di Andrea Scarabelli
Nasce da un lavoro certosino, durato quasi cinque anni, il romanzo di Andrea Scarabelli, che, in contrasto al lungo periodo si stesura , porta un titolo che richiama immediatezza e dinamicità. La velocità di lotta è un libro che vuole essere letto rapidamente, proprio come la sua storia che accade in fretta, in pochi giorni, tra la periferia Milanese e il nucleo della città lombarda. Al centro i due protagonisti: Diego, un copywriter trentenne, lavoratore precario, una delle menti migliori della sua generazione, che viene sopraffatto però da un’apatia e da una depressione immobilizzanti,; e Carlotta, o Lotta, una quindicenne combattiva, come il suo soprannome, che fa fronte ai problemi famigliari causati dal lavoro dei genitori, creando un mondo tutto suo, vissuto con forza ed energia adolescenziali, nella velocità di un eterno presente. L’incontro tra queste due forze contrastanti crea equilibrio: dà una scossa all’inerte mondo di Diego e indirizza l’energia prorompente di Lotta. Il libro, giocosamente sintetizzato dall’autore, in perfetto stile Twitter, con la frase: “il lavoro fa male”, non vuole offrire grandi soluzioni ai problemi che attanagliano la società contemporanea, ma mira piuttosto a far capire l’importanza di mettere in discussione una realtà percepita come opprimente.
“Il problema sostenzialmente è che sono in tanti, tantissimi, a essere in difficoltà per via di pochi, pochissimimi”, afferma l’autore, “e pensare che questa situazione sia qualcosa di immutabile; mentre è fondamentale – questo dice il libro, al di là degli scherzi – provare a cambiare. Il libro non dice come, perché è una storia, ma dice che vale la pena di provare partendo, magari, dalla propria piccola storia personale. Poi si può provare a cambiare anche qualcosa di più grande”.È stato presentato ieri sera presso la sala di lettura Fulvio Tomizza della Biblioteca Civica Srecko Vilhar, il primo romanzo del Milanese Andrea Scarabelli dal titolo La velocità di lotta, pubblicato dalla casa editrice indipendente Agenzia X.
di Corinne Brenko“Il problema sostenzialmente è che sono in tanti, tantissimi, a essere in difficoltà per via di pochi, pochissimimi”, afferma l’autore, “e pensare che questa situazione sia qualcosa di immutabile; mentre è fondamentale – questo dice il libro, al di là degli scherzi – provare a cambiare. Il libro non dice come, perché è una storia, ma dice che vale la pena di provare partendo, magari, dalla propria piccola storia personale. Poi si può provare a cambiare anche qualcosa di più grande”.È stato presentato ieri sera presso la sala di lettura Fulvio Tomizza della Biblioteca Civica Srecko Vilhar, il primo romanzo del Milanese Andrea Scarabelli dal titolo La velocità di lotta, pubblicato dalla casa editrice indipendente Agenzia X.
L’espresso, 6 settembre 2013 Giovani in fuga
Forse invece che La velocità di lotta questo bel romanzo di Andrea Scarabelli avrebbe potuto intitolarsi La velocità di fuga. C’è un trentenne, Diego, copy ovvero un creativo, ambizioso e simpatico, impiegato in una agenzia milanese, poi Lotta, abbreviazione di Carlotta, ragazzina ribelle e controcorrente, quindi Marianna, redattrice di una televisione, la meno tratteggiata dei tre. Un triangolo che non è amoroso, ma di lotta, prima, e poi di fuga.
Lotta scappa di casa attratta da Ivan, malavitoso, piccolo teppista con il cuore grande, che la ama riamato. Lotta ha quindici anni. La quarta di copertina suggerisce che è una Zazie nel metrò, non parigino, bensì milanese; in realtà Lotta non ha l’innocenza disordinatrice del personaggio di Queneau, e neppure il romanzo di Scarabelli è sorretto da un impianto filosofico o da un gioco linguistico come quello dello scrittore francese.
La lingua del giovane autore milanese (classe 1983) è piana, pulita, paratattica, modellata sul parlato contemporaneo, non un fuoco d’artificio di giochi di parole. Prevale la rifinitura lessicale sull’esplosione della lingua. Del resto, il suo progetto letterario è probabilmente quello di scattare una fotografia del nostro presente, del mondo visto all’altezza di un trentenne e una quindicenne.
Il romanzo gioca su due piani raccontando la storia con le voci di Diego e Lotta che si alternano, e le vicende si sviluppano con un’accelerazione progressiva, sino a diventare quasi un movimento frenetico nelle ultime pagine. Che ritratto della giovinezza dà Scarabelli? Quello di un fallimento a metà, di una speranza a metà, di una soluzione a metà.
Ogni personaggio è eroso da una nevrosi di non appartenenza e di alienazione. Questo romanzo è uno dei documenti più interessanti della perdizione e dello smarrimento giovanile attuale. Un vortice che si avvolge frenetico su stesso e scompare.
di Marco BelpolitiLotta scappa di casa attratta da Ivan, malavitoso, piccolo teppista con il cuore grande, che la ama riamato. Lotta ha quindici anni. La quarta di copertina suggerisce che è una Zazie nel metrò, non parigino, bensì milanese; in realtà Lotta non ha l’innocenza disordinatrice del personaggio di Queneau, e neppure il romanzo di Scarabelli è sorretto da un impianto filosofico o da un gioco linguistico come quello dello scrittore francese.
La lingua del giovane autore milanese (classe 1983) è piana, pulita, paratattica, modellata sul parlato contemporaneo, non un fuoco d’artificio di giochi di parole. Prevale la rifinitura lessicale sull’esplosione della lingua. Del resto, il suo progetto letterario è probabilmente quello di scattare una fotografia del nostro presente, del mondo visto all’altezza di un trentenne e una quindicenne.
Il romanzo gioca su due piani raccontando la storia con le voci di Diego e Lotta che si alternano, e le vicende si sviluppano con un’accelerazione progressiva, sino a diventare quasi un movimento frenetico nelle ultime pagine. Che ritratto della giovinezza dà Scarabelli? Quello di un fallimento a metà, di una speranza a metà, di una soluzione a metà.
Ogni personaggio è eroso da una nevrosi di non appartenenza e di alienazione. Questo romanzo è uno dei documenti più interessanti della perdizione e dello smarrimento giovanile attuale. Un vortice che si avvolge frenetico su stesso e scompare.
www.finzionimagazine.it, 30 luglio 2013 Andrea Scarabelli | La velocità di lotta
Devo essere sincero: non avevo molta voglia di leggere un libro sulla crisi. La crisi, francamente, ha rotto il cazzo. Il senso di colpa generato dalla crisi ha strarotto il cazzo. Tutte le crisi.
Il libro di Andrea Scarabelli (al brillante esordio come romanziere per Agenzia X), veloce, ben scritto, tremendamente attuale, le percorre una ad una: quella generica e diffusa, ormai ascrivibile alla normalità economica, quella interiore, quella familiare, quella dei trentenni esauriti.
Cronaca da tg come tante (la storia di Carlotta, personaggio ribelle nell’accezione più classica) che va ad incastrarsi con la confusione generazionale di Diego (ma anche di Marianna e Ilario), immerso nell’inferno di una Milano che, fuori dalla finzione, ha in canna sempre meno cartucce (non serve esporre ulteriormente la trama, il fulcro è altrove).
E il pensiero torna alle più temute: burn out, sindrome da fatica cronica.
Queste, insieme al panico che attanaglia la buona parte dei miei colleghi, sono le Meduse del nostro tempo: basta guardarle in volto per trasformarsi in pietra. L’inerzia è il contrappasso dell’ipercinesi creativa in cui ci dibattiamo. Del bombardamento di input nervosi. Dell’accorciarsi della distanza che intercorre tra azione e reazione.
È interessante notare come il gergo medico recuperi la parola fatica in modo creativo: da sempre associata a un eccessivo sforzo fisico, viene trasportata fino alla riva semantica opposta.
Siamo seduti tutto il giorno. Se non troviamo posto sui mezzi pubblici, ci sembra di sostenere uno sforzo immane. Per alcuni resiste il rito della partita di calcetto, ma occasionale e spesso rimandato. Non hai idea di cosa mi è successo. Scusa, sono incasinato. È un periodo che non ho tempo neanche per respirare. Persone di cui si potrebbe scrivere la biografia in una riga e mezza, che si dicono sempre impegnate.
Ecco, è più o meno tutto qui il peso specifico del libro: trae la sua forza da una calibrata e perfettamente mirata analisi della realtà – in cui ci si ritrova disorientati come il protagonista – ma, allo stesso tempo, scopre i suoi limiti temporali: tra cent’anni, quando qualcuno leggerà questo libro, come potrà credere che un semplice furto da H&M il sabato pomeriggio possa rappresentare una così evidente dichiarazione di libertà?
Forse, La velocità di lotta, non è altro che un libro di storia scritto in anticipo. E questo fa paura.
di Stefano FantiIl libro di Andrea Scarabelli (al brillante esordio come romanziere per Agenzia X), veloce, ben scritto, tremendamente attuale, le percorre una ad una: quella generica e diffusa, ormai ascrivibile alla normalità economica, quella interiore, quella familiare, quella dei trentenni esauriti.
Cronaca da tg come tante (la storia di Carlotta, personaggio ribelle nell’accezione più classica) che va ad incastrarsi con la confusione generazionale di Diego (ma anche di Marianna e Ilario), immerso nell’inferno di una Milano che, fuori dalla finzione, ha in canna sempre meno cartucce (non serve esporre ulteriormente la trama, il fulcro è altrove).
E il pensiero torna alle più temute: burn out, sindrome da fatica cronica.
Queste, insieme al panico che attanaglia la buona parte dei miei colleghi, sono le Meduse del nostro tempo: basta guardarle in volto per trasformarsi in pietra. L’inerzia è il contrappasso dell’ipercinesi creativa in cui ci dibattiamo. Del bombardamento di input nervosi. Dell’accorciarsi della distanza che intercorre tra azione e reazione.
È interessante notare come il gergo medico recuperi la parola fatica in modo creativo: da sempre associata a un eccessivo sforzo fisico, viene trasportata fino alla riva semantica opposta.
Siamo seduti tutto il giorno. Se non troviamo posto sui mezzi pubblici, ci sembra di sostenere uno sforzo immane. Per alcuni resiste il rito della partita di calcetto, ma occasionale e spesso rimandato. Non hai idea di cosa mi è successo. Scusa, sono incasinato. È un periodo che non ho tempo neanche per respirare. Persone di cui si potrebbe scrivere la biografia in una riga e mezza, che si dicono sempre impegnate.
Ecco, è più o meno tutto qui il peso specifico del libro: trae la sua forza da una calibrata e perfettamente mirata analisi della realtà – in cui ci si ritrova disorientati come il protagonista – ma, allo stesso tempo, scopre i suoi limiti temporali: tra cent’anni, quando qualcuno leggerà questo libro, come potrà credere che un semplice furto da H&M il sabato pomeriggio possa rappresentare una così evidente dichiarazione di libertà?
Forse, La velocità di lotta, non è altro che un libro di storia scritto in anticipo. E questo fa paura.
Blow up, luglio 2013 Romanzetto canaglia
Ci è capitato un cielo basso, diciamo la verità. I soldi sono finiti da un pezzo e le braci della rivoluzione hanno smesso di fumare. Diego, pubblicitario di talento nella giungla di Milano, è uno di noi. Nervi scoperti, occhiaie riempite a carboncino, toppe sull’anima. A trent’anni ha capito che quella promessa di un futuro in realtà era un truffa, che la regola di questa vita è arrancare. Una stanchezza viscerale gli impedisce da tempo di allungare gli occhi sull’orizzonte, il piombo che ha nelle gambe gli ha fatto dimenticare come si corre. Una notte incontra Carlotta, detta Lotta. I suoi capelli fluorescenti, i muscoli magri, la sua velocità. La sua famiglia a pezzi, l’adolescenza maledetta, i lapidi rivolta che ha ancora negli occhi. E lui invece no. Insieme romperanno bicchieri e ruberanno da H&M, sibileranno rabbia dalle guglie del Duomo e andranno in bicicletta sulle rotte dei tram, faranno picnic su ponti interrotti e balleranno valzer in cantieri deserti. Proveranno a figurarsi un presente diverso, a sfregare le comuni cicatrici per far esplodere un po’ di sovversione. Con una lingua ansimante, affamata di battaglia come di lieto fine, Andrea Scarabelli ci racconta la loro storia – che è un po’ anche la nostra. La storia di una generazione di figli dai lividi bellissimi, cinici come adulti abortiti e insieme radicali come adolescenti troppo maturi, condannati a meritarsi anche le briciole da genitori che si sono presi tutto (per poi perderlo malamente), in attesa perenne, in cima ale cattedrali, che arrivi il vento ad alimentare le fiamme.
