Satisfiction, maggio 2010La fuga in avanti
Se la sinistra italiana fosse una famiglia potrebbe fare di cognome Morlacchi, abitare a Milano e, dagli anni Sessanta in poi, devolvere tutte le sue energie a un dissenso più ampio, deciso a rifiutare la rappresentanza parlamentare offerta dal Pci per dare vita a un organismo di lotta autenticamente rivoluzionario.
La fuga in avanti, di Manolo Morlacchi, racconta questa storia. In modo particolare la storia di Pierino Morlacchi e di Heidi Peusch, a vario titolo coinvolti nella fondazione delle prime Br. Non è strano che questo memoir si apra con il grido di una madre decisa a impedire alla polizia di maltrattare il proprio bambino e prosegua, pagina dopo pagina, raccontando di perquisizioni subite all’alba, umiliazioni vissute dentro e fuori le carceri, imputazioni rese credibili soltanto dai teoremi giustificati dalle leggi speciali approvate per far fronte al terrorismo, calunnie sparse a piene mani da una stampa garantista soltanto all’occorrenza. Gli spunti offerti dal testo di Morlacchi sono innumerevoli. La nuda cronaca degli eventi che il libro racconta con partecipazione commossa e misurata insieme prevede, per i principali personaggi, un destino da fuggiaschi in cerca di asilo politico in Europa, quindi interminabili anni di carcere duro e, una volta riacquistata la libertà, un’enorme difficoltà ad accettare quella che viene solitamente detta una “vita normale”. Pierino Morlacchi veniva definito “uno dei capi storici delle Brigate rosse” e suo figlio, quando aveva appena nove anni, già era stato (falsamente) accusato di andare in giro insieme al padre per i quartieri popolari di Milano a tracciare sui muri scritte inneggianti alla lotta armata. Si tratta dello stesso bambino che dona il suo sguardo alla voce narrante del libro. Eppure, superati i primi capitoli, la prima persona sembra stare stretta a quella voce, come se il suo autore, anziché limitarsi a scrivere, si trasformasse nel terminale di una più generale esperienza collettiva: un’epopea in grado di superare persino la morte dei protagonisti per offrirsi al lettore sotto forma di storia sociale, e di conseguenza condivisa. L’autore è il figlio di Morlacchi e Peusch: la stessa persona tenuta sotto il fuoco della polizia mentre era ancora in fasce, accusata di favoreggiamento quando sapeva a malapena camminare e, oggi, trattenuta in stato di arresto per una (quantomeno) fumosa accusa di appartenenza all’organizzazione “per il comunismo Brigate rosse”. Un epilogo che dimostra come la testimonianza raccolta ne La fuga in avanti attenda ancora di essere ascoltata.
di Cristiano ArmatiLa fuga in avanti, di Manolo Morlacchi, racconta questa storia. In modo particolare la storia di Pierino Morlacchi e di Heidi Peusch, a vario titolo coinvolti nella fondazione delle prime Br. Non è strano che questo memoir si apra con il grido di una madre decisa a impedire alla polizia di maltrattare il proprio bambino e prosegua, pagina dopo pagina, raccontando di perquisizioni subite all’alba, umiliazioni vissute dentro e fuori le carceri, imputazioni rese credibili soltanto dai teoremi giustificati dalle leggi speciali approvate per far fronte al terrorismo, calunnie sparse a piene mani da una stampa garantista soltanto all’occorrenza. Gli spunti offerti dal testo di Morlacchi sono innumerevoli. La nuda cronaca degli eventi che il libro racconta con partecipazione commossa e misurata insieme prevede, per i principali personaggi, un destino da fuggiaschi in cerca di asilo politico in Europa, quindi interminabili anni di carcere duro e, una volta riacquistata la libertà, un’enorme difficoltà ad accettare quella che viene solitamente detta una “vita normale”. Pierino Morlacchi veniva definito “uno dei capi storici delle Brigate rosse” e suo figlio, quando aveva appena nove anni, già era stato (falsamente) accusato di andare in giro insieme al padre per i quartieri popolari di Milano a tracciare sui muri scritte inneggianti alla lotta armata. Si tratta dello stesso bambino che dona il suo sguardo alla voce narrante del libro. Eppure, superati i primi capitoli, la prima persona sembra stare stretta a quella voce, come se il suo autore, anziché limitarsi a scrivere, si trasformasse nel terminale di una più generale esperienza collettiva: un’epopea in grado di superare persino la morte dei protagonisti per offrirsi al lettore sotto forma di storia sociale, e di conseguenza condivisa. L’autore è il figlio di Morlacchi e Peusch: la stessa persona tenuta sotto il fuoco della polizia mentre era ancora in fasce, accusata di favoreggiamento quando sapeva a malapena camminare e, oggi, trattenuta in stato di arresto per una (quantomeno) fumosa accusa di appartenenza all’organizzazione “per il comunismo Brigate rosse”. Un epilogo che dimostra come la testimonianza raccolta ne La fuga in avanti attenda ancora di essere ascoltata.
Corriere della sera, 12 giugno 2009Così papà scelse a Milano la lotta armata
I figli del Pierino. Gli amici, i vecchi rimasti nelle strade del Giambellino, Manolo ed Ernesto Morlacchi se li ricordano bene e li chiamano proprio così, “i figli del Pierino il brigatista”. Trent'anni dopo, il vecchio quartiere milanese a sud ovest della Madonnina, quello fatto di immigrati e proletari, quello reso famoso dalla ballata di Giorgio Gaber, quella del bar del Cerruti Gino, il “drago”, ha cambiato faccia e colori. Quarant'anni dopo ha smarrito proprio tutto delle famiglie operaie che si aiutavano tra loro e litigavano col “Pci revisionista”. Ma loro due, Manolo ed Ernesto, i figli di Pietro Morlacchi detto Piero, c'è chi li ricorda ancora come fosse oggi, con le braghe corte, seduti nel divano posteriore della vecchia Volvo di papà, tutta fumo e chilometri, coi volantini dei compagni da appendere al muro di notte sparpagliati nell'immenso baule.
Pierino, classe 38, al Giambellino non è uno qualsiasi. E con lui la moglie tedesca, Heidi Ruth Peush, bella donna, terrorista fino a quando non è diventata madre. La sua è una una storia segnata dal marchio Br. Nel 1971, insieme a Renato Curcio e Mara Cagol, fonda il Collettivo politico metropolitano. Di fatto, la prima brigata con la stella a cinque punte. Di lì a poco la lotta politica impugna la P38.
A ricordarlo, nel suo libro intitolato La fuga in avanti - La rivoluzione è un fiore che non muore, è Manolo, che ora, a 39 anni, si ritrova indagato per banda armata ed eversione al fianco dei compagni di Genova e Roma. “Col '68 e l'inizio delle lotte operaie studentesche – scrive – la funzione di quel gruppo andò via via esaurendosi. Alcuni rientrarono nelle fila istituzionali, altri scelsero la lotta armata. Tra questi mio padre...”.
Non s'è mai macchiato di fatti di sangue, Pierino. Il suo pezzo forte erano le rapine. Ma anche i sequestri. Con la persona che veniva prelevata, fotografata dal commando e poi riaccompagnata sana e salva sul posto m cui era stata presa, solo per dimostrare al mondo la forza militare e logistica delle Brigate rosse. Erano gli anni in cui al Giambellino i brigatisti tenevano comizi in pubblico, sui tetti dei palazzi sventolavano bandiere rosse con la stella a cinque punte e i compagni presidiavano la piazza con le pistole in tasca. Curcio parlava e la polizia stava a guardare. Non interveniva per non creare disordini. Erano gli anni delle stragi, delle fabbriche occupate e dei cortei. C'era un clima cupo. E il peggio doveva ancora arrivare.
Oggi Manolo ed Ernesto, anche lui perquisito, portato via dal posto di lavoro da agenti incappucciati, interrogato e poi rilasciato nel cuore della notte senza che risulti indagato, giurano che di Br-Pcc non sanno nulla. Fino a un paio di anni fa Manolo incontrava Fallico, uno degli arrestati. Poi si è accorto di avere sempre la Digos addosso e da quel mondo raccontato nel libro s'è sganciato in fretta.
Al Giambellino “i figli del Pierino” li difendono. Lì, dove una volta il partito comunista era l'unico riferimento e la “ligera”, la piccola mala milanese, aveva il suo quartier generale, la gente è sorpresa. Manolo ed Ernesto, ieri operato a una spalla, di parlare hanno poca voglia. “Non è giusto – dicono – essere svenduti come terroristi soltanto per il cognome che portiamo”.
di Biagio MarsigliaPierino, classe 38, al Giambellino non è uno qualsiasi. E con lui la moglie tedesca, Heidi Ruth Peush, bella donna, terrorista fino a quando non è diventata madre. La sua è una una storia segnata dal marchio Br. Nel 1971, insieme a Renato Curcio e Mara Cagol, fonda il Collettivo politico metropolitano. Di fatto, la prima brigata con la stella a cinque punte. Di lì a poco la lotta politica impugna la P38.
A ricordarlo, nel suo libro intitolato La fuga in avanti - La rivoluzione è un fiore che non muore, è Manolo, che ora, a 39 anni, si ritrova indagato per banda armata ed eversione al fianco dei compagni di Genova e Roma. “Col '68 e l'inizio delle lotte operaie studentesche – scrive – la funzione di quel gruppo andò via via esaurendosi. Alcuni rientrarono nelle fila istituzionali, altri scelsero la lotta armata. Tra questi mio padre...”.
Non s'è mai macchiato di fatti di sangue, Pierino. Il suo pezzo forte erano le rapine. Ma anche i sequestri. Con la persona che veniva prelevata, fotografata dal commando e poi riaccompagnata sana e salva sul posto m cui era stata presa, solo per dimostrare al mondo la forza militare e logistica delle Brigate rosse. Erano gli anni in cui al Giambellino i brigatisti tenevano comizi in pubblico, sui tetti dei palazzi sventolavano bandiere rosse con la stella a cinque punte e i compagni presidiavano la piazza con le pistole in tasca. Curcio parlava e la polizia stava a guardare. Non interveniva per non creare disordini. Erano gli anni delle stragi, delle fabbriche occupate e dei cortei. C'era un clima cupo. E il peggio doveva ancora arrivare.
Oggi Manolo ed Ernesto, anche lui perquisito, portato via dal posto di lavoro da agenti incappucciati, interrogato e poi rilasciato nel cuore della notte senza che risulti indagato, giurano che di Br-Pcc non sanno nulla. Fino a un paio di anni fa Manolo incontrava Fallico, uno degli arrestati. Poi si è accorto di avere sempre la Digos addosso e da quel mondo raccontato nel libro s'è sganciato in fretta.
Al Giambellino “i figli del Pierino” li difendono. Lì, dove una volta il partito comunista era l'unico riferimento e la “ligera”, la piccola mala milanese, aveva il suo quartier generale, la gente è sorpresa. Manolo ed Ernesto, ieri operato a una spalla, di parlare hanno poca voglia. “Non è giusto – dicono – essere svenduti come terroristi soltanto per il cognome che portiamo”.
www.vuotoaperdere.org, 16 marzo 2009Dal Giambellino al dopo Moro. Intervista a Manolo Morlacchi
Ho incrociato Manolo Morlacchi lo scorso anno, quando seppi del suo libro La fuga in avanti dall’amico Giuliano Boraso che lo definì “progetto non allineato”.
La definizione mi incuriosì molto e decisi di leggere subito il libro nel quale Manolo ha voluto raccontare, a distanza di anni, la storia dei Morlacchi, famiglia proletaria che ha attraversato, per così dire, tutte le fasi del movimento operaio dello scorso secolo.
Un punto di vista che mi incuriosiva molto, quello di Manolo.
Non protagonista ma nemmeno estraneo alle vicende degli anni settanta, perché bambino in grado già di comprendere e di applicare alle cose il filtro del giudizio.
Con una grande capacità letteraria, alternando il racconto al documento, ha saputo raccontare le vicende dei genitori e personali senza mai cadere nella retorica o nella giustificazione fine a se stessa ma sapendo rivendicare le scelte di vita e politiche di Pierino Morlacchi ed Heidi Peusch e il loro ruolo di genitori che si sono sempre preoccupati di crescere i figli con affetto nel rispetto delle proprie scelte di vita. Il tutto nel pieno rispetto delle scelte degli altri e dei dolori provocati.
Mi è sembrato un interessante punto di vista dal quale partire per analizzare le contraddizioni di una generazione, lasciando da parte le mistificazioni e le dietrologie ma mettendo in primo piano il percorso dei singoli dentro il contesto storico-sociale-politico di un’epoca con la quale non siamo ancora in grado, come nazione, di chiudere i conti.
Come valuti, a 30 anni di distanza, l’esperienza di tuo padre?
Non posso che guardare con enorme ammirazione alle scelte compiute da mio padre, da mia madre e da centinaia di altri compagni più di trent’anni fa. Al di là delle questioni politiche, mi piace sempre ricordare l’enorme esempio di umanità che i miei genitori sono stati capaci di trasmettere a me e tanti altri. Un esempio che ho cercato di far trasparire dalle pagine de La fuga in avanti, utilizzando prima di tutto episodi legati alla quotidianità, ai rapporti famigliari, alla dignità umana.
Parliamo del Pci dell’inizio degli anni ’70. Perché per molti giovani rappresentò una delusione?
La delusione rispetto al Pci nasce e si sviluppa ben prima degli anni ’70. Già alla fine degli anni ’50 iniziano a maturare posizioni critiche verso il partito. Critiche che nascevano da sinistra e che scaturivano del percorso riformista imboccato dal Pci prima ancora che finisse la seconda guerra mondiale. Chi contestava il Pci agli inizi degli anni ’60 lo faceva riferendosi alla Cina di Mao, al Vietnam, a Cuba, all’Algeria e alle lotte di liberazione anticolonialiste. Guardava, insomma, a tutte le esperienze rivoluzionarie che ancora puntavano al superamento del capitalismo e non al suo miglioramento ed alla convivenza con esso. Il Pci, citando a memoria le stesse Br de “L’ape e il comunista”, aveva ormai imboccato la strada che lo trasformerà da “partito della classe operaia dentro lo stato, a partito dello stato dentro la classe operaia”.
Da una di queste fratture nacque nel quartiere Giambellino di Milano il gruppo “Luglio ’60”. Fu in questo gruppo che condussero la loro militanza alcuni compagni che in seguito aderirono alle Brigate Rosse, tra essi mio padre. È ormai notorio che una componente significativa delle prime Br proveniva proprio dalle fila del partito comunista italiano.
Credo si possa affermare in modo molto chiaro che la principale ragione della delusione dei giovani verso il Pci fu la sua scelta riformista e l’abbandono di una strategia rivoluzionaria.
In occasione del funerale di tuo padre nell’orazione funebre si legge, a proposito dei diversi percorsi dei militanti rivoluzionari, “alcuni hanno barattato la loro dignità con le briciole che la borghesia lascia cadere a terra dalla tavola sempre più imbandita dello sfruttamento, della violenza e della guerra”. Il baratto è stato più un segno di debolezza personale, di forza dell’avversario o di sconfitta definitiva? E, soprattutto, quanto hanno inciso quei baratti nella lettura di quegli anni?
Il “baratto” a cui si riferisce l’orazione funebre, se vogliamo, è ancora più drastico e radicale. Non si collega semplicemente al tradimento o alla dissociazione di coloro che aderirono all’esperienza della lotta armata. È all’intera classe operaia che si rivolge l’accusa. Non vi è mai stata nella tradizione a cui mi riferisco e negli insegnamenti ricevuti alcuni inclinazione ecumenica verso “la classe”. Citando Marx, “il proletariato è rivoluzionario o non è nulla”. Certo di mezzo ci sono anche i percorsi dei militanti rivoluzionari. E forse il loro baratto è anche frutto di debolezza, paura, sconfitta personale e collettiva. Ma non serve a comprendere e descrivere quegli anni.
Diversa cosa sono le apologie della sconfitta che hanno caratterizzato i lavori di ricostruzione compiuti dagli ex militanti, poi pentiti o dissociati. In quel caso ci troviamo nel campo di coloro che per ricostruirsi una verginità sociale hanno dovuto, per l’appunto, barattare la loro dignità raccontando una storia dettata da altri. Certo, questo tipo di ricostruzione ha trovato una vasta platea anche grazie a tutto il supporto massmediatico garantito. Ma non credo che, nel lungo periodo, questi lavori possano avere alcuna funzione, né politica, né storica, né sociale.
Chiudi il libro con un episodio emblematico che, sebbene non sarà stato unico, nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco. Nel 2003, al funerale di tua madre, su un muro trovaste scritto: “La rivoluzione è un fiore che non muore. Ciao Heidi” e negli occhi dei compagni presenti ti è sembrato di aver scorto una scintilla più che mai viva, un sogno rivoluzionario ancora non sfumato per il quale è necessario ancora lottare. Cosa vuol dire, secondo te, oggi essere rivoluzionari e quali sono gli strumenti per la lotta?
