Radio Onda d’Urto, 20 marzo 2017 Intervista a Luca Pakarov
Un viaggio fra i vari operatori dell’ambiente musicale, voci che narrano il passaggio dal vinile al cd, dall’mp3 a Spotify e il ritorno al vinile come un circolo vizioso e autodistruttivo, o che affrontano l’idea del nuovo con entusiasmo, senza afflizioni. Luca Pakarov, giornalista musicale, ha inserito tutta una serie di interessanti interviste in questo libro pubblicato da Agenzia X nel 2016. Ascolta o scarica l’audio
Mucchio selvaggio, settembre 2016 La traccia seguente
È un palese e diretto atto d’amore verso la musica, quella a cui siamo affezionati e che continua ad emozionarci, questo libro di Luca Pakarov, giornalista/ scrittore dal passato irregolare e rock fino al midollo. La traccia seguente – introdotto da Piepaolo Capovilla e chiuso dai titoli di coda di Silvia Boschiero – è un volume agile e ricco di spunti interessanti, coltivati con attenzione: un’inchiesta sullo stato dell’arte che ha coinvolto, attraverso interviste e confronti, produttori, musicisti, negozianti, addetti ai lavori. Per affrontare le questioni sul tappeto di questa eterna transizione che scuote il mercato musicale, La traccia seguente è un testo che merita un posto di riguardo sugli scaffali di chi è interessato all’argomento.
di Liborio ConcaClassic Rock, settembre 2016 La traccia seguente
Probabilmente, siamo in un momento in cui la generazione che ha iniziato ad ascoltare musica attorno agli anni 70 si ritrova a riflettere sul suo passato e sulla realtà del mondo a cui ha dedicato tempo e passione, prima come ascoltatore ingenuo e poi magari come addetto ai lavori/giornalista/critico/ appassionato/ imbonitore. È qualche tempo che noto sempre più libri in cui giornalisti musicali parlano di sé e delle loro passioni, secondo il modo del racconto para-biografico: non proprio un’autobiografia classica, quanto piuttosto un racconto che rivela di sé anche parlando di altri. Ne è un buon esempio questo libro di Luca Pakarov. Diciamo subito che ci è piaciuto e se lo trovate in giro o in rete, un pensiero ce lo farei: Pakarov (che ha scritto su “Rolling Stone” e “il manifesto” e si definisce “esponente del gonzo journalism all’italiana”) compie un’ispezione a 360° attraverso una serie di interviste/incontri con figure-chiave del mondo musicale per capirne il funzionamento: il negoziante, il produttore, il musicista, il critico, il collezionista, e così via. Tutti dialoghi interessanti (il capitolo dedicato ai produttori, che vede le interviste a Giuliano Sagna ed Enrico Molteni, spicca per i dati di vendita dei tormentoni dance in giro per l’Europa di artisti misconosciuti dalla critica), anche se forse avrei aggiunto la testimonianza di qualche altro giornalista. Lo stile a volte (specialmente nel primo capitolo “Omologazione e indipendenza”) è una sorta di monologo interiore, con un flusso di immagini e pensieri legati tra loro da una logica più rapsodica che consequenziale. Ma è la sua cifra e ci può anche stare. Detto questo, la domanda è: lo consiglierei a qualcuno? La risposta è positiva: si legge bene, è scritto in modo gradevole, arricchisce la conoscenza del mondo della musica in Italia, quindi sì. Unico appunto, la resa grafica insoddisfacente delle foto in bianco e nero nell’appendice.
di Alessandro BotteroRadio3 Suite, 21 agosto 2016 Intervista a Luca Pakarov - La traccia seguente
Un viaggio fra i vari operatori dell’ambiente musicale, voci che narrano il passaggio dal vinile al cd, dall’mp3 a Spotify e il ritorno al vinile come un circolo vizioso e autodistruttivo, o che affrontano l’idea del nuovo con entusiasmo, senza afflizioni. Fabio Cifariello ne parla con Luca Pakarov. Ascolta l'intervista
L’Unità, 21 luglio 2016 Ma davvero i dischi rovinano il panorama?
Partendo dal libro “La traccia seguente” di Luca Pakarov, facciamo il punto sulla musica liquida e concreta nel Terzo Millennio
Un tempo – neppure troppo tempo fa – per riconoscere un brano trasmesso dalla radio bisognava aspettare con pazienza che il conduttore ne annunciasse titolo e band. Se non accadeva erano guai: la melodia ossessiva, per citare il saggio di Philippe Lacoue-Labarthe, rischiava di rimanerti nei timpani come un desiderio irrealizzato, un’incognita, un cruciverba irrisolto. Adesso con Shazam, l’app inventata da quattro sviluppatori inglesi, basta un cellulare: si punta il microfono dello smartphone sulla fonte audio, et opplà, la canzone viene (più o meno) riconosciuta nell’80% dei casi. Magie, meraviglie tecnologiche e a volte un po’ di amaro in bocca. Perché la Rete ha cambiato tutto, ma proprio tutto. E la fruizione della musica si è totalmente trasformata. Prima è andato in soffitta il vinile, soppiantato dal compact-disc, ma quando è arrivata la musica liquida niente è stato più come prima. Perché sono stati cancellati i supporti, che parlando di musica, non sono semplici oggetti ma icone, simboli, memorabilia.
1. Tra streaming e downloading
Così abbiamo imparato la differenza tra streaming e downloading, riconosciamo app, server ed algoritmi, siamo dentro una colonna sonora globale, martellante, costante e, ovviamente, il mondo dei fruitori si è spaccato tra i nostalgici del vinile o del metacrilato e il nuovo che avanza, targato mp3 e sigle successive. C’è David Grubbs, ad esempio, che insegna al Conservatorio di Brooklyn e che pur di spezzare una lancia (e un pick up, una testina, una cinghia di trasmissione, una valvola) a favore del rutilante mondo della musica del web ha scritto un saggio tradotto in Italia dai tipi dell’Arcana come I dischi rovinano il panorama, in cui facendo proprio il pensiero (e i paradossi) di John Cage prende le distanze dai dischi “cartolina” di un’epoca. Scrive Grubbs: «La registrazione concede all’ascoltatore una qualità di concentrazione individuale e solitaria che effettivamente manca nello spazio condiviso della performance. Per contro, la registrazione consente all’ascoltatore di essere distratto, non presente, a seconda delle circostanze e dell’umore». E ancora: «La maggior parte dei generi di musica sperimentale e d’avanguardia degli anni Sessanta era inadatta a essere rappresentata in forma di registrazione, e tuttavia quella musica veniva registrata per documentare o più semplicemente per procurarsi le occasioni per suonare e forse anche per avere qualcosa da vendere ai concerti».
2. Luglio 1995
Un teorico preso come esempio dai luddisti sonici, quelli che “in casa non c’è spazio”, che l’oggetto e la memoria non vanno per forza d’accordo e che dopo aver dragato il peer-topeer, hanno sposato il mondo dello streaming. Politicamente (elegalmente) corretto, è il vero uovo di Colombo della asfittica industria discografica, prima a caccia della star a tutti i costi, poi depredata dai “pirati. Così, in un lasso di tempo relativamente breve la musica cosiddetta liquida, priva cioè di oggetti fonografici per essere riprodotta, ha cambiato non solo il mercato ma la fruizione, l’ascolto e anche il ruolo di Internet come medium. Il 14 luglio del 1995 è stata varata la sigla MP3 per identificare i file MPEG Layer-3, un algoritmo ideato della divisione dei circuiti integrati del Fraunhofer Institute e capace di creare un sistema di coding (codifica digitale di un segnale) basato sulla percezione del suono.