«Guarda il Guarda il cielo. È fatto di plastica, mi dice. No, Lotta, non è plastica, è veleno, vorrei rispondere. Mi trattengo. In fondo è l’unico che abbiamo. Le chiedo perché ha voluto portarmi qui. Non potevamo parlarne a cena? Volevo fartelo vedere dall’alto. Il nostro campo di battaglia. Ah, quindi siamo in guerra? Mi guarda come se la risposta fosse ovvia. Queste ringhiere non servono a impedirci di cadere. No? E a che servono? Sono barricate.»
di Flavia Vadrucci«Guarda il Guarda il cielo. È fatto di plastica, mi dice. No, Lotta, non è plastica, è veleno, vorrei rispondere. Mi trattengo. In fondo è l’unico che abbiamo. Le chiedo perché ha voluto portarmi qui. Non potevamo parlarne a cena? Volevo fartelo vedere dall’alto. Il nostro campo di battaglia. Ah, quindi siamo in guerra? Mi guarda come se la risposta fosse ovvia. Queste ringhiere non servono a impedirci di cadere. No? E a che servono? Sono barricate.»
http://www.carmillaonline.com, 26 giugno 2013 La dis-integrazione di Lotta
C’è Diego, creativo pubblicitario in un’agenzia di primo, anzi “primissimo piano” – “Siamo le matite colorate del capitale. Produciamo idee” –, sottoposto ai ritmi di lavoro dettati dai committenti e dalla direzione dell’agenzia, “normopagato” eppure pettinato a denti sempre più stretti dalla spada di Damocle della precarietà, della riduzione di personale prossima ventura, è la crisi bellezza, e dunque accelerare i ritmi, intensificare la produzione, ridurre i tempi:
«Siamo creativi. Siamo frenetici. Palpebre che sbattono di continuo, dita che martellano i tasti, una grandinata di click del mouse. Sedie spostate, fruscio di fogli, parole e risate. Interni che trillano e cellulari vibranti, distributori automatici di caffè e cibo posticcio. Il rumore del cucchiaino che cade dalla pancia della macchina nel bicchiere di plastica. Gustati la tua bevanda al sapore di latte. Il crepitio della schiacciatina che atterra. I pugni sulla macchina quando la brioche s’incastra e non vuole farsi mangiare. Ogni suono intessuto nella filodiffusione.
Tutto questo è falso».
C’è Marianna, lavoratrice dell’informazione in una piccola emittente televisiva “indipendente” – “YourTv, la televisione fatta dagli utenti. Dai giovani. Senza finzioni” –, una progressiva serie di piccoli compromessi, di bugie raccontate a se stessa prima che agli altri, prima che a Diego, la cui relazione viene bruciata sulla strada di una carriera sempre un passo avanti rispetto all’oggi, stritolata negli ingranaggi di ritmi infernali che mordono la sua vita, i suoi rapporti familiari e personali:
«Marianna riceveva ottimi feedback, firmava clausole d’esclusiva. Alcune tra le colleghe restavano a casa, non più rinnovate. Marianna stava male. Stavano tutte male. Si sfogava con me e se ne pentiva, perché coglievo l’occasione per sottolineare quanto i suoi capi fossero degli infami. Lei li difendeva senza averne alcuna voglia. Ci siamo lasciati poco dopo».
E c’è Carlotta, Lotta, una drop-out schizzata dalla tranquilla vita borghese di una famiglia doppio impiego in banca alla distruzione delle fondamenta di una vita “tranquilla” – un trasferimento, un licenziamento, la banca che sminuzza la sua famiglia e la sputa via, i bocconi rivomitati che si allontanano lasciandola nel mezzo, un’adolescenza che in tre anni brucia più esperienze di quante se ne potrebbero leggere in un rassicurante romanzo da premio letterario, tra l’amica Francesca che la introduce alle ordinarie deviazioni giovanili e Ivan, il pusher col motorino tenuto su con giri e giri di nastro da pacchi, l’apparente incarnazione del sogno romanticheggiante dell’angelo della trasgressione.
Come in un Teorema pasoliniano, Lotta s’incastra nella vita di Diego e nelle ambizioni giornalistiche, nel sogno da scoop di Marianna, con la sua storia di una ragazzina la cui vita è stata distrutta dalla Banca, in una Milano che potrebbe essere stata attraversata dal dopobomba. In tre costituiranno una piccola posse precaria, come in Piccoli affari sporchi, con un obiettivo minimale: vendicare quell’ingiustizia che è la vita di Lotta unendo quello che sanno fare – internet, facebook, twitter, l’evento Giorno di Lotta, l’hashtag #Lotta che è subito tra i più usati.
Cosa ci racconta questo esordio romanzesco di Andrea Scarabelli? Scritto ai margini – o forse, meglio: sui limiti – della condizione precaria contemporanea, in primo luogo questo La velocità di Lotta ci mostra la precarizzazione emotiva, sentimentale, esistenziale che quella gigantesca agenzia di produzione di precarietà che è il capitale finanziario del terzo millennio inocula nella nuda vita sussunta all’interno dei ritmi e dei tempi di produzione.
Un creativo, una giornalista, una studentessa: tre precari cognitivi, dunque. La composizione di uno spezzone della classe lavoratrice. Che espongono le stimmate di uno sfruttamento ancora più duro di quello “fordista”, dal quale la rivoluzione cognitiva avrebbe dovuto rappresentare l’affrancamento. I cognitari, i nerds non hanno costituito alcuna classe sociale egemone, né preso la testa di alcuna rivoluzione: si sono dimostrati, al contrario, i più docili esecutori del comando finanziario, i costruttori della rete di controllo e sfruttamento digitale.
È questo l’ambiente in cui si muovono Diego, Mariangela e Lotta.
È in narrazioni come questi che si tocca davvero con mano cos’è il biopotere, cosa sono gli apparati di sfruttamento e controllo contemporanei. Ma anche, l’irriducibilità della nuda vita al controllo, l’insopprimibilità della ribellione sotto le ceneri della finanziarizzazione.
Ma la ribellione inscenata è ribellione tutto sommato individuale, gesto forse estetico, che non intacca le strutture portanti del capitale, non altera né intacca le sue morfologie. Nondimeno, se qualcuno tradirà e qualcun altro si pentirà, altri ancora continueranno a confliggere, prenderanno le distanze dal ritorno all’ordine, cercheranno un proprio equilibrio di dis-integrazione. È questo il limite, il lato interno del margine che non viene oltrepassato: conosciamo i meccanismi di sfruttamento, deduciamo le modalità del comando dalle forme di resistenza che ad esso si oppongono; siamo in grado di descrivere gli stili e gli abiti della nuova borghesia finanziaria e digitale (Scarabelli ce ne mostra gli effetti, lasciandoci intuire lo sfondo). Ma sappiamo ancora troppo poco su come si organizza una rivolta, su come la frammentazione dei soggetti si può rovesciare in organizzazione: avessero Lotta e Diego bruciato la città e rovesciato il comando assaltando il palazzo dell’inverno del nostro scontento, dovremmo parlare – qui si, davvero – di gesto estetizzante, dannunziano, del narratore, che risolve nel romanzesco il rompicapo politico. Non è questo il compito del narratore, oggi: il suo compito è di seguire, intuire, anticipare, narrare le linee di resistenza, di dedurre dalle loro forme le strutture del comando. Di mostrare che la dis-integrazione è possibile.
La quarta di copertina propone il paragone con il primo Palahniuk e la Zazie nel metrò di Queneau. Io azzarderei, come lezione di uno stile di vita, l’Irvine Welsh delle coree edimburghesi e la ripresa di un discorso sulla ribellione emotiva e sul dis-adattamento che fu annunciata da Ti prendo e ti porto via, e poi poco a poco tradita dal suo autore. Scarabelli sembra avere l’ambizione di posizionarsi a questa altezza programmatica: collocarsi sulla linea d’ombra della ribellione esistenziale, delle sue derive, dei suoi incroci e incontri. Attrezzarsi per seguire la crescita delle piccole posse, intuendone le linee di fuga, ma anche i possibili buchi neri. Col complicarsi e moltiplicarsi degli incontri e delle rivolte dovrà forse complicare e moltiplicare i propri linguaggi: scommettiamo sulla sua capacità di farlo. Per il momento, benvenuto sulla scena narrativa italiana: un romanzo così, era atteso.
di Girolamo de Michele«Siamo creativi. Siamo frenetici. Palpebre che sbattono di continuo, dita che martellano i tasti, una grandinata di click del mouse. Sedie spostate, fruscio di fogli, parole e risate. Interni che trillano e cellulari vibranti, distributori automatici di caffè e cibo posticcio. Il rumore del cucchiaino che cade dalla pancia della macchina nel bicchiere di plastica. Gustati la tua bevanda al sapore di latte. Il crepitio della schiacciatina che atterra. I pugni sulla macchina quando la brioche s’incastra e non vuole farsi mangiare. Ogni suono intessuto nella filodiffusione.
Tutto questo è falso».
C’è Marianna, lavoratrice dell’informazione in una piccola emittente televisiva “indipendente” – “YourTv, la televisione fatta dagli utenti. Dai giovani. Senza finzioni” –, una progressiva serie di piccoli compromessi, di bugie raccontate a se stessa prima che agli altri, prima che a Diego, la cui relazione viene bruciata sulla strada di una carriera sempre un passo avanti rispetto all’oggi, stritolata negli ingranaggi di ritmi infernali che mordono la sua vita, i suoi rapporti familiari e personali:
«Marianna riceveva ottimi feedback, firmava clausole d’esclusiva. Alcune tra le colleghe restavano a casa, non più rinnovate. Marianna stava male. Stavano tutte male. Si sfogava con me e se ne pentiva, perché coglievo l’occasione per sottolineare quanto i suoi capi fossero degli infami. Lei li difendeva senza averne alcuna voglia. Ci siamo lasciati poco dopo».
E c’è Carlotta, Lotta, una drop-out schizzata dalla tranquilla vita borghese di una famiglia doppio impiego in banca alla distruzione delle fondamenta di una vita “tranquilla” – un trasferimento, un licenziamento, la banca che sminuzza la sua famiglia e la sputa via, i bocconi rivomitati che si allontanano lasciandola nel mezzo, un’adolescenza che in tre anni brucia più esperienze di quante se ne potrebbero leggere in un rassicurante romanzo da premio letterario, tra l’amica Francesca che la introduce alle ordinarie deviazioni giovanili e Ivan, il pusher col motorino tenuto su con giri e giri di nastro da pacchi, l’apparente incarnazione del sogno romanticheggiante dell’angelo della trasgressione.
Come in un Teorema pasoliniano, Lotta s’incastra nella vita di Diego e nelle ambizioni giornalistiche, nel sogno da scoop di Marianna, con la sua storia di una ragazzina la cui vita è stata distrutta dalla Banca, in una Milano che potrebbe essere stata attraversata dal dopobomba. In tre costituiranno una piccola posse precaria, come in Piccoli affari sporchi, con un obiettivo minimale: vendicare quell’ingiustizia che è la vita di Lotta unendo quello che sanno fare – internet, facebook, twitter, l’evento Giorno di Lotta, l’hashtag #Lotta che è subito tra i più usati.
Cosa ci racconta questo esordio romanzesco di Andrea Scarabelli? Scritto ai margini – o forse, meglio: sui limiti – della condizione precaria contemporanea, in primo luogo questo La velocità di Lotta ci mostra la precarizzazione emotiva, sentimentale, esistenziale che quella gigantesca agenzia di produzione di precarietà che è il capitale finanziario del terzo millennio inocula nella nuda vita sussunta all’interno dei ritmi e dei tempi di produzione.
