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Inglan is a bitch
Nigrizia, aprile 2021 LKJ, la rima reggae
Il poeta e cantante giamaicano è cresciuto a Londra, ha influenzato generazioni di giovani neri e lasciato un’impronta tra gli anni ’70 e ’90. Anche in virtù del taglio politico, razzismo e immigrazione, delle sue opere. Un libro ne ripercorre la vita

Istituito nel 2009 per onorare la memoria del drammaturgo britannico Harold Pinter, il Pen Pinter Prize è destinato a premiare un eminente scrittore residente in Gran Bretagna, nella Repubblica d’Irlanda o nel Commonwealth. Scrittore che – nelle parole di Pinter – si sia distinto per un «risoluto, incrollabile» sguardo sul mondo, e abbia mostrato una «fiera determinazione intellettuale nel definire la verità delle nostre vite e delle nostre società». Nel 2020 il Pinter Prize è stato assegnato a Linton Kwesi Johnson, con questa motivazione: “È un poeta, una icona del reggae, un accademico e un militante che ha avuto un impatto enorme e multigenerazionale sul panorama culturale dell’ultimo mezzo secolo. La sua incisività politica e la sua instancabile indagine della storia sono davvero ‘pintereschi’, così come lo humour che li pervade”.
Negli anni Ottanta e Novanta LKJ (così il suo nome è abitualmente abbreviato) è stato una figura ampiamente nota anche in Italia: è apparso dal vivo in diverse occasioni nel nostro paese, i suoi album hanno avuto una circolazione non marginale, e i suoi testi poetici sono stati tempestivamente presentati e tradotti in alcune piccole pubblicazioni e poi in Facendo la storia e altre poesie (ETS, 1989). Non ci si sbagliava già negli anni Ottanta a vedere in lui uno di quegli artisti che, giovani e sulla scena solo da pochi anni, si presentano con un’autorevolezza propria dei classici: e un classico LKJ è rimasto. Poi l’attività sia musicale che poetica di Johnson è andata rarefacendosi, e le generazioni più giovani possono non averlo presente: è quindi da salutare con favore il libro di Mara Surace, Inglan is a bitch. Vita e opere di Linton Kwesi Johnson (Agenzia X, 2020), che ricostruendo il percorso di Johnson offre anche abbondanti esempi (in originale con traduzione) della sua poesia.

Recitare in pubblico
Le ragioni dell’importanza di LKJ sono numerose e intrecciate fra loro. Nato nel 1952 a Chapelton, in Giamaica, Johnson arriva a Londra a undici anni: siamo all’epoca della grande immigrazione dai Caraibi in Gran Bretagna. Alla fine degli anni Sessanta, durante le superiori, LKJ si avvicina all’organizzazione giovanile delle Black Panthers inglesi (nate sull’esempio delle Pantere Nere americane), in cui si forma politicamente, anche attraverso la lettura di libri come I giacobini neri di C.L.R. James, La formazione della classe operaia inglese di E.P. Thompson, e The Souls of Black Folk di W.E.B. Du Bois. Johnson trova la prosa di quest’ultimo così poetica da spingerlo a cimentarsi a scrivere versi.
Le poesie nascono dall’urgenza politica e come poesie orali, destinate per essere recitate in pubblico, nella comunità o in occasione di riunioni o manifestazioni: prima di essere messe su carta, sono composte a voce, e le parole suggeriscono una linea di basso, sul ritmo del reggae. LKJ comincia a recitarle facendosi accompagnare da un gruppo di percussionisti, poi si fa avanti con la Virgin Records, che accetta di pubblicargli un Lp, che esce nel ’78: è Dread Beat an’ Blood – stesso titolo della sua prima raccolta di poesie, pubblicata nel ’75 – in cui è affiancato dalla band del bassista Dennis Bovell.
Siamo alla dub poetry o – come LKJ preferisce chiamarla – alla reggae poetry: con un artista come Oku Onuora, più o meno contemporaneamente la dub poetry si sviluppa anche in Giamaica, ma all’inizio i due non si conoscono, e procedono indipendentemente l’uno dall’altro, e LKJ è semmai influenzato dagli statunitensi The Last Poets. I suoi dischi hanno successo a livello internazionale presso il pubblico del reggae, ma intanto LKJ prosegue la sua attività politica con il collettivo della importante rivista “Race Today”, di cui diventa direttore.