Essere rivoluzionari, oggi come ieri, significa una sola e semplice cosa: combattere per il superamento del capitalismo. È il sistema che si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione a generare le ingiustizie che ogni giorno urlano da ogni angolo del mondo. E oggi è giusto e necessario essere al fianco di coloro che ad ogni latitudine resistono agli attacchi dell’imperialismo.
All’inizio della loro storia, le Br tenevano addirittura comizi pubblici e tu racconti di quando Curcio parlava in una piazza di Milano presidiata da compagni amati. La polizia era presente, ma per evitare che si generassero situazioni pericolose, restava a debita distanza. Non pensi che questa conoscenza possa aver permesso agli investigatori di continuare a “tracciare” il percorso dell’Organizzazione senza, tuttavia, dover per forza intervenire in maniera preventiva?
Certo, può succedere che talvolta le forze dell’ordine utilizzino questa strategia. Trovato un filo scoperto cercano di risalire fino al bandolo della matassa. Nel caso dell’esempio da te citato direi che questo rischio non venne corso anche perché ci trovavamo in una fase del tutto embrionale della lotta armata. I primi militanti a cadere furono il prodotto di uno dei rarissimi infiltrati, Pisetta. Fu lui, come noto, che contribuì peraltro ad accelerare la scelta della definitiva clandestinità e la ristrutturazione dell’organizzazione in fronti e colonne.
Un luogo comune relativo alla storia delle Br, riguarda le diverse generazioni di brigatisti che sono stati ai vertici dell'Organizzazione. In genere si sottolinea come all'arresto di Curcio e Franceschini si sia assistito ad una svolta militaristica voluta da Moretti. Questo per sottintendere la nascita di una nuova logica, poco conforme alla precedente storia delle Br. Cosa ne pensi?
Personalmente è una tesi a cui non credo. Le svolte all’interno delle Br ci furono, ma furono il prodotto di una discussione politica corale che includeva anche il punto di vista dei militanti che si trovavano in prigione. Anzi, direi che i militanti imprigionati furono sempre assai ascoltati da chi continuava a combattere fuori.
La tesi delle Br militariste mira a separare le “pecore bianche da quelle nere”, per ragioni che sono tutte politiche. Le pecore bianche sono le prime Br che usavano la violenza come moderni Robin Hood. Le pecore nere sono le seconde Br; quelle violente, assassine, quelle di Moro per intenderci. È un tipo di lettura a cui mi sottraggo e a cui non ho mai dato alcun credito.
Vi fu senza dubbio un passaggio strategico che produsse un nuovo livello di scontro. Ma tale passaggio fu il prodotto non delle soggettività che si trovavano in quel momento in una posizione di comando, bensì di un percorso politico condiviso da tutta l’organizzazione.
Nel libro racconti il primo arresto di tuo padre in Svizzera, quando fu costruita una montatura tra Carabinieri e Sid dovuta al fatto che sarebbe stato più difficile per l’Italia chiedere l’estradazione per un “prigioniero politico”. È possibile, secondo te, che le leggi siano state letteralmente calpestate in altre occasioni? Perché i rivoluzionari facevano molta paura o perché non si avevano strumenti efficaci per una soppressione del fenomeno all’interno delle leggi?
Non vorrei apparire dogmatico e quindi utilizzo una contro domanda a proposito di un fatto recente. È possibile parlare di leggi dopo una sentenza vergognosa come quella emessa dal tribunale di Genova a proposito dei fatti della scuola Diaz e della caserma Bolzaneto? È del tutto evidente che il concetto di legge è solo una delle tanti variabili attraverso le quali si esercita il potere della borghesia. Personalmente non trovo nulla di strano, né mi inalbero se non per ragioni di prassi politica, di fronte a sentenze come quella su Genova 2001, come quella sull’assassinio di Carlo Giuliani, sulla reintroduzione mascherata della tortura e della pena di morte nelle nostre carceri avvenuta alla fine degli anni ’70 ecc.
Ogni volta che il potere avverte una minaccia provenire da un movimento, da una contraddizione, da una tensione sociale o calpesta le leggi esistenti o ne crea di nuove a suo uso e consumo.
In questo senso è evidente che i rivoluzionari degli anni ’70 facevano moltissima paura.
Il fatto di essere il figlio di uno dei fondatori delle Br, ti ha mai creato problemi personali nello studio, sul lavoro o nella vita privata?
No. Al contrario è sempre stato un vantaggio. Ho constatato personalmente che la storia della mia famiglia mi ha quasi sempre garantito un rispetto di fondo dalle persone, a prescindere dalle loro convinzioni politiche.
Se i parenti delle vittime di quegli anni reclamano, da un lato, il rispetto del proprio dolore e dall’altro il silenzio degli ex che non dovrebbero ergersi a maestri pubblicando libri, rilasciando interviste quale pensi debba essere la richiesta, oggi, degli ex brigatisti e dei loro parenti?
Nessuna. Non si capisce a quale titolo e su quale argomento possa essere estesa una richiesta e per quale ragione le istituzioni dovrebbero mostrarsi disponibili. Sono peraltro proprio gli ex brigatisti irriducibili, fuori e dentro il carcere, a non richiedere alcunché allo Stato.
Perché l’Italia è l’unico Paese nel quale a distanza di 40 anni ancora non si riusciti a voltare pagina? Quale è la tua soluzione per arrivare ad una verità storica che permetta a tutti di assumersi le proprie responsabilità e liberare i troppi fantasmi del passato?
Analizzare liberamente e fino in fondo quanto accaduto negli anni ’70 e ancora di più nei decenni precedenti significherebbe mettere in discussione l’intero impianto su cui si regge la nostra repubblica. Ogni lettura diventa così inevitabilmente una lettura interessata che ha ben poche affinità con la “verità storica”. Sollevare misteri e analisi dietrologiche permette di fomentare il dibattito politico e di trascinarlo sul terreno della pura speculazione. Il caso Moro è emblematico in tal senso.
A proposito del caso Moro. Nel ’78 tuo padre si trovava in una parentesi di libertà ed era rientrato al Giambellino. Nel libro racconti che aveva trovato una realtà diversa (altro termine). Come valutò il 16 marzo il notevole salto di qualità dell'Organizzazione? Azzardato? Necessario? Inevitabile?
Poco prima della sua morte parlai con mio padre del 16 marzo 1978 e di tutto quello che seguì a quella data. Mi ribadì con forza che sia lui, sia altri compagni di Milano, erano contrari a quell’iniziativa e, di riflesso, anche alla scelta finale dell’esecuzione. Riteneva che la dirompenza di Moro vivo sarebbe senza dubbio stata maggiore del Moro morto. Mio padre pensava che, dopo la prima ondata rivoluzionaria dagli inizi degli anni ’60 fino alla metà dei ’70, sarebbe stato necessario tirare un respiro ed attendere l’evoluzione delle contraddizioni aperte in quegli anni di lotta. E questo prima che la repressione iniziasse a fare la differenza. In sintesi, pensava che la cosiddetta “ritirata strategica” lanciata in seguito come parola d’ordine dalle Br avrebbe sortito gli effetti attesi se fosse stata proposta qualche anno prima.
Quali erano le aspettative dei militanti in libertà riguardo "l'Operazione Fritz"?
Posso supporre che le aspettative fossero enormi. D’altronde è innegabile che, al di là di ogni dietrologia, il risultato scaturito da quella campagna fosse gigantesco. Anzi, credo proprio che tutte le inutili dietrologie di questi decenni nascondano in parte anche la rabbia di chi non vuole ammettere un dato inequivocabile: un gruppo di operai, di proletari organizzati, riusciva addirittura a rapire il presidente del più importante partito politico italiano. Il messaggio, anche da un punto di vista propagandistico, era fortissimo.
A trent'anni di distanza ci si scontra ancora sulla "polis o pietas", se in nome della "ragion di Stato" fosse giusto trasgredire le leggi pur di salvare una vita. Cosa ne pensi?
Lo Stato italiano trasgredisce le leggi decine di volte ogni giorno. Trasgredisce ad esempio da 60 anni la sua legge fondamentale, la Costituzione. Credo proprio che la questione della “ragion di Stato” sia mal posta. Le ragioni per le quali si decise di non liberare i prigionieri delle Brigate Rosse furono tutte politiche e nulla avevano a che fare con ragionamenti etici.
Credi che la gestione del sequestro Moro sarebbe stata diversa se fosse stata condotta da altri brigatisti?
Assolutamente no. Ripeto: la storia delle BR è anche fatta di salti e di passaggi strategici. Ma questi passaggi furono sempre il prodotto di un confronto collettivo e aperto.
Cosa ha significato l’uccisione di Moro per il futuro dell’Organizzazione?
Si parla spesso degli operai in piazza il 16 marzo del 1978 per attaccare le Br e i loro piani “eversivi”. In realtà, dopo il sequestro Moro, la popolarità dell’organizzazione era alle stelle anche e soprattutto nel corpo operaio. Le richieste di adesione fioccavano e forse non sempre la quantità si sposava con la qualità necessaria ad un’organizzazione clandestina.
È comunque innegabile che la campagna di primavera e, in specifico, il sequestro Moro, rappresentarono una tappa decisiva nella storia dell’organizzazione. Le Br attaccavano i vertici del potere e il potere rispondeva rinunciando alla salvezza di un suo uomo. Da quel momento in avanti il livello dello scontro non sarebbe più stato lo stesso. E infatti non fu più lo stesso, nel bene e nel male.
Chi è Manolo Morlacchi
Nasce nel ’70 e ha sempre risieduto a Milano. Si è laureato in Storia presso la facoltà di lettere e filosofia della Statale di Milano nel 1997 con una tesi dal titolo "Politica e ideologia nell'Italia degli anni ’70. Il caso delle Br". Studente lavoratore, deve ben presto abbandonare qualsiasi velleità di insegnamento o di dottorato. A fine 2008, ha pubblicato un racconto su “il manifesto” dal titolo "I topi di San Vittore" che, tratto da fonti orali, racconta una giornata tipo nello storico carcere milanese.
Attualmente lavora in una multinazionale dell'outsourcing cartaceo (archiviazione industriale per conto terzi), dove si occupa di logistica.
di ManlioLa definizione mi incuriosì molto e decisi di leggere subito il libro nel quale Manolo ha voluto raccontare, a distanza di anni, la storia dei Morlacchi, famiglia proletaria che ha attraversato, per così dire, tutte le fasi del movimento operaio dello scorso secolo.
Un punto di vista che mi incuriosiva molto, quello di Manolo.
Non protagonista ma nemmeno estraneo alle vicende degli anni settanta, perché bambino in grado già di comprendere e di applicare alle cose il filtro del giudizio.
Con una grande capacità letteraria, alternando il racconto al documento, ha saputo raccontare le vicende dei genitori e personali senza mai cadere nella retorica o nella giustificazione fine a se stessa ma sapendo rivendicare le scelte di vita e politiche di Pierino Morlacchi ed Heidi Peusch e il loro ruolo di genitori che si sono sempre preoccupati di crescere i figli con affetto nel rispetto delle proprie scelte di vita. Il tutto nel pieno rispetto delle scelte degli altri e dei dolori provocati.
Mi è sembrato un interessante punto di vista dal quale partire per analizzare le contraddizioni di una generazione, lasciando da parte le mistificazioni e le dietrologie ma mettendo in primo piano il percorso dei singoli dentro il contesto storico-sociale-politico di un’epoca con la quale non siamo ancora in grado, come nazione, di chiudere i conti.
Come valuti, a 30 anni di distanza, l’esperienza di tuo padre?
Non posso che guardare con enorme ammirazione alle scelte compiute da mio padre, da mia madre e da centinaia di altri compagni più di trent’anni fa. Al di là delle questioni politiche, mi piace sempre ricordare l’enorme esempio di umanità che i miei genitori sono stati capaci di trasmettere a me e tanti altri. Un esempio che ho cercato di far trasparire dalle pagine de La fuga in avanti, utilizzando prima di tutto episodi legati alla quotidianità, ai rapporti famigliari, alla dignità umana.
Parliamo del Pci dell’inizio degli anni ’70. Perché per molti giovani rappresentò una delusione?
La delusione rispetto al Pci nasce e si sviluppa ben prima degli anni ’70. Già alla fine degli anni ’50 iniziano a maturare posizioni critiche verso il partito. Critiche che nascevano da sinistra e che scaturivano del percorso riformista imboccato dal Pci prima ancora che finisse la seconda guerra mondiale. Chi contestava il Pci agli inizi degli anni ’60 lo faceva riferendosi alla Cina di Mao, al Vietnam, a Cuba, all’Algeria e alle lotte di liberazione anticolonialiste. Guardava, insomma, a tutte le esperienze rivoluzionarie che ancora puntavano al superamento del capitalismo e non al suo miglioramento ed alla convivenza con esso. Il Pci, citando a memoria le stesse Br de “L’ape e il comunista”, aveva ormai imboccato la strada che lo trasformerà da “partito della classe operaia dentro lo stato, a partito dello stato dentro la classe operaia”.
Da una di queste fratture nacque nel quartiere Giambellino di Milano il gruppo “Luglio ’60”. Fu in questo gruppo che condussero la loro militanza alcuni compagni che in seguito aderirono alle Brigate Rosse, tra essi mio padre. È ormai notorio che una componente significativa delle prime Br proveniva proprio dalle fila del partito comunista italiano.
Credo si possa affermare in modo molto chiaro che la principale ragione della delusione dei giovani verso il Pci fu la sua scelta riformista e l’abbandono di una strategia rivoluzionaria.
In occasione del funerale di tuo padre nell’orazione funebre si legge, a proposito dei diversi percorsi dei militanti rivoluzionari, “alcuni hanno barattato la loro dignità con le briciole che la borghesia lascia cadere a terra dalla tavola sempre più imbandita dello sfruttamento, della violenza e della guerra”. Il baratto è stato più un segno di debolezza personale, di forza dell’avversario o di sconfitta definitiva? E, soprattutto, quanto hanno inciso quei baratti nella lettura di quegli anni?
Il “baratto” a cui si riferisce l’orazione funebre, se vogliamo, è ancora più drastico e radicale. Non si collega semplicemente al tradimento o alla dissociazione di coloro che aderirono all’esperienza della lotta armata. È all’intera classe operaia che si rivolge l’accusa. Non vi è mai stata nella tradizione a cui mi riferisco e negli insegnamenti ricevuti alcuni inclinazione ecumenica verso “la classe”. Citando Marx, “il proletariato è rivoluzionario o non è nulla”. Certo di mezzo ci sono anche i percorsi dei militanti rivoluzionari. E forse il loro baratto è anche frutto di debolezza, paura, sconfitta personale e collettiva. Ma non serve a comprendere e descrivere quegli anni.
Diversa cosa sono le apologie della sconfitta che hanno caratterizzato i lavori di ricostruzione compiuti dagli ex militanti, poi pentiti o dissociati. In quel caso ci troviamo nel campo di coloro che per ricostruirsi una verginità sociale hanno dovuto, per l’appunto, barattare la loro dignità raccontando una storia dettata da altri. Certo, questo tipo di ricostruzione ha trovato una vasta platea anche grazie a tutto il supporto massmediatico garantito. Ma non credo che, nel lungo periodo, questi lavori possano avere alcuna funzione, né politica, né storica, né sociale.
Chiudi il libro con un episodio emblematico che, sebbene non sarà stato unico, nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco. Nel 2003, al funerale di tua madre, su un muro trovaste scritto: “La rivoluzione è un fiore che non muore. Ciao Heidi” e negli occhi dei compagni presenti ti è sembrato di aver scorto una scintilla più che mai viva, un sogno rivoluzionario ancora non sfumato per il quale è necessario ancora lottare. Cosa vuol dire, secondo te, oggi essere rivoluzionari e quali sono gli strumenti per la lotta?
Essere rivoluzionari, oggi come ieri, significa una sola e semplice cosa: combattere per il superamento del capitalismo. È il sistema che si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione a generare le ingiustizie che ogni giorno urlano da ogni angolo del mondo. E oggi è giusto e necessario essere al fianco di coloro che ad ogni latitudine resistono agli attacchi dell’imperialismo.
All’inizio della loro storia, le Br tenevano addirittura comizi pubblici e tu racconti di quando Curcio parlava in una piazza di Milano presidiata da compagni amati. La polizia era presente, ma per evitare che si generassero situazioni pericolose, restava a debita distanza. Non pensi che questa conoscenza possa aver permesso agli investigatori di continuare a “tracciare” il percorso dell’Organizzazione senza, tuttavia, dover per forza intervenire in maniera preventiva?
Certo, può succedere che talvolta le forze dell’ordine utilizzino questa strategia. Trovato un filo scoperto cercano di risalire fino al bandolo della matassa. Nel caso dell’esempio da te citato direi che questo rischio non venne corso anche perché ci trovavamo in una fase del tutto embrionale della lotta armata. I primi militanti a cadere furono il prodotto di uno dei rarissimi infiltrati, Pisetta. Fu lui, come noto, che contribuì peraltro ad accelerare la scelta della definitiva clandestinità e la ristrutturazione dell’organizzazione in fronti e colonne.