Un creativo, una giornalista, una studentessa: tre precari cognitivi, dunque. La composizione di uno spezzone della classe lavoratrice. Che espongono le stimmate di uno sfruttamento ancora più duro di quello “fordista”, dal quale la rivoluzione cognitiva avrebbe dovuto rappresentare l’affrancamento. I cognitari, i nerds non hanno costituito alcuna classe sociale egemone, né preso la testa di alcuna rivoluzione: si sono dimostrati, al contrario, i più docili esecutori del comando finanziario, i costruttori della rete di controllo e sfruttamento digitale.
È questo l’ambiente in cui si muovono Diego, Mariangela e Lotta.
È in narrazioni come questi che si tocca davvero con mano cos’è il biopotere, cosa sono gli apparati di sfruttamento e controllo contemporanei. Ma anche, l’irriducibilità della nuda vita al controllo, l’insopprimibilità della ribellione sotto le ceneri della finanziarizzazione.
Ma la ribellione inscenata è ribellione tutto sommato individuale, gesto forse estetico, che non intacca le strutture portanti del capitale, non altera né intacca le sue morfologie. Nondimeno, se qualcuno tradirà e qualcun altro si pentirà, altri ancora continueranno a confliggere, prenderanno le distanze dal ritorno all’ordine, cercheranno un proprio equilibrio di dis-integrazione. È questo il limite, il lato interno del margine che non viene oltrepassato: conosciamo i meccanismi di sfruttamento, deduciamo le modalità del comando dalle forme di resistenza che ad esso si oppongono; siamo in grado di descrivere gli stili e gli abiti della nuova borghesia finanziaria e digitale (Scarabelli ce ne mostra gli effetti, lasciandoci intuire lo sfondo). Ma sappiamo ancora troppo poco su come si organizza una rivolta, su come la frammentazione dei soggetti si può rovesciare in organizzazione: avessero Lotta e Diego bruciato la città e rovesciato il comando assaltando il palazzo dell’inverno del nostro scontento, dovremmo parlare – qui si, davvero – di gesto estetizzante, dannunziano, del narratore, che risolve nel romanzesco il rompicapo politico. Non è questo il compito del narratore, oggi: il suo compito è di seguire, intuire, anticipare, narrare le linee di resistenza, di dedurre dalle loro forme le strutture del comando. Di mostrare che la dis-integrazione è possibile.
La quarta di copertina propone il paragone con il primo Palahniuk e la Zazie nel metrò di Queneau. Io azzarderei, come lezione di uno stile di vita, l’Irvine Welsh delle coree edimburghesi e la ripresa di un discorso sulla ribellione emotiva e sul dis-adattamento che fu annunciata da Ti prendo e ti porto via, e poi poco a poco tradita dal suo autore. Scarabelli sembra avere l’ambizione di posizionarsi a questa altezza programmatica: collocarsi sulla linea d’ombra della ribellione esistenziale, delle sue derive, dei suoi incroci e incontri. Attrezzarsi per seguire la crescita delle piccole posse, intuendone le linee di fuga, ma anche i possibili buchi neri. Col complicarsi e moltiplicarsi degli incontri e delle rivolte dovrà forse complicare e moltiplicare i propri linguaggi: scommettiamo sulla sua capacità di farlo. Per il momento, benvenuto sulla scena narrativa italiana: un romanzo così, era atteso.
www.marieclaire.it, 14 giugno 2013 La guerra dei trent’anni
Intervista ad Andrea Scarabelli: quando la velocità ha 15 anni e la lingua cresce sui nervi.Sedersi davanti a un piatto di spätzle in un primo giorno d'estate: scelta azzardata, o forse perfetta. Ci vuole una buona base nello stomaco per tenere il ritmo del romanzo di Andrea Scarabelli, La velocità di Lotta, un libro che si legge "finché il giorno si secca e cade". Ho visto Andrea digitare questo romanzo in modo deciso, in una casa semivuota a Prenzlauerberg nel 2009, e la stessa posa la ritrovo mentre appoggia la forchetta e mette in risalto una sua cifra stilista e fisica: fasci di nervi, sul collo e sulle braccia. «Il libro non parla di una crisi che passerà e porterà a dove eravamo prima. Carlotta e Diego si incontrano per sbaglio, mentre stanno vivendo due disperazione diverse. Diego è in attesa di qualcosa che non arriverà mai. Carlotta non si aspetta nulla: è pura azione». Per quanto il titolo sia un urlo e anticipi perfettamente i fasci di nervi dell'autore, la storia di Diego che passa dal badge rosso tutte le mattine al nulla apatico e di Carlotta dai mille nomi, fuggita di casa installatasi a casa di Diego che la rende un caso mediatico e prodotto della crisi attuale, è scritta con una minuzia molto, molto, veemente.
«Il titolo è un'illusione alla velocità, e il fatto che ci abbia impiegato cinque anni a scriverlo ne è un segno. È stato fatto un lavoro certosino, di ricerca linguistica prima ed editing poi». Una storia nella storia è infatti quella delle due voci che si susseguono in questo libro che potrebbe avere contorni fin troppo politicizzati e, invece, è solo un grande ritratto di due persone che si annusano. «Scrivere con le idee e la lingua di Diego è stato più facile, anche se ti prego non parliamo di alter ego, alla fine per quanto ci sia sempre e dico, sempre, qualcosa di autobiografico, devo dire che Diego lo odio. - sorride Scarabelli - mentre la voce di Lotta è stata più ardua da trovare: volevo tradurre in pagina il carico di radioattività che hanno gli adolescenti, giusto o sbagliato che sia». Operazione pienamente riuscita quella di comunicare come una 15enne di provincia "radioattiva". Come si scrive, sulla soglia dei trent’anni, con il linguaggio di Lotta? «Ho letto molti blog di adolescenti, ho conosciuto un paio di ragazze pirotecniche, senza per questo cadere nella letteratura da adolescenti, che detesto».
Dopo un incontro fortuito, Diego e Carlotta iniziano a vivere insieme, cercando entrambi di riflettere uno sull'altro uno scopo di vita. Così finisce che Diego faccia di Lotta un personaggio da dare in pasto alla stampa che ricama su di lei un caso da Chi l'ha visto e giornalismo d'inchiesta generazionale. «Diego ha un Mac, Carlotta ha un corpo. C'è una tensione sessuale che non sboccia mai, lei da lui pretende una visione, lui da lei raccoglie energia pura». Andrea Scarabelli è un giornalista («le recensioni sono troppo brevi, e con tutto il galateo del caso») con un passato nell'editoria di nicchia (Agenzia X) e di bestseller (Sperling&Kupfer), perché, allora uscire con un romanzo in un (ennesimo) annus horribilis per l'editoria? «La crisi delle librerie c'è, certo (Andrea insieme ad altri autori di Agenzia X ha appena tenuto un reading durato 24 ore) ora ci sono i discount dei libri, la gente acquista solo quello che conosce e Amazon è arrivato a consigliare meglio di un commesso di Feltrinelli».
Scarabelli beve il caffé senza quella fretta che muove la testa rosso verminio di Carlotta, il lancio del suo romanzo è totalmente organizzato da lui, a budget zero, tra booktrailer (realizzato da Mattia Kollo e Davide Tantulli) presentazioni con soundtrack realizzate da amici (la prossima è il 20 giugno a Bologna con Simona Gretchen), «pubblicare vuol dire prendersi una responsabilità in un'Italia che esce con 700 libri al giorno. Dire "io pubblico" vuol dire dichiarare di avere qualcosa da dare, per questo un libro deve essere, letteralmente, esatto». Forse per questa esattezza voluta e ottenuta, rispetto a quell'estate berlinese del 2009, i nervi di Andrea Scarabelli sono più distesi.
di Manuela Ravasio«Il titolo è un'illusione alla velocità, e il fatto che ci abbia impiegato cinque anni a scriverlo ne è un segno. È stato fatto un lavoro certosino, di ricerca linguistica prima ed editing poi». Una storia nella storia è infatti quella delle due voci che si susseguono in questo libro che potrebbe avere contorni fin troppo politicizzati e, invece, è solo un grande ritratto di due persone che si annusano. «Scrivere con le idee e la lingua di Diego è stato più facile, anche se ti prego non parliamo di alter ego, alla fine per quanto ci sia sempre e dico, sempre, qualcosa di autobiografico, devo dire che Diego lo odio. - sorride Scarabelli - mentre la voce di Lotta è stata più ardua da trovare: volevo tradurre in pagina il carico di radioattività che hanno gli adolescenti, giusto o sbagliato che sia». Operazione pienamente riuscita quella di comunicare come una 15enne di provincia "radioattiva". Come si scrive, sulla soglia dei trent’anni, con il linguaggio di Lotta? «Ho letto molti blog di adolescenti, ho conosciuto un paio di ragazze pirotecniche, senza per questo cadere nella letteratura da adolescenti, che detesto».
Dopo un incontro fortuito, Diego e Carlotta iniziano a vivere insieme, cercando entrambi di riflettere uno sull'altro uno scopo di vita. Così finisce che Diego faccia di Lotta un personaggio da dare in pasto alla stampa che ricama su di lei un caso da Chi l'ha visto e giornalismo d'inchiesta generazionale. «Diego ha un Mac, Carlotta ha un corpo. C'è una tensione sessuale che non sboccia mai, lei da lui pretende una visione, lui da lei raccoglie energia pura». Andrea Scarabelli è un giornalista («le recensioni sono troppo brevi, e con tutto il galateo del caso») con un passato nell'editoria di nicchia (Agenzia X) e di bestseller (Sperling&Kupfer), perché, allora uscire con un romanzo in un (ennesimo) annus horribilis per l'editoria? «La crisi delle librerie c'è, certo (Andrea insieme ad altri autori di Agenzia X ha appena tenuto un reading durato 24 ore) ora ci sono i discount dei libri, la gente acquista solo quello che conosce e Amazon è arrivato a consigliare meglio di un commesso di Feltrinelli».
Scarabelli beve il caffé senza quella fretta che muove la testa rosso verminio di Carlotta, il lancio del suo romanzo è totalmente organizzato da lui, a budget zero, tra booktrailer (realizzato da Mattia Kollo e Davide Tantulli) presentazioni con soundtrack realizzate da amici (la prossima è il 20 giugno a Bologna con Simona Gretchen), «pubblicare vuol dire prendersi una responsabilità in un'Italia che esce con 700 libri al giorno. Dire "io pubblico" vuol dire dichiarare di avere qualcosa da dare, per questo un libro deve essere, letteralmente, esatto». Forse per questa esattezza voluta e ottenuta, rispetto a quell'estate berlinese del 2009, i nervi di Andrea Scarabelli sono più distesi.
Radio onda d'urto, 27 maggio 2013 La velocità di lotta
“Il tritacarne della creatività a rinnovo semestrale sta macinando le ultime scorte del talento di Diego, un trentenne che non vuole cadere nel baratro ma non sa come evitarlo. Lotta, un’adolescente cleptomane dai capelli multicolore, in fuga dal disastroso mondo degli adulti, è il fulmine d’incoscienza ribelle che squarcia le nuvole nere dell’inerzia. Lotta deve capire contro chi dirigere la sua imprevedibile carica di energia. Diego ha bisogno di una scintilla per riprendersi la vita”. Lotta e Diego sono i personaggi principali di La velocità di lotta di Andrea Scarabelli.
Ascolta l'intervista qui
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www.milanox.eu, 21 maggio 2013 La velocità di lotta
Bella prova del giovane Scarabelli che questa volta ci offre un romanzo metropolitano ambientato a Milano e suburbia.
La velocità di lotta narra dell’incontro tra le due generazioni vittime della crisi: un melanconico copywriter trentenne in crisi esistenziale e una quindicenne in bufera ormonale e famigliare.
Scorre liscio, si legge con piacere, si divora nel giro di 24 ore.
Sono sicuro che piacerà soprattutto alle ragazze e alle giovani donne per quel suo lato “rosa” e femminile/ista.
di Pablito el DritoLa velocità di lotta narra dell’incontro tra le due generazioni vittime della crisi: un melanconico copywriter trentenne in crisi esistenziale e una quindicenne in bufera ormonale e famigliare.
