www.infoaut.org, 24 settembre 2013 Libertà per Nejib: organizzare la rivoluzione tra il cyberspace e lo scontro
Pubblichiamo un paragrafo del libro La collera della Casbah – voci di rivoluzione da Tunisi, di Fulvio Massarelli, che contiene una lunga narrazione di Nejib dedicata alla sua esperienza di mediattivista e militante dell'opposizione clandestina durante il regime di Ben Ali e durante i primi mesi delle straordinarie insorgenze che hanno attraversato e attraversano la Tunisia dal 2011 ad oggi. Nejib come tanti altri rivoluzionari, e proletari tunisini, è oggi in carcere, la sua militanza per conseguire gli obiettivi della rivoluzione è stata punita dalla polizia del governo islamista con una perquisizione (in cui sono stati sequestrati tutti gli strumenti di lavoro, compresi gli hard disk) e con il successivo arresto. Insieme a Nejib, anche tre dei suoi compagni si aggiungo alla lista di giovani artisti, mediattivisti, musicisti e cineasti militanti caduti nella mani del Ministero degli Interni di Ennahdha. La reazione islamista fin dall'insediamento dell'organizzazione fondamentalista, a seguito di elezioni farsa, non ha esitato a scaraventare contro il proletariato giovanile gli strumenti repressivi della routine benalinista e a colpire tanti e tante militanti impegnati nel processo rivoluzionario. Carcere, torture, processi farsa contro il movimento di massa, fino all'omicidio politico di due suoi esponenti pubblici, e assoluzioni dorate, e verità nascoste per il vecchio regime. In ogni occasione la risposta della contrapposizione sociale non si è fatta attendere, e il regime ha picchiato ancora più duro, e come questi ultimi mesi ci indicano, mirando anche sull'espressione culturale e sulla produzione indipendente e antagonista dell'informazione. In attesa di avere notizie più dettagliate sulla sorte di Nejib e di tutti i compagni e le compagne arrestate, pubblichiamo quindi una sua narrazione sulle cui parole risuona il nostro slogan “liberi tutti, libere tutte!”.Cominciai a fare cyberattivismo nel corso delle manifestazioni precedenti al 14 gennaio, in sostegno alle proteste e alle rivendicazioni della rivolta scoppiata a Sidi Bouzid. In quei giorni, senza mai fermarmi, iniziai a pubblicare pagine d’informazione ed eventi su Facebook. Prima del 17 dicembre le mie attività si limitavano alla sfera culturale perché era impossibile riuscire a organizzarsi direttamente in collettivi o gruppi per esprimerci esplicitamente contro il regime. Non avevamo spazi dove incontrarci e organizzare la lotta. Il mio lavoro d’attivista, quindi, consisteva nell’organizzare concerti o proiezioni nei cineclub che avessero sempre uno spazio per il dibattito una volta terminato il film. In quel contesto riuscivo a incontrare altri ragazzi e a parlare della situazione politica, altrimenti gli unici altri spazi disponibili erano all’università con il sindacato studentesco.
Comunque c’erano moltissimi problemi per organizzare anche quelle attività. Non riuscivamo a fare niente tranquillamente e in libertà. C’era una grande paura della polizia, per questo mascheravamo i dibattiti politici con il cinema. In questo modo si riusciva ad attirare molta più gente rispetto a una riunione politica o sindacale. Qualcosa cambiò quando iniziarono a circolare le foto di Mohamed Bouazizi che si dava fuoco. Era finalmente arrivato il momento di agire. Da quel giorno non mi sono più fermato!
Ogni foto o video che proveniva dalla rivolta di Sidi Bouzid e dalle manifestazioni nelle altre città la ripubblicavo immediatamente sul web, invitando la gente a manifestare la propria solidarietà ovunque. Il motore mediatico della rivoluzione, secondo me, era qui a Tunisi.
Usavamo YouTube, Twitter e soprattutto Facebook. Tutti potevano vedere con i propri occhi cosa stava accadendo realmente, cresceva la consapevolezza che la situazione non poteva andare avanti così. Facevamo decine e decine di eventi su Facebook invitando la gente a scendere subito in piazza, contribuendo all’esplosione della collera nella capitale. Mentre la televisione non diceva niente della rivolta, noi raggiungevamo il nostro obiettivo: le foto e i video fatti circolare dai mediattivisti arrivavano sempre a più persone. Il nostro ruolo, a quel punto, non era più solo diffondere le informazioni ma anche incoraggiare la gente a non avere paura.
Nei primi giorni della rivolta di Sidi Bouzid il grosso del cyberattivismo erano spontaneo, successivamente sono iniziate le collaborazioni per organizzare meglio le attività. Una sera a casa mia ci incontrammo con altri mediattivisti scambiandoci molti materiali da far circolare nel web, condividendo i link di informazione e tutti i lanci delle manifestazioni a nostra conoscenza. Poco dopo entrammo in contatto con altri gruppi tramite telefono o via chat. Nel frattempo vedevamo moltiplicarsi gli appelli alla rivoluzione... E alla fine possiamo dire d’avercela fatta! Riuscendo anche a battere il sistema di censura Ammar404 la cui potenza, secondo me, era in parte gonfiata dai media. In realtà non era così difficile sfuggire alla censura visto che nella censura c’eravamo nati! Ognuno sapeva come fare per aggirare Ammar404!
Dal 24 dicembre siamo scesi in campo fisicamente e non solo in rete, in quel momento iniziammo a mettere davvero in crisi il sistema. Quel giorno avevamo lanciato un nostro flash mob, utile per diversificare il tipo di azioni e soprattutto per incoraggiare la gente, per mostrargli che la paura non c’era più. Filmammo l’azione pubblicandola immediatamente su internet.
Il 25 dicembre abbiamo sperimentato la prima diretta web. Si trattava di un presidio di solidarietà a Sidi Bouzid, nei pressi della sede del sindacato, nel centro di Tunisi. C’era tantissima gente e noi per la prima volta trasmettevamo in diretta, mostrando al resto del paese cosa stava succedendo anche qui nella capitale.
Questo è stato uno dei nostri punti di forza rispetto alla censura e alla propaganda del regime: la decentralizzazione alla base della società della comunicazione e dell’informazione. Tutti producevano informazione e ricevevano informazione dal basso, generando una sorta di aggiornamento continuo e in larga misura spontaneo. La propaganda del regime invece era centralizzata da radio e televisione, ma nessuno le seguiva più. Tutta la gente era impegnata a condividere le informazioni online che raccontavano cosa stava succedendo realmente in Tunisia, invitando all’azione per sostenere la rivolta di Sidi Bouzid, fornendo luogo e ora esatti di quel presidio o di quell’altro corteo. Ormai la televisione parlava da sola.