Un luogo comune relativo alla storia delle Br, riguarda le diverse generazioni di brigatisti che sono stati ai vertici dell'Organizzazione. In genere si sottolinea come all'arresto di Curcio e Franceschini si sia assistito ad una svolta militaristica voluta da Moretti. Questo per sottintendere la nascita di una nuova logica, poco conforme alla precedente storia delle Br. Cosa ne pensi?
Personalmente è una tesi a cui non credo. Le svolte all’interno delle Br ci furono, ma furono il prodotto di una discussione politica corale che includeva anche il punto di vista dei militanti che si trovavano in prigione. Anzi, direi che i militanti imprigionati furono sempre assai ascoltati da chi continuava a combattere fuori.
La tesi delle Br militariste mira a separare le “pecore bianche da quelle nere”, per ragioni che sono tutte politiche. Le pecore bianche sono le prime Br che usavano la violenza come moderni Robin Hood. Le pecore nere sono le seconde Br; quelle violente, assassine, quelle di Moro per intenderci. È un tipo di lettura a cui mi sottraggo e a cui non ho mai dato alcun credito.
Vi fu senza dubbio un passaggio strategico che produsse un nuovo livello di scontro. Ma tale passaggio fu il prodotto non delle soggettività che si trovavano in quel momento in una posizione di comando, bensì di un percorso politico condiviso da tutta l’organizzazione.
Nel libro racconti il primo arresto di tuo padre in Svizzera, quando fu costruita una montatura tra Carabinieri e Sid dovuta al fatto che sarebbe stato più difficile per l’Italia chiedere l’estradazione per un “prigioniero politico”. È possibile, secondo te, che le leggi siano state letteralmente calpestate in altre occasioni? Perché i rivoluzionari facevano molta paura o perché non si avevano strumenti efficaci per una soppressione del fenomeno all’interno delle leggi?
Non vorrei apparire dogmatico e quindi utilizzo una contro domanda a proposito di un fatto recente. È possibile parlare di leggi dopo una sentenza vergognosa come quella emessa dal tribunale di Genova a proposito dei fatti della scuola Diaz e della caserma Bolzaneto? È del tutto evidente che il concetto di legge è solo una delle tanti variabili attraverso le quali si esercita il potere della borghesia. Personalmente non trovo nulla di strano, né mi inalbero se non per ragioni di prassi politica, di fronte a sentenze come quella su Genova 2001, come quella sull’assassinio di Carlo Giuliani, sulla reintroduzione mascherata della tortura e della pena di morte nelle nostre carceri avvenuta alla fine degli anni ’70 ecc.
Ogni volta che il potere avverte una minaccia provenire da un movimento, da una contraddizione, da una tensione sociale o calpesta le leggi esistenti o ne crea di nuove a suo uso e consumo.
In questo senso è evidente che i rivoluzionari degli anni ’70 facevano moltissima paura.
Il fatto di essere il figlio di uno dei fondatori delle Br, ti ha mai creato problemi personali nello studio, sul lavoro o nella vita privata?
No. Al contrario è sempre stato un vantaggio. Ho constatato personalmente che la storia della mia famiglia mi ha quasi sempre garantito un rispetto di fondo dalle persone, a prescindere dalle loro convinzioni politiche.
Se i parenti delle vittime di quegli anni reclamano, da un lato, il rispetto del proprio dolore e dall’altro il silenzio degli ex che non dovrebbero ergersi a maestri pubblicando libri, rilasciando interviste quale pensi debba essere la richiesta, oggi, degli ex brigatisti e dei loro parenti?
Nessuna. Non si capisce a quale titolo e su quale argomento possa essere estesa una richiesta e per quale ragione le istituzioni dovrebbero mostrarsi disponibili. Sono peraltro proprio gli ex brigatisti irriducibili, fuori e dentro il carcere, a non richiedere alcunché allo Stato.
Perché l’Italia è l’unico Paese nel quale a distanza di 40 anni ancora non si riusciti a voltare pagina? Quale è la tua soluzione per arrivare ad una verità storica che permetta a tutti di assumersi le proprie responsabilità e liberare i troppi fantasmi del passato?
Analizzare liberamente e fino in fondo quanto accaduto negli anni ’70 e ancora di più nei decenni precedenti significherebbe mettere in discussione l’intero impianto su cui si regge la nostra repubblica. Ogni lettura diventa così inevitabilmente una lettura interessata che ha ben poche affinità con la “verità storica”. Sollevare misteri e analisi dietrologiche permette di fomentare il dibattito politico e di trascinarlo sul terreno della pura speculazione. Il caso Moro è emblematico in tal senso.
A proposito del caso Moro. Nel ’78 tuo padre si trovava in una parentesi di libertà ed era rientrato al Giambellino. Nel libro racconti che aveva trovato una realtà diversa (altro termine). Come valutò il 16 marzo il notevole salto di qualità dell'Organizzazione? Azzardato? Necessario? Inevitabile?
Poco prima della sua morte parlai con mio padre del 16 marzo 1978 e di tutto quello che seguì a quella data. Mi ribadì con forza che sia lui, sia altri compagni di Milano, erano contrari a quell’iniziativa e, di riflesso, anche alla scelta finale dell’esecuzione. Riteneva che la dirompenza di Moro vivo sarebbe senza dubbio stata maggiore del Moro morto. Mio padre pensava che, dopo la prima ondata rivoluzionaria dagli inizi degli anni ’60 fino alla metà dei ’70, sarebbe stato necessario tirare un respiro ed attendere l’evoluzione delle contraddizioni aperte in quegli anni di lotta. E questo prima che la repressione iniziasse a fare la differenza. In sintesi, pensava che la cosiddetta “ritirata strategica” lanciata in seguito come parola d’ordine dalle Br avrebbe sortito gli effetti attesi se fosse stata proposta qualche anno prima.
Quali erano le aspettative dei militanti in libertà riguardo "l'Operazione Fritz"?
Posso supporre che le aspettative fossero enormi. D’altronde è innegabile che, al di là di ogni dietrologia, il risultato scaturito da quella campagna fosse gigantesco. Anzi, credo proprio che tutte le inutili dietrologie di questi decenni nascondano in parte anche la rabbia di chi non vuole ammettere un dato inequivocabile: un gruppo di operai, di proletari organizzati, riusciva addirittura a rapire il presidente del più importante partito politico italiano. Il messaggio, anche da un punto di vista propagandistico, era fortissimo.
A trent'anni di distanza ci si scontra ancora sulla "polis o pietas", se in nome della "ragion di Stato" fosse giusto trasgredire le leggi pur di salvare una vita. Cosa ne pensi?
Lo Stato italiano trasgredisce le leggi decine di volte ogni giorno. Trasgredisce ad esempio da 60 anni la sua legge fondamentale, la Costituzione. Credo proprio che la questione della “ragion di Stato” sia mal posta. Le ragioni per le quali si decise di non liberare i prigionieri delle Brigate Rosse furono tutte politiche e nulla avevano a che fare con ragionamenti etici.
Credi che la gestione del sequestro Moro sarebbe stata diversa se fosse stata condotta da altri brigatisti?
Assolutamente no. Ripeto: la storia delle BR è anche fatta di salti e di passaggi strategici. Ma questi passaggi furono sempre il prodotto di un confronto collettivo e aperto.
Cosa ha significato l’uccisione di Moro per il futuro dell’Organizzazione?
Si parla spesso degli operai in piazza il 16 marzo del 1978 per attaccare le Br e i loro piani “eversivi”. In realtà, dopo il sequestro Moro, la popolarità dell’organizzazione era alle stelle anche e soprattutto nel corpo operaio. Le richieste di adesione fioccavano e forse non sempre la quantità si sposava con la qualità necessaria ad un’organizzazione clandestina.
È comunque innegabile che la campagna di primavera e, in specifico, il sequestro Moro, rappresentarono una tappa decisiva nella storia dell’organizzazione. Le Br attaccavano i vertici del potere e il potere rispondeva rinunciando alla salvezza di un suo uomo. Da quel momento in avanti il livello dello scontro non sarebbe più stato lo stesso. E infatti non fu più lo stesso, nel bene e nel male.
Chi è Manolo Morlacchi
Nasce nel ’70 e ha sempre risieduto a Milano. Si è laureato in Storia presso la facoltà di lettere e filosofia della Statale di Milano nel 1997 con una tesi dal titolo "Politica e ideologia nell'Italia degli anni ’70. Il caso delle Br". Studente lavoratore, deve ben presto abbandonare qualsiasi velleità di insegnamento o di dottorato. A fine 2008, ha pubblicato un racconto su “il manifesto” dal titolo "I topi di San Vittore" che, tratto da fonti orali, racconta una giornata tipo nello storico carcere milanese.
Attualmente lavora in una multinazionale dell'outsourcing cartaceo (archiviazione industriale per conto terzi), dove si occupa di logistica.
Carmilla, 25 settembre 2008Manolo Morlacchi: la fuga in avanti
Di questo libro si occupò a suo tempo Carmilla, era il 3 gennaio del 2008. Personalmente l’ho avuto tra le mani solamente una quindicina di giorni fa, e sento la necessità quasi fisiologica di condividere con i lettori le impressioni che questo libro mi ha trasmesso.
E’ opera di un uomo nato nel 1970, che rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza, fortemente influenzate da una famiglia non esattamente coerente con il “decennio d’oro” che furono gli anni Ottanta. Tra i parenti nessun imprenditore rampante, nessuno che si sia arricchito coi Bot per acquistare la seconda casa, nessun avanzamento sociale, dal proletariato alla piccola borghesia, nessuna giacca di pelle o visone da ostentare con nonchalance, come l’avessero sempre avuta nell’armadio, nessun biglietto da 100 carte esibito nel portafoglio a suggerire “posso comprare tutto quello che voglio”. Manolo Morlacchi è figlio di brigatisti rossi. Coerenti, ostinatamente coerenti fino all’ultimo.
Di questo libro si occupò a suo tempo Carmilla, era il 3 gennaio del 2008. Personalmente l’ho avuto tra le mani solamente una quindicina di giorni fa, e sento la necessità quasi fisiologica di condividere con i lettori le impressioni che questo libro mi ha trasmesso.
E’ opera di un uomo nato nel 1970, che rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza, fortemente influenzate da una famiglia non esattamente coerente con il “decennio d’oro” che furono gli anni Ottanta. Tra i parenti nessun imprenditore rampante, nessuno che si sia arricchito coi Bot per acquistare la seconda casa, nessun avanzamento sociale, dal proletariato alla piccola borghesia, nessuna giacca di pelle o visone da ostentare con nonchalance, come l’avessero sempre avuta nell’armadio, nessun biglietto da 100 carte esibito nel portafoglio a suggerire “posso comprare tutto quello che voglio”. Manolo Morlacchi è figlio di brigatisti rossi. Coerenti, ostinatamente coerenti fino all’ultimo.Pierino Morlacchi, il padre di Manolo, è nato nel 1958 ed è morto nel 1999. La madre, tedesca, Heidi Ruth Peush, è nata nel 1941 e deceduta nel 2005. Nella famiglia Morlacchi comunisti lo si diventava dalla prima poppata al seno. Già partigiani, milanesi del Giambellino, perseguitati dai fascisti, poi militanti del PCI, tanti fratelli e sorelle che facevano un gruppo unico, un saldo legame che non tradì mai, malgrado scelte diverse e spesso non condivise, quel fratello che aveva portato alle estreme conseguenze la sua ideologia, in perenne necessità di copertura, di affidamento dei figli, di denaro.
Enormi tavolate tra zii e cugini, anche più di venti persone, enormi mangiate quando ce n’era ed enormi bevute con quello che c’era, fratelli e sorelle in eterno pellegrinaggio tra le varie carceri italiane di tutta la penisola, clandestinità, arresti e ancora avvocati, processi, tribunali. La specializzazione di Pierino furono le rapine, un asso del mestiere. Fu anche il protagonista di uno dei primi “sequestri” delle BR. Ho messo tra virgolette la parola sequestro perché oggi risulta quasi patetico chiamare così il prelievo di una persona fotografata da un commando e poi riaccompagnata nel luogo dove era stata prelevata, solo per dimostrare la potenza, la capacità logistica e militare dell’organizzazione.
Erano gli anni Settanta. Quasi impossibile oggi immaginare che in quegli anni le Brigate Rosse tenessero comizi pubblici al Giambellino, con Curcio che parlava e i compagni che presidiavano la piazza armati. Il consenso era altissimo tra la gente, Milano era popolo al Giambellino, lì “nuotavi come un pesce nell’acqua”, tra i tuoi.
La madre di Manolo, Heidi, nacque nella RDT, poi si trasferì nella Germania ovest, Londra, esperienze con i “figli dei fiori”, Milano nell’ambiente della Quarta Internazionale, e quindi l’incontro col Morlacchi. Da lì una vita in fuga, sempre in avanti però, come recita il titolo del libro. E’ forse la storia della madre, tutt’altro che comprimaria, ad avermi colpita maggiormente. Con i figli in giro per l’Italia, e poi anche per lei il carcere, la separazione, le lettere che scriveva loro, l’insegnamento dell’onestà, della dedizione alla causa, della coerenza personale come massima eredità da tramandare.
Lo stupore che suscita questo libro si può riassumere in due considerazioni: la prima è la singolare esperienza di un bambino che introietta dentro di sé tutte le contraddizioni di classe, di un’epoca che dalla Resistenza va al PCI e quindi alle BR; la seconda, che è conseguente alla prima, è la linearità di una scelta come la lotta armata.
Ci hanno abituati a pensare che il fenomeno lotta armata fosse un fatto marginale e circoscritto, secondario, addirittura salottiero: militanti figli di papà che si pentivano appena messo il piede in questura, intellettuali che facevano a gara a chi formulava i comunicati più illeggibili e indecifrabili (“deliranti”, li definiva regolarmente la stampa). Insomma, persone che più lontane non si può dal popolo, dal proletariato, e soprattutto dagli operai delle fabbriche.
Niente di più falso. Le prime BR erano parte integrante e decisiva di una linea politica che non poteva identificarsi con l’imborghesimento di un Partito Comunista che faceva della concertazione il suo cavallo di battaglia. E stiamo parlando di quello che succedeva nelle città. E nelle carceri, luogo fondamentale di reclutamento delle BR? Dobbiamo pensare che il proletariato carcerario degli anni Sessanta-Settanta era rappresentato da un ben caratterizzato gruppo sociale: semianalfabeta, per lo più parlava in dialetto meridionale. Furti, rapina e spaccio i delitti, quasi tutti legati a clan o gruppi familiari.
Al di fuori di quella realtà ci fu chi, come successe nelle carceri italiane, vedeva in quel sottoproletariato la risorsa per fare del mondo un luogo più giusto, umano e decente. Del tutto inaspettatamente chi si riteneva escluso dalla storia ne diventava il protagonista, con un linguaggio che non escludeva l’illegalità, quindi percorsi già noti, ma non più finalizazati all’arricchimento personale o del clan, bensì per portare a termine quel processo rivoluzionario verso uno stato socialista che il Partito Comunista aveva tradito.
Sono impressionanti, e perciò di eccezionale valore storiografico, le esperienze che Manolo racconta nel suo libro. Ci sono le lettere dal carcere, quelle scritte dai fratelli e dalle sorelle, quelle indirizzate ai figli, e poi la percezione palpabile di una Milano che scivola negli anni Ottanta e diventa irriconoscibile e anonima. L’arrivo di nuovi proletari che non si chiamano più tali, ma solo “i nuovi poveri”; i “marocchini”, non l’immigrazione del sud Italia ma quella del Marocco.
E i Morlacchi che di tutto questo se ne fregano. Ancora negli anni Novanta, fino al funerale di Pierino, uomini irriducibili, non della lotta armata ma della coerenza, che lo salutano con lo striscione: “Ciao Pierino. Fino alla vittoria. I compagni”.
E’ stata anche la mia frustrazione, per questo capisco così bene Pierino e Manolo. Mi trovavo a parlare con i compagni del PCI e non li capivo. Ero molto giovane allora, e pensavo che un militante del PCI facesse della sua vita un modello ideologico-comportamentale intransigente e incorruttibile, e inevitabilmente mi trovavo a subire conversazioni che riguardavano investimenti finanziari, ideali che non andavano al di là dell’acquisto di un appartamentino al mare, la partecipazione alla vita di partito che si limitava alla mangiata di polenta e salciccia alla festa dell’Unità. Quelli erano i compagni? E il mio pensiero andava – sorridevo mentre lo cullavo nella mente - a una viaggio in treno di qualche tempo prima, in un vagone di seconda classe con alcuni coetanei, verso il sud. Di fronte a me un ragazzo teso, guardingo, un poco spaventato ma determinato, con folti baffi e capelli appena un po’ lunghi, che al tentativo di coinvolgerlo in una nostra conversazione rispondeva impacciato, in un italiano appena comprensibile.