Scorre liscio, si legge con piacere, si divora nel giro di 24 ore.
Sono sicuro che piacerà soprattutto alle ragazze e alle giovani donne per quel suo lato “rosa” e femminile/ista.
www.mangialibri.com, 13 maggio 2013 La velocità di lotta
Voto: 3 su 3
Diego ora ha paura che la decisione di dare confidenza alla sua ospite sia stata una mossa avventata. Fatale l’incontro con questa ragazzina sperduta di nome Lotta, che ha la metà dei suoi anni, solo quindici, ed una vita scorbutica e nervosa alle spalle. Ed allora al diavolo tutto, compreso il suo alienante lavoro in una apatica agenzia pubblicitaria, lavoro in cui rende il massimo con il minimo sforzo, ma con una grande perdita di tempo, senza passione e con tanta indolenza. E al diavolo le sue paure ataviche di farsi vedere in giro con una bimba scappata di casa, figlia dei tempi di crisi che tutti stanno vivendo. E - pur essendo consapevole di scivolare verso un baratro con folle leggerezza - Diego dà in pasto ai mass media la bomba rappresentata dalle confessioni della sua nuova poco innocente coinquilina, meno che minorenne ma con un passato quantomeno movimentato. E non si ferma. Fa in modo che Lotta si metta in comunicazione con la sua compianta ex ragazza Marianna, giornalista rampante e rapace. Per farsi scoprire, per cadere nel vuoto. Sono dunque entrambi in fuga. Perché Lotta è stata travolta assieme ai genitori dalla crisi mondiale che ha spezzato le certezze economiche ed i vincoli di sentimento e rispetto fino a incancrenire e distruggere i rapporti. Dal dissidio fra madre e padre la ragazza è uscita ribelle ed anticonvenzionale. Tutto lo dimostra, dalle trovate con la sua amica Francesca volte a reclamare attenzione sino all'amore per Ivan, classico frutto marcio della periferia suburbana che da sempre regala solo casi marginali, emarginati e disperati. Intanto ora lui è in carcere per spaccio e lei ha solo deciso di mollare una casa che di casalingo e familiare non ha nulla. Sullo sfondo una Milano più asfittica e algida che mai, con rapporti vacui, cinismo diffuso, cyborg dall'aspetto umano divorati dalla fretta comune che non permette soste, profondità, spessore ma solo una rincorsa tanto vana quanto letale verso dove, verso quando non si sa. Ma Diego sa che prima o poi la sua scelta, la sua caduta troverà il fondo. I motivi, i perché non ci sono. O forse sono talmente tanti ed evidenti che pare inutile dirseli…
Amaro, suburbano, cinico e corrosivo, con uno stile livido, fatto di cortocircuiti emotivi-razionali, questo romanzo di Andrea Scarabelli, milanese del 1983, non al suo esordio e comunque attivo in campo editoriale e letterario, si cala perfettamente nella attuale realtà contemporanea. E la varietà dei temi trattati, compresa la invereconda e famelica voracità dei mass media, capaci di braccare un caso, divorarlo e passarlo già digerito a un’audience sempre più passiva. Una struttura che non risulta vischiosa ed ammorbante ma coinvolgente. La storia di un perdente che non vuole assolutamente vincere o cercare riscatto, ma definire la sconfitta, farne una bandiera perché è la sconfitta di tutti e poi quindi perdersi e disperdere, con folle e lucida consapevolezza. Tramite un espediente: l'energia scottante e scattante di una quindicenne che vuole tutto perché finora davvero ha avuto poco più di niente, ha solo perso quello che si era trovata, senza cercarlo o volerlo, né perdere né averlo. Forse qualche passaggio a vuoto e qualche inutile ridondanza, ma nel complesso un’opera che convince davvero.
di Paolo PappatàDiego ora ha paura che la decisione di dare confidenza alla sua ospite sia stata una mossa avventata. Fatale l’incontro con questa ragazzina sperduta di nome Lotta, che ha la metà dei suoi anni, solo quindici, ed una vita scorbutica e nervosa alle spalle. Ed allora al diavolo tutto, compreso il suo alienante lavoro in una apatica agenzia pubblicitaria, lavoro in cui rende il massimo con il minimo sforzo, ma con una grande perdita di tempo, senza passione e con tanta indolenza. E al diavolo le sue paure ataviche di farsi vedere in giro con una bimba scappata di casa, figlia dei tempi di crisi che tutti stanno vivendo. E - pur essendo consapevole di scivolare verso un baratro con folle leggerezza - Diego dà in pasto ai mass media la bomba rappresentata dalle confessioni della sua nuova poco innocente coinquilina, meno che minorenne ma con un passato quantomeno movimentato. E non si ferma. Fa in modo che Lotta si metta in comunicazione con la sua compianta ex ragazza Marianna, giornalista rampante e rapace. Per farsi scoprire, per cadere nel vuoto. Sono dunque entrambi in fuga. Perché Lotta è stata travolta assieme ai genitori dalla crisi mondiale che ha spezzato le certezze economiche ed i vincoli di sentimento e rispetto fino a incancrenire e distruggere i rapporti. Dal dissidio fra madre e padre la ragazza è uscita ribelle ed anticonvenzionale. Tutto lo dimostra, dalle trovate con la sua amica Francesca volte a reclamare attenzione sino all'amore per Ivan, classico frutto marcio della periferia suburbana che da sempre regala solo casi marginali, emarginati e disperati. Intanto ora lui è in carcere per spaccio e lei ha solo deciso di mollare una casa che di casalingo e familiare non ha nulla. Sullo sfondo una Milano più asfittica e algida che mai, con rapporti vacui, cinismo diffuso, cyborg dall'aspetto umano divorati dalla fretta comune che non permette soste, profondità, spessore ma solo una rincorsa tanto vana quanto letale verso dove, verso quando non si sa. Ma Diego sa che prima o poi la sua scelta, la sua caduta troverà il fondo. I motivi, i perché non ci sono. O forse sono talmente tanti ed evidenti che pare inutile dirseli…
Amaro, suburbano, cinico e corrosivo, con uno stile livido, fatto di cortocircuiti emotivi-razionali, questo romanzo di Andrea Scarabelli, milanese del 1983, non al suo esordio e comunque attivo in campo editoriale e letterario, si cala perfettamente nella attuale realtà contemporanea. E la varietà dei temi trattati, compresa la invereconda e famelica voracità dei mass media, capaci di braccare un caso, divorarlo e passarlo già digerito a un’audience sempre più passiva. Una struttura che non risulta vischiosa ed ammorbante ma coinvolgente. La storia di un perdente che non vuole assolutamente vincere o cercare riscatto, ma definire la sconfitta, farne una bandiera perché è la sconfitta di tutti e poi quindi perdersi e disperdere, con folle e lucida consapevolezza. Tramite un espediente: l'energia scottante e scattante di una quindicenne che vuole tutto perché finora davvero ha avuto poco più di niente, ha solo perso quello che si era trovata, senza cercarlo o volerlo, né perdere né averlo. Forse qualche passaggio a vuoto e qualche inutile ridondanza, ma nel complesso un’opera che convince davvero.
il manifesto, 11 maggio 2013 Le due generazioni del precariato
Andrea Scarabelli, classe 1983. Siamo una generazione educata. Una generazione resistente ma pigra alla lotta. Una generazione brava a sopportare, a cui non piace troppo alzare la voce. Quando non può farne a meno si rifugia nei cortili igienici dell'ansia e del panico. Siamo la generazione capace di raccontare bene gli individui, mediocremente le coppie, mai le masse. Massa, popolo, sono parole incartate bene da tirare fuori nei giorni prestabiliti per manifestare. Le manifestazioni appaiono e scompaiono in tempi scanditi come le feste di compleanno. Poi c'è un'altra generazione. Con loro abbiamo in comune gli autobus soprattutto la mattina e a ora di pranzo, pochi bar, a volte i cinema. Di solito ci ignoriamo, perché per noi loro sono piccoli e per loro noi siamo vecchi, sono gli unici a darci del «lei», e allora preferiamo ignorarli e continuare a farci chiamare «ragazzi» da quelli più vecchi di noi.
Tra i primi e i secondi, quindici anni di vita. Una distanza inutile per qualsiasi legame familiare. Una distanza piena di pudore per qualsiasi altra idea di rapporto. La velocità di lotta di Andrea Scarabelli (Agenzia X, 192 pagine, 12 euro) parla di queste due generazioni. Poi parla di precariato, il più strisciante, quello che qualche politico con la vecchiaia assicurata ha ribattezzato «cognitariato»: il precariato dei creativi, il precariato basato sui sogni. Quei sogni germinati a quindici anni, le fantasie che i genitori chiamano «cazzate». Siamo la prima generazione ad avere massificato le professioni nate dai sogni.
Diego fa il copy in un'agenzia pubblicitaria. È lui che deve stimolare l'immaginario della gente per spingerla a comprare. Qualsiasi cosa gli venga proposta. Era il suo sogno scrivere. A trent'anni la sua gabbia dorata non è niente male: ha una casa in cohousing, si veste come gli pare (anzi, una certa finta sciatteria è gradita al suo capo), conosce tutti gli Arci più di moda e i centri sociali più movimentati di Milano. Sa che finché ci saranno sigarette e caffè ci sarà speranza. Sa anche che dal primo anno di Università ad oggi non è cambiato niente. Dentro, questo pensiero lo tarla. Ma impara a restare più immobile possibile per non sentire dolore.
Finché non conosce la quindicenne Lotta, sintesi di Carlotta e di uno strascico di nomi troppo inutili, capaci solo di rallentarla. Per questo lei li ha lasciati tutti a casa ed è scappata a Milano. Lotta lo salva dall'ennesimo discorso inutile alla fine di una serata inutile, lo toglie dalle grinfie di un ragazzo invasato dall'ipnosi come salvezza, «ha i lineamenti funzionali di un identikit al telegiornale, quel volto intercambiabile che trasforma ogni mio sforzo di prendere parte alla movida in una partita a Indovina chi». Diego chiude gli occhi, e quando li riapre vede che accanto a lui c'è una ragazzina che si ripara, appunto una di quelle che guardi due minuti nel tram, che non frequenterebbe mai i tuoi posti.
Lotta è naïve come si può essere solo a scuola, quando ancora credere a tutto è vitale. Quando ancora non credere a niente sembra solo stupida rassegnazione da vecchi.
Lotta è scappata dalla fine di un sogno, quello dei suoi genitori. Che grazie a un lavoro qualunque, soldi buoni in cambio della fantasia, si sono innamorati. I genitori di Lotta i sogni li hanno messi in banca invece di sperperarli in idee bislacche, ma neanche quello è servito. Fine della banca, fine del lavoro, fine di tutto. Sono così presi a litigare che si dimenticano di lei. Allora Lotta inizia a vivere, a modo suo. Si allontana sempre un po' di più, fino ad arrivare sotto la giacca di Diego. Dalla provincia a Milano.
Diego diventa il copy di entrambi, riesce a riconvertire ancora una volta la maledizione di avere idee, questa volta in qualcosa di buono. Riesce a intessere i fili fino a fare di Lotta un caso mediatico, l'unica arma efficace del XXI secolo, e una scintilla di quella rivoluzione di cui ha sempre sentito parlare, da quelli più grandi, ma che non è mai riuscito a fare. Aiuta il destino a fargli incontrare di nuovo anche Marianna, l'unica che abbia amato, persa piano piano nel gioco a rialzo dei sogni in cambio di soldi. Lei lavora per la televisione, sarà lei la leva per fare di Lotta una bomba pronta a esplodere nelle coscienze di tutti. Lotta si infila a casa sua, e Diego si sveglia. Ruba una bicicletta, mangia con le gambe a penzoloni sul nulla all'Expo in costruzione, ruba i vestiti da H&M. È Lotta che detta le regole, ma, appunto, quella di Diego è una generazione ubbidiente. Però i suggerimenti sono i suoi, e allora ecco che disegnando uno scoop perfetto, Diego arriva, nello stesso giorno, a liberarsi del suo lavoro e a portare l'hashtag #giornodilotta tra i trend topics di Twitter, a fare di Lotta una leva di speranza, di rivolta, addirittura di massa.