L’informazione ha aiutato l’organizzazione della lotta. Il lavoro di mediattivismo non era più solo fare e condividere foto o video ma anche divenire admin che, in prima persona, lanciavano eventi e pagine Facebook per manifestazioni di ogni tipo. I media e soprattutto i social network erano diventati uno spazio alternativo per organizzare la battaglia. Per capire meglio bisogna guardare a cosa è successo a Gafsa nel 2008 dove le grandi manifestazioni rimasero circoscritte alla regione perché le persone non riuscivano a comunicare con il resto del paese. L’esatto contrario di quanto accaduto con la rivolta di Sidi Bouzid. Perché? Una risposta potrebbe essere che nel 2008 in Tunisia non era ancora maturo questo spazio mediatico capace di unire la gente contro il regime, mentre nel 2010 un social network come Facebook ha giocato un ruolo decisivo. Grazie anche alle pagine web preesistenti dedicate alla musica, al calcio e al cinema che, dal giorno alla notte, si trasformarono in gruppi online per la lotta.
Un altro esempio lampante si vide dopo il 14 gennaio, subito dopo la fuga Ben Ali. Tornai a casa verso sera e connettendomi trovai migliaia e migliaia di persone online che discutevano di cosa era successo durante il giorno. Si cercava di trarre delle conclusioni dagli eventi di quella giornata.
La cosa più importante è che quella sera tutti dicevano che il giorno dopo bisognava uscire ancora a manifestare, ognuno lo diceva all’altro e così via. Durante i presidi della Casbah si sviluppò la stessa dinamica, ma l’organizzazione era migliorata. Fin da subito erano state allestite tende e gruppi di lavoro che si occupavano di media, internet e attivismo in rete.
Per prima cosa si filmavano i partecipanti al presidio, come se si trattasse di un video messaggio al paese o al mondo, inoltre venivano riprese le interminabili discussioni tra manifestanti e, una volta montato tutto il materiale, si pubblicava subito sul web. C’era una diretta continua dalla Casbah verso il resto della Tunisia. Tutti potevano ascoltare senza nessuna censura il discorso spontaneo di qualche manifestante o un appello all’azione. L’opposto di quanto facevano le tv mainstream tunisine che filmavano da fuori il presidio senza potervi entrare. Nei giorni della Casbah tra mediattivisti e mainstream non c’erano proprio relazioni: i manifestanti non volevano che le tv, le radio, e i giornalisti che avevano lavorato per Ben Ali potessero entrare nel sit-in permanente. Nessma Tv compresa, la televisione privata che trasmette nel Maghreb e di cui Berlusconi è uno dei principali investitori.
L’ultimo giorno della prima Casbah Nessma Tv filmò la repressione con tutti gli operatori posizionati dal lato della polizia. Quando vennero trasmesse le immagini degli scontri i telespettatori non videro altro che manifestanti andare all’attacco dei poliziotti... ma non era così! I manifestanti si stavano difendendo dalle provocazioni e delle aggressioni delle forze dell’ordine.
Per colpa di Nessma andava in tv il contrario della verità. Fu veramente grave per la Tunisia post Ben Ali: era come tornare indietro! Solo grazie ai mediattivisti e a chi fortunatamente aveva con sé un cellulare con videocamera che fu filmata la verità. Sul web emerse l’altro punto di vista, esattamente il contrario di quello trasmesso in televisione!
Quelli di Nessma arrivarono al punto di intervistare un signore che diceva: “I manifestanti stanno attaccando la polizia!”. Dopo qualche minuto lo stesso signore veniva smascherato in rete perché riconosciuto in alcuni video con la divisa da poliziotto.
Durante la prima Casbah il mainstream tentò in tutti i modi di screditare il movimento e le manifestazioni ma il mediattivismo riuscì anche questa volta a contrastarli.
Alla seconda Casbah non osarono nemmeno! Noi eravamo organizzati molto meglio e i giornalisti avevano capito che non gli conveniva fare la guerra. Dopo quelle dirette di Nessma nessuno in Tunisia si fidava più dell’emittente e in tanti la criticavano o l’attaccavano. Il lavoro sporco di Nessma Tv si conferma nel modo con cui riprese gli scontri del 27 febbraio sull’avenue Bou rguiba. Era il giorno della grande manifestazione che rovesciò il governo Gannouchi, si sapeva benissimo che ci sarebbero state provocazioni da parte della polizia. Guarda caso tutti gli operatori dell’emittente erano già schierati insieme alle forze dell’ordine nei pressi del ministero degli Interni. La verità del regime, anche in quell’occasione, andò in onda. Non riuscì però a cambiare la situazione politica perché il racconto della repressione omicida di quel giorno in Tunisia veniva letto e ascoltato su internet! La manipolazione delle notizie aveva prodotto la totale sfiducia nei confronti di Nessma e non nel movimento, al punto che, dopo quella importante giornata di lotta, il secondo governo di transizione si trovò costretto alle dimissioni.
All’inizio fare mediattivismo era in molti casi un gesto spontaneo, d’altronde basta un cellulare per fare un video da pubblicare. Ora le energie iniziano a essere meglio organizzate e tendono al citizen journalism: nascono i primi siti “ufficiali” di informazione dal basso, web tv, laboratori di montaggio video e piccole radio come radio Ahl Al-Kahf. Ora che Ben Ali è fuggito sta nascendo una cultura del citizen journalism e del mediattivismo molto più elaborata rispetto alle origini, anche se rimangono molti dei vecchi problemi. Per esempio un ragazzo che aveva trasmesso in streaming la seconda Casbah e il primo tentativo di conquista della terza è stato arrestato, e agli admin dei gruppi della rivoluzione su Facebook, come Takriz, sono nel mirino della repressione che vuole limitare le loro attività, e lo stesso vale per il resto dei mediattivisti! Ancora oggi in Tunisia se non lavori per Nessma, per le tv nazionali o le radio ufficiali corri costantemente il rischio d’essere pestato o arrestato dalla polizia. Come se non bastasse si aggiunge un vuoto giuridico: per le leggi che organizzano i media, infatti, è come se non esistesse il media elettronico e chi lavora nell’informazione via web non è considerato giuridicamente un giornalista.
Il nostro lavoro va avanti comunque, affrontando questo e altri problemi forse più gravi. Uno degli obiettivi principali è diffondere la cultura del mediattivismo e colpire l’ignoranza o la leggerezza con cui vengono usate le nuove tecnologie informatiche. Vogliamo evitare che accadano episodi come quello di Ennahdha, un movimento islamista che, sfruttando la scarsa conoscenza informatica degli utenti, è riuscita a comprarsi le password di pagine Facebook con migliaia di utenti iscritti. Con un po’ di soldi hanno quindi trasformato una pagina che sosteneva un calciatore in una gruppo di propaganda politica! C’è un grande bisogno di formazione politica e tecnica o si rischia di perdere tutto quello che abbiamo ottenuto! Io, per esempio, mi sto impegnando nel tenere corsi di formazione per ragazzi che vogliono fare mediattivismo, magari partendo proprio dalla gestione di una pagina Facebook.
“La rivoluzione di Facebook” è una definizione sbagliata, e su questo voglio fare un discorso chiaro, molto chiaro: il social network ha avuto e ha un ruolo importante, ma questa è la rivoluzione di chi ha sofferto la povertà e la marginalizzazione. L’immagine della rivoluzione dei blogger, che va tanto di moda in Europa, non è vera! Mi sembra solo uno strumento per classificarla, distogliendo così l’attenzione dalle pesanti questioni messe in evidenza dai giovani di Sidi Bouzid, di Redeyef e di Gafsa. Da parte nostra, come mediattivisti, facciamo proprio il lavoro contrario, andiamo lì dove i problemi sono stati sollevati.