Teneva stranamente una mano sull’avambraccio della mano sinistra, come a nascondere una ferita o una cicatrice sgradevole alla vista. Finalmente si addormentò, e pian piano la mano gli scivolo sul sedile. Ciò che teneva gelosamente nascosto era un grande tatuaggio con la stella a cinque punte e la scritta BR in evidenza. Roba fatta artigianalmente, in carcere. Quel giovane, decisi, era il mio referente. La persona per la quale avrei continuato a lottare.Pierino Morlacchi, il padre di Manolo, è nato nel 1958 ed è morto nel 1999. La madre, tedesca, Heidi Ruth Peush, è nata nel 1941 e deceduta nel 2005. Nella famiglia Morlacchi comunisti lo si diventava dalla prima poppata al seno. Già partigiani, milanesi del Giambellino, perseguitati dai fascisti, poi militanti del PCI, tanti fratelli e sorelle che facevano un gruppo unico, un saldo legame che non tradì mai, malgrado scelte diverse e spesso non condivise, quel fratello che aveva portato alle estreme conseguenze la sua ideologia, in perenne necessità di copertura, di affidamento dei figli, di denaro.
Enormi tavolate tra zii e cugini, anche più di venti persone, enormi mangiate quando ce n’era ed enormi bevute con quello che c’era, fratelli e sorelle in eterno pellegrinaggio tra le varie carceri italiane di tutta la penisola, clandestinità, arresti e ancora avvocati, processi, tribunali. La specializzazione di Pierino furono le rapine, un asso del mestiere. Fu anche il protagonista di uno dei primi “sequestri” delle BR. Ho messo tra virgolette la parola sequestro perché oggi risulta quasi patetico chiamare così il prelievo di una persona fotografata da un commando e poi riaccompagnata nel luogo dove era stata prelevata, solo per dimostrare la potenza, la capacità logistica e militare dell’organizzazione.
Erano gli anni Settanta. Quasi impossibile oggi immaginare che in quegli anni le Brigate Rosse tenessero comizi pubblici al Giambellino, con Curcio che parlava e i compagni che presidiavano la piazza armati. Il consenso era altissimo tra la gente, Milano era popolo al Giambellino, lì “nuotavi come un pesce nell’acqua”, tra i tuoi.
La madre di Manolo, Heidi, nacque nella RDT, poi si trasferì nella Germania ovest, Londra, esperienze con i “figli dei fiori”, Milano nell’ambiente della Quarta Internazionale, e quindi l’incontro col Morlacchi. Da lì una vita in fuga, sempre in avanti però, come recita il titolo del libro. E’ forse la storia della madre, tutt’altro che comprimaria, ad avermi colpita maggiormente. Con i figli in giro per l’Italia, e poi anche per lei il carcere, la separazione, le lettere che scriveva loro, l’insegnamento dell’onestà, della dedizione alla causa, della coerenza personale come massima eredità da tramandare.
Lo stupore che suscita questo libro si può riassumere in due considerazioni: la prima è la singolare esperienza di un bambino che introietta dentro di sé tutte le contraddizioni di classe, di un’epoca che dalla Resistenza va al PCI e quindi alle BR; la seconda, che è conseguente alla prima, è la linearità di una scelta come la lotta armata. Ci hanno abituati a pensare che il fenomeno lotta armata fosse un fatto marginale e circoscritto, secondario, addirittura salottiero: militanti figli di papà che si pentivano appena messo il piede in questura, intellettuali che facevano a gara a chi formulava i comunicati più illeggibili e indecifrabili (“deliranti”, li definiva regolarmente la stampa). Insomma, persone che più lontane non si può dal popolo, dal proletariato, e soprattutto dagli operai delle fabbriche.
Niente di più falso. Le prime BR erano parte integrante e decisiva di una linea politica che non poteva identificarsi con l’imborghesimento di un Partito Comunista che faceva della concertazione il suo cavallo di battaglia. E stiamo parlando di quello che succedeva nelle città. E nelle carceri, luogo fondamentale di reclutamento delle BR? Dobbiamo pensare che il proletariato carcerario degli anni Sessanta-Settanta era rappresentato da un ben caratterizzato gruppo sociale: semianalfabeta, per lo più parlava in dialetto meridionale. Furti, rapina e spaccio i delitti, quasi tutti legati a clan o gruppi familiari.
Al di fuori di quella realtà ci fu chi, come successe nelle carceri italiane, vedeva in quel sottoproletariato la risorsa per fare del mondo un luogo più giusto, umano e decente. Del tutto inaspettatamente chi si riteneva escluso dalla storia ne diventava il protagonista, con un linguaggio che non escludeva l’illegalità, quindi percorsi già noti, ma non più finalizazati all’arricchimento personale o del clan, bensì per portare a termine quel processo rivoluzionario verso uno stato socialista che il Partito Comunista aveva tradito.
Sono impressionanti, e perciò di eccezionale valore storiografico, le esperienze che Manolo racconta nel suo libro. Ci sono le lettere dal carcere, quelle scritte dai fratelli e dalle sorelle, quelle indirizzate ai figli, e poi la percezione palpabile di una Milano che scivola negli anni Ottanta e diventa irriconoscibile e anonima. L’arrivo di nuovi proletari che non si chiamano più tali, ma solo “i nuovi poveri”; i “marocchini”, non l’immigrazione del sud Italia ma quella del Marocco.
E i Morlacchi che di tutto questo se ne fregano. Ancora negli anni Novanta, fino al funerale di Pierino, uomini irriducibili, non della lotta armata ma della coerenza, che lo salutano con lo striscione: “Ciao Pierino. Fino alla vittoria. I compagni”.
E’ stata anche la mia frustrazione, per questo capisco così bene Pierino e Manolo. Mi trovavo a parlare con i compagni del PCI e non li capivo. Ero molto giovane allora, e pensavo che un militante del PCI facesse della sua vita un modello ideologico-comportamentale intransigente e incorruttibile, e inevitabilmente mi trovavo a subire conversazioni che riguardavano investimenti finanziari, ideali che non andavano al di là dell’acquisto di un appartamentino al mare, la partecipazione alla vita di partito che si limitava alla mangiata di polenta e salciccia alla festa dell’Unità.
Quelli erano i compagni? E il mio pensiero andava – sorridevo mentre lo cullavo nella mente - a una viaggio in treno di qualche tempo prima, in un vagone di seconda classe con alcuni coetanei, verso il sud. Di fronte a me un ragazzo teso, guardingo, un poco spaventato ma determinato, con folti baffi e capelli appena un po’ lunghi, che al tentativo di coinvolgerlo in una nostra conversazione rispondeva impacciato, in un italiano appena comprensibile.
Teneva stranamente una mano sull’avambraccio della mano sinistra, come a nascondere una ferita o una cicatrice sgradevole alla vista. Finalmente si addormentò, e pian piano la mano gli scivolo sul sedile. Ciò che teneva gelosamente nascosto era un grande tatuaggio con la stella a cinque punte e la scritta BR in evidenza. Roba fatta artigianalmente, in carcere. Quel giovane, decisi, era il mio referente. La persona per la quale avrei continuato a lottare.
di Daniela BandiniE’ opera di un uomo nato nel 1970, che rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza, fortemente influenzate da una famiglia non esattamente coerente con il “decennio d’oro” che furono gli anni Ottanta. Tra i parenti nessun imprenditore rampante, nessuno che si sia arricchito coi Bot per acquistare la seconda casa, nessun avanzamento sociale, dal proletariato alla piccola borghesia, nessuna giacca di pelle o visone da ostentare con nonchalance, come l’avessero sempre avuta nell’armadio, nessun biglietto da 100 carte esibito nel portafoglio a suggerire “posso comprare tutto quello che voglio”. Manolo Morlacchi è figlio di brigatisti rossi. Coerenti, ostinatamente coerenti fino all’ultimo.
Di questo libro si occupò a suo tempo Carmilla, era il 3 gennaio del 2008. Personalmente l’ho avuto tra le mani solamente una quindicina di giorni fa, e sento la necessità quasi fisiologica di condividere con i lettori le impressioni che questo libro mi ha trasmesso.
E’ opera di un uomo nato nel 1970, che rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza, fortemente influenzate da una famiglia non esattamente coerente con il “decennio d’oro” che furono gli anni Ottanta. Tra i parenti nessun imprenditore rampante, nessuno che si sia arricchito coi Bot per acquistare la seconda casa, nessun avanzamento sociale, dal proletariato alla piccola borghesia, nessuna giacca di pelle o visone da ostentare con nonchalance, come l’avessero sempre avuta nell’armadio, nessun biglietto da 100 carte esibito nel portafoglio a suggerire “posso comprare tutto quello che voglio”. Manolo Morlacchi è figlio di brigatisti rossi. Coerenti, ostinatamente coerenti fino all’ultimo.Pierino Morlacchi, il padre di Manolo, è nato nel 1958 ed è morto nel 1999. La madre, tedesca, Heidi Ruth Peush, è nata nel 1941 e deceduta nel 2005. Nella famiglia Morlacchi comunisti lo si diventava dalla prima poppata al seno. Già partigiani, milanesi del Giambellino, perseguitati dai fascisti, poi militanti del PCI, tanti fratelli e sorelle che facevano un gruppo unico, un saldo legame che non tradì mai, malgrado scelte diverse e spesso non condivise, quel fratello che aveva portato alle estreme conseguenze la sua ideologia, in perenne necessità di copertura, di affidamento dei figli, di denaro.
Enormi tavolate tra zii e cugini, anche più di venti persone, enormi mangiate quando ce n’era ed enormi bevute con quello che c’era, fratelli e sorelle in eterno pellegrinaggio tra le varie carceri italiane di tutta la penisola, clandestinità, arresti e ancora avvocati, processi, tribunali. La specializzazione di Pierino furono le rapine, un asso del mestiere. Fu anche il protagonista di uno dei primi “sequestri” delle BR. Ho messo tra virgolette la parola sequestro perché oggi risulta quasi patetico chiamare così il prelievo di una persona fotografata da un commando e poi riaccompagnata nel luogo dove era stata prelevata, solo per dimostrare la potenza, la capacità logistica e militare dell’organizzazione.
Erano gli anni Settanta. Quasi impossibile oggi immaginare che in quegli anni le Brigate Rosse tenessero comizi pubblici al Giambellino, con Curcio che parlava e i compagni che presidiavano la piazza armati. Il consenso era altissimo tra la gente, Milano era popolo al Giambellino, lì “nuotavi come un pesce nell’acqua”, tra i tuoi.
La madre di Manolo, Heidi, nacque nella RDT, poi si trasferì nella Germania ovest, Londra, esperienze con i “figli dei fiori”, Milano nell’ambiente della Quarta Internazionale, e quindi l’incontro col Morlacchi. Da lì una vita in fuga, sempre in avanti però, come recita il titolo del libro. E’ forse la storia della madre, tutt’altro che comprimaria, ad avermi colpita maggiormente. Con i figli in giro per l’Italia, e poi anche per lei il carcere, la separazione, le lettere che scriveva loro, l’insegnamento dell’onestà, della dedizione alla causa, della coerenza personale come massima eredità da tramandare.
Lo stupore che suscita questo libro si può riassumere in due considerazioni: la prima è la singolare esperienza di un bambino che introietta dentro di sé tutte le contraddizioni di classe, di un’epoca che dalla Resistenza va al PCI e quindi alle BR; la seconda, che è conseguente alla prima, è la linearità di una scelta come la lotta armata.
Ci hanno abituati a pensare che il fenomeno lotta armata fosse un fatto marginale e circoscritto, secondario, addirittura salottiero: militanti figli di papà che si pentivano appena messo il piede in questura, intellettuali che facevano a gara a chi formulava i comunicati più illeggibili e indecifrabili (“deliranti”, li definiva regolarmente la stampa). Insomma, persone che più lontane non si può dal popolo, dal proletariato, e soprattutto dagli operai delle fabbriche.
Niente di più falso. Le prime BR erano parte integrante e decisiva di una linea politica che non poteva identificarsi con l’imborghesimento di un Partito Comunista che faceva della concertazione il suo cavallo di battaglia. E stiamo parlando di quello che succedeva nelle città. E nelle carceri, luogo fondamentale di reclutamento delle BR? Dobbiamo pensare che il proletariato carcerario degli anni Sessanta-Settanta era rappresentato da un ben caratterizzato gruppo sociale: semianalfabeta, per lo più parlava in dialetto meridionale. Furti, rapina e spaccio i delitti, quasi tutti legati a clan o gruppi familiari.
Al di fuori di quella realtà ci fu chi, come successe nelle carceri italiane, vedeva in quel sottoproletariato la risorsa per fare del mondo un luogo più giusto, umano e decente. Del tutto inaspettatamente chi si riteneva escluso dalla storia ne diventava il protagonista, con un linguaggio che non escludeva l’illegalità, quindi percorsi già noti, ma non più finalizazati all’arricchimento personale o del clan, bensì per portare a termine quel processo rivoluzionario verso uno stato socialista che il Partito Comunista aveva tradito.
Sono impressionanti, e perciò di eccezionale valore storiografico, le esperienze che Manolo racconta nel suo libro. Ci sono le lettere dal carcere, quelle scritte dai fratelli e dalle sorelle, quelle indirizzate ai figli, e poi la percezione palpabile di una Milano che scivola negli anni Ottanta e diventa irriconoscibile e anonima. L’arrivo di nuovi proletari che non si chiamano più tali, ma solo “i nuovi poveri”; i “marocchini”, non l’immigrazione del sud Italia ma quella del Marocco.
E i Morlacchi che di tutto questo se ne fregano. Ancora negli anni Novanta, fino al funerale di Pierino, uomini irriducibili, non della lotta armata ma della coerenza, che lo salutano con lo striscione: “Ciao Pierino. Fino alla vittoria. I compagni”.
E’ stata anche la mia frustrazione, per questo capisco così bene Pierino e Manolo. Mi trovavo a parlare con i compagni del PCI e non li capivo. Ero molto giovane allora, e pensavo che un militante del PCI facesse della sua vita un modello ideologico-comportamentale intransigente e incorruttibile, e inevitabilmente mi trovavo a subire conversazioni che riguardavano investimenti finanziari, ideali che non andavano al di là dell’acquisto di un appartamentino al mare, la partecipazione alla vita di partito che si limitava alla mangiata di polenta e salciccia alla festa dell’Unità. Quelli erano i compagni? E il mio pensiero andava – sorridevo mentre lo cullavo nella mente - a una viaggio in treno di qualche tempo prima, in un vagone di seconda classe con alcuni coetanei, verso il sud. Di fronte a me un ragazzo teso, guardingo, un poco spaventato ma determinato, con folti baffi e capelli appena un po’ lunghi, che al tentativo di coinvolgerlo in una nostra conversazione rispondeva impacciato, in un italiano appena comprensibile.
Teneva stranamente una mano sull’avambraccio della mano sinistra, come a nascondere una ferita o una cicatrice sgradevole alla vista. Finalmente si addormentò, e pian piano la mano gli scivolo sul sedile. Ciò che teneva gelosamente nascosto era un grande tatuaggio con la stella a cinque punte e la scritta BR in evidenza. Roba fatta artigianalmente, in carcere. Quel giovane, decisi, era il mio referente. La persona per la quale avrei continuato a lottare.Pierino Morlacchi, il padre di Manolo, è nato nel 1958 ed è morto nel 1999. La madre, tedesca, Heidi Ruth Peush, è nata nel 1941 e deceduta nel 2005. Nella famiglia Morlacchi comunisti lo si diventava dalla prima poppata al seno. Già partigiani, milanesi del Giambellino, perseguitati dai fascisti, poi militanti del PCI, tanti fratelli e sorelle che facevano un gruppo unico, un saldo legame che non tradì mai, malgrado scelte diverse e spesso non condivise, quel fratello che aveva portato alle estreme conseguenze la sua ideologia, in perenne necessità di copertura, di affidamento dei figli, di denaro.
Enormi tavolate tra zii e cugini, anche più di venti persone, enormi mangiate quando ce n’era ed enormi bevute con quello che c’era, fratelli e sorelle in eterno pellegrinaggio tra le varie carceri italiane di tutta la penisola, clandestinità, arresti e ancora avvocati, processi, tribunali. La specializzazione di Pierino furono le rapine, un asso del mestiere. Fu anche il protagonista di uno dei primi “sequestri” delle BR. Ho messo tra virgolette la parola sequestro perché oggi risulta quasi patetico chiamare così il prelievo di una persona fotografata da un commando e poi riaccompagnata nel luogo dove era stata prelevata, solo per dimostrare la potenza, la capacità logistica e militare dell’organizzazione.
Erano gli anni Settanta. Quasi impossibile oggi immaginare che in quegli anni le Brigate Rosse tenessero comizi pubblici al Giambellino, con Curcio che parlava e i compagni che presidiavano la piazza armati. Il consenso era altissimo tra la gente, Milano era popolo al Giambellino, lì “nuotavi come un pesce nell’acqua”, tra i tuoi.
La madre di Manolo, Heidi, nacque nella RDT, poi si trasferì nella Germania ovest, Londra, esperienze con i “figli dei fiori”, Milano nell’ambiente della Quarta Internazionale, e quindi l’incontro col Morlacchi. Da lì una vita in fuga, sempre in avanti però, come recita il titolo del libro. E’ forse la storia della madre, tutt’altro che comprimaria, ad avermi colpita maggiormente. Con i figli in giro per l’Italia, e poi anche per lei il carcere, la separazione, le lettere che scriveva loro, l’insegnamento dell’onestà, della dedizione alla causa, della coerenza personale come massima eredità da tramandare.