3. Rivoluzione Napster
Di lì a poco, nel giugno del 1999, è arrivato Napster, il primo software di file sharing che segnerà una svolta nella diffusione di massa dell’mp3 e del peer-to-peer. Alla fine del 2001 toccherà invece all’iPod della Apple fungere da trampolino di lancio per la diffusione dei lettori MP3 portatili mentre ad iTunes spetterà il ruolo leader nella distribuzione di musica online. Poi sono esplose le piattaforme: da YouTube passando per Spotify, Deezer, Last Fm. Nel report 2007 della IFPI, che faceva riferimento alla situazione nei vari Paesi, la musica scaricata legalmente dal web veniva salutata con toni entusiastici: 500 portali per acquistare album o canzoni, crescita del 40% rispetto all’anno precedente con una quota di business pari a circa il 15% del mercato. Nel 2008, a invertire la tendenza del download, è arrivato Spotify, servizio sul web che offre streaming on demand di una serie cospicua di artisti e di altrettante case discografiche: Warner, Sony, Emi, Universal. Partito in sordina, in soli due anni (settembre 2010), ha raggiunto i 10 milioni di utenti. Ed è proprio lo streaming la chiave di volta per decifrare la fruizione della musica nel periodo compreso tra il 2009 e il 2014. A fare un po’ di chiarezza in questo mondo in guerra tra puristi e innovatori, arriva un libro intelligente e brillante già a cominciare dal titolo: La traccia seguente, sottotitolo Dialoghi di resistenza sonora di Luca Pakarov, giornalista, opera che esce per Agenzia X (pag. 197, euro 15). Pakarov si è fatto un bel giro, su e giù per l’Italia: ha parlato con collezionisti, quello zoccolo duro che dell’Mp3 se ne impippa, produttori musicali come Giuliana Saglia che in pratica ha inventato la discomusic in Italia o Enrico Molteni, bassista dei Tre Allegri ragazzi morti, che ha messo su la sua etichetta, La Tempesta, una delle più importanti nel panorama indie italico. E che spiega, con una buona sintesi: «Negli ultimi anni si è frastagliata tantissimo la produzione della musica, c’è chi vuole il vinile, chi il cd, YouTube, iTunes (...). È un momento di cambiamento forte e non possiamo che guardare cosa succede, tenendo i piedi in tutte le scarpe possibili (...)». Molteni ha fatto il funerale ai supporti e adesso, confessa a Pakarov, di stare bene così. «Mi sveglio la mattina, accendo il computer e ascolto cento dischi al giorno, se voglio ho i testi, ho la copertina, ho gli accordi». E al giornalista che gli chiede come fa, ad esempio, un teenager a orientarsi in questo marasma senza un critico musicale o un negoziante di fiducia che gli indichi la via, risponde: «Adesso ci sono i social, è molto meglio di prima. Sulla colonna di destra ho i miei contatti e vedo cosa ascoltano, se c’è qualcosa che mi attira lo ascolto e magari ne discuto con chi l’ha già ascoltato. Certo, sono arrivato ai social preparato, ma un ragazzino di 12 anni avrà un amico con dei gusti musicali che fungeranno da consiglio. Avrà un idolo? Ecco, se il suo idolo è Samuel dei Subsonica può seguire la sua playlist». Insomma La Traccia seguente è una buona bussola per capire che ieri è quasi archiviato e che nel presente convivono tecnologia e vinili, resuscitati dopo la prepotente avanzata del metacrilato. Pakarov ha sentito il parere di un buon numero di proprietari di negozi di dischi, per esempio i fratelli Zeffiretti di Jukebox all’Idrogeno di Macerata, gente che è resistita al delirio digitale e che ha tutte le ragioni per essere anche un po’ incazzata. Dicono, a pagina 62: «La cosa che più ci ferì in quei momenti furono le riviste specializzate che ci dettero per spacciati, seguendo il trend della ribellione, prevedendo un futuro senza negozi e solo di potenti hard disk, con slogan come “liberiamo la musica”, o musica come un rubinetto d’acqua per dissetare tutti. Un fenomeno sociopolitico in cui chi scaricava era un rivoluzionario schierato contro le major e quindi contro il potere, e noi i reazionari che volevamo venderla. Era una grande bufala perché il potere ora è proprio internet, con Amazon, TripAdvisor e gli altri, mentre noi siamo passati ad antagonisti. Ora proviamo un sentimento di orgoglio e di rivalsa nell’aver resistito, nel crederci: vedere i giovanissimi chiedermi il vinile è qualcosa di miracoloso. C’è stato un passaggio di testimone fra la generazione degli anni settanta e quella di ora, ma soprattutto una voglia nuova di interagire, stare insieme e riportare la musica al centro dell’attenzione, non come sottofondo».
4. Dai musicisti ai critici
Parere illuminante, molto condivisibile. E non è l’unico. Nel libro di Pakarov, introdotto da una prefazione di Pierpaolo Capovillo e chiuso dalla postfazione di Silvia Boschero, parlano musicisti (da Giorgio Canali a Marco Messina della 99 Posse), giornalisti musicali più o meno travolti dal fenomeno, operatori del settore, esperti, distributori. Il mondo che gravita attorno ai suoni. E non c’è un parere definitivo, a parte quello dell’autore che nel capitolo introduttivo scrive: «All’improvviso ci si è resi conto che lo spazio più sacro e intimo è stato occupato, il mercato ha finto di mettersi in discussione, ha giocato a nascondino inglobando la controcultura, curandola come nell’alta moda, sfornandola accattivante e mandando nel caos chi ancora si credeva duro e puro. Accumuli di fregnacce mentre il giradischi arrivava al capolinea, si puntava sull’etereo, inconsistente e destrutturato file, qualcosa senza linfa e spesso non sorretto dal messaggio ma solo dall’apparenza e dalla sua forza virale. Quando c’è. Finita l’epica del musicista chiuso in garage con una chitarra acquistata faticosamente o di chi, al negozio di fiducia, consegnava oralmente preziose recensioni e leggende di concerti terminati in atti vandalici. Schedati nei database delle aziende, corrotti e compromessi da un sistema di alienazione aggressivo e sciacallo che pensa alla musica solo come un veicolo pubblicitario, che ti tira per la manica e fa l’occhiolino affinché svuoti il portafogli. Ci vuol poco ad arrivare sull’orlo della pazzia e ritrovarsi circondato da schiere di abietti consiglieri. Si è entrati nel sistema credendo di essere nel giusto. Vuoti, vuoto. È la parte seria della tiritera ma anche, devo riconoscerlo, la spigolosa tentazione di riconoscersi in un passato autentico e l’esigenza di collegare la crisi. (...)». Meglio prima? Meglio oggi? Non si sa, a ognuno il suo. Anche perché la fruizione (vera) della musica resta per molti un fatto squisitamente privato che può trasformarsi in link da condividere solo dopo. Dopo aver metabolizzato note, armonie, accordi, testi, sfogliato copertine. In fondo la resurrezione del vinile va in questa direzione: l’oggetto, il feticcio, il rumore di fondo, la puntina. Tutto il rituale che serve per sentirsi anche un po’ sacerdoti del culto. E la buona notizia del 2016 è che Blackstar diDavid Bowie è, al momento, il disco più venduto dell’anno. L’album, uscito l’8 gennaio scorso (il giorno del suo 69mo compleanno e due giorni prima della sua morte), ha venduto finora 57.000 copie, staccando anche la campionessa delle campionesse Adele, che con il suo Hello ha raggiunto quota 36.000. Nella classifica, che pesca tra vecchio e nuovo, troviamo anche Back to Black di Amy Winehouse con 27.000 pezzi, Legend di Bob Marley & The Wailers con 23.000, Abbey Road dei Beatles con 21.000 e Kind of Blue di Miles Davis con 19.000. Sappiate infine che per una bizzarra legge del contrappasso, stanno tornando di moda anche le audiocassette, grazie agli acquisti dei nativi digitali. Come dire: che c’è sempre tempo per farsi un’infanzia felice.
di Daniela AmentaUn tempo – neppure troppo tempo fa – per riconoscere un brano trasmesso dalla radio bisognava aspettare con pazienza che il conduttore ne annunciasse titolo e band. Se non accadeva erano guai: la melodia ossessiva, per citare il saggio di Philippe Lacoue-Labarthe, rischiava di rimanerti nei timpani come un desiderio irrealizzato, un’incognita, un cruciverba irrisolto. Adesso con Shazam, l’app inventata da quattro sviluppatori inglesi, basta un cellulare: si punta il microfono dello smartphone sulla fonte audio, et opplà, la canzone viene (più o meno) riconosciuta nell’80% dei casi. Magie, meraviglie tecnologiche e a volte un po’ di amaro in bocca. Perché la Rete ha cambiato tutto, ma proprio tutto. E la fruizione della musica si è totalmente trasformata. Prima è andato in soffitta il vinile, soppiantato dal compact-disc, ma quando è arrivata la musica liquida niente è stato più come prima. Perché sono stati cancellati i supporti, che parlando di musica, non sono semplici oggetti ma icone, simboli, memorabilia.