Ora sto lavorando a un progetto per installare delle radio locali a Sidi Bouzid e prossimamente organizzeremo dei corsi di formazione aperti a chi vuole costruire simili apparecchiature. È un lavoro importante per la Tunisia fatto in collaborazione anche con i network internazionali, tra cui l’Italia. Queste collaborazioni sono molto utili per scambiare esperienze che magari altri hanno già maturato da tempo. Non solo per le radio indipendenti, ma penso anche ai quotidiani web o cartacei, tutti strumenti in cui lo scambio di esperienze e saperi è indispensabile. In Tunisia adesso c’è bisogno di mezzi e spazi nuovi. Durante le giornate di gennaio si era creata una dinamica veramente creativa tra la popolazione, ora stiamo rischiando di ricadere nella merda. Per questo il lavoro del mediattivista è indispensabile, per chiedere alla società: “Dove siamo arrivati?”, “Cosa vogliamo?”, “Cosa possiamo fare per andare avanti?”. Adesso è il momento giusto per porre i problemi, far parlare e confrontare la gente sulle svariate questioni irrisolte, per esempio la richiesta di giustizia rivendicata dai familiari dei martiri della rivoluzione, e organizzare subito nuove manifestazioni. Ora dobbiamo essere più attivi di prima e porre con forza la grande domanda: “Cosa abbiamo ottenuto con la nostra rivoluzione?” e cercare insieme le risposte per tornare all’azione.
Comunque c’erano moltissimi problemi per organizzare anche quelle attività. Non riuscivamo a fare niente tranquillamente e in libertà. C’era una grande paura della polizia, per questo mascheravamo i dibattiti politici con il cinema. In questo modo si riusciva ad attirare molta più gente rispetto a una riunione politica o sindacale. Qualcosa cambiò quando iniziarono a circolare le foto di Mohamed Bouazizi che si dava fuoco. Era finalmente arrivato il momento di agire. Da quel giorno non mi sono più fermato!
Ogni foto o video che proveniva dalla rivolta di Sidi Bouzid e dalle manifestazioni nelle altre città la ripubblicavo immediatamente sul web, invitando la gente a manifestare la propria solidarietà ovunque. Il motore mediatico della rivoluzione, secondo me, era qui a Tunisi.
Usavamo YouTube, Twitter e soprattutto Facebook. Tutti potevano vedere con i propri occhi cosa stava accadendo realmente, cresceva la consapevolezza che la situazione non poteva andare avanti così. Facevamo decine e decine di eventi su Facebook invitando la gente a scendere subito in piazza, contribuendo all’esplosione della collera nella capitale. Mentre la televisione non diceva niente della rivolta, noi raggiungevamo il nostro obiettivo: le foto e i video fatti circolare dai mediattivisti arrivavano sempre a più persone. Il nostro ruolo, a quel punto, non era più solo diffondere le informazioni ma anche incoraggiare la gente a non avere paura.
Nei primi giorni della rivolta di Sidi Bouzid il grosso del cyberattivismo erano spontaneo, successivamente sono iniziate le collaborazioni per organizzare meglio le attività. Una sera a casa mia ci incontrammo con altri mediattivisti scambiandoci molti materiali da far circolare nel web, condividendo i link di informazione e tutti i lanci delle manifestazioni a nostra conoscenza. Poco dopo entrammo in contatto con altri gruppi tramite telefono o via chat. Nel frattempo vedevamo moltiplicarsi gli appelli alla rivoluzione... E alla fine possiamo dire d’avercela fatta! Riuscendo anche a battere il sistema di censura Ammar404 la cui potenza, secondo me, era in parte gonfiata dai media. In realtà non era così difficile sfuggire alla censura visto che nella censura c’eravamo nati! Ognuno sapeva come fare per aggirare Ammar404!
Dal 24 dicembre siamo scesi in campo fisicamente e non solo in rete, in quel momento iniziammo a mettere davvero in crisi il sistema. Quel giorno avevamo lanciato un nostro flash mob, utile per diversificare il tipo di azioni e soprattutto per incoraggiare la gente, per mostrargli che la paura non c’era più. Filmammo l’azione pubblicandola immediatamente su internet.
Il 25 dicembre abbiamo sperimentato la prima diretta web. Si trattava di un presidio di solidarietà a Sidi Bouzid, nei pressi della sede del sindacato, nel centro di Tunisi. C’era tantissima gente e noi per la prima volta trasmettevamo in diretta, mostrando al resto del paese cosa stava succedendo anche qui nella capitale.
Questo è stato uno dei nostri punti di forza rispetto alla censura e alla propaganda del regime: la decentralizzazione alla base della società della comunicazione e dell’informazione. Tutti producevano informazione e ricevevano informazione dal basso, generando una sorta di aggiornamento continuo e in larga misura spontaneo. La propaganda del regime invece era centralizzata da radio e televisione, ma nessuno le seguiva più. Tutta la gente era impegnata a condividere le informazioni online che raccontavano cosa stava succedendo realmente in Tunisia, invitando all’azione per sostenere la rivolta di Sidi Bouzid, fornendo luogo e ora esatti di quel presidio o di quell’altro corteo. Ormai la televisione parlava da sola.
L’informazione ha aiutato l’organizzazione della lotta. Il lavoro di mediattivismo non era più solo fare e condividere foto o video ma anche divenire admin che, in prima persona, lanciavano eventi e pagine Facebook per manifestazioni di ogni tipo. I media e soprattutto i social network erano diventati uno spazio alternativo per organizzare la battaglia. Per capire meglio bisogna guardare a cosa è successo a Gafsa nel 2008 dove le grandi manifestazioni rimasero circoscritte alla regione perché le persone non riuscivano a comunicare con il resto del paese. L’esatto contrario di quanto accaduto con la rivolta di Sidi Bouzid. Perché? Una risposta potrebbe essere che nel 2008 in Tunisia non era ancora maturo questo spazio mediatico capace di unire la gente contro il regime, mentre nel 2010 un social network come Facebook ha giocato un ruolo decisivo. Grazie anche alle pagine web preesistenti dedicate alla musica, al calcio e al cinema che, dal giorno alla notte, si trasformarono in gruppi online per la lotta.
Un altro esempio lampante si vide dopo il 14 gennaio, subito dopo la fuga Ben Ali. Tornai a casa verso sera e connettendomi trovai migliaia e migliaia di persone online che discutevano di cosa era successo durante il giorno. Si cercava di trarre delle conclusioni dagli eventi di quella giornata.
La cosa più importante è che quella sera tutti dicevano che il giorno dopo bisognava uscire ancora a manifestare, ognuno lo diceva all’altro e così via. Durante i presidi della Casbah si sviluppò la stessa dinamica, ma l’organizzazione era migliorata. Fin da subito erano state allestite tende e gruppi di lavoro che si occupavano di media, internet e attivismo in rete.