Lo stupore che suscita questo libro si può riassumere in due considerazioni: la prima è la singolare esperienza di un bambino che introietta dentro di sé tutte le contraddizioni di classe, di un’epoca che dalla Resistenza va al PCI e quindi alle BR; la seconda, che è conseguente alla prima, è la linearità di una scelta come la lotta armata. Ci hanno abituati a pensare che il fenomeno lotta armata fosse un fatto marginale e circoscritto, secondario, addirittura salottiero: militanti figli di papà che si pentivano appena messo il piede in questura, intellettuali che facevano a gara a chi formulava i comunicati più illeggibili e indecifrabili (“deliranti”, li definiva regolarmente la stampa). Insomma, persone che più lontane non si può dal popolo, dal proletariato, e soprattutto dagli operai delle fabbriche.
Niente di più falso. Le prime BR erano parte integrante e decisiva di una linea politica che non poteva identificarsi con l’imborghesimento di un Partito Comunista che faceva della concertazione il suo cavallo di battaglia. E stiamo parlando di quello che succedeva nelle città. E nelle carceri, luogo fondamentale di reclutamento delle BR? Dobbiamo pensare che il proletariato carcerario degli anni Sessanta-Settanta era rappresentato da un ben caratterizzato gruppo sociale: semianalfabeta, per lo più parlava in dialetto meridionale. Furti, rapina e spaccio i delitti, quasi tutti legati a clan o gruppi familiari.
Al di fuori di quella realtà ci fu chi, come successe nelle carceri italiane, vedeva in quel sottoproletariato la risorsa per fare del mondo un luogo più giusto, umano e decente. Del tutto inaspettatamente chi si riteneva escluso dalla storia ne diventava il protagonista, con un linguaggio che non escludeva l’illegalità, quindi percorsi già noti, ma non più finalizazati all’arricchimento personale o del clan, bensì per portare a termine quel processo rivoluzionario verso uno stato socialista che il Partito Comunista aveva tradito.
Sono impressionanti, e perciò di eccezionale valore storiografico, le esperienze che Manolo racconta nel suo libro. Ci sono le lettere dal carcere, quelle scritte dai fratelli e dalle sorelle, quelle indirizzate ai figli, e poi la percezione palpabile di una Milano che scivola negli anni Ottanta e diventa irriconoscibile e anonima. L’arrivo di nuovi proletari che non si chiamano più tali, ma solo “i nuovi poveri”; i “marocchini”, non l’immigrazione del sud Italia ma quella del Marocco.
E i Morlacchi che di tutto questo se ne fregano. Ancora negli anni Novanta, fino al funerale di Pierino, uomini irriducibili, non della lotta armata ma della coerenza, che lo salutano con lo striscione: “Ciao Pierino. Fino alla vittoria. I compagni”.
E’ stata anche la mia frustrazione, per questo capisco così bene Pierino e Manolo. Mi trovavo a parlare con i compagni del PCI e non li capivo. Ero molto giovane allora, e pensavo che un militante del PCI facesse della sua vita un modello ideologico-comportamentale intransigente e incorruttibile, e inevitabilmente mi trovavo a subire conversazioni che riguardavano investimenti finanziari, ideali che non andavano al di là dell’acquisto di un appartamentino al mare, la partecipazione alla vita di partito che si limitava alla mangiata di polenta e salciccia alla festa dell’Unità.
Quelli erano i compagni? E il mio pensiero andava – sorridevo mentre lo cullavo nella mente - a una viaggio in treno di qualche tempo prima, in un vagone di seconda classe con alcuni coetanei, verso il sud. Di fronte a me un ragazzo teso, guardingo, un poco spaventato ma determinato, con folti baffi e capelli appena un po’ lunghi, che al tentativo di coinvolgerlo in una nostra conversazione rispondeva impacciato, in un italiano appena comprensibile.
Teneva stranamente una mano sull’avambraccio della mano sinistra, come a nascondere una ferita o una cicatrice sgradevole alla vista. Finalmente si addormentò, e pian piano la mano gli scivolo sul sedile. Ciò che teneva gelosamente nascosto era un grande tatuaggio con la stella a cinque punte e la scritta BR in evidenza. Roba fatta artigianalmente, in carcere. Quel giovane, decisi, era il mio referente. La persona per la quale avrei continuato a lottare.
Le Monde diplomatique, 1 settembre 2008Anni '70: la fuga in avanti
Non è solo il racconto di un figlio sui genitori brigatisti, La fuga in avanti di Manolo Morlacchi, ma una vera e propria saga di una famiglia antifascista che abbraccia tutto il '900. Socialisti durante il fascismo, comunista "cinese" lo zio Dino al punto di essere ricevuto a Pechino, stalinisti gli altri, i Morlacchi fanno la storia del Giambellino, quartiere proletario milanese ad alto tasso di comunismo. L'ultimo della serie è Manolo, che ripercorre la vicenda familiare a partire però dalle quattro di mattina del primo maggio del 1980. Quando "le squadre speciali del generale Dalla Chiesa" arrivarono a casa e si portarono via il padre Pierino (uno dei fondatori delle Br con Renato Curcio) e la madre Heidi Peusch, tedesca. Appena una settimana prima, a Genova, le stesse squadre avevano freddato quattro brigatisti in un altro blitz. Quella volta non andò così, il piccolo Manolo finì in questura con i genitori e quell'esperienza lo segnerà a lungo. Nella lunga rilettura degli anni '70, mancava il punto di vista di una generazione, quella dei figli di chi ha fatto la lotta armata e ha pagato con una conoscenza precoce del carcere e dei controlli della polizia l'unica responsailità di essere "nato da", appunto. Che Manolo si senta partecipe e in qualche misura continuatore della storia familiare lo si capisce fin dalle prime pagine. Ma si tratta di un punto di vista soggettivo e parziale che semmai aggiunge e non toglie autenticità a quanto è scritto.
di Angelo Mastandreapremiosofia.it'La fuga in avanti' per il Premio Sofia
Il libro La fuga in avanti ho iniziato a leggerlo dopo averlo casualmente trovato sul comodino di mio padre attratta dal titolo curioso e anche dalla foto sulla copertina; avendolo tra le mani l'ho sfogliato prima superficialmente, poi senza fretta e con più attenzione, questa volta ho visto che vi erano delle foto in bianco e nero. Erano quelle della famiglia dell'autore, Manolo Morlacchi, e anche quelle dei funerali di suo padre.
Guardandole, pur se non attentamente, mi sono accorta di due cose: la prima è che ai funerali vi erano giovani e persone che tali non erano più, e in una di queste foto c'era mio padre, la seconda cosa che ho notato sono le foto della famiglia Morlacchi: ritraevano persone con la faccia onesta e pulita; avuta questa sensazione mi sono soffermata con più concentrazione.
La foto che ritraeva mio padre riprendeva quanti seguivano il feretro e io, ho pensato, non sapevo che vi avesse partecipato, eppure ci parliamo in famiglia, chissà perché non ha detto niente…come se fosse un segreto o qualcosa di cui non si parla abitualmente.
In ogni caso, mentre guardavo e leggiucchiavo qual e là, mi sono detta che poteva essere un'occasione per parlare con mio padre di questo segreto e così la prima sera possibile, di solito ci vediamo la sera perché lui lavora, gli ho detto subito che avevo aperto il libro e avevo visto la foto che lo ritraeva. Ho continuato dicendo che mi sarebbe piaciuto sapere se conosceva la persona morta, se conosceva la famiglia, in quali occasioni ecc…
Subito mi ha chiesto se avessi letto l'ultima pagina del libro, che vi era riportata una lettera che lui stesso aveva mandato a un giornale di sinistra.
Io quella lettera non l'avevo vista, poiché il libro lo avevo sfogliato senza guardarlo dappertutto, ma ora sono andata subito a riprenderlo e mi sono fiondata nell'ultima pagina dove ho subito visto la firma: Francesco Giordano. Poi ho scorso la lettera: Il corteo rosso inizia a muoversi e attraversa le vie dei quartieri Giambellino-Lorenteggio abituati fin dagli anni '70 (e prima) a vedere quel colore, a sentire quelle canzoni; e poi ancora: Camminiamo addolorati ma fieri incontrando spesso pugni chiusi che salutano e solidarizzano.
Dopo aver letto queste frasi e aver leggiucchiato qua e là ancora per una decina di minuti, mi sono seduta alla scrivania ed ho letto il libro d'un fiato.Le immagini di questa famiglia antica, di questa grande famiglia operaia e antifascista, non sono facili da dimenticare, le loro storie e volti hanno in comune la generosità, l'onestà, la lealtà e l'altruismo. Le foto, bellissime, si mischiano a volantini politici, ritagli di giornali, e tra queste cose così varie non vi è contraddizione. Effettivamente anche questa famiglia era un tutt'uno.
Mi è inoltre molto piaciuto il fatto che esistesse un racconto continuo tra i familiari della famiglia Morlacchi, un raccontare la storia vissuta e tramandarla di generazione in generazione. Ad esempio, i terribili fatti come il coinvolgimento nel bombardamento delle scuole di Gorla, a Milano, che costarono la vita a Luciana Morlacchi (17 anni) e un trauma tremendo ad Adriano Morlacchi.
Colpisce come eventi drammatici vengano vissuti e oggi raccontati, con naturalezza. Le visite in carcere, i viaggi che i familiari effettuavano in giro per l'Italia, magari centinaia di chilometri per poter fare una o al massimo due ore di colloquio con il loro congiunto che si trova in prigione e poi le condizioni cui sono costretti a sopportare non spaventano i figli piccoli, proprio in virtù della naturalezza con cui se ne parla in famiglia.
E ancora i fatti raccontati che succedevano all'interno del quartiere riportavano una realtà completamente diversa da oggi, allora vi era una quotidianità fatta di condivisione della stessa condizione e scelta di stare dalla stessa parte; vi era una solidarietà tra quanti appartenevano alla stessa classe (questa frase, lo devo ammettere, è di mio padre).
Dopo aver letto il libro e aver saputo che mio padre aveva vissuto alcune esperienze degli anni '70, dove aveva conosciuto anche i protagonisti del libro, mi sono sentita bene, non saprei spiegarlo altrimenti, ma questa è la sensazione che ho provato, anche grazie al libro La fuga in avanti.Erica Giordano, figlia di Franco Giordano, ha partecipato con questo testo al Premio Sofia.
www.premiosofia.it, 10 giugno 2008
di Erica GiordanoGuardandole, pur se non attentamente, mi sono accorta di due cose: la prima è che ai funerali vi erano giovani e persone che tali non erano più, e in una di queste foto c'era mio padre, la seconda cosa che ho notato sono le foto della famiglia Morlacchi: ritraevano persone con la faccia onesta e pulita; avuta questa sensazione mi sono soffermata con più concentrazione.
La foto che ritraeva mio padre riprendeva quanti seguivano il feretro e io, ho pensato, non sapevo che vi avesse partecipato, eppure ci parliamo in famiglia, chissà perché non ha detto niente…come se fosse un segreto o qualcosa di cui non si parla abitualmente.
In ogni caso, mentre guardavo e leggiucchiavo qual e là, mi sono detta che poteva essere un'occasione per parlare con mio padre di questo segreto e così la prima sera possibile, di solito ci vediamo la sera perché lui lavora, gli ho detto subito che avevo aperto il libro e avevo visto la foto che lo ritraeva. Ho continuato dicendo che mi sarebbe piaciuto sapere se conosceva la persona morta, se conosceva la famiglia, in quali occasioni ecc…
Subito mi ha chiesto se avessi letto l'ultima pagina del libro, che vi era riportata una lettera che lui stesso aveva mandato a un giornale di sinistra.
Io quella lettera non l'avevo vista, poiché il libro lo avevo sfogliato senza guardarlo dappertutto, ma ora sono andata subito a riprenderlo e mi sono fiondata nell'ultima pagina dove ho subito visto la firma: Francesco Giordano. Poi ho scorso la lettera: Il corteo rosso inizia a muoversi e attraversa le vie dei quartieri Giambellino-Lorenteggio abituati fin dagli anni '70 (e prima) a vedere quel colore, a sentire quelle canzoni; e poi ancora: Camminiamo addolorati ma fieri incontrando spesso pugni chiusi che salutano e solidarizzano.
Dopo aver letto queste frasi e aver leggiucchiato qua e là ancora per una decina di minuti, mi sono seduta alla scrivania ed ho letto il libro d'un fiato.Le immagini di questa famiglia antica, di questa grande famiglia operaia e antifascista, non sono facili da dimenticare, le loro storie e volti hanno in comune la generosità, l'onestà, la lealtà e l'altruismo. Le foto, bellissime, si mischiano a volantini politici, ritagli di giornali, e tra queste cose così varie non vi è contraddizione. Effettivamente anche questa famiglia era un tutt'uno.
Mi è inoltre molto piaciuto il fatto che esistesse un racconto continuo tra i familiari della famiglia Morlacchi, un raccontare la storia vissuta e tramandarla di generazione in generazione. Ad esempio, i terribili fatti come il coinvolgimento nel bombardamento delle scuole di Gorla, a Milano, che costarono la vita a Luciana Morlacchi (17 anni) e un trauma tremendo ad Adriano Morlacchi.
Colpisce come eventi drammatici vengano vissuti e oggi raccontati, con naturalezza. Le visite in carcere, i viaggi che i familiari effettuavano in giro per l'Italia, magari centinaia di chilometri per poter fare una o al massimo due ore di colloquio con il loro congiunto che si trova in prigione e poi le condizioni cui sono costretti a sopportare non spaventano i figli piccoli, proprio in virtù della naturalezza con cui se ne parla in famiglia.
E ancora i fatti raccontati che succedevano all'interno del quartiere riportavano una realtà completamente diversa da oggi, allora vi era una quotidianità fatta di condivisione della stessa condizione e scelta di stare dalla stessa parte; vi era una solidarietà tra quanti appartenevano alla stessa classe (questa frase, lo devo ammettere, è di mio padre).
Dopo aver letto il libro e aver saputo che mio padre aveva vissuto alcune esperienze degli anni '70, dove aveva conosciuto anche i protagonisti del libro, mi sono sentita bene, non saprei spiegarlo altrimenti, ma questa è la sensazione che ho provato, anche grazie al libro La fuga in avanti.Erica Giordano, figlia di Franco Giordano, ha partecipato con questo testo al Premio Sofia.
www.premiosofia.it, 10 giugno 2008
Liberazione, 30 gennaio 2008Morlacchi mito della Milano che fu
La storia della famiglia Morlacchi affonda le sue radici in quella della Milano antifascista. Una famiglia numerosa e tenace, dove solidarietà e collettività hanno avuto sempre più peso degli interessi personali. A raccontarla in La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore è Manolo, figlio e nipote orgoglioso di questa lunga genealogia di rivoluzionari. Un libro emozionante, che tocca le corde più profonde sollevando numerosi interrogativi. Già, perché la storia dei Morlacchi, attraversa tutta quella della sinistra italiana; dall’avvento del fascismo fino agli anni ottanta, lotta armata inclusa, molto diversa però da quella che si può leggere nella storiografia ufficiale. Parte dal lontano 1920 Manolo, dal primo figlio sfornato – è il caso di dirlo, visto che arrivano a quota 13 – dai suoi nonni, Renzo e Gina. Lo spirito antifascista dei Morlacchi – famiglia di socialisti e tipografi – sembra essere inciso nel Dna; un aperto spirito di ribellione più che una ragionata adesione ideologica agli ideali della Resistenza. Basta guardare le avventure che portano i fratelli Dino e Carletto a partecipare all’esperienza partigiana, per capire. I bombardamenti, gli orrori della guerra, la morte di tre figli, il fascismo non fiaccano lo spirito della famiglia che, dopo la Liberazione, si trasferisce nello storico e antifascista quartiere del Giambellino. È qui che inizia la loro formazione politica, qua studiano lo stalinismo, qua partecipano attivamente alla vita politica all’interno del Pci. Irrequieti i Morlacchi, come tante altre famiglie vissute nella Resistenza, non accettano la mancata presa di potere del comunismo, guardano con sconforto e rabbia verso il tramonto dell’Urss e le politiche revisioniste del Pci. Famiglie che, per lo più, si ritrovano a vivere nello stesso quartiere che diventa una sorta di cittadella liberata, dove anche con gli “extralegali”, si intrattengono rapporti umani e, insieme, si combatte contro fascisti e polizia. In breve, nel Giambellino, la famiglia Morlacchi diventa un fulcro politico e sociale. È in questo quartiere che, nel 1960, dopo un congresso del Pci particolarmente movimentato, che porta alla fuoriuscita di circa 100 militanti, nasce il gruppo Luglio ’60. I “cinesi”, così venivano chiamati i suoi membri per la politica in aperto appoggio alla Cina di Mao Tse-Tung, il grande timoniere che Dino Morlacchi incontrerà personalmente nel 1964. Quartiere di ribelli, il Giambellino, dove non si è pronti neanche ad accettare la leadership studentesca del movimento del ’68 e dove cresce anche Pietro, o meglio Pierino Morlacchi, che di Manolo è padre. Uno spirito libero, allergico alla legge, che nella sua giovinezza cerca prima fortuna in una troppo rigida Rtd per poi vivere nella libertaria Svezia di fine anni Sessanta, dove riesce a farsi arrestare, per il possesso di “alcune pastiglie vietate”. È forse questo aspetto umano e ribelle a rendere affascinante alla lettura la figura di Pierino che sembra molto più simile alle generazioni che verranno che non a quella di coloro che scelgono lotta armata e clandestinità, a cui lega la sua storia, e quella della moglie Heidi, una volta rientrato in Italia. È lui, infatti, il primo dei Morlacchi a conoscere “l’università negativa” di Trento, è lui a convincere tutta famiglia ad appoggiare quelle che, dà lì a poco, sarebbero diventate le Br. Nel ’70, il Giambellino si trova così ad essere il primo quartiere in cui l’organizzazione fa le prime azioni di propaganda armata, dove Curcio, in piazza Tirana, tiene i suoi comizi alla luce del giorno; un quartiere che appoggia le sue scelte. La vita di Manolo e del fratello Ernesto, diventa la storia di fughe, di anni di prigione di Pierino e di Heidi, degli affidamenti agli zii, delle visite nelle disumane carceri speciali. Pierino non chiede sconti di pene, né rinnega mai le proprie azioni. Fino al rientro dal confino in un Giambellino dove non c’è più solidarietà, dove restano solo povertà e criminalità, senza più umanità, dove si respira aria di sconfitta, dove anche i Morlacchi, fiaccati dalla repressione, iniziano a tirare il fiato. Pierino è l’unico che sembra non arrendersi mai, piuttosto meglio lasciarsi morire. La fuga in avanti è l’emozionante storia di uno dei brigatisti, ancora lontano dai noti fatti di sangue, e magari, proprio per questo, può far paura. Sicuramente è un libro scomodo. Perché siamo abituati a leggere questo passato guardando solo alla storiografia ufficiale, alle ricostruzioni giudiziarie o a quel tipo di letteratura scritta dai protagonisti che, come dice Cecco Cattaneo nella prefazione, è “quasi sempre tesa alla giustificazione personale o alla motivazione, vuoi ideologica vuoi storica o sociale, dei percorsi e delle scelte”.
