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La guerra dei segni
Carmilla , 9 settembre 2022Estetiche inquiete. A volte (ri)emergono dal sottosuolo. Esperienze figurative underground dagli anni ’50 ad oggi
Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protagonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug che ne possono compromettere il funzionamento.
Sull’onda delle celebri Vite vasariane, anche La guerra dei segni traccia il suo racconto dell’arte, in questo caso esclusivamente figurativa e relativamente al solo suo underground side, a partire dalle vite dei singoli protagonisti. Se il volume cinquecentesco attorno alle biografie degli artisti sviluppava un’analisi delle modalità espressive succedutesi nell’arco di circa due secoli e mezzo, il libro di Teatro ricorre alle vite dei protagonisti tanto per verificarne ed esplicitarne l’appartenenza all’universo underground, quanto per individuarne i reciproci collegamenti nel tempo e nello spazio.
Ad essere ricostruito è l’ondivago percorso che nel corso del tempo e delle specifiche storie individuali ha visto questi protagonisti dell’universo underground oscillare tra il sistema dell’arte ufficiale e il rifiuto o il disinteresse di farne parte e tra le lusinghe, i respingimenti e le benevolenze ritardate del sistema stesso nei loro confronti.
Quello proposto da Teatro è un percorso reticolare in cui individualità o piccoli gruppi si sviluppano a macchia di leopardo salvo poi intrecciarsi con altre esperienze originatesi altrove per contaminazione o in maniera relativamente autonoma.
Il volume si apre nei garage californiani degli anni Cinquanta, tra decoratori e customizzatori di automobili e motociclette come Von Dutch (Kenneth Robert Howard) e Ed “Big Daddy” Roth che influenzano con le loro estetiche ambiti che vanno ben al di là di quelli motoristici, in un epoca segnata dalla guerra fredda che non manca di investire l’ambito artistico in quanto ingranaggio importante della macchina di costruzione dell’immaginario. Uno snodo importante è rappresentato dalla scena controculturale e dall’universo psichedelico californiani da cui derivano grafiche innovative. Ad essere presi in esame sono illustratori come Wes Wilson, Stanley George Miller (Stanley Mouse), Alton Kelly, Rick Griffin, Victor Moscoso, Lee Conklin e Jim Franklin. Dal medesimo panorama culturale si sviluppa un’editoria underground, prende il via l’autoproduzione delle prime fanzine che contribuiscono a far circolare grafiche e fumetti di autori come Basil Wolverton, Robert Crumb, Gilbert Shelton, Ron Cobb, Spain Rodriguez, Trina Robbins, Steve Clay Wilson, Greg Irons, Robert Armstrong, Rory Hayes e Richard Corben.
Per quanto riguarda l’underground europeo il volume si sofferma su autori quali Hans Rudolf Giger, Martin Sharp e Alan Aldridge. Lo svizzero Giger, padre dei biomeccanoidi, ha prestato il suo estroso immaginario alla saga cinematografica Alien, oltre che ad aver contribuito, con un suo celebre inserto, a far mettere all’indice negli USA e in UK l’album Frankenchrist (1985) dei Dead Kennedys. Sharp è invece l’illustratore di origine australiana, poi trasferitosi a Londra, artefice dell’avventura inglese di «OZ» e di importanti collaborazioni con il mondo musicale dell’epoca, così come farà Aldridge.
In ambito italiano le origini dell’underground vengono fatte risalire nel volume verso la metà degli agli anni Sessanta attorno a «Mondo Beat», con i lavori di Matteo Guarnaccia, fondatore nel 1970 della rivista psichedelica «Insekten Skete» e del grafico Max Capa (Nino Armando Ceretti), autore nel corso degli anni Settanta di riviste come «Puzz», «Provocazione», «Apocalisse» e «Flashback».
Un rapido cenno è dedicato all’esperienza underground in Unione Sovietica portata avanti da autori come Aleksandr Melamind e Vitalij Komar alle prese con un controllo repressivo difficilmente eludibile.