Per prima cosa si filmavano i partecipanti al presidio, come se si trattasse di un video messaggio al paese o al mondo, inoltre venivano riprese le interminabili discussioni tra manifestanti e, una volta montato tutto il materiale, si pubblicava subito sul web. C’era una diretta continua dalla Casbah verso il resto della Tunisia. Tutti potevano ascoltare senza nessuna censura il discorso spontaneo di qualche manifestante o un appello all’azione. L’opposto di quanto facevano le tv mainstream tunisine che filmavano da fuori il presidio senza potervi entrare. Nei giorni della Casbah tra mediattivisti e mainstream non c’erano proprio relazioni: i manifestanti non volevano che le tv, le radio, e i giornalisti che avevano lavorato per Ben Ali potessero entrare nel sit-in permanente. Nessma Tv compresa, la televisione privata che trasmette nel Maghreb e di cui Berlusconi è uno dei principali investitori.
L’ultimo giorno della prima Casbah Nessma Tv filmò la repressione con tutti gli operatori posizionati dal lato della polizia. Quando vennero trasmesse le immagini degli scontri i telespettatori non videro altro che manifestanti andare all’attacco dei poliziotti... ma non era così! I manifestanti si stavano difendendo dalle provocazioni e delle aggressioni delle forze dell’ordine.
Per colpa di Nessma andava in tv il contrario della verità. Fu veramente grave per la Tunisia post Ben Ali: era come tornare indietro! Solo grazie ai mediattivisti e a chi fortunatamente aveva con sé un cellulare con videocamera che fu filmata la verità. Sul web emerse l’altro punto di vista, esattamente il contrario di quello trasmesso in televisione!
Quelli di Nessma arrivarono al punto di intervistare un signore che diceva: “I manifestanti stanno attaccando la polizia!”. Dopo qualche minuto lo stesso signore veniva smascherato in rete perché riconosciuto in alcuni video con la divisa da poliziotto.
Durante la prima Casbah il mainstream tentò in tutti i modi di screditare il movimento e le manifestazioni ma il mediattivismo riuscì anche questa volta a contrastarli.
Alla seconda Casbah non osarono nemmeno! Noi eravamo organizzati molto meglio e i giornalisti avevano capito che non gli conveniva fare la guerra. Dopo quelle dirette di Nessma nessuno in Tunisia si fidava più dell’emittente e in tanti la criticavano o l’attaccavano. Il lavoro sporco di Nessma Tv si conferma nel modo con cui riprese gli scontri del 27 febbraio sull’avenue Bou rguiba. Era il giorno della grande manifestazione che rovesciò il governo Gannouchi, si sapeva benissimo che ci sarebbero state provocazioni da parte della polizia. Guarda caso tutti gli operatori dell’emittente erano già schierati insieme alle forze dell’ordine nei pressi del ministero degli Interni. La verità del regime, anche in quell’occasione, andò in onda. Non riuscì però a cambiare la situazione politica perché il racconto della repressione omicida di quel giorno in Tunisia veniva letto e ascoltato su internet! La manipolazione delle notizie aveva prodotto la totale sfiducia nei confronti di Nessma e non nel movimento, al punto che, dopo quella importante giornata di lotta, il secondo governo di transizione si trovò costretto alle dimissioni.
All’inizio fare mediattivismo era in molti casi un gesto spontaneo, d’altronde basta un cellulare per fare un video da pubblicare. Ora le energie iniziano a essere meglio organizzate e tendono al citizen journalism: nascono i primi siti “ufficiali” di informazione dal basso, web tv, laboratori di montaggio video e piccole radio come radio Ahl Al-Kahf. Ora che Ben Ali è fuggito sta nascendo una cultura del citizen journalism e del mediattivismo molto più elaborata rispetto alle origini, anche se rimangono molti dei vecchi problemi. Per esempio un ragazzo che aveva trasmesso in streaming la seconda Casbah e il primo tentativo di conquista della terza è stato arrestato, e agli admin dei gruppi della rivoluzione su Facebook, come Takriz, sono nel mirino della repressione che vuole limitare le loro attività, e lo stesso vale per il resto dei mediattivisti! Ancora oggi in Tunisia se non lavori per Nessma, per le tv nazionali o le radio ufficiali corri costantemente il rischio d’essere pestato o arrestato dalla polizia. Come se non bastasse si aggiunge un vuoto giuridico: per le leggi che organizzano i media, infatti, è come se non esistesse il media elettronico e chi lavora nell’informazione via web non è considerato giuridicamente un giornalista.
Il nostro lavoro va avanti comunque, affrontando questo e altri problemi forse più gravi. Uno degli obiettivi principali è diffondere la cultura del mediattivismo e colpire l’ignoranza o la leggerezza con cui vengono usate le nuove tecnologie informatiche. Vogliamo evitare che accadano episodi come quello di Ennahdha, un movimento islamista che, sfruttando la scarsa conoscenza informatica degli utenti, è riuscita a comprarsi le password di pagine Facebook con migliaia di utenti iscritti. Con un po’ di soldi hanno quindi trasformato una pagina che sosteneva un calciatore in una gruppo di propaganda politica! C’è un grande bisogno di formazione politica e tecnica o si rischia di perdere tutto quello che abbiamo ottenuto! Io, per esempio, mi sto impegnando nel tenere corsi di formazione per ragazzi che vogliono fare mediattivismo, magari partendo proprio dalla gestione di una pagina Facebook.
“La rivoluzione di Facebook” è una definizione sbagliata, e su questo voglio fare un discorso chiaro, molto chiaro: il social network ha avuto e ha un ruolo importante, ma questa è la rivoluzione di chi ha sofferto la povertà e la marginalizzazione. L’immagine della rivoluzione dei blogger, che va tanto di moda in Europa, non è vera! Mi sembra solo uno strumento per classificarla, distogliendo così l’attenzione dalle pesanti questioni messe in evidenza dai giovani di Sidi Bouzid, di Redeyef e di Gafsa. Da parte nostra, come mediattivisti, facciamo proprio il lavoro contrario, andiamo lì dove i problemi sono stati sollevati.
Ora sto lavorando a un progetto per installare delle radio locali a Sidi Bouzid e prossimamente organizzeremo dei corsi di formazione aperti a chi vuole costruire simili apparecchiature. È un lavoro importante per la Tunisia fatto in collaborazione anche con i network internazionali, tra cui l’Italia. Queste collaborazioni sono molto utili per scambiare esperienze che magari altri hanno già maturato da tempo. Non solo per le radio indipendenti, ma penso anche ai quotidiani web o cartacei, tutti strumenti in cui lo scambio di esperienze e saperi è indispensabile. In Tunisia adesso c’è bisogno di mezzi e spazi nuovi. Durante le giornate di gennaio si era creata una dinamica veramente creativa tra la popolazione, ora stiamo rischiando di ricadere nella merda. Per questo il lavoro del mediattivista è indispensabile, per chiedere alla società: “Dove siamo arrivati?”, “Cosa vogliamo?”, “Cosa possiamo fare per andare avanti?”. Adesso è il momento giusto per porre i problemi, far parlare e confrontare la gente sulle svariate questioni irrisolte, per esempio la richiesta di giustizia rivendicata dai familiari dei martiri della rivoluzione, e organizzare subito nuove manifestazioni. Ora dobbiamo essere più attivi di prima e porre con forza la grande domanda: “Cosa abbiamo ottenuto con la nostra rivoluzione?” e cercare insieme le risposte per tornare all’azione.