Quello di Manolo è un libro diverso, forse l’unico, capace di immergersi nella ricostruzione delle vite e dei sentimenti dei protagonisti dei primi anni di lotta armata. La fuga in avanti è un tassello di verità nella storia della sinistra rivoluzionaria italiana.
di Emanuela Del FrateQuello di Manolo è un libro diverso, forse l’unico, capace di immergersi nella ricostruzione delle vite e dei sentimenti dei protagonisti dei primi anni di lotta armata. La fuga in avanti è un tassello di verità nella storia della sinistra rivoluzionaria italiana.
Carmilla, 3 gennaio 2008Intervento dell'autore in risposta a WM1
La fuga in avanti è uscito nelle librerie da qualche settimana e ci sono alcune osservazioni, provocazioni, domande, che appaiono in modo ricorrente nelle presentazioni a cui partecipo e nelle recensioni che ho potuto sin qui leggere, in particolare, la segnalazione di Wu Ming 1 su Nandropausa. Quindi mi sono convinto della necessità di approfondire alcune questioni intorno al mio libro.Lungo le pagine de La fuga in avanti descrivo a più riprese con grande enfasi e nostalgia il clima in cui ho trascorso gli anni della mia infanzia e adolescenza, suppergiù dal 1975 al 1985. Questa descrizione può sollevare qualche fastidio o perplessità tra chi ha vissuto in prima fila quella stagione politica e ne ha pagato duramente le conseguenze. Ma la mia lettura è volutamente provocatoria. E’ il tentativo di porre in relazione tra loro i profili umani e sociali di chi decise di andare allo scontro con lo Stato, rispetto ai profili umani e sociali con cui siamo abituati a convivere oggi. E’ il tentativo di dimostrare come, in ultimo, quei nomi e cognomi siano gli stessi di allora; che non si tratta di biografie personali, ma di vicende collettive, di opportunità politiche e rivoluzionarie, di questioni molto materiali. E’ il tentativo di intervenire sulla vulgata comune, secondo la quale gli anni ’70 sono stati un medioevo contemporaneo, plumbeo e segnato dall’ultraideologia.
I miei ricordi mi descrivono una realtà diversa. Nel mio quartiere, il Giambellino, negli anni ’70, i proletari erano dalla parte delle Brigate Rosse. Tante sono le testimonianze a riguardo. Tutti sapevano chi fossero i clandestini; capitava che gli stessi clandestini te li ritrovavi a cenare o a bere nelle trattorie e nei luoghi di ritrovo del Giambellino, alla Bersagliera o alla Cooperativa, senza che nessuno avesse qualcosa da ridire (e non si trattava di paura). In Piazza Tirana le BR tennero alcuni comizi pubblici senza che la polizia intervenisse. Sui tetti delle case popolari spesso comparivano bandiere rosse con la stella a cinque punte. Gli stessi militanti del PCI sapevano chi si nascondeva dietro le Brigate Rosse, ma nella peggiore delle ipotesi ci convivevano. Mio padre era così legato alla sua storia nel partito che, negli ultimi anni della sua vita, si iscrisse a Rifondazione Comunista e festeggiò la prima vittoria di Prodi su Berlusconi!
Chi scrive non intende certo separare la storia delle Brigate Rosse avventuriere e romantiche, rispetto alla storia delle Brigate Rosse sanguinarie e militariste. Esiste una sola storia della lotta armata in Italia e mio padre ne fece parte appieno dal 1970 a quando uscì di prigione nel 1986. Rimase impermeabile a ogni tentativo di alleggerire la propria condizione di prigioniero, senza cercare le scorciatoie della dissociazione o l’infamia del pentitismo. Le sue critiche e le sue perplessità sull’Organizzazione le riservò sempre ai compagni con cui condivideva la propria irriducibile avversione al sistema borghese.
Ciò che mosse quei personaggi del Giambellino e i tanti che li seguirono, era una spinta molto materiale che proveniva da lontano e non rappresentava il frutto di una elaborazione da salotto universitario. In loro si riassumevano tante lotte: la Resistenza al nazifascismo, la fame patita durante e dopo la guerra, le lotte operaie nelle fabbriche degli anni ’50, la rottura con il PCI e il sostegno alla Cina, al Vietnam, a Cuba, alle lotte anticolonialiste africane. Infine, il 1968 e la dialettica difficile con gli studenti, “la futura classe dirigente del Paese che intendeva guidare i cortei”.
Fu questa loro coerenza pratica, prima ancora che intellettuale/ideologica, a rendere particolari quei compagni ed esaltante la mia infanzia. Sapevi chi avevi di fronte. Sapevi che quei personaggi li trovavi a giocare a dadi con la malavita alla stazione ferroviaria di San Cristoforo in piazza Tirana, ma quando c’era bisogno di altro su di loro potevi contare senza dubbi. Queste sensazioni ho cercato di trasferirle nelle pagine del libro, tentando di evitare ogni reticenza. La fuga in avanti è un libro partigiano che intende porre nel solco delle lotte rivoluzionarie del secolo scorso l’esperienza della lotta armata in Italia. Il mio libro non ha alcun intento pacificatorio. E’ il tentativo di capire gli errori e le conquiste di quell’esperienza a uso e consumo di chi continua a credere che la società del profitto sia un abominio contro cui bisogna combattere.Un altro aspetto che emerge spesso nei dibattiti intorno agli anni ’70, riguarda la questione della legislazione speciale e, più in generale, delle forme che la repressione ha assunto per sconfiggere la lotta armata: reintroduzione della tortura fisica e psicologica per i prigionieri e per le loro famiglie, uso sommerso della pena di morte ecc.
E’ costume di vasta parte della sinistra istituzionale o meno, affrontare quei fatti come se si fosse trattato dell’esito di una follia collettiva cresciuta nell’alveo delle istituzioni democratiche.
Come se quelle scelte repressive fossero un mostro sfuggito di mano a qualcuno e non il prodotto concreto dei metodi attraverso cui gli apparati dello Stato, di qualunque Stato, intervengono quando il dissenso diventa pericoloso. Come se, rispetto a quegli anni, ci fossero oggi possibilità repressive meno malsane rispetto ad allora. Basterebbe leggere lo splendido libro di Emilio Quadrelli Evasione e rivolte per rendersi conto di quanto questo tipo di lettura, nella migliore delle ipotesi, sia ingenuo. Chi combatte l’imperialismo con le armi in pugno, ieri come oggi, conosce gli strumenti di cui la borghesia si è dotata per difendere i propri interessi. Sono strumenti perfezionati sulla pelle di coloro che hanno combattuto il capitalismo nei cicli rivoluzionari degli ultimi 150 anni. Elaborazioni teoriche uscite dalle centrali del terrore statunitensi, israeliane, francesi, inglesi, italiane e che hanno trovato applicazione pratica negli scenari sudamericani, medio-orientali, africani, indocinesi, nella lotta contro le organizzazioni combattenti europee e di tutto il mondo. Oggi questi vademecum alla repressione trovano la loro consacrazione planetaria e la giusta versatilità per rispondere a ogni esigenza qualitativa e quantitativa. Abbiamo così il caso dell’Irak dove dei contractor/patrioti italiani partono per difendere gli interessi del capitale violentando donne e bambini, e abbiamo invece il caso di Genova 2001 dove la nostra polizia si limita a dare degli avvertimenti a chi pensava che la borghesia di un Paese democratico utilizzasse strumenti diversi rispetto a quelli che riserva alle periferie del mondo.
Cercare di quadrare il cerchio su questi temi intorno a un tavolo e nel consesso delle istituzioni è, per usare un’espressione gentile, velleitario. A meno che non si pensi che esista una dicotomia tra le istituzioni e gli interessi del capitale.
Al mio libro è stato anche rimproverato di non rispettare il dolore delle vittime di quegli anni. Questo non è affatto vero. Rispetto quel dolore, evitando di parlarne. E non è un semplice escamotage, ma la profonda convinzione di non poter in alcun modo entrare in un dolore che non mi appartiene. Penso che il rispetto sia una categoria che talvolta viene evocata dai vincitori quando gli sconfitti non chiedono “scusa”. Ognuno piange i propri morti come meglio gli aggrada. Io ho grande rispetto per il dolore umano provocato dalla violenza, sia essa rivoluzionaria o repressiva. Molto più importante è dire che questo rispetto l’avevano mio padre, mia madre e i tanti loro compagni. Ho citato volutamente nelle pagine de La fuga in avanti un passo di Senza tregua quando il comandante Visone si trova di fronte ai morti di Piazzale Loreto e osserva i volti soddisfatti e sorridenti dei fascisti: “Mi resi conto in quel momento di quale fosse la distanza che mi separava dai miei nemici. Io non avrei mai potuto ridere di fronte al cadavere del mio nemico. Troppo grande era il peso che mi portavo sulle spalle per quelle morti”.
Ho voluto raccontare una storia delle Brigate Rosse senza affossarmi nelle pieghe della Storia Ufficiale. Non mi sono interessato alle diverse fasi e delle diverse anime della lotta armata: propaganda armata, ala militarista, ala movimentista, prima e seconda posizione, pg, pcc, ucc ecc. Non perché si tratti di questioni poco importanti, ma perché non servono a descrivere nel complesso la storia della più importante organizzazione armata italiana.
Così come non serve a nulla tentare di dipingerla (salvo che non si tratti di una rilettura interessata) raccontando i misfatti e le aberrazioni che si verificarono in particolare dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ‘80. Gli strangolamenti in carcere di militanti che avevano fatto confessioni sotto tortura; gli omicidi per diffondere un volantino, ecc. ecc. La categoria della violenza, letta in termini assoluti, estrapolata ed estremizzata, descriverebbe da sé l’errore della scelta armata. Assume la forma di un artificio intellettuale per mettere tutti d’accordo. Ma dove stava la violenza in quegli anni in Italia? Era il prodotto di un gruppo di pazzi fuggiti da qualche manicomio, o era la risultante dello scontro sociale in atto? Se ponessimo in competizione la violenza rivoluzionaria con quella della repressione, ebbene vincerebbe con grande distacco quella provocata dalla stragi di Stato, dalla tortura legalizzata, dagli omicidi compiuti nelle piazze, nelle carceri, dai massacri perpetrati dall’imperialismo in giro per il mondo. Ma non serve a nulla questa operazione, a meno che, ripeto, non si tratti di un’operazione politica. Ma allora entriamo in un altro campo. E’ come oggi quando ci fanno vedere in ogni dove gli sgozzatori di Al Qaeda, ma si guardano bene da pubblicizzare le “eroiche gesta” dei nostri soldati e mercenari nei bordelli di Kabul, nei villaggi del Kosovo, lungo le strade dell’Irak.
Mio padre e mia madre rimasero sempre critici e distanti rispetto a certe derive legate alla sconfitta che incombeva sull’organizzazione a cui avevano aderito. Distanti anni luce, come racconto anche con testimonianze nel mio libro. Ma tutto questo poco importa nel giudizio complessivo. Oggi le BR non esistono più. Ma la violenza e la repressione aumentano geometricamente. E’ da questo assunto, da ciò che succede oggi, che bisogna ripartire per rileggere quegli episodi.
Di libri sulle BR ne abbiamo a decine. La violenza, letta in modo unilaterale, resta lo strumento principe per descrivere quell’esperienza. Decontestualizzata, astorica, intellettuale, è una lettura che serve unicamente ad accreditare la storia scritta dai vincitori. Io invece ho provato a scriverla dal punto di vista degli sconfitti; sconfitti, ma non arresi.
di Manolo MorlacchiI miei ricordi mi descrivono una realtà diversa. Nel mio quartiere, il Giambellino, negli anni ’70, i proletari erano dalla parte delle Brigate Rosse. Tante sono le testimonianze a riguardo. Tutti sapevano chi fossero i clandestini; capitava che gli stessi clandestini te li ritrovavi a cenare o a bere nelle trattorie e nei luoghi di ritrovo del Giambellino, alla Bersagliera o alla Cooperativa, senza che nessuno avesse qualcosa da ridire (e non si trattava di paura). In Piazza Tirana le BR tennero alcuni comizi pubblici senza che la polizia intervenisse. Sui tetti delle case popolari spesso comparivano bandiere rosse con la stella a cinque punte. Gli stessi militanti del PCI sapevano chi si nascondeva dietro le Brigate Rosse, ma nella peggiore delle ipotesi ci convivevano. Mio padre era così legato alla sua storia nel partito che, negli ultimi anni della sua vita, si iscrisse a Rifondazione Comunista e festeggiò la prima vittoria di Prodi su Berlusconi!
Chi scrive non intende certo separare la storia delle Brigate Rosse avventuriere e romantiche, rispetto alla storia delle Brigate Rosse sanguinarie e militariste. Esiste una sola storia della lotta armata in Italia e mio padre ne fece parte appieno dal 1970 a quando uscì di prigione nel 1986. Rimase impermeabile a ogni tentativo di alleggerire la propria condizione di prigioniero, senza cercare le scorciatoie della dissociazione o l’infamia del pentitismo. Le sue critiche e le sue perplessità sull’Organizzazione le riservò sempre ai compagni con cui condivideva la propria irriducibile avversione al sistema borghese.
Ciò che mosse quei personaggi del Giambellino e i tanti che li seguirono, era una spinta molto materiale che proveniva da lontano e non rappresentava il frutto di una elaborazione da salotto universitario. In loro si riassumevano tante lotte: la Resistenza al nazifascismo, la fame patita durante e dopo la guerra, le lotte operaie nelle fabbriche degli anni ’50, la rottura con il PCI e il sostegno alla Cina, al Vietnam, a Cuba, alle lotte anticolonialiste africane. Infine, il 1968 e la dialettica difficile con gli studenti, “la futura classe dirigente del Paese che intendeva guidare i cortei”.
Fu questa loro coerenza pratica, prima ancora che intellettuale/ideologica, a rendere particolari quei compagni ed esaltante la mia infanzia. Sapevi chi avevi di fronte. Sapevi che quei personaggi li trovavi a giocare a dadi con la malavita alla stazione ferroviaria di San Cristoforo in piazza Tirana, ma quando c’era bisogno di altro su di loro potevi contare senza dubbi. Queste sensazioni ho cercato di trasferirle nelle pagine del libro, tentando di evitare ogni reticenza. La fuga in avanti è un libro partigiano che intende porre nel solco delle lotte rivoluzionarie del secolo scorso l’esperienza della lotta armata in Italia. Il mio libro non ha alcun intento pacificatorio. E’ il tentativo di capire gli errori e le conquiste di quell’esperienza a uso e consumo di chi continua a credere che la società del profitto sia un abominio contro cui bisogna combattere.Un altro aspetto che emerge spesso nei dibattiti intorno agli anni ’70, riguarda la questione della legislazione speciale e, più in generale, delle forme che la repressione ha assunto per sconfiggere la lotta armata: reintroduzione della tortura fisica e psicologica per i prigionieri e per le loro famiglie, uso sommerso della pena di morte ecc.