Il libro passa poi ad indagare una serie di esperienze tra Stati Uniti ed Europa. Primo tra tutti il disegnatore Vanughn Bodé, che non manca di schierare i suoi ramarri contro l’intervento militare statunitense in Vietnam per poi evolvere la sua produzione verso una contaminazione tra fumetto underground e writing. Dunque è la volta di Eric Orr, realizzatore di grafiche per la scena hip hop da cui deriva negli anni Ottanta una fortunata serie di fumetti.
Una sezione importante è poi dedicata alla grafica e all’estetica punk con relativi manifesti, locandine, cover di dischi e punkzine. Tra gli autori trattati nel volume vi sono Jamie Reid, autore delle celebri cover dell’album Never Mind the Bollocks (1977) e del singolo God Save the Queen (1977) dei Sex Pistols, Raymond Pettibon, adottato dall’universo punk tanto da essere impiegato nelle cover dei dischi Six Pack (1981) e Police Story (1981) dei Black Flag, Winston Smith, creatore del logo dei Dead Kennedys e della copertina del loro album In God We Trust (1981), oltre che di Insomniac (1995) dei Green Days. Non poteva mancare uno spazio dedicato a Gee Vaucher a cui si devono le grafiche dei radicali e coerenti Crass. Con John Holmstrom e i fratelli Hernandez si giunge poi all’incontro del fumetto con il punk.
Il volume si occupa anche dell’arrivo (ritardato) in Italia delle grafiche e dei fumetti underground statunitensi. Ed a proposito del panorama italiano viene riservato spazio a una serie di autori – Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scòzzari, Massimo Mattioli ed Andrea Pazienza – che si intrecciano, a vario titolo, con la vita di riviste come «Combinazioni», «Cannibale», «Re Nudo», «Il Male» e «Frigidare».
Dunque è la volta dell’ambito sudamericano di fumettisti e illustratori, come Héctor Germán Oesterheld, Alberto Breccia e José Muñoz e di autori americani o europei che non disdegnano di operare ricorrendo al détournement di matrice situazionista o, ancora, personalità come Joe Coleman, Keith Haring, Carlos Rodriguez (Mare 139), Jean-Michel Basquiat, A-One (Anthony Clark) e Professor Bad Trip.
Un poderoso capitolo è riservato all’Arte di strada, dal writing alla scoperta dei graffiti da parte del mercato artistico. Per la scena americana vengono approfonditi Cornbread, Phase 2, Super Kool 223, T-KID, Chaz Bojorquez e Twist (Barry McGee), mentre per quella europea si approfondiscono le produzioni di Ateier Populaire, Don Leicht, John Fekner, Futura 2000, Blek le Rat, Speedy Graphito, Miss Tic, Jef Aérosol, LOKISS, Mode 2, Les Nuklé-Art, Banlieu-BanlieuThierry Noir, oltre a quelle proposte dalla scene di Amsterdam e del muro berlinese. Per quanto riguarda il contesto italiano vengono indagati gli ambiti della stencil art, dei serigraffiti, dell’Open Art Studio con Atomo, Swarz, Shah, e, ancora, Giacomo Spazio, Francesco Garbelli, Pao, DeeMO, CK8 e Pea Brain.
Un capitolo è dedicato all’arte di fine millennio con l’underground che conquista le gallerie (e viceversa), esempi di giornalismo illustrato, individualità artistiche e festival organizzati come HIU (dal 1993) nell’ambito dei Centri sociali milanesi e Crack! del Forte Prenestino romano.
Il volume si chiude con una sezione dedicata alla Street Art a partire dalle sue origini, passando per la scena di Bristol, dunque a quella internazionale fino all’Urban art con il nuovo muralismo e la propensione al gigantismo. In questi casi la rassegna avviene a “vernice ancora fresca”, nel pieno di un dibattito ancora acceso.