Radio onda d’urto, 27 aprile 2012Intervista a Fulvio Massarelli
Ha come sottotitolo “Voci di rivoluzione da Tunisi” questo libro di Fulvio Massarelli uscito per Agenzia X, che verrà presentato domenica 6 maggio, alle 18.00 al Magazzino 47 di Brescia, all’interno del ciclo di incontri Debt Generation. Nel frattempo abbiamo fatto una chiacchierata con Fulvio.
Ascolta l’intervista
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il manifesto, 25 aprile 2012Le radici indisponibili delle primavere arabe
Seppur con un lieve ritardo, dalla metà del 2011 gli scaffali delle librerie hanno iniziato a riempirsi di volumi sulle insurrezioni nel Nord Africa, sulla Tunisia e soprattutto sull’Egitto: reportage giornalistici più o meno utili, divulgazioni di stereotipi consolidati, pochi testi capaci di metterli in discussione e proporre interpretazioni differenti (tra questi va annoverata la raccolta di saggi Libeccio d’oltremare, recensita su queste pagine lo scorso 15 novembre). Insomma, la primavera editoriale si è gettata all’inseguimento della cosiddetta primavera araba.
In questo quadro il libro di Fulvio Massarelli (La collera della Casbah. Voci di rivoluzione da Tunisi, AgenziaX, pp. 116, euro 11) è importante, innanzitutto perché si basa su un’inchiesta militante nel vivo del «processo rivoluzionario». L’autore, da lungo tempo attivo nei movimenti e collaboratore de «il manifesto», nel corso dei mesi ha raccolto interviste con sindacalisti, insegnanti, studenti universitari, mediattivisti, femministe, giornalisti, ultras e rapper. Ha ascoltato e tradotto, interpretato e riflettuto insieme ai suoi interlocutori, dando così voce alla composizione sociale che ha incendiato la prateria nordafricana.Da Tunisi a Wall Street
I media occidentali, insieme ad altre etichette esotizzanti e dal rancido profumo orientalista, hanno definito quella tunisina la «rivoluzione dei gelsomini». Ma i gelsomini, ironizzano Massarelli e gli intervistati, non crescono sull’arida terra di Sidi Bouzid, né in mezzo alle miniere di fosfato di Gafsa. Lì è cresciuta, invece, una lenta e spesso sotterranea resistenza, perché l’insorgenza tunisina non viene dal nulla, come un gelsomino dalla terra. La rivolta era organizzata, afferma Meysem, giovane giornalista oppositrice del regime di Ben Ali, e affonda le sue radici nelle lotte operaie e studentesche a partire dagli anni Ottanta.
Massarelli e gli intervistati ritengono che anche la definizione di «twitter revolution» sia una banalizzazione. Se da un lato coglie la grande importanza che ha avuto il web, dall’altro rischia di separarla dalla materialità dei corpi, della composizione sociale e delle sue pratiche di lotta. La rete, ci dicono le voci da Tunisi, è stata dunque espressione dell’«intelligenza collettiva», dell’affermarsi di nuove forme di organizzazione capaci - sostiene Malek, studente, blogger e poeta - di rompere i confini: «quello spazio che prima era così grande e pieno di frontiere, d’un colpo è diventato piccolo». Percorsa dalle lotte, la rete disegna nuove coordinate spazio-temporali: non è un caso, allora, che l’insorgenza immediatamente si propaghi a piazza Tahrir, per poi attraversare il Mediterraneo con le «acampadas» spagnole e l’Atlantico con Occupy Wall Street.
La rete è anche espressione del ruolo decisivo della giovane forza lavoro cognitiva - fatta di studenti, grafici, montatori video, artisti, lavoratori dei media, in generale produttori di saperi precari o disoccupati - dentro la composizione del movimento tunisino. Spiega il sindacalista Jazz: «Ai giovani non piacevano i limiti e i modi di parlare dei vecchi militanti, gli appelli alla manifestazione non erano mai scritti nel loro linguaggio (...) ci accorgevamo che i giovani proletari avevano risolto molto prima di noi il problema della repressione, erano già più liberi di noi militanti». Così, quando alla Casbah compare il graffito «non posso sognare insieme a mio nonno», rivolto al vecchio premier Essebsi succeduto al destituito Gannouchi, non è un’imprecisata istanza di ribellismo giovanile. Del resto, i fili intergenerazionali della sovversione non si sono mai interrotti, studenti, lavoratori cognitivi e giovani militanti hanno usato gli spazi del sindacato unico Ugtt come luoghi di politicizzazione, rovesciandoli contro i vertici complici del regime. Così come hanno usato altri spazi - dai social network, appunto, alla musica ai quartieri, fino alle curve. Quello slogan indica, invece, la volontà di continuare il processo rivoluzionario, l’affermazione della sua fresca potenza.Il termidoro islamico
La sinistra e i suoi partiti, anche quelli che più si sono distinti nell’opposizione al regime di Ben Ali, hanno capito poco o solo in parte l’emergere di questa nuova soggettività. Lo spiega in termini chiari Majid Hawachi, tra i fondatori del Partito comunista dei lavoratori tunisini, oggi giornalista indipendente: i partiti della sinistra, dice, non sono riusciti a elaborare un programma di transizione, sacrificando le rivendicazioni della vita delle persone, gli scioperi e le lotte, in vista delle elezioni. «Io rispondo: No! O adesso o mai più!». Un altro errore, argomenta in modo convincente Massarelli, è stato cadere nella trappola di trasformare la costituente in un referendum sull’islam. Il risultato è noto: ha vinto Ennahdha, «il cui programma religioso si ispira alle politiche neoliberiste temperate dalla carità religiosa». Una partito che da subito si è proposta di terminare il processo rivoluzionario agitando verbalmente la bandiera della cacciata di Ben Ali e gridando all’ormai conquistata libertà liberale. In barba allo scontro di civiltà preconizzato da Huntington, ecco i migliori alleati termidoriani del potere imperiale.Da Cartagine alla rivolta
Che l’obiettivo non fosse esclusivamente la caduta di Ben Ali era chiaro a quelle decine di migliaia di giovani che hanno abbandonato le proprie case nelle zone interne della Tunisia o nelle periferie per conquistare il centro della metropoli, la Casbah. «La dittatura è un concentrato di potere e di cazzate», sbotta Malek, altroché invincibile dominio totalitario sulla nuda vita. Il regime fu quello che Ranajit Guha ha definito - sulla scorta di Gramsci - «dominio senza egemonia». Ma il silenzio è stato rotto e quella lunga genealogia di sedimentazione della resistenza ha assunto forma organizzata. Karim, rientrato in Tunisia dopo essere passato per vari centri di detenzione per migranti in Italia, condensa efficacemente: «gli studenti dovevano fare gli studenti, i lavoratori dovevano lavorare, e tutti dovevano stare zitti, ma quando Mohamed si è dato fuoco, la situazione si è capovolta».
Ecco perché quei giovani che hanno occupato la Casbah per tre volte non vogliono tornare a casa: «quando siamo riusciti a cacciare Ben Ali era come se fossimo scioccati da quanto ancora andava fatto», chiosa Fatima, femminista e insegnante d’arte. Perché la Casbah (da qui la corretta scelta del titolo) è divenuta uno spazio comune di organizzazione di questa potenza collettiva: «ormai il potere non era più a Cartagine ma era alla Casbah».