E’ costume di vasta parte della sinistra istituzionale o meno, affrontare quei fatti come se si fosse trattato dell’esito di una follia collettiva cresciuta nell’alveo delle istituzioni democratiche.
Come se quelle scelte repressive fossero un mostro sfuggito di mano a qualcuno e non il prodotto concreto dei metodi attraverso cui gli apparati dello Stato, di qualunque Stato, intervengono quando il dissenso diventa pericoloso. Come se, rispetto a quegli anni, ci fossero oggi possibilità repressive meno malsane rispetto ad allora. Basterebbe leggere lo splendido libro di Emilio Quadrelli Evasione e rivolte per rendersi conto di quanto questo tipo di lettura, nella migliore delle ipotesi, sia ingenuo. Chi combatte l’imperialismo con le armi in pugno, ieri come oggi, conosce gli strumenti di cui la borghesia si è dotata per difendere i propri interessi. Sono strumenti perfezionati sulla pelle di coloro che hanno combattuto il capitalismo nei cicli rivoluzionari degli ultimi 150 anni. Elaborazioni teoriche uscite dalle centrali del terrore statunitensi, israeliane, francesi, inglesi, italiane e che hanno trovato applicazione pratica negli scenari sudamericani, medio-orientali, africani, indocinesi, nella lotta contro le organizzazioni combattenti europee e di tutto il mondo. Oggi questi vademecum alla repressione trovano la loro consacrazione planetaria e la giusta versatilità per rispondere a ogni esigenza qualitativa e quantitativa. Abbiamo così il caso dell’Irak dove dei contractor/patrioti italiani partono per difendere gli interessi del capitale violentando donne e bambini, e abbiamo invece il caso di Genova 2001 dove la nostra polizia si limita a dare degli avvertimenti a chi pensava che la borghesia di un Paese democratico utilizzasse strumenti diversi rispetto a quelli che riserva alle periferie del mondo.
Cercare di quadrare il cerchio su questi temi intorno a un tavolo e nel consesso delle istituzioni è, per usare un’espressione gentile, velleitario. A meno che non si pensi che esista una dicotomia tra le istituzioni e gli interessi del capitale.
Al mio libro è stato anche rimproverato di non rispettare il dolore delle vittime di quegli anni. Questo non è affatto vero. Rispetto quel dolore, evitando di parlarne. E non è un semplice escamotage, ma la profonda convinzione di non poter in alcun modo entrare in un dolore che non mi appartiene. Penso che il rispetto sia una categoria che talvolta viene evocata dai vincitori quando gli sconfitti non chiedono “scusa”. Ognuno piange i propri morti come meglio gli aggrada. Io ho grande rispetto per il dolore umano provocato dalla violenza, sia essa rivoluzionaria o repressiva. Molto più importante è dire che questo rispetto l’avevano mio padre, mia madre e i tanti loro compagni. Ho citato volutamente nelle pagine de La fuga in avanti un passo di Senza tregua quando il comandante Visone si trova di fronte ai morti di Piazzale Loreto e osserva i volti soddisfatti e sorridenti dei fascisti: “Mi resi conto in quel momento di quale fosse la distanza che mi separava dai miei nemici. Io non avrei mai potuto ridere di fronte al cadavere del mio nemico. Troppo grande era il peso che mi portavo sulle spalle per quelle morti”.
Ho voluto raccontare una storia delle Brigate Rosse senza affossarmi nelle pieghe della Storia Ufficiale. Non mi sono interessato alle diverse fasi e delle diverse anime della lotta armata: propaganda armata, ala militarista, ala movimentista, prima e seconda posizione, pg, pcc, ucc ecc. Non perché si tratti di questioni poco importanti, ma perché non servono a descrivere nel complesso la storia della più importante organizzazione armata italiana.
Così come non serve a nulla tentare di dipingerla (salvo che non si tratti di una rilettura interessata) raccontando i misfatti e le aberrazioni che si verificarono in particolare dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ‘80. Gli strangolamenti in carcere di militanti che avevano fatto confessioni sotto tortura; gli omicidi per diffondere un volantino, ecc. ecc. La categoria della violenza, letta in termini assoluti, estrapolata ed estremizzata, descriverebbe da sé l’errore della scelta armata. Assume la forma di un artificio intellettuale per mettere tutti d’accordo. Ma dove stava la violenza in quegli anni in Italia? Era il prodotto di un gruppo di pazzi fuggiti da qualche manicomio, o era la risultante dello scontro sociale in atto? Se ponessimo in competizione la violenza rivoluzionaria con quella della repressione, ebbene vincerebbe con grande distacco quella provocata dalla stragi di Stato, dalla tortura legalizzata, dagli omicidi compiuti nelle piazze, nelle carceri, dai massacri perpetrati dall’imperialismo in giro per il mondo. Ma non serve a nulla questa operazione, a meno che, ripeto, non si tratti di un’operazione politica. Ma allora entriamo in un altro campo. E’ come oggi quando ci fanno vedere in ogni dove gli sgozzatori di Al Qaeda, ma si guardano bene da pubblicizzare le “eroiche gesta” dei nostri soldati e mercenari nei bordelli di Kabul, nei villaggi del Kosovo, lungo le strade dell’Irak.
Mio padre e mia madre rimasero sempre critici e distanti rispetto a certe derive legate alla sconfitta che incombeva sull’organizzazione a cui avevano aderito. Distanti anni luce, come racconto anche con testimonianze nel mio libro. Ma tutto questo poco importa nel giudizio complessivo. Oggi le BR non esistono più. Ma la violenza e la repressione aumentano geometricamente. E’ da questo assunto, da ciò che succede oggi, che bisogna ripartire per rileggere quegli episodi.
Di libri sulle BR ne abbiamo a decine. La violenza, letta in modo unilaterale, resta lo strumento principe per descrivere quell’esperienza. Decontestualizzata, astorica, intellettuale, è una lettura che serve unicamente ad accreditare la storia scritta dai vincitori. Io invece ho provato a scriverla dal punto di vista degli sconfitti; sconfitti, ma non arresi.
www.wumingfoundation.com, nandropausa #13, novembre 2007La fuga in avanti
È difficile recensire La fuga in avanti di Manolo Morlacchi. Come una torta appena sfornata, questo libro andrebbe lasciato a raffreddare sul davanzale. Chi intende parlarne in modo equanime deve avere la volontà e la forza di riempire certi buchi, ed è fatica improba mantenere una distanza senza cedere alla tentazione della ripulsa. La priorità è duplice: criticare il libro per quello che è, non è o sarebbe potuto essere, senza mancare di rispetto alla carne e al sangue che lo formano.
Insomma, cos'è questo libro? È una testimonianza di amore filiale e nipotile. Ed è un contenitore di microstorie della Milano operaia e antifascista, dagli albori del socialismo a poco fa, passando per il ventennio, la ricostruzione, il boom e la bufera degli anni Settanta.
Appunto, i Settanta. La fuga in avanti è qualcosa di "sbagliato", che si colloca sul "lato cattivo": il Lessico famigliare di un figlio e nipote di brigatisti. Un figlio che ha amato i propri genitori e, dopo la loro morte, li ringrazia per lo "splendido clima" (!) in cui ha trascorso l'infanzia. Un figlio che non descrive "demoni" alla Stavrogin, bensì mamma, papà e zii, esseri umani coi loro affetti e sorrisi, le loro passioni, le forze e le debolezze. È proprio questo a rendere il libro... oltraggioso, inaffogabile nel pour parler di un'epoca dominata da falsi pacificatori.
Manolo Morlacchi era bambino quando suo padre Pierino entrò nel circuito delle carceri speciali. Pierino veniva da una delle più note famiglie comuniste del quartiere Giambellino, e suo figlio ne approfitta per narrare la saga, le scelte, le avventure e disavventure di tre generazioni di militanti, sullo sfondo di una Milano proletaria che non esiste (quasi) più.
Il libro di un familiare di chi scelse la lotta armata è merce rara, o meglio: è raro perché non è abbastanza merce. Sono altri i punti di vista vendibili e acquistabili, abbonda la pubblicistica di/su ex-terroristi spettacolarizzati, che si rifanno vivi a parlare ex cathedra, magari dopo un risciacquo nel "sociale" targato CL. Sono narrazioni fatte su misura per la stagione del rimorso senza ripensamento, parenti strette di quei saggi su sangue dei vinti e cuori neri in cui l'antifascismo militante è ridotto a nihilismo e Grand Guignol.
La fuga in avanti, con tutti i suoi limiti e dislivelli, ha il pregio di non correre incontro ad alcuna moda. Di più: Morlacchi scrive il libro più inattuale, più in controtendenza che si possa immaginare. Ci vuole coraggio, anzi, incoscienza, a far uscire un'opera del genere. Eppure, persino chi all'epoca combattè la lotta armata con ogni mezzo (anche malsano, e sarebbe ora di riflettere sul lascito della legislazione d'emergenza) potrebbe trarre beneficio da alcune pagine di questo libro, perché è importante ri-umanizzare il nemico e non rimanere prigionieri di un rancore che spegne l'anima (come nel romanzo di Carlotto L'oscura immensità della morte).
Limiti e dislivelli, dicevo. Per essere davvero un libro riuscito, La fuga in avanti avrebbe necessitato di un maggior controllo della materia e della scrittura, ma non è cosa che si possa chiedere a una persona tanto coinvolta emotivamente. Certo, con un po' di respiro in più e qualche reticenza in meno sarebbe stato un romanzo popolare anomalo e inconciliante... ma allora avrebbe dovuto scriverlo qualcun altro, ed è chiaro che nessun altro avrebbe potuto scriverlo. Quel che resta è vivida memorialistica da un'angolazione inusuale, con quaranta pagine di fotografie ad arricchire il racconto.
Ho appena usato la parola "reticenza" e intendo spiegare perché. Ci sono troppi non-detti. L'autore rimane sostanzialmente acritico nei confronti delle Brigate Rosse, o quantomeno del loro "nucleo storico". In nessun punto Morlacchi aggiorna o corregge le proprie impressioni d'infanzia: "I compagni del nucleo storico. Guardavo a loro con gli occhi di un bambino che osserva i propri eroi che lottano contro le forze del male... Mio padre e i suoi compagni erano uomini giusti, capaci di intelligenza, ironia e grande altruismo; avevano tutti i pregi che mi era così difficile trovare nel mondo 'libero'."
Del resto, pure in ambienti insospettabili sopravvive una visione "romantica" delle prime BR: il passaggio dall'epoca Curcio-Cagol al "militarismo" di Mario Moretti è visto come una coupure, una rottura di continuità, ma troppi elementi vengono rimossi dal quadretto alla Robin Hood. Dal carcere, a partire dal 1980, il "nucleo storico" finì per appoggiare la linea iper-sanguinaria di Senzani e del partito-guerriglia, "patrocinando" azioni ripugnanti e insensate. Una su tutte: l'esecuzione con colpo alla nuca delle guardie giurate Sebastiano D'Alleo e Antonio Pedio, a Torino, al solo fine di far trovare sui corpi un comunicato contro una pentita (Natalia Ligas) che non era nemmeno tale.
L'incaglio in una palude di cadaveri non fu conseguenza di uno sbandamento, di un'uscita di carreggiata: è una possibilità insita in qualunque culto dell'avanguardia separata dalle masse. Quasi cent'anni prima della nascita delle BR, Marx ed Engels avevano condannato duramente la fascinazione per le società segrete e dichiarato che, almeno in Europa, la rivoluzione non sarebbe stata "affare per massoni". Forse, nei loro incubi, i due capostipiti avevano visto il videotape della condanna a morte di Roberto Peci, dichiarato traditore su base biologica – per consanguineità con un pentito – dopo un "processo" senza difesa. Pornografia della violenza degradante, reality show di faida mafiosa, il tutto accompagnato dall'Internazionale, inno mai tanto svilito e insozzato, nemmeno nei giorni delle purghe staliniane. Quel singolo episodio è un dado super-concentrato, contiene un minestrone di tutti gli errori del movimento comunista.
Riconoscere l'orrore anche dentro l'amore non è "fuga all'indietro", né significa abiurare il conflitto. Al contrario, è il solo modo per tornare a pensarlo fecondo.
di WM1Insomma, cos'è questo libro? È una testimonianza di amore filiale e nipotile. Ed è un contenitore di microstorie della Milano operaia e antifascista, dagli albori del socialismo a poco fa, passando per il ventennio, la ricostruzione, il boom e la bufera degli anni Settanta.
Appunto, i Settanta. La fuga in avanti è qualcosa di "sbagliato", che si colloca sul "lato cattivo": il Lessico famigliare di un figlio e nipote di brigatisti. Un figlio che ha amato i propri genitori e, dopo la loro morte, li ringrazia per lo "splendido clima" (!) in cui ha trascorso l'infanzia. Un figlio che non descrive "demoni" alla Stavrogin, bensì mamma, papà e zii, esseri umani coi loro affetti e sorrisi, le loro passioni, le forze e le debolezze. È proprio questo a rendere il libro... oltraggioso, inaffogabile nel pour parler di un'epoca dominata da falsi pacificatori.
Manolo Morlacchi era bambino quando suo padre Pierino entrò nel circuito delle carceri speciali. Pierino veniva da una delle più note famiglie comuniste del quartiere Giambellino, e suo figlio ne approfitta per narrare la saga, le scelte, le avventure e disavventure di tre generazioni di militanti, sullo sfondo di una Milano proletaria che non esiste (quasi) più.
Il libro di un familiare di chi scelse la lotta armata è merce rara, o meglio: è raro perché non è abbastanza merce. Sono altri i punti di vista vendibili e acquistabili, abbonda la pubblicistica di/su ex-terroristi spettacolarizzati, che si rifanno vivi a parlare ex cathedra, magari dopo un risciacquo nel "sociale" targato CL. Sono narrazioni fatte su misura per la stagione del rimorso senza ripensamento, parenti strette di quei saggi su sangue dei vinti e cuori neri in cui l'antifascismo militante è ridotto a nihilismo e Grand Guignol.
La fuga in avanti, con tutti i suoi limiti e dislivelli, ha il pregio di non correre incontro ad alcuna moda. Di più: Morlacchi scrive il libro più inattuale, più in controtendenza che si possa immaginare. Ci vuole coraggio, anzi, incoscienza, a far uscire un'opera del genere. Eppure, persino chi all'epoca combattè la lotta armata con ogni mezzo (anche malsano, e sarebbe ora di riflettere sul lascito della legislazione d'emergenza) potrebbe trarre beneficio da alcune pagine di questo libro, perché è importante ri-umanizzare il nemico e non rimanere prigionieri di un rancore che spegne l'anima (come nel romanzo di Carlotto L'oscura immensità della morte).
Limiti e dislivelli, dicevo. Per essere davvero un libro riuscito, La fuga in avanti avrebbe necessitato di un maggior controllo della materia e della scrittura, ma non è cosa che si possa chiedere a una persona tanto coinvolta emotivamente. Certo, con un po' di respiro in più e qualche reticenza in meno sarebbe stato un romanzo popolare anomalo e inconciliante... ma allora avrebbe dovuto scriverlo qualcun altro, ed è chiaro che nessun altro avrebbe potuto scriverlo. Quel che resta è vivida memorialistica da un'angolazione inusuale, con quaranta pagine di fotografie ad arricchire il racconto.
Ho appena usato la parola "reticenza" e intendo spiegare perché. Ci sono troppi non-detti. L'autore rimane sostanzialmente acritico nei confronti delle Brigate Rosse, o quantomeno del loro "nucleo storico". In nessun punto Morlacchi aggiorna o corregge le proprie impressioni d'infanzia: "I compagni del nucleo storico. Guardavo a loro con gli occhi di un bambino che osserva i propri eroi che lottano contro le forze del male... Mio padre e i suoi compagni erano uomini giusti, capaci di intelligenza, ironia e grande altruismo; avevano tutti i pregi che mi era così difficile trovare nel mondo 'libero'."
Del resto, pure in ambienti insospettabili sopravvive una visione "romantica" delle prime BR: il passaggio dall'epoca Curcio-Cagol al "militarismo" di Mario Moretti è visto come una coupure, una rottura di continuità, ma troppi elementi vengono rimossi dal quadretto alla Robin Hood. Dal carcere, a partire dal 1980, il "nucleo storico" finì per appoggiare la linea iper-sanguinaria di Senzani e del partito-guerriglia, "patrocinando" azioni ripugnanti e insensate. Una su tutte: l'esecuzione con colpo alla nuca delle guardie giurate Sebastiano D'Alleo e Antonio Pedio, a Torino, al solo fine di far trovare sui corpi un comunicato contro una pentita (Natalia Ligas) che non era nemmeno tale.