Non è frequente leggere romanzi in cui non si parli ossessivamente di rapporti e di nevrosi personali. Corre, si ferma, cammina, ti aspetta. Forse è questo il motivo per cui non provi quella sgradevole sensazione che provi quando sei costretto ad ascoltare un conoscente in fissa con l'ipnosi, o a leggere il romanzo che tutti stanno leggendo, e a chiederti in nome di cosa si stanno prendendo il tuo tempo, la tua vita. Le parole, certo, sono importanti. Quelle giuste, messe insieme e offerte al momento giusto, possono indurre Rivoluzione. Andrea Scarabelli ci prova. Vediamo chi accetta la scommessa.
di Chiara Di DomenicoTra i primi e i secondi, quindici anni di vita. Una distanza inutile per qualsiasi legame familiare. Una distanza piena di pudore per qualsiasi altra idea di rapporto. La velocità di lotta di Andrea Scarabelli (Agenzia X, 192 pagine, 12 euro) parla di queste due generazioni. Poi parla di precariato, il più strisciante, quello che qualche politico con la vecchiaia assicurata ha ribattezzato «cognitariato»: il precariato dei creativi, il precariato basato sui sogni. Quei sogni germinati a quindici anni, le fantasie che i genitori chiamano «cazzate». Siamo la prima generazione ad avere massificato le professioni nate dai sogni.
Diego fa il copy in un'agenzia pubblicitaria. È lui che deve stimolare l'immaginario della gente per spingerla a comprare. Qualsiasi cosa gli venga proposta. Era il suo sogno scrivere. A trent'anni la sua gabbia dorata non è niente male: ha una casa in cohousing, si veste come gli pare (anzi, una certa finta sciatteria è gradita al suo capo), conosce tutti gli Arci più di moda e i centri sociali più movimentati di Milano. Sa che finché ci saranno sigarette e caffè ci sarà speranza. Sa anche che dal primo anno di Università ad oggi non è cambiato niente. Dentro, questo pensiero lo tarla. Ma impara a restare più immobile possibile per non sentire dolore.
Finché non conosce la quindicenne Lotta, sintesi di Carlotta e di uno strascico di nomi troppo inutili, capaci solo di rallentarla. Per questo lei li ha lasciati tutti a casa ed è scappata a Milano. Lotta lo salva dall'ennesimo discorso inutile alla fine di una serata inutile, lo toglie dalle grinfie di un ragazzo invasato dall'ipnosi come salvezza, «ha i lineamenti funzionali di un identikit al telegiornale, quel volto intercambiabile che trasforma ogni mio sforzo di prendere parte alla movida in una partita a Indovina chi». Diego chiude gli occhi, e quando li riapre vede che accanto a lui c'è una ragazzina che si ripara, appunto una di quelle che guardi due minuti nel tram, che non frequenterebbe mai i tuoi posti.
Lotta è naïve come si può essere solo a scuola, quando ancora credere a tutto è vitale. Quando ancora non credere a niente sembra solo stupida rassegnazione da vecchi.
Lotta è scappata dalla fine di un sogno, quello dei suoi genitori. Che grazie a un lavoro qualunque, soldi buoni in cambio della fantasia, si sono innamorati. I genitori di Lotta i sogni li hanno messi in banca invece di sperperarli in idee bislacche, ma neanche quello è servito. Fine della banca, fine del lavoro, fine di tutto. Sono così presi a litigare che si dimenticano di lei. Allora Lotta inizia a vivere, a modo suo. Si allontana sempre un po' di più, fino ad arrivare sotto la giacca di Diego. Dalla provincia a Milano.
Diego diventa il copy di entrambi, riesce a riconvertire ancora una volta la maledizione di avere idee, questa volta in qualcosa di buono. Riesce a intessere i fili fino a fare di Lotta un caso mediatico, l'unica arma efficace del XXI secolo, e una scintilla di quella rivoluzione di cui ha sempre sentito parlare, da quelli più grandi, ma che non è mai riuscito a fare. Aiuta il destino a fargli incontrare di nuovo anche Marianna, l'unica che abbia amato, persa piano piano nel gioco a rialzo dei sogni in cambio di soldi. Lei lavora per la televisione, sarà lei la leva per fare di Lotta una bomba pronta a esplodere nelle coscienze di tutti. Lotta si infila a casa sua, e Diego si sveglia. Ruba una bicicletta, mangia con le gambe a penzoloni sul nulla all'Expo in costruzione, ruba i vestiti da H&M. È Lotta che detta le regole, ma, appunto, quella di Diego è una generazione ubbidiente. Però i suggerimenti sono i suoi, e allora ecco che disegnando uno scoop perfetto, Diego arriva, nello stesso giorno, a liberarsi del suo lavoro e a portare l'hashtag #giornodilotta tra i trend topics di Twitter, a fare di Lotta una leva di speranza, di rivolta, addirittura di massa.
Non è frequente leggere romanzi in cui non si parli ossessivamente di rapporti e di nevrosi personali. Corre, si ferma, cammina, ti aspetta. Forse è questo il motivo per cui non provi quella sgradevole sensazione che provi quando sei costretto ad ascoltare un conoscente in fissa con l'ipnosi, o a leggere il romanzo che tutti stanno leggendo, e a chiederti in nome di cosa si stanno prendendo il tuo tempo, la tua vita. Le parole, certo, sono importanti. Quelle giuste, messe insieme e offerte al momento giusto, possono indurre Rivoluzione. Andrea Scarabelli ci prova. Vediamo chi accetta la scommessa.
www.vicolocannery.it, 10 maggio 2013 La velocità di lotta
(Brano tratto da La velocità di Lotta, primo romanzo di Andrea Scarabelli appena uscito per AgenziaX)Siamo le matite colorate del capitale.
Siamo pubblicitari. Creativi. Produciamo idee.
Siamo persone belle e interessanti. Tutti.
Giancarlo fa sculture con i mobili che trova per strada, sottraendoli alla nettezza urbana.
Clara segue corsi di cromoterapia. Parla inglese, francese, spagnolo e sta studiando il giapponese.
Aureliano ama i concerti. Li segue di città in città, solo se si poga. Ha una divisa: ginocchiere, gomitiere, cavigliere, conchiglia, paradenti, guantini. Va sotto il palco e inizia a saltare più in alto che può.
Ines è una stagista diciannovenne, cura un blog, è una cool hunter, dipinge. Ha un fidanzato in Argentina e d’estate fa l’istruttrice di windsurf.
Luigi sta per essere licenziato. Quarantaquattro anni, due figli che vede nei weekend, alimenti a carico, niente moglie.
Guido è il webmaster di un forum di Travian, un videogioco. Si veste solo di nero, ed è l’unico a usare uno zainetto invece che una borsa a tracolla. È un fumettista mancato.
Livia viene in ufficio con una bici su cui ha appeso una targa No oil e va sempre alla Critical Mass.
Miguel, un tatuaggio triangolare per avambraccio, si è innamorato di una milanese e si è trasferito qui dalla Spagna. Lavora come grafico, ma partecipa anche a grosse iniziative di street art.
Io sono Diego e questa mattina ho i nervi a pezzi. Ho fatto una cazzata. Ma adesso non ci voglio pensare.Il pubblicitario cocainomane non esiste più, è un’immagine anni ottanta: la pubblicità progresso ha avuto maggior effetto sui creativi che sul pubblico. Nel nostro ambiente sono più frequenti le nevrosi. Chi colleziona horror, chi si specializza nel modellismo. C’è la necessità di coltivare interessi sempre più esclusivi e feticisti al di fuori dell’orario d’ufficio. Per ogni ossessione ci sono i sottogeneri, come nel porno.
Le fobie più diffuse sono quelle legate alla non reperibilità: un mio amico è stato quasi lasciato dalla ragazza perché lei temeva avesse staccato il telefono per tradirla; un altro invocava la rivoluzione globale se Gmail non avesse ripristinato il servizio in meno di due ore.
Il web, certo. Siamo multitasking: nessuno ha soltanto la finestra del lavoro aperta. Bisogna tenersi aggiornati, portare avanti bocconi virtuali di vita sociale, su Facebook, Twitter o Tumblr; always on, sempre connessi, pronti a farsi aiutare dagli amici, il pubblico potenziale. Le cavie.
Interagiamo in rete, non parliamo quasi mai: chattiamo, scriviamo le mail mettendo i colleghi in copia. Se proprio non possiamo farne a meno ci telefoniamo sul numero interno, invece di alzarci dalla sedia. I successi vengono sminuiti, gli errori strombazzati per punire. Ogni cosa subisce di continuo il giudizio collettivo, anche l’ironia.
Abbiamo tasti collegati alla filodiffusione: battuta scadente uguale jingle moscio, calante, a spegnersi; battuta buona colpo di charleston.
Se qualcuno ti cerca al telefono e non sei in postazione, il tuo nome viene scandito dagli altoparlanti come al supermercato, e devi correre a rispondere anche se sei al cesso.
Tutto è visibile a tutti, come in un acquario.In ufficio si gira in monopattino, si possono ascoltare a pieno volume Broken Social Scene, Animal Collective, Bon Iver e Flying Lotus, in questa esatta sequenza. Non sembra neanche di lavorare, a volte.
Invece lavoriamo. Tanto. Finché non diventiamo inutilizzabili, finché non finiamo in terapia. Non è vero che siamo belli. Non siamo interessanti. Arranchiamo. Non facciamo i soldi, è una bugia; il settore è saturo, in Italia più che mai, e gli stipendi sono bassissimi. Il fatturato che porto da solo alla mia agenzia dovrebbe garantirmi il triplo del compenso attuale.
Non sono neanche un lavoratore facilmente sostituibile: sembra semplice scrivere una headline che funzioni, ma in realtà bisogna avere delle conoscenze sconfinate.
Il mio primo capo, quando avevo ventidue anni, mi ha preso da parte e ha chiesto se avessi sofferto.
Non capivo.
Non pensare di poter scrivere un claim decente senza avere sofferto, mi ha spiegato.
Conoscevo le regole del gioco. La grammatica uno schiocco di dita, la sintassi un riflesso condizionato. Iscritto al forum dell’Accademia della Crusca, consultavo l’Urban Dictionary, ero un wikisurfer, avevo centinaia di bookmarks, ridevo dei troll che facevano wipeout. È servito a qualcosa?
A relegarmi in una scrivania d’angolo. A scrivere su un portatile di terza mano, insultato da un account che ha l’alito che puzza di mentine e caffè.
Ho sofferto.
Non basta.
A trent’anni sono più svantaggiato di quando ho iniziato.
Perché? Cosa ho sbagliato?
Non ha funzionato, solo questo.
Siamo pubblicitari. Creativi. Produciamo idee.
Siamo persone belle e interessanti. Tutti.
Giancarlo fa sculture con i mobili che trova per strada, sottraendoli alla nettezza urbana.
Clara segue corsi di cromoterapia. Parla inglese, francese, spagnolo e sta studiando il giapponese.
Aureliano ama i concerti. Li segue di città in città, solo se si poga. Ha una divisa: ginocchiere, gomitiere, cavigliere, conchiglia, paradenti, guantini. Va sotto il palco e inizia a saltare più in alto che può.
Ines è una stagista diciannovenne, cura un blog, è una cool hunter, dipinge. Ha un fidanzato in Argentina e d’estate fa l’istruttrice di windsurf.
Luigi sta per essere licenziato. Quarantaquattro anni, due figli che vede nei weekend, alimenti a carico, niente moglie.
Guido è il webmaster di un forum di Travian, un videogioco. Si veste solo di nero, ed è l’unico a usare uno zainetto invece che una borsa a tracolla. È un fumettista mancato.
Livia viene in ufficio con una bici su cui ha appeso una targa No oil e va sempre alla Critical Mass.
Miguel, un tatuaggio triangolare per avambraccio, si è innamorato di una milanese e si è trasferito qui dalla Spagna. Lavora come grafico, ma partecipa anche a grosse iniziative di street art.