Come sostiene Massarelli, il movimento tunisino ha quindi fatto irrompere, dentro la crisi economica globale, il tema dell’attualità della rivoluzione. Non quella dei gelsomini, ma contro i rapporti di sfruttamento. Al contempo, seguendo il percorso e le voci di quell’insorgenza, si apre il problema: come è oggi possibile ripensare e praticare la rivoluzione. A questo punto, però, la questione non riguarda solo quello straordinario movimento, ma interroga tutti.
di Gigi RoggeroIn questo quadro il libro di Fulvio Massarelli (La collera della Casbah. Voci di rivoluzione da Tunisi, AgenziaX, pp. 116, euro 11) è importante, innanzitutto perché si basa su un’inchiesta militante nel vivo del «processo rivoluzionario». L’autore, da lungo tempo attivo nei movimenti e collaboratore de «il manifesto», nel corso dei mesi ha raccolto interviste con sindacalisti, insegnanti, studenti universitari, mediattivisti, femministe, giornalisti, ultras e rapper. Ha ascoltato e tradotto, interpretato e riflettuto insieme ai suoi interlocutori, dando così voce alla composizione sociale che ha incendiato la prateria nordafricana.Da Tunisi a Wall Street
I media occidentali, insieme ad altre etichette esotizzanti e dal rancido profumo orientalista, hanno definito quella tunisina la «rivoluzione dei gelsomini». Ma i gelsomini, ironizzano Massarelli e gli intervistati, non crescono sull’arida terra di Sidi Bouzid, né in mezzo alle miniere di fosfato di Gafsa. Lì è cresciuta, invece, una lenta e spesso sotterranea resistenza, perché l’insorgenza tunisina non viene dal nulla, come un gelsomino dalla terra. La rivolta era organizzata, afferma Meysem, giovane giornalista oppositrice del regime di Ben Ali, e affonda le sue radici nelle lotte operaie e studentesche a partire dagli anni Ottanta.
Massarelli e gli intervistati ritengono che anche la definizione di «twitter revolution» sia una banalizzazione. Se da un lato coglie la grande importanza che ha avuto il web, dall’altro rischia di separarla dalla materialità dei corpi, della composizione sociale e delle sue pratiche di lotta. La rete, ci dicono le voci da Tunisi, è stata dunque espressione dell’«intelligenza collettiva», dell’affermarsi di nuove forme di organizzazione capaci - sostiene Malek, studente, blogger e poeta - di rompere i confini: «quello spazio che prima era così grande e pieno di frontiere, d’un colpo è diventato piccolo». Percorsa dalle lotte, la rete disegna nuove coordinate spazio-temporali: non è un caso, allora, che l’insorgenza immediatamente si propaghi a piazza Tahrir, per poi attraversare il Mediterraneo con le «acampadas» spagnole e l’Atlantico con Occupy Wall Street.
La rete è anche espressione del ruolo decisivo della giovane forza lavoro cognitiva - fatta di studenti, grafici, montatori video, artisti, lavoratori dei media, in generale produttori di saperi precari o disoccupati - dentro la composizione del movimento tunisino. Spiega il sindacalista Jazz: «Ai giovani non piacevano i limiti e i modi di parlare dei vecchi militanti, gli appelli alla manifestazione non erano mai scritti nel loro linguaggio (...) ci accorgevamo che i giovani proletari avevano risolto molto prima di noi il problema della repressione, erano già più liberi di noi militanti». Così, quando alla Casbah compare il graffito «non posso sognare insieme a mio nonno», rivolto al vecchio premier Essebsi succeduto al destituito Gannouchi, non è un’imprecisata istanza di ribellismo giovanile. Del resto, i fili intergenerazionali della sovversione non si sono mai interrotti, studenti, lavoratori cognitivi e giovani militanti hanno usato gli spazi del sindacato unico Ugtt come luoghi di politicizzazione, rovesciandoli contro i vertici complici del regime. Così come hanno usato altri spazi - dai social network, appunto, alla musica ai quartieri, fino alle curve. Quello slogan indica, invece, la volontà di continuare il processo rivoluzionario, l’affermazione della sua fresca potenza.Il termidoro islamico
La sinistra e i suoi partiti, anche quelli che più si sono distinti nell’opposizione al regime di Ben Ali, hanno capito poco o solo in parte l’emergere di questa nuova soggettività. Lo spiega in termini chiari Majid Hawachi, tra i fondatori del Partito comunista dei lavoratori tunisini, oggi giornalista indipendente: i partiti della sinistra, dice, non sono riusciti a elaborare un programma di transizione, sacrificando le rivendicazioni della vita delle persone, gli scioperi e le lotte, in vista delle elezioni. «Io rispondo: No! O adesso o mai più!». Un altro errore, argomenta in modo convincente Massarelli, è stato cadere nella trappola di trasformare la costituente in un referendum sull’islam. Il risultato è noto: ha vinto Ennahdha, «il cui programma religioso si ispira alle politiche neoliberiste temperate dalla carità religiosa». Una partito che da subito si è proposta di terminare il processo rivoluzionario agitando verbalmente la bandiera della cacciata di Ben Ali e gridando all’ormai conquistata libertà liberale. In barba allo scontro di civiltà preconizzato da Huntington, ecco i migliori alleati termidoriani del potere imperiale.Da Cartagine alla rivolta
Che l’obiettivo non fosse esclusivamente la caduta di Ben Ali era chiaro a quelle decine di migliaia di giovani che hanno abbandonato le proprie case nelle zone interne della Tunisia o nelle periferie per conquistare il centro della metropoli, la Casbah. «La dittatura è un concentrato di potere e di cazzate», sbotta Malek, altroché invincibile dominio totalitario sulla nuda vita. Il regime fu quello che Ranajit Guha ha definito - sulla scorta di Gramsci - «dominio senza egemonia». Ma il silenzio è stato rotto e quella lunga genealogia di sedimentazione della resistenza ha assunto forma organizzata. Karim, rientrato in Tunisia dopo essere passato per vari centri di detenzione per migranti in Italia, condensa efficacemente: «gli studenti dovevano fare gli studenti, i lavoratori dovevano lavorare, e tutti dovevano stare zitti, ma quando Mohamed si è dato fuoco, la situazione si è capovolta».
Ecco perché quei giovani che hanno occupato la Casbah per tre volte non vogliono tornare a casa: «quando siamo riusciti a cacciare Ben Ali era come se fossimo scioccati da quanto ancora andava fatto», chiosa Fatima, femminista e insegnante d’arte. Perché la Casbah (da qui la corretta scelta del titolo) è divenuta uno spazio comune di organizzazione di questa potenza collettiva: «ormai il potere non era più a Cartagine ma era alla Casbah».
Come sostiene Massarelli, il movimento tunisino ha quindi fatto irrompere, dentro la crisi economica globale, il tema dell’attualità della rivoluzione. Non quella dei gelsomini, ma contro i rapporti di sfruttamento. Al contempo, seguendo il percorso e le voci di quell’insorgenza, si apre il problema: come è oggi possibile ripensare e praticare la rivoluzione. A questo punto, però, la questione non riguarda solo quello straordinario movimento, ma interroga tutti.