L'incaglio in una palude di cadaveri non fu conseguenza di uno sbandamento, di un'uscita di carreggiata: è una possibilità insita in qualunque culto dell'avanguardia separata dalle masse. Quasi cent'anni prima della nascita delle BR, Marx ed Engels avevano condannato duramente la fascinazione per le società segrete e dichiarato che, almeno in Europa, la rivoluzione non sarebbe stata "affare per massoni". Forse, nei loro incubi, i due capostipiti avevano visto il videotape della condanna a morte di Roberto Peci, dichiarato traditore su base biologica – per consanguineità con un pentito – dopo un "processo" senza difesa. Pornografia della violenza degradante, reality show di faida mafiosa, il tutto accompagnato dall'Internazionale, inno mai tanto svilito e insozzato, nemmeno nei giorni delle purghe staliniane. Quel singolo episodio è un dado super-concentrato, contiene un minestrone di tutti gli errori del movimento comunista.
Riconoscere l'orrore anche dentro l'amore non è "fuga all'indietro", né significa abiurare il conflitto. Al contrario, è il solo modo per tornare a pensarlo fecondo.
Repubblica, 18 novembre 2007C’eravamo tanto armati
La prima immagine riguarda il tragico bombardamento dell'ottobre del 1944, quando l'aviazione alleata colpì i quartieri a Nord di Milano, uccidendo oltre duecento bambini della scuola materna di Gorla. Fra le vittime anche la diciassettenne Luciana Morlacchi, zia di Pietro Morlacchi (scomparso nel 1999), che negli anni Settanta nel quartiere operaio del Giambellino fu tra i fondatori delle Brigate Rosse, senza mai macchiarsi di fatti di sangue.
Sullo sfondo della storia milanese del dopoguerra, la tumultuosa vicenda della famiglia Morlacchi ci viene ora raccontata in La fuga in avanti (AgenziaX) da Manolo Morlacchi, trentasettenne figlio di Pietro. È un libro di grande franchezza e sincerità nel quale l'autore ricostruisce le pulsioni, i sogni e le speranze di tre generazioni di militanti comunisti: la guerra mondiale innanzitutto, con le piccole azioni di sabotaggio in città e la lotta partigiana in montagna; poi la ricostruzione in una Milano operaia e orgogliosa di esserlo, dove il Pci era un punto di riferimento importante della vita quotidiana. Ma anche i rapporti fra "ligera", la piccola mala milanese, e i militanti comunisti, parte di un unico grande soggetto proletario che proprio nel quartiere del Giambellino vedeva una delle sue massime espressioni.
La parabola esistenziale di Piero Morlacchi e dei suoi fratelli diventa così una storia esemplare, testimonianza diretta di un sogno infranto. Un sogno alimentato prima dal mito stalinista e poi dall'alternativa maoista che fu causa della prima grande frattura d'interno del Pci. Frattura radicalizzatasi con gli anni, fino a portare molti militanti ad aderire alla lotta armata nel decennio successivo: a Milano. dove nel 1971 nasce il Collettivo Politico Metropolitano, embrione delle future Brigate Rosse, che insieme a Renato Curcio e MaraCagol, vede fra i fondatori anche Pietro Morlacchi, che da quel momento, insieme a sua moglie Heidi Peusch, conosciuta in Germania, continuerà ad entrare e uscire di galera.
A metà strada fra il saggio e il racconto biografico, La fuga in avanti un lavoro basato su ricordi, documenti e testimonianze orali, fedelmente riportate dall'autore. Fra le pagine emerge sofferenza ma anche orgoglio, nella consapevolezza di ripercorrere la storia dal punto di vista degli sconfitti.
di Alessandro BertanteSullo sfondo della storia milanese del dopoguerra, la tumultuosa vicenda della famiglia Morlacchi ci viene ora raccontata in La fuga in avanti (AgenziaX) da Manolo Morlacchi, trentasettenne figlio di Pietro. È un libro di grande franchezza e sincerità nel quale l'autore ricostruisce le pulsioni, i sogni e le speranze di tre generazioni di militanti comunisti: la guerra mondiale innanzitutto, con le piccole azioni di sabotaggio in città e la lotta partigiana in montagna; poi la ricostruzione in una Milano operaia e orgogliosa di esserlo, dove il Pci era un punto di riferimento importante della vita quotidiana. Ma anche i rapporti fra "ligera", la piccola mala milanese, e i militanti comunisti, parte di un unico grande soggetto proletario che proprio nel quartiere del Giambellino vedeva una delle sue massime espressioni.
La parabola esistenziale di Piero Morlacchi e dei suoi fratelli diventa così una storia esemplare, testimonianza diretta di un sogno infranto. Un sogno alimentato prima dal mito stalinista e poi dall'alternativa maoista che fu causa della prima grande frattura d'interno del Pci. Frattura radicalizzatasi con gli anni, fino a portare molti militanti ad aderire alla lotta armata nel decennio successivo: a Milano. dove nel 1971 nasce il Collettivo Politico Metropolitano, embrione delle future Brigate Rosse, che insieme a Renato Curcio e MaraCagol, vede fra i fondatori anche Pietro Morlacchi, che da quel momento, insieme a sua moglie Heidi Peusch, conosciuta in Germania, continuerà ad entrare e uscire di galera.
A metà strada fra il saggio e il racconto biografico, La fuga in avanti un lavoro basato su ricordi, documenti e testimonianze orali, fedelmente riportate dall'autore. Fra le pagine emerge sofferenza ma anche orgoglio, nella consapevolezza di ripercorrere la storia dal punto di vista degli sconfitti.
Una letteraCiao Manolo
Ilenia Ciao Manolo,
sono contenta che tu mi abbia scritto, togliendomi dall’imbarazzo di scriverti io per prima, temendo di essere indiscreta e fuori luogo. E uso questo termine, “indiscreta”, perché è così che mi sono sentita dopo aver scritto il commento al tuo libro sul forum. Quel commento, un attimo averlo scritto, mi ha fatto sentire in imbarazzo. Non perché non pensi davvero che “la fuga in avanti” sia “bello, bello, bello” (anzi, lo sto consigliando a tutti quelli che ne potrebbero essere interessati), ma perché ho dato un giudizio così – non so come dire – “superficiale” su un libro che racconta la storia tua, della tua famiglia, di tanti compagni. Cioè, mi sono sentita ridicola ad aver dato un giudizio più adatto ad un libro di narrativa che alla “fuga in avanti”: è vero che io non amo scrivere lunghi posts sui forum, ma credo che in questo caso mi sarei potuta sforzare un po’ di più. Però lo ammetto: ho dato un giudizio emotivo. Ho dato il giudizio di una persona che ha letto il libro come una donna di parte, che è stata coinvolta dalla lettura (mi sono commossa più volte… in metropolitana…), che ha finalmente letto qualcosa che valeva la pena di leggere su quel periodo. Sinceramente la tua intervista a Giuliano sul sito mi era sfuggita, ma avevo letto il tuo intervento su carmilla e, condividendo ogni parola di quello che scrivevi in generale, lo avevo inserito nella mia lista “libri da comprarmi quando avrò i soldi”. Poi l’altro giorno sono andata entrata da Feltrinelli per andare in bagno, non ho resistito alla tentazione di farmi un giretto nel reparto “storia” e, avendolo trovato, l’ho comprato (non sta nel settore di Feltrinelli “lotta armata”, ma in “storia generale”… e credo sia meglio così). Tutto ciò (sono incredibilmente prolissa, lo so) per dirti che io partivo già con delle aspettative e, per questo, mi sono lasciata piuttosto andare nella lettura. E ne sono contenta: sai che tristezza se lo avessi letto come “storica”! Il tuo libro è un libro di idee e sentimenti (non necessariamente in quest’ordine) e la sua forza – narrativa, morale, intellettuale, ma soprattutto politica – sta proprio in questo. E non ti si venga a dire – come fatto anche da Wu Ming, che in genere non scrive cose così tanto idiote – che sei stato “acritico” e “reticente”, che non hai preso le distanze. Ma che senso ha chiedere a qualcun altro di prendere le distanze? Prendere le distanze non è un atto dovuto e non è necessario. Non è necessario per uno che si prefigge di scrivere un libro di storia (cosa a cui tu hai rinunciato e, visti gli splendidi risultati, posso dire che hai fatto la scelta giusta… che poi, non è vero che tu non scriva un libro di storia: tu non scrivi un libro di Storia con la maiuscola, ma fai comunque storia, raccontando una delle tanti possibili storie di quel periodo), figurati se lo è per un figlio-nipote, per uno che non ha niente di cui rendere conto in quegli anni (a quale storico viene chiesto di prendere le distanze dai giacobini?! Bah, nessuno), per uno che ha delle idee e che quell’esperienza (straordinaria sotto il profilo umano e politico) la rivendica. E sei talmente onesto intellettualmente che tutto ciò non lo nascondi. La richiesta di Wu Ming e dei suoi epigoni è quella di mentire, di rivedere il tuo giudizio da bambino (?!) - cosa quanto mai anacronistica - non si capisce bene per quale motivo. Per vendere? Perché non è politicamente corretto mostrare che chi scelse un certo tipo di lotta era un uomo (e una donna) come tutti gli altri (anzi, infinitamente migliore), con gli affetti, la famiglia, i figli? Perché l’Italia addormentata da una ridicola e patetica propaganda per la pacificazione non vuol leggere quanto ha da dire chi nel conflitto non vede il “male assoluto” ma uno strumento di emancipazione e di miglioramento? Io la pacificazione degli animi non la capisco: tutti siamo persone di parte (senza far finta di non vedere che alcuni stanno dalla parte giusta, altri no) ed è ipocrita far finta che non sia così. E coloro che effettivamente non sono di parte, non so quanto possano valere come uomini: senza idee, cosa sono? Davvero, io quell’intervento di Wu Ming (simpaticamente messo laddove scrivono recensioni di “narrativa”: ma gli pare narrativa la tua?!) non l’ho capito. L’ho riletto anche prima di scriverti questa mail, e continuo a non capirlo. Non ho capito il senso di quell’“ironico” punto esclamativo a commento di “splendido clima”. Non ho capito il senso di quei riferimenti finali al pg e a Peci: mi sembra un po’ quando dici ad uno “io sono comunista” e quello ti risponde “ah, i gulag, le foibe, il triangolo rosso”, un cianciare su qualcosa che non c’entra nulla, un confondere gli ideali con la loro degenerazione, un voler distogliere l’attenzione dal nocciolo della questione. Hai raccontato una vicenda umana e politica splendida, una saga famigliare di tre-quattro generazioni, hai raccontato la lotta dei compagni (che sono tuoi parenti, che sono i numerosi fratelli di tuo padre), hai raccontato i sentimenti, e una recensione su quello che hai scritto si conclude parlando di Peci. E allora, quindi, significa che quello che hai scritto è arrivato alla coscienza del lettore, che hai smosso gli animi, che in Wu Ming si è sviluppato un dilemma etico, che l’ha coperto tirando fuori faccende che non c’entravano nulla. E questo significa essere disonesti. Ok, visto che mi sono dilungata decisamente troppo la chiudo qui. Ho finito per parlare di Wu Ming invece che del libro. E sicuramente ho scritto qualcosa di molto confuso: perdonami, ma sono le 2 di notte e non mi andava di rimandare di nuovo la mia risposta. Prometto che la prossima volta – se lo vorrai – scriverò ad un orario più “umano”.
A presto
di Ileniasono contenta che tu mi abbia scritto, togliendomi dall’imbarazzo di scriverti io per prima, temendo di essere indiscreta e fuori luogo. E uso questo termine, “indiscreta”, perché è così che mi sono sentita dopo aver scritto il commento al tuo libro sul forum. Quel commento, un attimo averlo scritto, mi ha fatto sentire in imbarazzo. Non perché non pensi davvero che “la fuga in avanti” sia “bello, bello, bello” (anzi, lo sto consigliando a tutti quelli che ne potrebbero essere interessati), ma perché ho dato un giudizio così – non so come dire – “superficiale” su un libro che racconta la storia tua, della tua famiglia, di tanti compagni. Cioè, mi sono sentita ridicola ad aver dato un giudizio più adatto ad un libro di narrativa che alla “fuga in avanti”: è vero che io non amo scrivere lunghi posts sui forum, ma credo che in questo caso mi sarei potuta sforzare un po’ di più. Però lo ammetto: ho dato un giudizio emotivo. Ho dato il giudizio di una persona che ha letto il libro come una donna di parte, che è stata coinvolta dalla lettura (mi sono commossa più volte… in metropolitana…), che ha finalmente letto qualcosa che valeva la pena di leggere su quel periodo. Sinceramente la tua intervista a Giuliano sul sito mi era sfuggita, ma avevo letto il tuo intervento su carmilla e, condividendo ogni parola di quello che scrivevi in generale, lo avevo inserito nella mia lista “libri da comprarmi quando avrò i soldi”. Poi l’altro giorno sono andata entrata da Feltrinelli per andare in bagno, non ho resistito alla tentazione di farmi un giretto nel reparto “storia” e, avendolo trovato, l’ho comprato (non sta nel settore di Feltrinelli “lotta armata”, ma in “storia generale”… e credo sia meglio così). Tutto ciò (sono incredibilmente prolissa, lo so) per dirti che io partivo già con delle aspettative e, per questo, mi sono lasciata piuttosto andare nella lettura. E ne sono contenta: sai che tristezza se lo avessi letto come “storica”! Il tuo libro è un libro di idee e sentimenti (non necessariamente in quest’ordine) e la sua forza – narrativa, morale, intellettuale, ma soprattutto politica – sta proprio in questo. E non ti si venga a dire – come fatto anche da Wu Ming, che in genere non scrive cose così tanto idiote – che sei stato “acritico” e “reticente”, che non hai preso le distanze. Ma che senso ha chiedere a qualcun altro di prendere le distanze? Prendere le distanze non è un atto dovuto e non è necessario. Non è necessario per uno che si prefigge di scrivere un libro di storia (cosa a cui tu hai rinunciato e, visti gli splendidi risultati, posso dire che hai fatto la scelta giusta… che poi, non è vero che tu non scriva un libro di storia: tu non scrivi un libro di Storia con la maiuscola, ma fai comunque storia, raccontando una delle tanti possibili storie di quel periodo), figurati se lo è per un figlio-nipote, per uno che non ha niente di cui rendere conto in quegli anni (a quale storico viene chiesto di prendere le distanze dai giacobini?! Bah, nessuno), per uno che ha delle idee e che quell’esperienza (straordinaria sotto il profilo umano e politico) la rivendica. E sei talmente onesto intellettualmente che tutto ciò non lo nascondi. La richiesta di Wu Ming e dei suoi epigoni è quella di mentire, di rivedere il tuo giudizio da bambino (?!) - cosa quanto mai anacronistica - non si capisce bene per quale motivo. Per vendere? Perché non è politicamente corretto mostrare che chi scelse un certo tipo di lotta era un uomo (e una donna) come tutti gli altri (anzi, infinitamente migliore), con gli affetti, la famiglia, i figli? Perché l’Italia addormentata da una ridicola e patetica propaganda per la pacificazione non vuol leggere quanto ha da dire chi nel conflitto non vede il “male assoluto” ma uno strumento di emancipazione e di miglioramento? Io la pacificazione degli animi non la capisco: tutti siamo persone di parte (senza far finta di non vedere che alcuni stanno dalla parte giusta, altri no) ed è ipocrita far finta che non sia così. E coloro che effettivamente non sono di parte, non so quanto possano valere come uomini: senza idee, cosa sono? Davvero, io quell’intervento di Wu Ming (simpaticamente messo laddove scrivono recensioni di “narrativa”: ma gli pare narrativa la tua?!) non l’ho capito. L’ho riletto anche prima di scriverti questa mail, e continuo a non capirlo. Non ho capito il senso di quell’“ironico” punto esclamativo a commento di “splendido clima”. Non ho capito il senso di quei riferimenti finali al pg e a Peci: mi sembra un po’ quando dici ad uno “io sono comunista” e quello ti risponde “ah, i gulag, le foibe, il triangolo rosso”, un cianciare su qualcosa che non c’entra nulla, un confondere gli ideali con la loro degenerazione, un voler distogliere l’attenzione dal nocciolo della questione. Hai raccontato una vicenda umana e politica splendida, una saga famigliare di tre-quattro generazioni, hai raccontato la lotta dei compagni (che sono tuoi parenti, che sono i numerosi fratelli di tuo padre), hai raccontato i sentimenti, e una recensione su quello che hai scritto si conclude parlando di Peci. E allora, quindi, significa che quello che hai scritto è arrivato alla coscienza del lettore, che hai smosso gli animi, che in Wu Ming si è sviluppato un dilemma etico, che l’ha coperto tirando fuori faccende che non c’entravano nulla. E questo significa essere disonesti. Ok, visto che mi sono dilungata decisamente troppo la chiudo qui. Ho finito per parlare di Wu Ming invece che del libro. E sicuramente ho scritto qualcosa di molto confuso: perdonami, ma sono le 2 di notte e non mi andava di rimandare di nuovo la mia risposta. Prometto che la prossima volta – se lo vorrai – scriverò ad un orario più “umano”.
A presto