1. Tra streaming e downloading
Così abbiamo imparato la differenza tra streaming e downloading, riconosciamo app, server ed algoritmi, siamo dentro una colonna sonora globale, martellante, costante e, ovviamente, il mondo dei fruitori si è spaccato tra i nostalgici del vinile o del metacrilato e il nuovo che avanza, targato mp3 e sigle successive. C’è David Grubbs, ad esempio, che insegna al Conservatorio di Brooklyn e che pur di spezzare una lancia (e un pick up, una testina, una cinghia di trasmissione, una valvola) a favore del rutilante mondo della musica del web ha scritto un saggio tradotto in Italia dai tipi dell’Arcana come I dischi rovinano il panorama, in cui facendo proprio il pensiero (e i paradossi) di John Cage prende le distanze dai dischi “cartolina” di un’epoca. Scrive Grubbs: «La registrazione concede all’ascoltatore una qualità di concentrazione individuale e solitaria che effettivamente manca nello spazio condiviso della performance. Per contro, la registrazione consente all’ascoltatore di essere distratto, non presente, a seconda delle circostanze e dell’umore». E ancora: «La maggior parte dei generi di musica sperimentale e d’avanguardia degli anni Sessanta era inadatta a essere rappresentata in forma di registrazione, e tuttavia quella musica veniva registrata per documentare o più semplicemente per procurarsi le occasioni per suonare e forse anche per avere qualcosa da vendere ai concerti».
2. Luglio 1995
Un teorico preso come esempio dai luddisti sonici, quelli che “in casa non c’è spazio”, che l’oggetto e la memoria non vanno per forza d’accordo e che dopo aver dragato il peer-topeer, hanno sposato il mondo dello streaming. Politicamente (elegalmente) corretto, è il vero uovo di Colombo della asfittica industria discografica, prima a caccia della star a tutti i costi, poi depredata dai “pirati. Così, in un lasso di tempo relativamente breve la musica cosiddetta liquida, priva cioè di oggetti fonografici per essere riprodotta, ha cambiato non solo il mercato ma la fruizione, l’ascolto e anche il ruolo di Internet come medium. Il 14 luglio del 1995 è stata varata la sigla MP3 per identificare i file MPEG Layer-3, un algoritmo ideato della divisione dei circuiti integrati del Fraunhofer Institute e capace di creare un sistema di coding (codifica digitale di un segnale) basato sulla percezione del suono.
3. Rivoluzione Napster
Di lì a poco, nel giugno del 1999, è arrivato Napster, il primo software di file sharing che segnerà una svolta nella diffusione di massa dell’mp3 e del peer-to-peer. Alla fine del 2001 toccherà invece all’iPod della Apple fungere da trampolino di lancio per la diffusione dei lettori MP3 portatili mentre ad iTunes spetterà il ruolo leader nella distribuzione di musica online. Poi sono esplose le piattaforme: da YouTube passando per Spotify, Deezer, Last Fm. Nel report 2007 della IFPI, che faceva riferimento alla situazione nei vari Paesi, la musica scaricata legalmente dal web veniva salutata con toni entusiastici: 500 portali per acquistare album o canzoni, crescita del 40% rispetto all’anno precedente con una quota di business pari a circa il 15% del mercato. Nel 2008, a invertire la tendenza del download, è arrivato Spotify, servizio sul web che offre streaming on demand di una serie cospicua di artisti e di altrettante case discografiche: Warner, Sony, Emi, Universal. Partito in sordina, in soli due anni (settembre 2010), ha raggiunto i 10 milioni di utenti. Ed è proprio lo streaming la chiave di volta per decifrare la fruizione della musica nel periodo compreso tra il 2009 e il 2014. A fare un po’ di chiarezza in questo mondo in guerra tra puristi e innovatori, arriva un libro intelligente e brillante già a cominciare dal titolo: La traccia seguente, sottotitolo Dialoghi di resistenza sonora di Luca Pakarov, giornalista, opera che esce per Agenzia X (pag. 197, euro 15). Pakarov si è fatto un bel giro, su e giù per l’Italia: ha parlato con collezionisti, quello zoccolo duro che dell’Mp3 se ne impippa, produttori musicali come Giuliana Saglia che in pratica ha inventato la discomusic in Italia o Enrico Molteni, bassista dei Tre Allegri ragazzi morti, che ha messo su la sua etichetta, La Tempesta, una delle più importanti nel panorama indie italico. E che spiega, con una buona sintesi: «Negli ultimi anni si è frastagliata tantissimo la produzione della musica, c’è chi vuole il vinile, chi il cd, YouTube, iTunes (...). È un momento di cambiamento forte e non possiamo che guardare cosa succede, tenendo i piedi in tutte le scarpe possibili (...)». Molteni ha fatto il funerale ai supporti e adesso, confessa a Pakarov, di stare bene così. «Mi sveglio la mattina, accendo il computer e ascolto cento dischi al giorno, se voglio ho i testi, ho la copertina, ho gli accordi». E al giornalista che gli chiede come fa, ad esempio, un teenager a orientarsi in questo marasma senza un critico musicale o un negoziante di fiducia che gli indichi la via, risponde: «Adesso ci sono i social, è molto meglio di prima. Sulla colonna di destra ho i miei contatti e vedo cosa ascoltano, se c’è qualcosa che mi attira lo ascolto e magari ne discuto con chi l’ha già ascoltato. Certo, sono arrivato ai social preparato, ma un ragazzino di 12 anni avrà un amico con dei gusti musicali che fungeranno da consiglio. Avrà un idolo? Ecco, se il suo idolo è Samuel dei Subsonica può seguire la sua playlist». Insomma La Traccia seguente è una buona bussola per capire che ieri è quasi archiviato e che nel presente convivono tecnologia e vinili, resuscitati dopo la prepotente avanzata del metacrilato. Pakarov ha sentito il parere di un buon numero di proprietari di negozi di dischi, per esempio i fratelli Zeffiretti di Jukebox all’Idrogeno di Macerata, gente che è resistita al delirio digitale e che ha tutte le ragioni per essere anche un po’ incazzata. Dicono, a pagina 62: «La cosa che più ci ferì in quei momenti furono le riviste specializzate che ci dettero per spacciati, seguendo il trend della ribellione, prevedendo un futuro senza negozi e solo di potenti hard disk, con slogan come “liberiamo la musica”, o musica come un rubinetto d’acqua per dissetare tutti. Un fenomeno sociopolitico in cui chi scaricava era un rivoluzionario schierato contro le major e quindi contro il potere, e noi i reazionari che volevamo venderla. Era una grande bufala perché il potere ora è proprio internet, con Amazon, TripAdvisor e gli altri, mentre noi siamo passati ad antagonisti. Ora proviamo un sentimento di orgoglio e di rivalsa nell’aver resistito, nel crederci: vedere i giovanissimi chiedermi il vinile è qualcosa di miracoloso. C’è stato un passaggio di testimone fra la generazione degli anni settanta e quella di ora, ma soprattutto una voglia nuova di interagire, stare insieme e riportare la musica al centro dell’attenzione, non come sottofondo».