Il mucchio selvaggio, aprile 2012Controculture in Tunisia e Egitto
Abbiamo già conosciuto Lorenzo Fe, qui autore del pezzo, per l’ottimo ed appassionato Londra zero zero, che raccontava la scena grime londinese. Con In ogni strada, in uscita in questi giorni per Agenzia X e creato in collaborazione con Mohamed Hossny, sposta le sue analisi e i suoi racconti sulla Primavera Araba, raccontata in media res e soggiornando anche per un certo periodo in Egitto. Grande: così si fa. Gli abbiamo chiesto un articolo che ci parlasse del ruolo delle musiche e culture urbane. Non si vive solo di spensierato clubbing.Con gli eventi rivoluzionari, anche l’hip hop e la street art hanno attraversato un processo di intensificazione e radicalizzazione. Nei mesi successivi alla caduta di Mubarak, i muri del Cairo sono stati trasfigurati da murales che celebrano la rivoluzione, scritte politiche, simboli dei gruppi rivoluzionari e stencil di contestazione. Le forze dell’ordine hanno ben altri problemi che reprimere i graffiti, e quindi gli artisti dipingono in pieno giorno e senza tentare in nessun modo di nascondere la propria identità, facilmente reperibile su internet. Tra i più noti imbrattamuri, che spesso rifiutano l’etichetta di street artista, ci sono Ganzeer, Sad Panda, Keizer ed El Teneen. A gennaio 2012, Ganzeer ha lanciato la campagna Mad Graffiti Week, chiedendo un’esplosione internazionale di graffiti contro lo Scag, il Consiglio Superiore delle Forze Armate che ora regge il paese, durante la settimana precedente l’anniversario della rivoluzione.
In occidente, il simbolo della contestazione rap durante la Primavera Araba è stato sicuramente El General, tunisino nato nel 1990. il 7 novembre 2010 El General rilasciò su YouTube il pezzo Rais Lebled, in cui denunciava le miserie sociali del paese. Durante le rivolte di dicembre uscì la sua traccia Tounes Bladna in cui attaccava direttamente l’élite. Per questo il 6 gennaio venne arrestato e detenuto per tre giorni. Così è diventato una star nazionale e una specie di santo per i media occidentali.
Peccato che nel frattempo El General si sia avvicinato alla destra islamista oggi al potere.Questo allineamento è ben esemplificato dalla traccia Allah Akhbar, che oltre ai contenuti religiosi espressi con una certa aggressività, ha un paio di rime inequivocabilmente antisemite. Fulvio Massarelli, autore di La collera della Casbah. Voci di rivoluzione da Tunisi, spiega: “Tutte le sue tracce post 14 gennaio hanno contenuti profondamente conservatori, non stupisce quindi che il governo gli finanzi un nuovo disco. Dopotutto il rap è stato uno degli storici veicoli di propaganda islamista tra i giovani, non solo in Tunisia. Il movimento rivoluzionario l’ha spesso criticato e minacciato, difficilmente riesce a esibirsi a Tunisi senza contestazioni. MC autenticamente seguiti dal movimento sono piuttosto Klay BBJ, Md Amine Hamzaoui e Vipa”. Gli Arabian Knightz,che si contendono con MC Amin il mainstream della scena egiziana, tengono invece alta la bandiera progressista. Le loro hit Rebel e Prisoner sono la colonna sonora della rivoluzione, assieme a quelle del cantautore Ramy Essam. In delle recenti interviste hanno espresso la loro solidarietà all’Occupy, in piena sintonia con le maschere di Guy Fawkes che sono proliferate ovunque nelle ultime proteste egiziane, e con gli slogan Occupy the Cabinet e Occupy Maspero (il palazzo dei media di stato al Cairo). L’area più underground e militante è rappresentata dal gruppo di MC e produttori raccolti attorno all’etichetta Revolution Records. L’ultimo singolo Kazeboon denuncia le recenti stragi di stato. Ma devo dire che il pezzo anti-Scaf a cui sono più emotivamente attaccato è Al Afan di Mohamed Aly Talibab. Aly racconta: “Le voci narranti sono un ragazzo di 17 anni e un operaio di 45, Volevo parlare della maggioranza silenziosa, soprattutto i lavoratori. Di come i militari stanno cercando di terrorizzarli dicendo che l’unica alternativa al loro regime è il caos totale”. La resistenza continua.
di Damir IvicIn occidente, il simbolo della contestazione rap durante la Primavera Araba è stato sicuramente El General, tunisino nato nel 1990. il 7 novembre 2010 El General rilasciò su YouTube il pezzo Rais Lebled, in cui denunciava le miserie sociali del paese. Durante le rivolte di dicembre uscì la sua traccia Tounes Bladna in cui attaccava direttamente l’élite. Per questo il 6 gennaio venne arrestato e detenuto per tre giorni. Così è diventato una star nazionale e una specie di santo per i media occidentali.
Peccato che nel frattempo El General si sia avvicinato alla destra islamista oggi al potere.Questo allineamento è ben esemplificato dalla traccia Allah Akhbar, che oltre ai contenuti religiosi espressi con una certa aggressività, ha un paio di rime inequivocabilmente antisemite. Fulvio Massarelli, autore di La collera della Casbah. Voci di rivoluzione da Tunisi, spiega: “Tutte le sue tracce post 14 gennaio hanno contenuti profondamente conservatori, non stupisce quindi che il governo gli finanzi un nuovo disco. Dopotutto il rap è stato uno degli storici veicoli di propaganda islamista tra i giovani, non solo in Tunisia. Il movimento rivoluzionario l’ha spesso criticato e minacciato, difficilmente riesce a esibirsi a Tunisi senza contestazioni. MC autenticamente seguiti dal movimento sono piuttosto Klay BBJ, Md Amine Hamzaoui e Vipa”. Gli Arabian Knightz,che si contendono con MC Amin il mainstream della scena egiziana, tengono invece alta la bandiera progressista. Le loro hit Rebel e Prisoner sono la colonna sonora della rivoluzione, assieme a quelle del cantautore Ramy Essam. In delle recenti interviste hanno espresso la loro solidarietà all’Occupy, in piena sintonia con le maschere di Guy Fawkes che sono proliferate ovunque nelle ultime proteste egiziane, e con gli slogan Occupy the Cabinet e Occupy Maspero (il palazzo dei media di stato al Cairo). L’area più underground e militante è rappresentata dal gruppo di MC e produttori raccolti attorno all’etichetta Revolution Records. L’ultimo singolo Kazeboon denuncia le recenti stragi di stato. Ma devo dire che il pezzo anti-Scaf a cui sono più emotivamente attaccato è Al Afan di Mohamed Aly Talibab. Aly racconta: “Le voci narranti sono un ragazzo di 17 anni e un operaio di 45, Volevo parlare della maggioranza silenziosa, soprattutto i lavoratori. Di come i militari stanno cercando di terrorizzarli dicendo che l’unica alternativa al loro regime è il caos totale”. La resistenza continua.
www.you-ng.it, 1 aprile 2012'La collera della casbah', voci dalla rivoluzione tunisina
Rivoluzione dei gelsomini? “A Tunisi non si è mai visto un mazzo di gelsomini tra le mani dei manifestanti. A Sidi Bouzid non crescono. E nemmeno a Kesserine. Figuriamoci a Gafsa, la regione delle miniere di fosfati”.