Io sono Diego e questa mattina ho i nervi a pezzi. Ho fatto una cazzata. Ma adesso non ci voglio pensare.Il pubblicitario cocainomane non esiste più, è un’immagine anni ottanta: la pubblicità progresso ha avuto maggior effetto sui creativi che sul pubblico. Nel nostro ambiente sono più frequenti le nevrosi. Chi colleziona horror, chi si specializza nel modellismo. C’è la necessità di coltivare interessi sempre più esclusivi e feticisti al di fuori dell’orario d’ufficio. Per ogni ossessione ci sono i sottogeneri, come nel porno.
Le fobie più diffuse sono quelle legate alla non reperibilità: un mio amico è stato quasi lasciato dalla ragazza perché lei temeva avesse staccato il telefono per tradirla; un altro invocava la rivoluzione globale se Gmail non avesse ripristinato il servizio in meno di due ore.
Il web, certo. Siamo multitasking: nessuno ha soltanto la finestra del lavoro aperta. Bisogna tenersi aggiornati, portare avanti bocconi virtuali di vita sociale, su Facebook, Twitter o Tumblr; always on, sempre connessi, pronti a farsi aiutare dagli amici, il pubblico potenziale. Le cavie.
Interagiamo in rete, non parliamo quasi mai: chattiamo, scriviamo le mail mettendo i colleghi in copia. Se proprio non possiamo farne a meno ci telefoniamo sul numero interno, invece di alzarci dalla sedia. I successi vengono sminuiti, gli errori strombazzati per punire. Ogni cosa subisce di continuo il giudizio collettivo, anche l’ironia.
Abbiamo tasti collegati alla filodiffusione: battuta scadente uguale jingle moscio, calante, a spegnersi; battuta buona colpo di charleston.
Se qualcuno ti cerca al telefono e non sei in postazione, il tuo nome viene scandito dagli altoparlanti come al supermercato, e devi correre a rispondere anche se sei al cesso.
Tutto è visibile a tutti, come in un acquario.In ufficio si gira in monopattino, si possono ascoltare a pieno volume Broken Social Scene, Animal Collective, Bon Iver e Flying Lotus, in questa esatta sequenza. Non sembra neanche di lavorare, a volte.
Invece lavoriamo. Tanto. Finché non diventiamo inutilizzabili, finché non finiamo in terapia. Non è vero che siamo belli. Non siamo interessanti. Arranchiamo. Non facciamo i soldi, è una bugia; il settore è saturo, in Italia più che mai, e gli stipendi sono bassissimi. Il fatturato che porto da solo alla mia agenzia dovrebbe garantirmi il triplo del compenso attuale.
Non sono neanche un lavoratore facilmente sostituibile: sembra semplice scrivere una headline che funzioni, ma in realtà bisogna avere delle conoscenze sconfinate.
Il mio primo capo, quando avevo ventidue anni, mi ha preso da parte e ha chiesto se avessi sofferto.
Non capivo.
Non pensare di poter scrivere un claim decente senza avere sofferto, mi ha spiegato.
Conoscevo le regole del gioco. La grammatica uno schiocco di dita, la sintassi un riflesso condizionato. Iscritto al forum dell’Accademia della Crusca, consultavo l’Urban Dictionary, ero un wikisurfer, avevo centinaia di bookmarks, ridevo dei troll che facevano wipeout. È servito a qualcosa?
A relegarmi in una scrivania d’angolo. A scrivere su un portatile di terza mano, insultato da un account che ha l’alito che puzza di mentine e caffè.
Ho sofferto.
Non basta.
A trent’anni sono più svantaggiato di quando ho iniziato.
Perché? Cosa ho sbagliato?
Non ha funzionato, solo questo.
www.rollingstonemagazione.it, 9 maggio 2013 La velocità di lotta di Andrea Scarabelli. Ecco il booktrailer
L’intervista ad Andrea Scarabelli la trovate sul numero di "Rolling Stone" in edicola (per i pigri, pag. 35). Qui, invece, in esclusiva, ecco il video di presentazione del romanzo. Molto, molto interessante...
Quando vai in prima linea per un esordio letterario è perché, evidentemente, sei convinto che c’è qualcosa di più di un esordio. Anche se, attenzione, questo non è propriamente un esordio perché Andrea Scarabelli oltre a curare Suonare il paese prima che cada ha all’attivo mille altri progetti, come potete leggere questo mese nell’intervista di Rolling Stone. Ah, ancora non siete passati in edicola? #$&%#”!… può capitare, tranquilli.
Cos’è La velocità di lotta, romanzo pubblicato da Agenzia X e in libreria da ieri? Una storia, una storia degli anni ’00, con la poesia degli anni ’00, quella degli spettrali paesaggi urbani, scooter, fabbriche abbandonate, binari, attimi, smog, plastica, respiri, velocità, ribellione, ricordi… grano… amore… cioè tutti i moderni simboli della battaglia e della passione, quelli per restare (sembrare) vivi, in cui Lotta, la protagonista, raffigura l’odierno, l’immediato, senza passato e con il futuro assassinato, in guerra contro un nemico invisibile. Insieme a Diego, l’altro protagonista, disegnano l’implosione di ogni tipo di certezze ma anche la nuova anima della resistenza, più mentale e meno fisica. Fratelli, si resiste, anche con il fiume in piena, si galleggia, statici, mentre il mondo corre alla velocità della luce.
In anteprima vi mostriamo il booktrailer, il video è stato girato da Mattia Kollo, videomaker del collettivo Smoken, con le musiche di “Dr. Sospè” Tantulli, dei Disturbati dalla CUiete. Un ottimo biglietto da visita.
Se volete saperne di più, ecco alcune date delle presentazioni. Portate ad Andrea i nostri saluti:
09-05 Libreria Utopia, Milano, con Paolo Cognetti e Marco Philopat (alle 18.30)
10-05 Libreria Giufà, Roma, con Chiara Di Domenico e Tommaso De Lorenzis, più Giovanni Truppi showcase (alle 18.30)
12-05 Modo Infoshop, Bologna, con Emidio Clementi (alle 19)
14-05 Circolo dei lettori, Torino, con Silvio Bernelli e Giusi Marchetta (alle 21)
21-05 Kobo Shop, Udine, con Sara Pavan (alle 18)
22-05 Studio Container #5, Pordenone (largo San Giovanni 5), con Sara Pavan (alle 18.30)
23-05 Casa delle culture, Trieste, con Ricky Russo (alle 18.30)
24-05 C.S.O. Pedro, Padova, con Luigi Emilio Pischedda + reading musicato da Dr Sospè (alle 21)
25-05 Casa dei beni comuni, Treviso, con Francesco Targhetta + reading musicato con Sospè
27-05 Osteria letteraria Sottovento, Pavia (via Siro Comi 8), con Giulia Cavaliere (alle 18.30).
28-05 Biblioteca comunale, Arese, con gli allievi del corso di scrittura creativa di Maurizio Bianco (alle 21)
di Luca PakarovQuando vai in prima linea per un esordio letterario è perché, evidentemente, sei convinto che c’è qualcosa di più di un esordio. Anche se, attenzione, questo non è propriamente un esordio perché Andrea Scarabelli oltre a curare Suonare il paese prima che cada ha all’attivo mille altri progetti, come potete leggere questo mese nell’intervista di Rolling Stone. Ah, ancora non siete passati in edicola? #$&%#”!… può capitare, tranquilli.
Cos’è La velocità di lotta, romanzo pubblicato da Agenzia X e in libreria da ieri? Una storia, una storia degli anni ’00, con la poesia degli anni ’00, quella degli spettrali paesaggi urbani, scooter, fabbriche abbandonate, binari, attimi, smog, plastica, respiri, velocità, ribellione, ricordi… grano… amore… cioè tutti i moderni simboli della battaglia e della passione, quelli per restare (sembrare) vivi, in cui Lotta, la protagonista, raffigura l’odierno, l’immediato, senza passato e con il futuro assassinato, in guerra contro un nemico invisibile. Insieme a Diego, l’altro protagonista, disegnano l’implosione di ogni tipo di certezze ma anche la nuova anima della resistenza, più mentale e meno fisica. Fratelli, si resiste, anche con il fiume in piena, si galleggia, statici, mentre il mondo corre alla velocità della luce.
In anteprima vi mostriamo il booktrailer, il video è stato girato da Mattia Kollo, videomaker del collettivo Smoken, con le musiche di “Dr. Sospè” Tantulli, dei Disturbati dalla CUiete. Un ottimo biglietto da visita.
Se volete saperne di più, ecco alcune date delle presentazioni. Portate ad Andrea i nostri saluti:
09-05 Libreria Utopia, Milano, con Paolo Cognetti e Marco Philopat (alle 18.30)
10-05 Libreria Giufà, Roma, con Chiara Di Domenico e Tommaso De Lorenzis, più Giovanni Truppi showcase (alle 18.30)
12-05 Modo Infoshop, Bologna, con Emidio Clementi (alle 19)
14-05 Circolo dei lettori, Torino, con Silvio Bernelli e Giusi Marchetta (alle 21)
21-05 Kobo Shop, Udine, con Sara Pavan (alle 18)
22-05 Studio Container #5, Pordenone (largo San Giovanni 5), con Sara Pavan (alle 18.30)
23-05 Casa delle culture, Trieste, con Ricky Russo (alle 18.30)
24-05 C.S.O. Pedro, Padova, con Luigi Emilio Pischedda + reading musicato da Dr Sospè (alle 21)
25-05 Casa dei beni comuni, Treviso, con Francesco Targhetta + reading musicato con Sospè
27-05 Osteria letteraria Sottovento, Pavia (via Siro Comi 8), con Giulia Cavaliere (alle 18.30).
28-05 Biblioteca comunale, Arese, con gli allievi del corso di scrittura creativa di Maurizio Bianco (alle 21)
http://doppiozero.com, 8 maggio 2013 La velocità di lotta. Una recensione da dentro
Una recensione parla di un romanzo in terza persona, come farebbe un analista o un pubblico ministero. Supplisce all’impossibilità dell’accesso immediato al proprio oggetto con un’indagine che si spera scrupolosa, e da cui dipende la sua (teorica) obiettività. Una prefazione d’autore, al contrario, parla di un romanzo in prima persona, come farebbe un paziente o un imputato. Paga col sospetto di auto-indulgenza (la “soggettività”) il prezzo di un accesso privilegiato a ciò che del libro il libro stesso non rivela: il processo di ideazione e scrittura, le influenze, le allusioni.
Entrambe queste strade mi sono precluse, nel parlare de La velocità di lotta di Andrea Scarabelli, in uscita per Agenzia X. Per restare nella metafora, mi troverò a impersonare il testimone della difesa, o il vicino di casa che in un film di Woody Allen origliava le sedute nello studio dell’analista nel suo palazzo e finiva per innamorarsi di una paziente. Io questo rischio non lo corro, dato che del paziente sono già amico fraterno.
*
Ho conosciuto Andrea Scarabelli nel 2008, quando il suo primo libro era appena uscito e il mio stava per farlo. Abbiamo passato insieme quell’estate e le seguenti a scrivere cose – cose che sono diventate altre cose e cose che non sono diventate niente e cose che sono diventate, ad esempio, La velocità di lotta. Abbiamo progettato una fuga all’estero che non si è mai realmente concretizzata. Ci siamo letti e rincuorati e criticati ed editati reciprocamente. Tutto questo, forse, fa di me la persona che più avrebbe da dire sul suo nuovo romanzo, di cui ho seguito ogni passo di gestazione e scrittura; ma anche quella che ha più difficoltà a farlo, costretta a questa impossibile equidistanza fra la terza persona e la prima.
Eppure proprio questa posizione è particolarmente interessante – la possibilità di parlare di un processo di scrittura senza che sia il proprio, di raccontare da dentro un libro altrui. Da un certo punto di vista, è questa, forse, la recensione in seconda persona che avrei voluto fare. Anche se – grammatica per grammatica – più che la seconda persona ciò che la caratterizza è il punto di domanda.