4. Dai musicisti ai critici
Parere illuminante, molto condivisibile. E non è l’unico. Nel libro di Pakarov, introdotto da una prefazione di Pierpaolo Capovillo e chiuso dalla postfazione di Silvia Boschero, parlano musicisti (da Giorgio Canali a Marco Messina della 99 Posse), giornalisti musicali più o meno travolti dal fenomeno, operatori del settore, esperti, distributori. Il mondo che gravita attorno ai suoni. E non c’è un parere definitivo, a parte quello dell’autore che nel capitolo introduttivo scrive: «All’improvviso ci si è resi conto che lo spazio più sacro e intimo è stato occupato, il mercato ha finto di mettersi in discussione, ha giocato a nascondino inglobando la controcultura, curandola come nell’alta moda, sfornandola accattivante e mandando nel caos chi ancora si credeva duro e puro. Accumuli di fregnacce mentre il giradischi arrivava al capolinea, si puntava sull’etereo, inconsistente e destrutturato file, qualcosa senza linfa e spesso non sorretto dal messaggio ma solo dall’apparenza e dalla sua forza virale. Quando c’è. Finita l’epica del musicista chiuso in garage con una chitarra acquistata faticosamente o di chi, al negozio di fiducia, consegnava oralmente preziose recensioni e leggende di concerti terminati in atti vandalici. Schedati nei database delle aziende, corrotti e compromessi da un sistema di alienazione aggressivo e sciacallo che pensa alla musica solo come un veicolo pubblicitario, che ti tira per la manica e fa l’occhiolino affinché svuoti il portafogli. Ci vuol poco ad arrivare sull’orlo della pazzia e ritrovarsi circondato da schiere di abietti consiglieri. Si è entrati nel sistema credendo di essere nel giusto. Vuoti, vuoto. È la parte seria della tiritera ma anche, devo riconoscerlo, la spigolosa tentazione di riconoscersi in un passato autentico e l’esigenza di collegare la crisi. (...)». Meglio prima? Meglio oggi? Non si sa, a ognuno il suo. Anche perché la fruizione (vera) della musica resta per molti un fatto squisitamente privato che può trasformarsi in link da condividere solo dopo. Dopo aver metabolizzato note, armonie, accordi, testi, sfogliato copertine. In fondo la resurrezione del vinile va in questa direzione: l’oggetto, il feticcio, il rumore di fondo, la puntina. Tutto il rituale che serve per sentirsi anche un po’ sacerdoti del culto. E la buona notizia del 2016 è che Blackstar diDavid Bowie è, al momento, il disco più venduto dell’anno. L’album, uscito l’8 gennaio scorso (il giorno del suo 69mo compleanno e due giorni prima della sua morte), ha venduto finora 57.000 copie, staccando anche la campionessa delle campionesse Adele, che con il suo Hello ha raggiunto quota 36.000. Nella classifica, che pesca tra vecchio e nuovo, troviamo anche Back to Black di Amy Winehouse con 27.000 pezzi, Legend di Bob Marley & The Wailers con 23.000, Abbey Road dei Beatles con 21.000 e Kind of Blue di Miles Davis con 19.000. Sappiate infine che per una bizzarra legge del contrappasso, stanno tornando di moda anche le audiocassette, grazie agli acquisti dei nativi digitali. Come dire: che c’è sempre tempo per farsi un’infanzia felice.
Radio Popolare, 14 luglio 2016 La traccia seguente
All’interno della trasmissione Jim Luca Pakarov ha presentato il suo libro La traccia seguente. Dialoghi di resistenza sonora - pubblicato per l'Agenzia X
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Rumore, luglio 2016 Luca Pakarov, La traccia seguente. Dialoghi di resistenza sonora
Voto: 8
Frase: “Comincio con la domanda che teoricamente avrei dovuto rivolgere a tutti quelli che ho incontrato durante questo sbattimento, ma anche a Piero Pelù che partecipa a The Voice of Italy, al capo marketing della Apple che ingaggia gli U2 e a Hitler che invade la Russia: come cazzo c’hai pensato?”“Gonzo journalism all’italiana” si legge sulla quarta di copertina di questo saggio ed è una definizione quanto mai azzeccata per lo stile di questo viaggio nell’Italia che vive di musica: lo spirito (auto)ironico tendente al cialtrone di Pakarov guida il lettore alla scoperta del mercato musicale odierno e dei professionisti (o quel che ne resta) che lo popolano. Da nord a sud, l’autore dialoga con un mondo che ha sempre visto dall’esterno, vuole capire l’evoluzione degli ultimi trent’anni, rendere accessibili i retroscena del passaggio dal cazzeggio infinito nei negozi di dischi ai commenti di posizionamento e alle condivisioni studiate sui social network. Enrico Molteni parla dell’esperienza La Tempesta, i cui utili vengono reinvestiti interamente nella musica, i tipi di Brioche Edizioni raccontano i tempi d’oro della dance italiana, che ha permesso loro di fatturare cifre oggi impensabili, Bologna Violenta sceglie una via all’indipendenza che passa anche da bandcamp, mentre il titolare di Millerecords rivela come anni fa abbia resistito anche ripuntando sul vinile. Queste e molte altre voci danno un’immagine completa del mercato: tra chi si adatta, si reinventa e si arrangia c’è chi sopravvive o si mantiene dignitosamente, chi fa altri lavori ma resta attaccato alla musica e anche chi, in qualche modo, si arricchisce o per lo meno ci vive bene. E leggiamo queste storie con toni a cavallo tra gonzismo e rigore.Intervista a Luca PakarovUno scrittore prestato al giornalismo indaga sullo stato del mercato musicale italiano. Non da critico di settore, perché Luca Pakarov, pur occupandosi (anche) di musica – soprattutto da quando si è avventurato in questo reportage – ha un’attitudine da cronista irriverente dell’attualità socio-culturale. Le considerazioni de La traccia seguente, dunque, sono frutto di un occhio esterno all’ambiente, per giunta residente in una provincia lontana da tutto. Macerata. Sommando l’animo da narratore a impertinenza e indipendenza (più o meno forzata), i toni diventano dissacranti, senza che per questo la ricerca non vada a fondo. Classe 1977, Pakarov fa parte della generazione che ha toccato l’apice della dipendenza da dischi e concerti negli anni 90, l’ultimo decennio del vecchio sistema. Sarà per questo che si tira sempre in ballo nel racconto? Lui sembra il personaggio di un romanzo soffocato da un mondo popolato di musicisti, critici, distributori, produttori, titolari di negozi di dischi e collezionisti di vinili...Sia Pierpaolo Capovilla nella prefazione sia tu nell’incipit raccontate un immaginario a suo modo epico, che sembra lontano: per scoprire la musica bisognava uscire di casa e fare anche tanti km o avere a che fare con tipi burberi...
La mia storia è legata a piccole vicende di ordinaria follia che, nella mia memoria, si sono fatte mitologiche, di cui solo il tempo mi ha fatto capire l’importanza. Il passato ha sempre una narrativa più elaborata e coerente, sono storie sedimentate di cui puoi scorgere da lontano la filigrana, il filo conduttore che ti ha portato a essere quello che sei diventato. Come Pierpaolo da ragazzino) è scappato di casa per vedere Nick Cave e ci si è ritrovato a cena, io partivo alla volta dello Slego, del Velvet o anche della Mecca di Rimini, con macchinate di amabili balordi. Per questo dovevo iniziare omaggiando l’immaginario del negozio che però, attenzione, aveva poco a che fare con la splendida imperfezione dei personaggi di Hornby. In provincia c’era la dipendenza dalla musica e non solo: tanti ne sono usciti male (quando ne sono usciti) da quegli anni.
Durante la stesura hai avuto la sensazione di raccontare le macerie di un sistema? E quanto gli addetti ai lavori si stanno reinventando o invece stanno cercando di tenere in vita un moribondo?
Credo di essere partito con quel sentore che, osservando i numeri del mercato, è quasi una condizione oggettiva. Però il mio è stato un vero viaggio (anche fisico) fra gli operatori, e come ogni buon viaggio le percezioni cambiano. Ognuno a modo suo ha trovato una personale soluzione al problema: c’è chi si è specializzato nei dischi fuori commercio o nell’usato, produttori che hanno cercato un altro mercato, chi ha sfruttato la visibilità del web... in questo senso è significativa l’intervista a Giuliano Saglia, che si è occupato di dance finché ha tirato e ora si interessa di rap. Certo, in generale c’è molta confusione e si naviga a vista. Forse quelli che ho sentito più in sofferenza sono proprio i critici: la firma ancora conta, ma fino a un certo punto. Basta vedere su Facebook le guerre di opinioni su quel disco o quella promozione: è abbastanza patetico, l’impressione è che la maggior parte abbia una paura matta di sparire.