In conclusione, la grandezza e la forza dell’underground pare oscillare tra due miti estremi: da un lato il suo ostinato perpetuarsi tale in contrapposizione o in sottrazione al mainstream e dall’altro il volersi mantenere alternativa ad esso soltanto a tempo determinato mirando ad anticipare ed incidere sul mainstream e con esso su un ambito sociale e culturale più allargato.
Sospeso tra la volontà di essere un mezzo e quella di essere un fine, di certo l’universo underground, con tutte le sue contraddizioni, nasce da una oggettiva necessità espressiva, una necessità che ha attraversato il secondo Novecento ed è giunta fino ai nostri giorni che ha trovato nel do it yourself – ben da prima che il punk lo esprimesse con consapevolezza – la sua parola d’ordine che ovviamente non risolve, non potendo farlo, le contraddizioni di un sistema da cui non sembra possibile emanciparsi per sottrazione.
È forse nel dare a necessità immediate un soddisfacimento altrettanto immediato che va individuata la portata politica eversiva dell’underground e La guerra dei segni, nel suo tratteggiare un’altra storia dell’arte – non a caso a partire dalle vite dei suoi protagonisti – ne offre una panoramica preziosa.
di Gioacchino Toni
pulplibri.it, 23 luglio 2022Marco Teatro / L’impero dei segni
“Underground”, parola chiave della cultura alternativa di qualche decennio fa – promossa anche da una profezia del vecchio Duchamp: “The great artist of the future will go underground” – riposa oggi più o meno alla stessa nube semantica di espressioni come drop-out, freak, acid test, etc. C’era una volta il “mondo dell’arte” – chiuso, elitista, danaroso – e dall’altra quello delle sottoculture di strada, degli hot rod sgargianti, dei fumetti osceni e trasgressivi, della protesta anti-sistema. Il Mondo di Peggy Guggenheim e quello di Robert Crunch per oltre un ventennio non si sono parlati, poi qualcosa è cambiato a partire dagli anni Ottanta quando il terzo incomodo della pubblicità e della cultura pop ha spalancato le gallerie ai primi “graffitisti” (termine più in voga tra i galleristi che accettato nella cultura hip hop), e Saatchi, un decennio più tardi, ha rivoltato il mondo dell’arte come un calzino. Di lì in poi la scia del sottomondo e quella del sopramondo artistico si sono intrecciati, pur con tutta la differenza che nella post-modernità ha preso il posto dell’alterità, dando vita a una rete di scambi lungo le correnti ascensionali della tendenza e delle mode globali. Il caso di Banksy, icona street-art che può conciliare anonimato artistico e brand-managing da multinazionale tascabile, street credit, tempestività politica e quotazioni stellari, ne è solo l’espressione più nota e persistente. Non sorprende che anche la nostra esperienza estetica risulti oggi riorientata da una stimolazione continua, sospesa e anestetizzata dentro quella che appare a molti come un’unica bolla emergente di interconnessione mediatica.
Marco Teatro, artista e studioso di arti figurative e di cultura underground, dedica questo libro alla ricerca e alla documentazione di un punto di vista “non dominante” nel percorso dell’arte e delle mutazioni socio-culturali degli ultimi settanta anni. Dall’alba del ’beatnik alla psichedelia, dal punk all’“arte murale” dei writers, La guerra dei segni insegue i movimenti che, nati nel retrobottega della cultura di massa – hot rod, poster, fumetti, stickers, cover di dischi, ecc. – abbracceranno convintamente innovazioni e tecnologie a basso costo (fanzine, aerografo, fotocopiatrici, spray, stencil, poi internet) fino a farla scoppiare. Segni che affondano nel tempo e riaffiorano, reinventati in modo imprevedibile, strategie di guerriglia estetica che, di volta in volta, mirano a saturare le immagini fino all’inverosimile, come nei comics di Richard Corben, nelle tavole di "ZAP" o in "Ranxerox" di Tanino Liberatore, o a scarnificare le convenzioni grafiche e rappresentative con il minimalismo punk di Jamie Reid (si veda la cover di Never Mind the Buzzcocks), e oggi gli stencil bicromatici dei muralisti inglesi e dello stesso Banksy.