*
Ad esempio: dove comincia, realmente, un romanzo? Da lettore de La velocità di lotta potrei indicare la prima scena. Un bar molto frequentato si avvia alla chiusura notturna, in una Milano piovosissima e paralizzata. C’è un ragazzo – ma no, è un ragazzo-uomo, un trentenne cui la precarietà vieta di chiamarsi uomo ma che, in misura crescente, si sente lontano da tutto ciò che farebbe di lui un ragazzo, da quella leggerezza sfiancante, senza centro – e in fondo questa difficoltà semantica riassume, in parte, il tema del libro – chiamiamolo Diego. Diego si ripara in strada sotto un balcone, evita le chiacchiere stralunate di uno sconosciuto, e vede una ragazzina scappata di casa (sì, a quindici anni Carlotta ragazzina lo è di certo) i cui capelli variopinti stingono sotto la pioggia. Poche ore e Carlotta dormirà sul suo divano; pochi giorni e inizierà Diego al furto con destrezza; poche settimane e sarà, con la regia di lui, al centro di uno scandalo mediatico di proporzioni nazionali.
Però de La velocità di lotta non sono solo un lettore, e quindi nella mia mente il libro inizia altrove, dall’immagine da cui è scaturito: una ragazzina (ancora senza nome) che fa boxe al tramonto, sospesa a decine di metri di altezza a picco su piazza Sempione, a Milano. Di fronte a lei, luccicanti per il crepuscolo e per i proiettori scenici e per l’inquinamento luminoso più invadente d’Italia, si presentano in infilata l’arco napoleonico e il castello sforzesco e il Duomo; più sotto, nella spianata, la folla radunata per un evento sportivo-pubblicitario ignora che lei è la stessa ragazzina di cui i giornali stanno cominciando a parlare (e a dire il vero, al concepimento di questa immagine, lo ignorava anche l’autore, forse intuendolo in parte). E lei lotta da sola: al contempo innalzata e fragile, autonoma e appesa, contro un nemico che potrebbe essere l’aria o una città intera o – secondo il rivelatorio nome inglese di questa pratica, shadowboxing – la sua stessa ombra, un’immagine di sé.
*
Di cosa parla La velocità di lotta, quindi, al di là dell’immagine di partenza? Simile all’impossibilità di identificare l’inizio del libro è quella di circoscriverne i temi. Siamo abituati, con una semplificazione in parte scolastica, in parte connaturata al nostro ordine mentale, a collegare a ogni romanzo un elenco più o meno generico di “cose di cui parla”. Nel caso del romanzo di Scarabelli, questo includerebbe la crisi economica e l’asfissia rabbiosa dell’adolescenza in provincia; la perdita dell’illusione di essere unici, legata all’ingresso nella vita d’ufficio dopo il parco giochi dell’università, e la sua successiva riscoperta, allo stesso tempo per caso e per necessità.
Eppure questa semplificazione tradisce e anzi ribalta il processo di scrittura: in cui il più delle volte il tema non è il punto di partenza ma di arrivo, qualcosa che ti appare come una scoperta mentre credevi di scrivere di tutt’altro. Hai delle “questioni” che ti appassionano, degli “argomenti” di cui vorresti parlare: ma quando provi a farlo con un romanzo ti trovi tutt’al più a muovere burattini su un fondale di cartapesta. E preso dalla frustrazione, o per ingannare il tempo fra una stesura e l’altra, ti scopri a inseguire e a coccolare un’immagine che ti ha colpito (come la ragazzina che fa boxe). Ti chiedi cosa significhi, ne ipotizzi le premesse e le conseguenze – finché a un certo punto ti rendi conto che quei fantasmi trovati per caso mettono in scena gli stessi temi che le tue marionette aggiravano vanamente senza riuscire a toccarli.
È questo, credo, che si intende fuori di metafora quando si dice che un personaggio “prende vita” nella scrittura: perché una storia affronti un argomento in modo non didascalico deve essere nata da un’esigenza diversa, e arrivata in quel punto quasi da sé, senza che chi la guidava avesse già in mente il tragitto. Un romanzo è qualcosa che ti scopri a scrivere mentre stavi scrivendo altro. (Sto esagerando, certo: ma non del tutto.)
*
Mi sembra di vedere una traccia di questo processo ne La velocità di lotta. La trama, all’inizio, è personale, intima: due persone incompatibili, in momenti diversi della loro vita (di cui sono, per ragioni dissimili, infelici) si incontrano e scoprono l’uno nell’altra qualcosa da imparare. La narrazione alterna le voci dei due, con una variazione stilistica notevole, mostrando come gradualmente Diego e Carlotta lasciano cadere le maschere, raccontano di sé – sfruttando appieno, fra l’altro, la possibilità di raccontare la stessa cosa da punti di vista non del tutto sovrapponibili. E il libro (come il suo “tema”) pare all’inizio confinarsi a questo: una storia intima di precarietà e di fuga dalla medesima, con un sottotraccia di lolitismo quasi mai affrontato esplicitamente ma suggerito al lettore tramite indizi tanto lampanti quanto in fondo travisabili. (E io leggevo le scene via via che nascevano e chiedevo ad Andrea, “ma alla fine scopano, vero?”, e non sapevo quale risposta mi stessi augurando.)
Ma questi temi pian piano si allargano, insieme all’orizzonte mentale dei protagonisti – inizialmente tanto schiacciati dai propri problemi da non essere in grado di vederne il legame con un contesto più ampio. La storia familiare di Carlotta è solidale a quella economica del nostro Paese; il fallimento amoroso e professionale di Diego scaturisce da certe storture del sistema mediatico e pubblicitario italiano. Un recensore ascriverebbe questa progressiva espansione di orizzonti al progetto narrativo dell’autore, per una sorta di rispondenza del romanzo ai suoi personaggi: il personale che, pagina dopo pagina, diventa politico. Ma nello scrivere tutto questo, me ne rendo conto, sto mescolando la mia esperienza di lettore a ciò che ho visto della nascita del libro, del suo progresso. E quindi, forse riduttivamente, io vi vedo anche la progressiva meraviglia di un inseguitore di immagini che pian piano, quasi senza volerlo, scopre la natura di ciò che stava inseguendo.
*
I romanzi, come le storie d’amore, acquistano una necessità retrospettiva che mette in dubbio il libero gioco di potenzialità dell’inizio. La prima pagina (il primo appuntamento) ti dà la sensazione che ognuna delle strade che ti si aprono di fronte sia egualmente percorribile; ma alla lunga questa sensazione si rivela illusoria, per quanto forse inevitabile. Alla fine di una relazione ci diciamo “se solo avessi saputo”, e questo ci sconforta; alla fine di un romanzo, che secondo Borges è la lenta preparazione di uno stupore, ci diciamo con sbalordimento che non potevamo sapere. Eppure in qualche modo era tutto già lì: e in questa contraddizione sta, in fondo, quello stupore.
A chi vede un romanzo crescere dall’interno questo stupore è precluso, o perlomeno ne conosce una versione diluita nelle possibilità. Le direzioni ipotizzate e abbandonate, le scene escluse dalla versione definitiva continuano a esistere; ciò che distingue il romanzo compiuto dalle sue versioni scartate non è una differenza di tipo ma di grado.
E quindi, dal lettore che non sono, chiuderei questa recensione de La velocità di lotta con un’osservazione proprio sulla necessità stringente della trama, sulla sua implacabilità. Da quel primo incontro fra Diego e Lotta gli eventi si snodano attraverso un ufficio reso ottuso dal bagliore dei neon e un centro sociale illuminato dai composti lisergici, gli schermi di una tv privata e le mura di un carcere minorile, con una velocità, la velocità di Lotta, che potrebbe essere tanto quella di un decollo quanto quella di uno schianto. Fino all’ultimo non è chiaro quale sarà, anche se dopo, certo, è evidente che non poteva andare altrimenti.
Ma dal punto da cui osservo questo libro – privilegiato e parziale allo stesso tempo – poteva andare altrimenti eccome; e quella velocità mi appare come una strana allucinazione prospettica, una proprietà inspiegabilmente emersa da anni di scrittura. E quindi, come chi a posteriori si meraviglia di una sequenza di coincidenze che l’hanno portato dove è adesso, non posso evitare di ripensare a quell’immagine di partenza, meravigliandomi – stavolta sì – di tutto ciò che ne è scaturito e di come, in qualche modo, vi fosse implicito. C’è una ragazzina che fa a pugni con l’aria, sospesa nel vuoto a parecchi metri d’altezza. Certo, non è chiaro dove andrà: ma si intuisce che non appena arrivata farà un gran casino.
di Vincenzo LatronicoEntrambe queste strade mi sono precluse, nel parlare de La velocità di lotta di Andrea Scarabelli, in uscita per Agenzia X. Per restare nella metafora, mi troverò a impersonare il testimone della difesa, o il vicino di casa che in un film di Woody Allen origliava le sedute nello studio dell’analista nel suo palazzo e finiva per innamorarsi di una paziente. Io questo rischio non lo corro, dato che del paziente sono già amico fraterno.
*
Ho conosciuto Andrea Scarabelli nel 2008, quando il suo primo libro era appena uscito e il mio stava per farlo. Abbiamo passato insieme quell’estate e le seguenti a scrivere cose – cose che sono diventate altre cose e cose che non sono diventate niente e cose che sono diventate, ad esempio, La velocità di lotta. Abbiamo progettato una fuga all’estero che non si è mai realmente concretizzata. Ci siamo letti e rincuorati e criticati ed editati reciprocamente. Tutto questo, forse, fa di me la persona che più avrebbe da dire sul suo nuovo romanzo, di cui ho seguito ogni passo di gestazione e scrittura; ma anche quella che ha più difficoltà a farlo, costretta a questa impossibile equidistanza fra la terza persona e la prima.
Eppure proprio questa posizione è particolarmente interessante – la possibilità di parlare di un processo di scrittura senza che sia il proprio, di raccontare da dentro un libro altrui. Da un certo punto di vista, è questa, forse, la recensione in seconda persona che avrei voluto fare. Anche se – grammatica per grammatica – più che la seconda persona ciò che la caratterizza è il punto di domanda.
*
Ad esempio: dove comincia, realmente, un romanzo? Da lettore de La velocità di lotta potrei indicare la prima scena. Un bar molto frequentato si avvia alla chiusura notturna, in una Milano piovosissima e paralizzata. C’è un ragazzo – ma no, è un ragazzo-uomo, un trentenne cui la precarietà vieta di chiamarsi uomo ma che, in misura crescente, si sente lontano da tutto ciò che farebbe di lui un ragazzo, da quella leggerezza sfiancante, senza centro – e in fondo questa difficoltà semantica riassume, in parte, il tema del libro – chiamiamolo Diego. Diego si ripara in strada sotto un balcone, evita le chiacchiere stralunate di uno sconosciuto, e vede una ragazzina scappata di casa (sì, a quindici anni Carlotta ragazzina lo è di certo) i cui capelli variopinti stingono sotto la pioggia. Poche ore e Carlotta dormirà sul suo divano; pochi giorni e inizierà Diego al furto con destrezza; poche settimane e sarà, con la regia di lui, al centro di uno scandalo mediatico di proporzioni nazionali.
Però de La velocità di lotta non sono solo un lettore, e quindi nella mia mente il libro inizia altrove, dall’immagine da cui è scaturito: una ragazzina (ancora senza nome) che fa boxe al tramonto, sospesa a decine di metri di altezza a picco su piazza Sempione, a Milano. Di fronte a lei, luccicanti per il crepuscolo e per i proiettori scenici e per l’inquinamento luminoso più invadente d’Italia, si presentano in infilata l’arco napoleonico e il castello sforzesco e il Duomo; più sotto, nella spianata, la folla radunata per un evento sportivo-pubblicitario ignora che lei è la stessa ragazzina di cui i giornali stanno cominciando a parlare (e a dire il vero, al concepimento di questa immagine, lo ignorava anche l’autore, forse intuendolo in parte). E lei lotta da sola: al contempo innalzata e fragile, autonoma e appesa, contro un nemico che potrebbe essere l’aria o una città intera o – secondo il rivelatorio nome inglese di questa pratica, shadowboxing – la sua stessa ombra, un’immagine di sé.
*
Di cosa parla La velocità di lotta, quindi, al di là dell’immagine di partenza? Simile all’impossibilità di identificare l’inizio del libro è quella di circoscriverne i temi. Siamo abituati, con una semplificazione in parte scolastica, in parte connaturata al nostro ordine mentale, a collegare a ogni romanzo un elenco più o meno generico di “cose di cui parla”. Nel caso del romanzo di Scarabelli, questo includerebbe la crisi economica e l’asfissia rabbiosa dell’adolescenza in provincia; la perdita dell’illusione di essere unici, legata all’ingresso nella vita d’ufficio dopo il parco giochi dell’università, e la sua successiva riscoperta, allo stesso tempo per caso e per necessità.