Più volte, mentre parli con le persone dell’ambiente, ci si chiede quale sia esattamente il loro ruolo. In qualche caso sembra proprio mancare una definizione: la musica vive una fase di transizione e, per resistere, c’è chi assolve più ruoli...
C’è una discreta Babilonia che ti costringe a parlare più lingue possibili. Voglio dire che il mercato italiano, a parte rari casi, non si può permettere persone specializzate in un segmento, il che significa affrontare diversi settori e il risultato a volte qual è? Che ci si conosce un po’ tutti, magari incontri uno nelle vesti di critico, ufficio stampa e produttore. È chiaro che è una possibilità frutto di vari fattori del momento: la transizione, il calo degli introiti e gli strumenti tecnologici avanzati. Non ho mai riscontrato conflitti di interesse con chi è serio, però sono maglie strette, è difficile che prima o poi non si debba restituire un favore. Comunque bastano due ore su Facebook per capire quali sono le consorterie di “like” e quindi alcuni di questi intrecci.
Le tue descrizioni e i tuoi commenti, in bilico tra ironia e sarcasmo e piene di iperboli, mettono il dubbio che avresti preferito scrivere un romanzo. Chi potrebbe essere il protagonista di un racconto ambientato nella musica italiana di oggi?
No, guarda, fino alla stesura di metà libro mi sono stramaledetto per aver accettato la proposta di Agenzia X. Ma poi, limando e ricostruendo, credo di essere riuscito a dare una mia voce al contesto, quella di un appassionato di musica che si confronta con i suoi ricordi e con gente che, evidentemente, ne sa molto più di lui. Quando ho visto che i contenuti erano buoni, mi sono preoccupato soprattutto di non ammorbare il lettore: quanti comprerebbero un libro con venticinque interviste sulla musica? In ogni caso, il protagonista di un romanzo potrebbe essere un tizio qualsiasi che mette due canzoni su YouTube e, dopo due anni, riempie sale da concerti. Deve essere raccapricciante quel tipo di hype. C’è questa nuova possibilità che è l’espansione orizzontale della tua creazione di cui pochi si rendono conto e, se ci pensi bene, ha lo stesso DNA del do it yourself del punk. Lo so, sto plagiando la vicenda de I Cani...
Anche se qua e là viene fuori che i live sostengono buona parte del mercato, i grandi assenti della tua ricerca sono le persone che dirigono festival, club e booking. Perché?
"Forse perché alcuni mi sono antipatici... no, dai, siamo tutti protagonisti di questo cambiamento, anche chi non entra più in un negozio di musica. Parlandone con il mio editore, Philopat, le idee erano tante ma abbiamo dovuto scegliere su chi concentrarci. Sarebbe diventato un tormento infinito (per me e i lettori) includere ogni soggetto interessante. I live, certo, sostengono parte del mercato ma è sempre più difficile trovare club che ti permettano di suonare, soprattutto se hai una band di quattro elementi che deve dormire, mangiare e bere qualche birra. Marco Messina, quando non impegnato con i 99 Posse, gira con i suoi progetti di musica elettronica, e mi ha detto che spesso gli chiedono di andare solo con il dj set. Fai più ore, la gente balla e beve di più.
Il titolo del libro vuole infondere ottimismo sull’evoluzione di questo mercato musicale italiano?
Sì e no, potrebbe pure essere pessimismo sull’involuzione del mercato italiano. Sinceramente di certezze se ne hanno poche, il titolo è una genuina propensione a guardare avanti, qualsiasi sia l’avanti.
Infine, visto che sei al terzo libro e scrivi su più testate: durante il reportage quante analogie hai trovato tra lo stato dell’editoria e quello della musica?
È terribile dirlo ma ci sono talmente tanti parallelismi che temo una chiamata da Agenzia X per un libro sul mondo dell’editoria. Però già sarebbe più semplice, basterebbe cambiare qualche nome e la bibliografia.
di Luca GricinellaFrase: “Comincio con la domanda che teoricamente avrei dovuto rivolgere a tutti quelli che ho incontrato durante questo sbattimento, ma anche a Piero Pelù che partecipa a The Voice of Italy, al capo marketing della Apple che ingaggia gli U2 e a Hitler che invade la Russia: come cazzo c’hai pensato?”“Gonzo journalism all’italiana” si legge sulla quarta di copertina di questo saggio ed è una definizione quanto mai azzeccata per lo stile di questo viaggio nell’Italia che vive di musica: lo spirito (auto)ironico tendente al cialtrone di Pakarov guida il lettore alla scoperta del mercato musicale odierno e dei professionisti (o quel che ne resta) che lo popolano. Da nord a sud, l’autore dialoga con un mondo che ha sempre visto dall’esterno, vuole capire l’evoluzione degli ultimi trent’anni, rendere accessibili i retroscena del passaggio dal cazzeggio infinito nei negozi di dischi ai commenti di posizionamento e alle condivisioni studiate sui social network. Enrico Molteni parla dell’esperienza La Tempesta, i cui utili vengono reinvestiti interamente nella musica, i tipi di Brioche Edizioni raccontano i tempi d’oro della dance italiana, che ha permesso loro di fatturare cifre oggi impensabili, Bologna Violenta sceglie una via all’indipendenza che passa anche da bandcamp, mentre il titolare di Millerecords rivela come anni fa abbia resistito anche ripuntando sul vinile. Queste e molte altre voci danno un’immagine completa del mercato: tra chi si adatta, si reinventa e si arrangia c’è chi sopravvive o si mantiene dignitosamente, chi fa altri lavori ma resta attaccato alla musica e anche chi, in qualche modo, si arricchisce o per lo meno ci vive bene. E leggiamo queste storie con toni a cavallo tra gonzismo e rigore.Intervista a Luca PakarovUno scrittore prestato al giornalismo indaga sullo stato del mercato musicale italiano. Non da critico di settore, perché Luca Pakarov, pur occupandosi (anche) di musica – soprattutto da quando si è avventurato in questo reportage – ha un’attitudine da cronista irriverente dell’attualità socio-culturale. Le considerazioni de La traccia seguente, dunque, sono frutto di un occhio esterno all’ambiente, per giunta residente in una provincia lontana da tutto. Macerata. Sommando l’animo da narratore a impertinenza e indipendenza (più o meno forzata), i toni diventano dissacranti, senza che per questo la ricerca non vada a fondo. Classe 1977, Pakarov fa parte della generazione che ha toccato l’apice della dipendenza da dischi e concerti negli anni 90, l’ultimo decennio del vecchio sistema. Sarà per questo che si tira sempre in ballo nel racconto? Lui sembra il personaggio di un romanzo soffocato da un mondo popolato di musicisti, critici, distributori, produttori, titolari di negozi di dischi e collezionisti di vinili...Sia Pierpaolo Capovilla nella prefazione sia tu nell’incipit raccontate un immaginario a suo modo epico, che sembra lontano: per scoprire la musica bisognava uscire di casa e fare anche tanti km o avere a che fare con tipi burberi...
La mia storia è legata a piccole vicende di ordinaria follia che, nella mia memoria, si sono fatte mitologiche, di cui solo il tempo mi ha fatto capire l’importanza. Il passato ha sempre una narrativa più elaborata e coerente, sono storie sedimentate di cui puoi scorgere da lontano la filigrana, il filo conduttore che ti ha portato a essere quello che sei diventato. Come Pierpaolo da ragazzino) è scappato di casa per vedere Nick Cave e ci si è ritrovato a cena, io partivo alla volta dello Slego, del Velvet o anche della Mecca di Rimini, con macchinate di amabili balordi. Per questo dovevo iniziare omaggiando l’immaginario del negozio che però, attenzione, aveva poco a che fare con la splendida imperfezione dei personaggi di Hornby. In provincia c’era la dipendenza dalla musica e non solo: tanti ne sono usciti male (quando ne sono usciti) da quegli anni.
Durante la stesura hai avuto la sensazione di raccontare le macerie di un sistema? E quanto gli addetti ai lavori si stanno reinventando o invece stanno cercando di tenere in vita un moribondo?