Se per la generazione post-punk il legame con la grafica e con la moda appare per certi aspetti connaturato alle sue origini, per la precedente generazione hippie-californiana l’approdo con il sopramondo è costituito soprattutto dall’abbraccio dell’emergente industria dello spettacolo, dalle cover di band amiche come i Jefferson o i Dead, dalle scenografie di registi come Spielberg o Ridley Scott, e sempre più spesso dai graphic novel, mano a mano che le fumetterie alternative chiudono o tirano a campare. Tra una celebrazione e l’altra, la loro effettiva assunzione nel pantheon creativo, anche in chiave museale deve attendere, diversi anni più tardi, la relativa affermazione di una tendenza come il Lowbrow americano, con solide radici underground, presentata a un mercato mainstream, nel frattempo diventato più aperto e ricettivo.
Diversamente, il rapporto tra la scena dei writers, e dei “muralisti” (detto per semplicità) e l’establishment artistico si apre ben presto a un gioco smaliziato e senza esclusioni di colpi tra street credit e credenziale galleristiche, comunità di quartiere e circuito privato, in un “mondo dell’arte” che alle soglie del nuovo millennio si presenta ormai del tutto mutato in senso liberista rispetto a pochi anni prima: completamente globalizzato, creativamente aperto e finanziariamente rilevante. Un movimento, quello del writing, del bombing e poi della street-art che vede in prima fila anche sulla scena internazionale almeno tre generazioni di artisti italiani. Non senza episodi di becero paternalismo istituzionale e di vera appropriazione, come testimoniano la parabola del bolognese Blu, “piratato” da un gallerista privato, o l’exploit del neo assessore milanese Vittorio Sgarbi che nel 2006, dopo aver dichiarato che i muri del CSO Leoncavallo erano la nuova Cappella Sistina, chiese agli artisti della mostra al PAC di cedere i diritti a un’asta televisiva, ovviamente di amici. Mostra, peraltro, a tutt’oggi con più visitatori nella storia del piccolo spazio milanese.
Attraverso decine di schede, La guerra dei segni offre una guida ben documentata (e illustrata) al lato visibile, ma spesso meno analizzato, di molti movimenti culturali e politici degli ultimi decenni.
Fabio Malagnini
Radio Popolare, I girasoli, 31 luglio 2021La guerra dei segni
Tiziana Ricci nella sua rubrica “I girasoli” intervista Marco Teatro a proposito del suo libro La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte
Ascolta il postcad dal minuto 35.20
Artein, luglio 2021Digressioni sull’arte tra vecchio e nuovo mondo
Rivoluzionari senza gloria. Il tributo di un veterano

Un altro sguardo sui geni perduti e dimenticati che hanno fatto la storia dell’arte loro malgrado, eroi inconsapevoli e martiri votati che si sono destinati a cambiare le regole prima che le rivoluzioni siano diventate regola. Marco in arte Teatro è uno di loro, artista, scenografo, praticante pensatore sempre in azione. Con buon diritto Teatro ha compilato questa storia “altra” dell’arte contemporanea, che narra di prodonomi indiscussi, ma solo dopo che il mainstream ha capito qualcosa del magma che all’esordio della sua potenza disturba, sbigottisce e inorridisce. Salvo che quando una novità esplode tutti la rivendicano, la riconoscono e la venerano. Il volume di Teatro è al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Può parlare liberamente della guerra dei segni perché è un veterano, coevo e compagno dei geniali innovatori poi seppelliti dalla gloria presa da altri. Irregolari strepitosi inventori di linguaggi che oggi riconosciamo come lingue madri.
Paolo Sciortino

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