Eppure questa semplificazione tradisce e anzi ribalta il processo di scrittura: in cui il più delle volte il tema non è il punto di partenza ma di arrivo, qualcosa che ti appare come una scoperta mentre credevi di scrivere di tutt’altro. Hai delle “questioni” che ti appassionano, degli “argomenti” di cui vorresti parlare: ma quando provi a farlo con un romanzo ti trovi tutt’al più a muovere burattini su un fondale di cartapesta. E preso dalla frustrazione, o per ingannare il tempo fra una stesura e l’altra, ti scopri a inseguire e a coccolare un’immagine che ti ha colpito (come la ragazzina che fa boxe). Ti chiedi cosa significhi, ne ipotizzi le premesse e le conseguenze – finché a un certo punto ti rendi conto che quei fantasmi trovati per caso mettono in scena gli stessi temi che le tue marionette aggiravano vanamente senza riuscire a toccarli.
È questo, credo, che si intende fuori di metafora quando si dice che un personaggio “prende vita” nella scrittura: perché una storia affronti un argomento in modo non didascalico deve essere nata da un’esigenza diversa, e arrivata in quel punto quasi da sé, senza che chi la guidava avesse già in mente il tragitto. Un romanzo è qualcosa che ti scopri a scrivere mentre stavi scrivendo altro. (Sto esagerando, certo: ma non del tutto.)
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Mi sembra di vedere una traccia di questo processo ne La velocità di lotta. La trama, all’inizio, è personale, intima: due persone incompatibili, in momenti diversi della loro vita (di cui sono, per ragioni dissimili, infelici) si incontrano e scoprono l’uno nell’altra qualcosa da imparare. La narrazione alterna le voci dei due, con una variazione stilistica notevole, mostrando come gradualmente Diego e Carlotta lasciano cadere le maschere, raccontano di sé – sfruttando appieno, fra l’altro, la possibilità di raccontare la stessa cosa da punti di vista non del tutto sovrapponibili. E il libro (come il suo “tema”) pare all’inizio confinarsi a questo: una storia intima di precarietà e di fuga dalla medesima, con un sottotraccia di lolitismo quasi mai affrontato esplicitamente ma suggerito al lettore tramite indizi tanto lampanti quanto in fondo travisabili. (E io leggevo le scene via via che nascevano e chiedevo ad Andrea, “ma alla fine scopano, vero?”, e non sapevo quale risposta mi stessi augurando.)
Ma questi temi pian piano si allargano, insieme all’orizzonte mentale dei protagonisti – inizialmente tanto schiacciati dai propri problemi da non essere in grado di vederne il legame con un contesto più ampio. La storia familiare di Carlotta è solidale a quella economica del nostro Paese; il fallimento amoroso e professionale di Diego scaturisce da certe storture del sistema mediatico e pubblicitario italiano. Un recensore ascriverebbe questa progressiva espansione di orizzonti al progetto narrativo dell’autore, per una sorta di rispondenza del romanzo ai suoi personaggi: il personale che, pagina dopo pagina, diventa politico. Ma nello scrivere tutto questo, me ne rendo conto, sto mescolando la mia esperienza di lettore a ciò che ho visto della nascita del libro, del suo progresso. E quindi, forse riduttivamente, io vi vedo anche la progressiva meraviglia di un inseguitore di immagini che pian piano, quasi senza volerlo, scopre la natura di ciò che stava inseguendo.
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I romanzi, come le storie d’amore, acquistano una necessità retrospettiva che mette in dubbio il libero gioco di potenzialità dell’inizio. La prima pagina (il primo appuntamento) ti dà la sensazione che ognuna delle strade che ti si aprono di fronte sia egualmente percorribile; ma alla lunga questa sensazione si rivela illusoria, per quanto forse inevitabile. Alla fine di una relazione ci diciamo “se solo avessi saputo”, e questo ci sconforta; alla fine di un romanzo, che secondo Borges è la lenta preparazione di uno stupore, ci diciamo con sbalordimento che non potevamo sapere. Eppure in qualche modo era tutto già lì: e in questa contraddizione sta, in fondo, quello stupore.
A chi vede un romanzo crescere dall’interno questo stupore è precluso, o perlomeno ne conosce una versione diluita nelle possibilità. Le direzioni ipotizzate e abbandonate, le scene escluse dalla versione definitiva continuano a esistere; ciò che distingue il romanzo compiuto dalle sue versioni scartate non è una differenza di tipo ma di grado.
E quindi, dal lettore che non sono, chiuderei questa recensione de La velocità di lotta con un’osservazione proprio sulla necessità stringente della trama, sulla sua implacabilità. Da quel primo incontro fra Diego e Lotta gli eventi si snodano attraverso un ufficio reso ottuso dal bagliore dei neon e un centro sociale illuminato dai composti lisergici, gli schermi di una tv privata e le mura di un carcere minorile, con una velocità, la velocità di Lotta, che potrebbe essere tanto quella di un decollo quanto quella di uno schianto. Fino all’ultimo non è chiaro quale sarà, anche se dopo, certo, è evidente che non poteva andare altrimenti.
Ma dal punto da cui osservo questo libro – privilegiato e parziale allo stesso tempo – poteva andare altrimenti eccome; e quella velocità mi appare come una strana allucinazione prospettica, una proprietà inspiegabilmente emersa da anni di scrittura. E quindi, come chi a posteriori si meraviglia di una sequenza di coincidenze che l’hanno portato dove è adesso, non posso evitare di ripensare a quell’immagine di partenza, meravigliandomi – stavolta sì – di tutto ciò che ne è scaturito e di come, in qualche modo, vi fosse implicito. C’è una ragazzina che fa a pugni con l’aria, sospesa nel vuoto a parecchi metri d’altezza. Certo, non è chiaro dove andrà: ma si intuisce che non appena arrivata farà un gran casino.
Radio onda d'urto, 2 maggio 2013 Intervista e reading a Router
Andrea Scarabelli ospite di Router - pratiche culturali, politiche, creative nella città , parla de La velocità di lotta e legge due estratti. Ascolta lo streaming QUI
Rolling Stone, maggio 2013Lotta dura (con un po' di paura)
L'eroina del debutto di Andrea Scarabelli, La velocità di lotta, è una ragazzina combattiva e a modo suo punk. Che si muove su uno sfondo, assai attuale, di dolorosa assenza di futuro. Ha 30 anni, ma scrive da quando ne aveva 16. Lavora nell'editoria, ha pubblicato racconti e articoli, prodotto una docufiction sull'anoressia e curato un'antologia.
La velocità di lotta è la prima opera di narrativa pura di Andrea Scarabelli: «Credo che esordire sia una responsabilità, perché chiedi che la tua voce venga ascoltata e rivendichi di avere qualcosa di importante da dire. Pubblicare è un passo importante: da quel momento in poi ciò che hai scritto non ti appartiene più, è di chi lo legge». Ai suoi lettori Scarabelli passa il testimone e consegna loro un romanzo assolutamente contemporaneo, impregnato di crisi economica, banche poco etiche e distruzione del futuro. Tutto inizia con incontro-scontro tra Diego, copywriter insoddisfatto e precario, e Carlotta, un'adolescente bellicosa che porta il nome di battagli “Lotta”.
La ragazzina lo ficca subito nei casini, prima con un furtarello da H&M, poi chiedendogli di coprire la sua scomparsa. Diego e Lotta esprimono due aspetti dello stesso disagio, legato alla necessità di un riscatto. I due protagonisti modificano le convinzioni inculcate loro dai genitori: non esiste più il merito e gli sforzi non vengono premiati, bisogna imparare a prendersi ciò di cui si ha bisogno. «L'irruenza e l'entusiasmo propulsivo di Lotta nascondono piccoli e grandi drammi. La sia non è una lotta in nome di ideali astratti, ma qualcosa di concreto. Il mondo degli adulti che avrebbe dovuto assicurarle un'infanzia tranquilla le è crollato attorno senza preoccuparsi di lei, che ha imparato ad arrangiarsi. Senza però dimenticare chi continua a cercare di portarle via il presente. Attacca le banche e ogni autorità, ma non come concetti: è tutta esperienza vissuta».
Mentre la cultura punk e i Sex Pistols alla fine degli anni '70 provocavano, urlando “no future”, Lotta e gli altri personaggi di Scarabelli raccontano di un futuro perso e basta. Il ritmo serrato della narrazione è intessuto di una colonna sonora stridente, nervosa. «Lotta racconta la sua conversione dalle chitarre distorte alle pulsazioni electro dei rave. Ma la colonna sonora del romanzo sono i rumori della città (lo sferragliare dei tram, le pedalate di biciclette arrugginite, il rumore bianco del traffico, le voci intessute tra loro) e altri più interiori, come il respiro affannato e il battito cardiaco sostenuto di chi ha capito che il tempo è poco e deve agire». Com'è nata l'idea della storia? «Cinque anni fa a Milano ho visto una scena che mi ha folgorato: una ragazza che faceva boxe sospesa nell'aria. È stato come entrare nel mondo narrativo di Lotta, sentire in modo palpabile che c'era una storia da raccontare. A leggerla oggi può forse sembrare ispirata all'attualità, ma il ploto io l'avevo già fissato nel 2008. Mesi prima della crisi dei mutui».
di Florinda FiammaLa velocità di lotta è la prima opera di narrativa pura di Andrea Scarabelli: «Credo che esordire sia una responsabilità, perché chiedi che la tua voce venga ascoltata e rivendichi di avere qualcosa di importante da dire. Pubblicare è un passo importante: da quel momento in poi ciò che hai scritto non ti appartiene più, è di chi lo legge». Ai suoi lettori Scarabelli passa il testimone e consegna loro un romanzo assolutamente contemporaneo, impregnato di crisi economica, banche poco etiche e distruzione del futuro. Tutto inizia con incontro-scontro tra Diego, copywriter insoddisfatto e precario, e Carlotta, un'adolescente bellicosa che porta il nome di battagli “Lotta”.
La ragazzina lo ficca subito nei casini, prima con un furtarello da H&M, poi chiedendogli di coprire la sua scomparsa. Diego e Lotta esprimono due aspetti dello stesso disagio, legato alla necessità di un riscatto. I due protagonisti modificano le convinzioni inculcate loro dai genitori: non esiste più il merito e gli sforzi non vengono premiati, bisogna imparare a prendersi ciò di cui si ha bisogno. «L'irruenza e l'entusiasmo propulsivo di Lotta nascondono piccoli e grandi drammi. La sia non è una lotta in nome di ideali astratti, ma qualcosa di concreto. Il mondo degli adulti che avrebbe dovuto assicurarle un'infanzia tranquilla le è crollato attorno senza preoccuparsi di lei, che ha imparato ad arrangiarsi. Senza però dimenticare chi continua a cercare di portarle via il presente. Attacca le banche e ogni autorità, ma non come concetti: è tutta esperienza vissuta».
Mentre la cultura punk e i Sex Pistols alla fine degli anni '70 provocavano, urlando “no future”, Lotta e gli altri personaggi di Scarabelli raccontano di un futuro perso e basta. Il ritmo serrato della narrazione è intessuto di una colonna sonora stridente, nervosa. «Lotta racconta la sua conversione dalle chitarre distorte alle pulsazioni electro dei rave. Ma la colonna sonora del romanzo sono i rumori della città (lo sferragliare dei tram, le pedalate di biciclette arrugginite, il rumore bianco del traffico, le voci intessute tra loro) e altri più interiori, come il respiro affannato e il battito cardiaco sostenuto di chi ha capito che il tempo è poco e deve agire». Com'è nata l'idea della storia? «Cinque anni fa a Milano ho visto una scena che mi ha folgorato: una ragazza che faceva boxe sospesa nell'aria. È stato come entrare nel mondo narrativo di Lotta, sentire in modo palpabile che c'era una storia da raccontare. A leggerla oggi può forse sembrare ispirata all'attualità, ma il ploto io l'avevo già fissato nel 2008. Mesi prima della crisi dei mutui».