Credo di essere partito con quel sentore che, osservando i numeri del mercato, è quasi una condizione oggettiva. Però il mio è stato un vero viaggio (anche fisico) fra gli operatori, e come ogni buon viaggio le percezioni cambiano. Ognuno a modo suo ha trovato una personale soluzione al problema: c’è chi si è specializzato nei dischi fuori commercio o nell’usato, produttori che hanno cercato un altro mercato, chi ha sfruttato la visibilità del web... in questo senso è significativa l’intervista a Giuliano Saglia, che si è occupato di dance finché ha tirato e ora si interessa di rap. Certo, in generale c’è molta confusione e si naviga a vista. Forse quelli che ho sentito più in sofferenza sono proprio i critici: la firma ancora conta, ma fino a un certo punto. Basta vedere su Facebook le guerre di opinioni su quel disco o quella promozione: è abbastanza patetico, l’impressione è che la maggior parte abbia una paura matta di sparire.
Più volte, mentre parli con le persone dell’ambiente, ci si chiede quale sia esattamente il loro ruolo. In qualche caso sembra proprio mancare una definizione: la musica vive una fase di transizione e, per resistere, c’è chi assolve più ruoli...
C’è una discreta Babilonia che ti costringe a parlare più lingue possibili. Voglio dire che il mercato italiano, a parte rari casi, non si può permettere persone specializzate in un segmento, il che significa affrontare diversi settori e il risultato a volte qual è? Che ci si conosce un po’ tutti, magari incontri uno nelle vesti di critico, ufficio stampa e produttore. È chiaro che è una possibilità frutto di vari fattori del momento: la transizione, il calo degli introiti e gli strumenti tecnologici avanzati. Non ho mai riscontrato conflitti di interesse con chi è serio, però sono maglie strette, è difficile che prima o poi non si debba restituire un favore. Comunque bastano due ore su Facebook per capire quali sono le consorterie di “like” e quindi alcuni di questi intrecci.
Le tue descrizioni e i tuoi commenti, in bilico tra ironia e sarcasmo e piene di iperboli, mettono il dubbio che avresti preferito scrivere un romanzo. Chi potrebbe essere il protagonista di un racconto ambientato nella musica italiana di oggi?
No, guarda, fino alla stesura di metà libro mi sono stramaledetto per aver accettato la proposta di Agenzia X. Ma poi, limando e ricostruendo, credo di essere riuscito a dare una mia voce al contesto, quella di un appassionato di musica che si confronta con i suoi ricordi e con gente che, evidentemente, ne sa molto più di lui. Quando ho visto che i contenuti erano buoni, mi sono preoccupato soprattutto di non ammorbare il lettore: quanti comprerebbero un libro con venticinque interviste sulla musica? In ogni caso, il protagonista di un romanzo potrebbe essere un tizio qualsiasi che mette due canzoni su YouTube e, dopo due anni, riempie sale da concerti. Deve essere raccapricciante quel tipo di hype. C’è questa nuova possibilità che è l’espansione orizzontale della tua creazione di cui pochi si rendono conto e, se ci pensi bene, ha lo stesso DNA del do it yourself del punk. Lo so, sto plagiando la vicenda de I Cani...
Anche se qua e là viene fuori che i live sostengono buona parte del mercato, i grandi assenti della tua ricerca sono le persone che dirigono festival, club e booking. Perché?
"Forse perché alcuni mi sono antipatici... no, dai, siamo tutti protagonisti di questo cambiamento, anche chi non entra più in un negozio di musica. Parlandone con il mio editore, Philopat, le idee erano tante ma abbiamo dovuto scegliere su chi concentrarci. Sarebbe diventato un tormento infinito (per me e i lettori) includere ogni soggetto interessante. I live, certo, sostengono parte del mercato ma è sempre più difficile trovare club che ti permettano di suonare, soprattutto se hai una band di quattro elementi che deve dormire, mangiare e bere qualche birra. Marco Messina, quando non impegnato con i 99 Posse, gira con i suoi progetti di musica elettronica, e mi ha detto che spesso gli chiedono di andare solo con il dj set. Fai più ore, la gente balla e beve di più.
Il titolo del libro vuole infondere ottimismo sull’evoluzione di questo mercato musicale italiano?
Sì e no, potrebbe pure essere pessimismo sull’involuzione del mercato italiano. Sinceramente di certezze se ne hanno poche, il titolo è una genuina propensione a guardare avanti, qualsiasi sia l’avanti.
Infine, visto che sei al terzo libro e scrivi su più testate: durante il reportage quante analogie hai trovato tra lo stato dell’editoria e quello della musica?
È terribile dirlo ma ci sono talmente tanti parallelismi che temo una chiamata da Agenzia X per un libro sul mondo dell’editoria. Però già sarebbe più semplice, basterebbe cambiare qualche nome e la bibliografia.
Blow up, luglio 2016 Luca Pakarov. La traccia seguente
Tentativo di fare il punto sulla (e raccogliere i cocci della) scena musicale “alternativa” italiana dopo la rivoluzione digitale (da vinile a cd e ritorno) e poi internettiana (mp3, Spotify), La traccia seguente mette in fila una serie di riflessioni personali dell’autore corredate e coadiuvate da interviste a operatori di settore: proprietari di negozi di dischi, produttori (Giuliano Saglia, Enrico Molteni), giornalisti (Emiliano Colasanti, Alberto Campo, il sottoscritto) e musicisti (Giorgio Canali, Marco Messina dei 99 Posse, il rapper Hell Raton, Nicola Manzan) che riflettono, ripensano, si leccano le ferite, raccontano gli scenari presenti e provano a ipotizzarne altri per il futuro. Il quadro e abbastanza esauriente (mancano però le importanti figure dei nuovi “promoter” che ormai gestiscono per intero il mercato indie) e la scrittura, che ha il taglio del reportage d’autore, scorre bene, con la giusta dose di ironia ed evitando i retorici salamelecchi del volemose bbene a ogni costo.
Resta però - fin dal titolo, come una maledizione - l’inossidabile vezzo della “resistenza” quasi che sia impossibile, almeno per noi italiani, raccontare i tempi e i modi della musica senza trovare un qualche nemico a cui necessariamente contrapporsi (e che forse motivi il nostro stesso agire), in questo caso identificato con la tecnologia, la globalizzazione e le multinazionali... Ma resistere a cosa, Luca, quando tutti gli operatori (eccetto i negozianti e qualche musicista) si sono felicemente concessi anima e corpo a qualunque nuovo si è presentato nel corso del tempo? Anzi, hanno contribuito tutti quanti a rafforzarlo e ci hanno marciato felici come pasque salutandolo come l’ultima frontiera della liberazione della musica: da “Rolling Stone” al “manifesto” passando per le riviste specializzate e gli opportunisti del “e che possiamo fare?”, nessuno si è salvato dall’ubriacatura (spesso ipocrita) per i tempi moderni forti nuovi einteressanti. Ma tu lo sai bene, Luca, lo scrivi con molta verve ed efficacia e la cosa ti fa onore. Io da parte mia, fin dal 1999, addirittura da prima che nascesse l’mp3, mi sono opposto come ho potuto a questo acefalo fascionuovismo guadagnandomi l’appellativo di “reazionario” (fino al punto che il termine ha iniziato a piacermi molto più di “progressista”, e oggi lo rivendico con forza).