Non fa ricorso ad affabili fascinazioni La collera della casbah. Voci di rivoluzione da Tunisi, libro d’esordio di Fulvio Massarelli (collaboratore di Infoaut e “il manifesto”), in libreria dal 28 marzo 2012. Esperto conoscitore delle vicende del Maghreb, dove ha studiato e lavorato per anni, l’autore ha raccolto in presa diretta le testimonianze degli oppositori al regime di Ben Ali, restituendole in una narrazione corale e sottratta al folklore. Al racconto sulle origini e le prospettive della rivoluzione hanno partecipato ultras e militanti, studenti e professoresse d’arte, disoccupati ed ex clandestini, blogger, giornalisti, rapper e poeti.
“L’immolazione di Mohammed Bouzizi del 17 dicembre - scrive Massarelli - venne vista come un segnale generale. Il terreno della rivolta era già pronto”. Per anni, gli attivisti avevano organizzato spazi di dibattito ai margini di concerti e proiezioni in piccole sale e cineclub. Gli informatici avevano capito che internet poteva trasmettere messaggi e manifestazioni contro il regime e si erano istruiti per aggirare il sistema di controllo on-line. Miseria e disuguaglianze sociali erano “quel niente da perdere” che distingueva le zone interne del paese e i quartieri periferici della capitale. È qui che esplode la rivolta.
Un enorme movimento popolare scende in strada e in breve tempo raggiunge il centro del potere politico. Ben Ali è costretto alla fuga. “Fin da ragazzo sognavo una giornata come quella del 14 gennaio - confessa un sindacalista - ma l’RCD, il partito di governo, era ovunque, dall’amministrazione locale ai livelli alti e bassi dello stato”. Il regime prova a riprendersi sotto l’ombra di due governi di transizione, ma è assediato dalla volontà di cambiamento del popolo tunisino.
Ogni intervista racchiude un ricordo dei giorni della Casbah, i grandi sit-in che hanno invaso la piazza del governo per chiedere la costituente. “La Casbah sembra una nuova agorà – scrive Massarelli - un vulcano sociale. Si sperimenta per la prima volta, insieme a Piazza Tahrir in Egitto, l’occupazione di uno spazio pubblico nei pressi degli edifici del potere per combattere le ingiustizie sociali”. Il presidio della piazza è il luogo dove si discutono le rivendicazioni politiche: l’indipendenza della giustizia, i processi agli uomini del regime, il sistema economico del futuro. È qui che per la prima volta si affacciano gli islamisti, con una strategia molto semplice: il diritto di poter pregare. Al tempo l’egemonia di sindacati e militanti di sinistra era superiore e ha mantenuto salde le aspirazioni politiche dei protagonisti della rivoluzione. “Gli islamisti – racconta un’insegnante – hanno provato a dividere il movimento ma non ci sono riusciti perché siamo restati fermi sul metodo della democrazia diretta e sui principi della libertà. Questo è stato uno dei messaggi molto chiari che la Casbah ha mandato al popolo: in assenza di una sinistra forte e decisa, il pericolo di tornare indietro c’è sempre”.
Oggi, ad un anno da quegli eventi, l’incerto cambio di passo del paese, la vittoria elettorale di Ennahdha e i continui cortei dei salafiti per le strade di Tunisi, fanno sorgere spontanea la domanda: “Dov’è finita la Casbah?”. Davanti all’amarezza del quesito, l’autore rende merito all’attualità dell’esperienza, capace di contaminare la rete delle piazze indignate del mondo. “La Casbah è ovunque!”.
di Alessandro DorantiNon fa ricorso ad affabili fascinazioni La collera della casbah. Voci di rivoluzione da Tunisi, libro d’esordio di Fulvio Massarelli (collaboratore di Infoaut e “il manifesto”), in libreria dal 28 marzo 2012. Esperto conoscitore delle vicende del Maghreb, dove ha studiato e lavorato per anni, l’autore ha raccolto in presa diretta le testimonianze degli oppositori al regime di Ben Ali, restituendole in una narrazione corale e sottratta al folklore. Al racconto sulle origini e le prospettive della rivoluzione hanno partecipato ultras e militanti, studenti e professoresse d’arte, disoccupati ed ex clandestini, blogger, giornalisti, rapper e poeti.
“L’immolazione di Mohammed Bouzizi del 17 dicembre - scrive Massarelli - venne vista come un segnale generale. Il terreno della rivolta era già pronto”. Per anni, gli attivisti avevano organizzato spazi di dibattito ai margini di concerti e proiezioni in piccole sale e cineclub. Gli informatici avevano capito che internet poteva trasmettere messaggi e manifestazioni contro il regime e si erano istruiti per aggirare il sistema di controllo on-line. Miseria e disuguaglianze sociali erano “quel niente da perdere” che distingueva le zone interne del paese e i quartieri periferici della capitale. È qui che esplode la rivolta.
Un enorme movimento popolare scende in strada e in breve tempo raggiunge il centro del potere politico. Ben Ali è costretto alla fuga. “Fin da ragazzo sognavo una giornata come quella del 14 gennaio - confessa un sindacalista - ma l’RCD, il partito di governo, era ovunque, dall’amministrazione locale ai livelli alti e bassi dello stato”. Il regime prova a riprendersi sotto l’ombra di due governi di transizione, ma è assediato dalla volontà di cambiamento del popolo tunisino.
Ogni intervista racchiude un ricordo dei giorni della Casbah, i grandi sit-in che hanno invaso la piazza del governo per chiedere la costituente. “La Casbah sembra una nuova agorà – scrive Massarelli - un vulcano sociale. Si sperimenta per la prima volta, insieme a Piazza Tahrir in Egitto, l’occupazione di uno spazio pubblico nei pressi degli edifici del potere per combattere le ingiustizie sociali”. Il presidio della piazza è il luogo dove si discutono le rivendicazioni politiche: l’indipendenza della giustizia, i processi agli uomini del regime, il sistema economico del futuro. È qui che per la prima volta si affacciano gli islamisti, con una strategia molto semplice: il diritto di poter pregare. Al tempo l’egemonia di sindacati e militanti di sinistra era superiore e ha mantenuto salde le aspirazioni politiche dei protagonisti della rivoluzione. “Gli islamisti – racconta un’insegnante – hanno provato a dividere il movimento ma non ci sono riusciti perché siamo restati fermi sul metodo della democrazia diretta e sui principi della libertà. Questo è stato uno dei messaggi molto chiari che la Casbah ha mandato al popolo: in assenza di una sinistra forte e decisa, il pericolo di tornare indietro c’è sempre”.
Oggi, ad un anno da quegli eventi, l’incerto cambio di passo del paese, la vittoria elettorale di Ennahdha e i continui cortei dei salafiti per le strade di Tunisi, fanno sorgere spontanea la domanda: “Dov’è finita la Casbah?”. Davanti all’amarezza del quesito, l’autore rende merito all’attualità dell’esperienza, capace di contaminare la rete delle piazze indignate del mondo. “La Casbah è ovunque!”.