Tieni presente però, Luca, che il nemico, se proprio dobbiamo resistere a qualcosa, non è certo la tecnologia (e quindi non il cd o Spotity) e neppure le multinazionali imperialiste ma il gratis: la differenza non è solo notevole, è determinante. Perché è ideologica. E apre, questa sì, scenari autenticamente divisivi perché niente affatto consolatori, come invece si prestano bene ad essere la tecnologia, le multinazionali imperialiste e la loro (impossibile, e quindi autoconsolatoria e autoassolutoria) opposizione.
di Stefano I. BianchiResta però - fin dal titolo, come una maledizione - l’inossidabile vezzo della “resistenza” quasi che sia impossibile, almeno per noi italiani, raccontare i tempi e i modi della musica senza trovare un qualche nemico a cui necessariamente contrapporsi (e che forse motivi il nostro stesso agire), in questo caso identificato con la tecnologia, la globalizzazione e le multinazionali... Ma resistere a cosa, Luca, quando tutti gli operatori (eccetto i negozianti e qualche musicista) si sono felicemente concessi anima e corpo a qualunque nuovo si è presentato nel corso del tempo? Anzi, hanno contribuito tutti quanti a rafforzarlo e ci hanno marciato felici come pasque salutandolo come l’ultima frontiera della liberazione della musica: da “Rolling Stone” al “manifesto” passando per le riviste specializzate e gli opportunisti del “e che possiamo fare?”, nessuno si è salvato dall’ubriacatura (spesso ipocrita) per i tempi moderni forti nuovi einteressanti. Ma tu lo sai bene, Luca, lo scrivi con molta verve ed efficacia e la cosa ti fa onore. Io da parte mia, fin dal 1999, addirittura da prima che nascesse l’mp3, mi sono opposto come ho potuto a questo acefalo fascionuovismo guadagnandomi l’appellativo di “reazionario” (fino al punto che il termine ha iniziato a piacermi molto più di “progressista”, e oggi lo rivendico con forza).
Tieni presente però, Luca, che il nemico, se proprio dobbiamo resistere a qualcosa, non è certo la tecnologia (e quindi non il cd o Spotity) e neppure le multinazionali imperialiste ma il gratis: la differenza non è solo notevole, è determinante. Perché è ideologica. E apre, questa sì, scenari autenticamente divisivi perché niente affatto consolatori, come invece si prestano bene ad essere la tecnologia, le multinazionali imperialiste e la loro (impossibile, e quindi autoconsolatoria e autoassolutoria) opposizione.
il manifesto, sabato 25 giugno 2016 La musica nella rete
Il negozio di dischi è stato fino a qualche lustro addietro un luogo di conoscenza, ribellione, ma soprattutto di aggregazione, in cui la socializzazione poteva dare vita a una rock band, a solide amicizie e personalissime, quanto strambe, idee politiche. Il disco era un oggetto che creava compulsione perché stabiliva con precisa ostinazione i cicli della vita, l’ascensione verso la maturità, la follia dei vent’anni, la parabola verso la vecchiaia, la morte. In questo senso Alta fedeltà di Hornby narrò uno dei più bei affreschi generazionali, un immaginario spazzato via dalle tecnologie digitali. Da lì in poi si è generata la tentazione di quelli con più di un capello bianco, di contrapporre quel passato autentico a quanti ascoltano la musica dal telefonino. In altre parole la crisi del mercato musicale degli anni 2000 è stata metabolizzata come una vera e propria crisi dell’umanesimo, con le tv e grandi radio a macinare attese, con la fine della musica live nel club, dove il pubblico si presenta troppo tardi e senza nemmeno la concentrazione per un’ora di concerto. E poi i giornali specializzati costretti a lavorare solo sugli approfondimenti, mainstream e underground a braccetto nello zeitgeist della rete, tanti argomenti per non ammettere che la storia è cambiata: l’ascolto, la produzione, la vendita, la qualità sono cambiati.
Nell’ultimo anno e mezzo ci siamo fatti raccontare gli escamotage con cui i negozianti si sono adattati al nuovo sistema (nel libro La traccia seguente. Dialoghi di resistenza sonora uscito di recente da Agenzia X, pp. 200, euro 15). E in molti casi abbiamo sicuramente trovato quella che ci piace etichettare come “creatività italica”, ma in un certo senso ciò che ha reso alcuni negozi invulnerabili alle trappole del mercato discografico (come la vendita nei grandi store e supermercati di cd e vinile) è stata la pura e semplice passione e qualche buona iniziativa. Niente di più. Il non essere generalisti valorizzando prodotti di nicchia, fuori catalogo e coltivando le relazioni, quando il mercato continuava ad ammucchiare quantità di prodotti insulsi in luoghi ameni. Così un piccolo cambio di tendenza, anche generazionale, c’è stato: in tanti si sono riavvicinati a quelle botteghe stantie con il loro inconfondibile odore, anche – particolare non da poco – i più giovani che magari avevano avuto dai genitori il vecchio giradischi. Ma sono state anche le iniziative come Record Store Day: la giornata dedicata ai vinili – per quanto dagli addetti venga spesso guardata con sospetto – e che ogni negoziante glorifica al pari di una vigilia di Natale. Per gli incassi, s’intende.
Gli stessi produttori hanno dovuto cambiare strategie, come Giuliano Saglia della Brioche Edizioni Musicali che produceva disco music negli anni ’80, facendo numeri impressionanti per prodotti a dir poco imbarazzanti (300mila copie per la Fiky Fiky Compilation) e che aveva lavorato per etichette indipendenti a New York e Los Angeles ma che, con la crisi, pensò di chiudere bottega. Finché non scoprì l’energia dell’hip hop. Altro mondo, altre esigenze quelle di Molteni (bassista de I Tre Allegri Ragazzi Morti), produttore de La Tempesta, una delle etichette indie italiane più influenti e che nasce proprio negli anni di crisi. Ci racconta Molteni: «Non abbiamo una struttura, nessun ufficio, niente, solo un portatile. C’è solo una persona, io, per di più senza competenze specifiche. Distribuzione, uffici stampa e booking sono esterni. Il fatto di essere così piccoli ci rende invulnerabili: quando c’è un grattacielo e non si vende più, gli altri sono costretti a togliere un piano, poi un altro, por finire di fondersi con un’altra società. Noi non abbiamo nulla».
La tecnologia ha favorito questo tipo di evoluzione, la stessa che ha tolto alla musica finché non permetterà un’equa ridistribuzione ma, se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, ha restituito dando nuovo impulso alla musica indipendente grazie alla possibilità di un’espansione orizzontale della tua creazione, cioè lo stesso Dna del «do it yourself» del punk. A tal proposito spiega il critico Alberto Campo: «Come ogni passaggio d’epoca, la transizione verso una nuova modalità comporta in pari misura opportunità e rischi. Dipende dunque dal punto di osservazione: chi beneficiava di posizioni di privilegio nelle gerarchie di un tempo è stato costretto a mettersi in discussione, mentre giovani e outsider hanno avuto l’occasione di farsi notare senza avere necessariamente una struttura promozionale alle spalle. Carta vince, carta perde, insomma». Punto di osservazione che si riscontra agli antipodi per musicisti come Marco Messina e Giorgio Canali, uno che non si ritrova col nuovo e l’altro che si augura addirittura la fine del mercato discografico.
Un altro punto dell’indagine si è incentrato proprio sulla figura del critico che, con social e blog, si è liquefatto nel rumore perdendo il peso della firma, oltre che a causa della crisi nera dell’editoria che non può permettersi di pagare decentemente i professionisti. Da una parte è come se si fosse tornati all’epoca delle fanzine ma dall’altra, come uscito fuori da una chiacchierata con Stefano Isidoro Bianchi, si è creato anche qui un pubblico resistente: «Sì una recensione conta ancora, almeno per il pubblico specializzato; per quello generalista, come è sempre accaduto, contano soprattutto la pubblicità e l’ascolto più o meno occasionale. Lo stesso vale per chi firma un articolo. Tutto sta nel valutare il tipo di pubblico di cui parliamo».
È una Babilonia in cui si cerca una lingua comune e che alcuni indipendenti, come per esempio Nicola Manzan di Bologna Violenta, hanno affrontato mettendo tutti i lavori sul sito americano Bandcamp, streaming gratis ma ottima vetrina per il fisico e il merchandising. Si tratta cioè di capire come sintetizzare quel “mondo di simultaneità” già descritto da Marshall McLuhan mezzo secolo fa e come riallacciare il flusso economico che va dall’artista al fruitore, ma qui il discorso comprende la prospettiva di inceppare un meccanismo dominato dall’ineguaglianza. È fin troppo prevedibile che un riequilibrio del sistema da parte dell’élite tecnocratica verso condizioni favorevoli per gli operatori più bistrattati, sarebbe come se le multinazionali risolvessero il problema della fame nel mondo, tassandosi. Ma l’ineguaglianza è pur sempre stata il motore per spronarci a organizzare lotte, pur se resta difficile immaginare un progetto di controcultura egualitaria quando ci si ritrova, allo stesso tempo, affamati consumatori tecnologici e sottoposti ai condizionamenti del mercato. Riconquistare il senso e l’energia dell’utopia significa innanzitutto lottare contro il paradosso di una liberazione che parte dall’interno di noi stessi, da una repressione subdola, di cui si riesce a malapena a intuire le forze in campo. Ed è con la memoria e la lentezza che possiamo costruirci un’identità, un’appartenenza e non sopperire a quel vuoto che divide, che produce approssimazione e fa tanto comodo al controllo sociale.
Nell’ultimo anno e mezzo ci siamo fatti raccontare gli escamotage con cui i negozianti si sono adattati al nuovo sistema (nel libro La traccia seguente. Dialoghi di resistenza sonora uscito di recente da Agenzia X, pp. 200, euro 15). E in molti casi abbiamo sicuramente trovato quella che ci piace etichettare come “creatività italica”, ma in un certo senso ciò che ha reso alcuni negozi invulnerabili alle trappole del mercato discografico (come la vendita nei grandi store e supermercati di cd e vinile) è stata la pura e semplice passione e qualche buona iniziativa. Niente di più. Il non essere generalisti valorizzando prodotti di nicchia, fuori catalogo e coltivando le relazioni, quando il mercato continuava ad ammucchiare quantità di prodotti insulsi in luoghi ameni. Così un piccolo cambio di tendenza, anche generazionale, c’è stato: in tanti si sono riavvicinati a quelle botteghe stantie con il loro inconfondibile odore, anche – particolare non da poco – i più giovani che magari avevano avuto dai genitori il vecchio giradischi. Ma sono state anche le iniziative come Record Store Day: la giornata dedicata ai vinili – per quanto dagli addetti venga spesso guardata con sospetto – e che ogni negoziante glorifica al pari di una vigilia di Natale. Per gli incassi, s’intende.
Gli stessi produttori hanno dovuto cambiare strategie, come Giuliano Saglia della Brioche Edizioni Musicali che produceva disco music negli anni ’80, facendo numeri impressionanti per prodotti a dir poco imbarazzanti (300mila copie per la Fiky Fiky Compilation) e che aveva lavorato per etichette indipendenti a New York e Los Angeles ma che, con la crisi, pensò di chiudere bottega. Finché non scoprì l’energia dell’hip hop. Altro mondo, altre esigenze quelle di Molteni (bassista de I Tre Allegri Ragazzi Morti), produttore de La Tempesta, una delle etichette indie italiane più influenti e che nasce proprio negli anni di crisi. Ci racconta Molteni: «Non abbiamo una struttura, nessun ufficio, niente, solo un portatile. C’è solo una persona, io, per di più senza competenze specifiche. Distribuzione, uffici stampa e booking sono esterni. Il fatto di essere così piccoli ci rende invulnerabili: quando c’è un grattacielo e non si vende più, gli altri sono costretti a togliere un piano, poi un altro, por finire di fondersi con un’altra società. Noi non abbiamo nulla».
La tecnologia ha favorito questo tipo di evoluzione, la stessa che ha tolto alla musica finché non permetterà un’equa ridistribuzione ma, se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, ha restituito dando nuovo impulso alla musica indipendente grazie alla possibilità di un’espansione orizzontale della tua creazione, cioè lo stesso Dna del «do it yourself» del punk. A tal proposito spiega il critico Alberto Campo: «Come ogni passaggio d’epoca, la transizione verso una nuova modalità comporta in pari misura opportunità e rischi. Dipende dunque dal punto di osservazione: chi beneficiava di posizioni di privilegio nelle gerarchie di un tempo è stato costretto a mettersi in discussione, mentre giovani e outsider hanno avuto l’occasione di farsi notare senza avere necessariamente una struttura promozionale alle spalle. Carta vince, carta perde, insomma». Punto di osservazione che si riscontra agli antipodi per musicisti come Marco Messina e Giorgio Canali, uno che non si ritrova col nuovo e l’altro che si augura addirittura la fine del mercato discografico.
Un altro punto dell’indagine si è incentrato proprio sulla figura del critico che, con social e blog, si è liquefatto nel rumore perdendo il peso della firma, oltre che a causa della crisi nera dell’editoria che non può permettersi di pagare decentemente i professionisti. Da una parte è come se si fosse tornati all’epoca delle fanzine ma dall’altra, come uscito fuori da una chiacchierata con Stefano Isidoro Bianchi, si è creato anche qui un pubblico resistente: «Sì una recensione conta ancora, almeno per il pubblico specializzato; per quello generalista, come è sempre accaduto, contano soprattutto la pubblicità e l’ascolto più o meno occasionale. Lo stesso vale per chi firma un articolo. Tutto sta nel valutare il tipo di pubblico di cui parliamo».
È una Babilonia in cui si cerca una lingua comune e che alcuni indipendenti, come per esempio Nicola Manzan di Bologna Violenta, hanno affrontato mettendo tutti i lavori sul sito americano Bandcamp, streaming gratis ma ottima vetrina per il fisico e il merchandising. Si tratta cioè di capire come sintetizzare quel “mondo di simultaneità” già descritto da Marshall McLuhan mezzo secolo fa e come riallacciare il flusso economico che va dall’artista al fruitore, ma qui il discorso comprende la prospettiva di inceppare un meccanismo dominato dall’ineguaglianza. È fin troppo prevedibile che un riequilibrio del sistema da parte dell’élite tecnocratica verso condizioni favorevoli per gli operatori più bistrattati, sarebbe come se le multinazionali risolvessero il problema della fame nel mondo, tassandosi. Ma l’ineguaglianza è pur sempre stata il motore per spronarci a organizzare lotte, pur se resta difficile immaginare un progetto di controcultura egualitaria quando ci si ritrova, allo stesso tempo, affamati consumatori tecnologici e sottoposti ai condizionamenti del mercato. Riconquistare il senso e l’energia dell’utopia significa innanzitutto lottare contro il paradosso di una liberazione che parte dall’interno di noi stessi, da una repressione subdola, di cui si riesce a malapena a intuire le forze in campo. Ed è con la memoria e la lentezza che possiamo costruirci un’identità, un’appartenenza e non sopperire a quel vuoto che divide, che produce approssimazione e fa tanto comodo al controllo sociale.
Il Resto del Carlino, 22 giugno 2016 Emozioni in musica, dal vinile al cd fino all’mp3
Un viaggio che parte dai luoghi dell’infanzia, i negozi che hanno cresciuto appassionati e musicisti, e arriva allo “scaricare”: dal vinile al cd, dall’mp3 a Spotify per ritornare al vinile. A fare da cicerone, gli operatori del mercato musicale. È La traccia seguente, edito da Agenzia X, il terzo libro del maceratese Luca Pakarov, firma di “Rolling Stone”, che ora collabora con “il manifesto” e altri magazine nazionali. Interviste ironiche, lontane dal politically correct, da lui definite “dialoghi di resistenza sonora”, descrivono i cambiamenti del settore, con un’introduzione di Pierpaolo Capovilla de Il Teatro degli Orrori e postfazione di Silvia Boschero, conduttrice della trasmissione King Kong di Rai Radio 1. Pakarov ha incontrato i più importanti negozianti di Milano, Roma, Torino e delle realtà di provincia, come Jukebox all’Idrogeno di corso della Repubblica a Macerata, confrontandosi con produttori quali Saglia per la discomusic italiana o Molteni per le band indie, con collezionisti e critici, con musicisti: Giorgio Canali, Marco Messina dei 99 Posse e il rapper Hell Raton raccontano la trasformazione del pubblico da un punto di vista privilegiato, il palco. Lo scrittore ricorda i negozi di dischi di quando era ragazzino, punti di ritrovo in cui parlare di musica e politica. E poi il cambiamento del sistema, il crollo del mercato musicale nel 2000 con il pianeta del download e dello streaming, e dei “sopravvissuti”, i personaggi intervistati nel libro. C’è chi rimpiange il vinile e torna ad esso come un circolo vizioso, chi lavora nel digitale e vende la propria musica si Bandcamp.