Un battistrada
Con spirito militante e l’immediatezza del linguaggio di strada, fra anni Settanta e Ottanta le poesie di LKJ fotografano una fase cruciale nell’evoluzione dei rapporti razziali e della dinamica dell’immigrazione in Gran Bretagna: quella degli anni durissimi della Thatcher, in cui però la seconda generazione nera e asiatica impara a rispondere ai soprusi della polizia e agli attacchi dei fascisti del National Front, è protagonista di rivolte e violenti scontri di piazza e matura il senso della propria forza. Inoltre il creolo utilizzato nei testi e il carisma con cui LKJ li interpreta dà dignità ad un anglo-giamaicano che deforma la pronuncia dell’inglese e ricorre a una sintassi di matrice africana. Nel 2002 il creolo giamaicano di LKJ è stato accolto nella Penguin Modern Classics, che ha pubblicato una sua raccolta di poesie: LKJ ha avuto il rarissimo privilegio di essere inserito ancora in vita nella prestigiosa collana.
LKJ è stato, a più livelli, un battistrada, e il libro di Mara Surace avrebbe dovuto forse ricordare qualcuno degli artisti che sono – e si dichiarano – in debito con lui. Per esempio il rapper-poeta statunitense Michael Franti. O il poeta Roger Robinson, nato in Gran Bretagna da genitori di Trinidad, che ha collaborato con diverse band e inciso album: con la sua raccolta A Portable Paradise, Robinson nel 2019 è stato il secondo poeta di origine caraibica (dopo Derek Walcott nel 2010) ad aggiudicarsi il T.S. Eliot Prize, il più importante premio britannico per la poesia.
di Marcello Lorrai
www.dinamopress.it, 5 febbraio 2021Tra politica, poesia e musica: dub-poetry e coscienza civile nella produzione di Linton Kwesi Johnson
Dalla militanza giovanile nelle Pantere Nere inglesi ai recenti endorsement al movimento Black Lives Matter, Mara Surace racconta la parabola artistica ed esistenziale di Linton Kwesi Johnson tramite testi e dichiarazioni

Linton Kwesi Johnson nasce nel 1952 in Giamaica e all’età di undici anni sbarca in Inghilterra, per raggiungere la madre: «A 11 anni, come tutti i miei conterranei, avevo un’immagine infantile di Londra. Strade grandi, case belle, gente, ricca. Arrivando dalla campagna l’impatto fu estremamente violento». È una storia comune a molti figli delle colonie: la si ritrova nelle pagine di Stuart Hall e nei romanzi di Andrea Levy e Zadie Smith.
La dislocazione spaziale e culturale accompagna così Johnson sin dai primi anni in Inghilterra, a scuola e per strada: «I bambini e gli insegnanti erano razzisti». L’esperienza di questa estraneità continuamente rimarcata spinge Johnson verso la politica: mentre frequenta le scuole superiori si iscrive al movimento delle Pantere Nere. È in questo periodo che incontra la «poesia in prosa» dell’intellettuale afroamericano William E. B. Du Bois e inizia a sperimentare con la scrittura poetica.
Arriva poi il momento di iscriversi all’università e Johnson affianca agli studi in sociologia diversi lavori. Nel 1975 pubblica la sua prima raccolta poetica, mentre l’anno successivo si laurea e inizia a collaborare con una rivista musicale inglese, “Melody Maker”. Per un giamaicano in terra britannica, l’ambiente musicale è uno dei pochi scevro da discriminazioni e razzismo.
Nei club di Londra (e di Brixton specialmente) s’incontrano giovani bianchi di ogni estrazione sociale e immigrati dalle Indie Occidentali.
Inglan is a bitch. Vita e opere di Linton Kwesi Johnson, della ricercatrice genovese Mara Surace, parte proprio da Brixton: «La musica dei sound system si propaga per le strade buie di Brixton. Il suono che esce dalle casse fa tremare le vene, sobbalzare lo stomaco, inebriare la mente: è una delle “cinque notti di sangue”». Un riferimento a Five Nights of Bleeding, un brano del primo disco di Linton Kwesi Johnson e già un esempio perfetto del mix unico di ritmo, parole e coscienza politica che contraddistinguerà tutta la produzione dell’artista anglo-giamaicano.
L’album d’esordio porta lo stesso titolo, Dread Beat an’ Blood, della raccolta poetica uscita nel 1975, come per testimoniare l’inserirsi di Johnson nella secolare tradizione orale afrocaraibica: «Sono un poeta che lavora attorno a una specifica tradizione dove musica e parole si integrano tra loro». Il passaggio dalla parola scritta alla parola cantata (o recitata) appare dunque inevitabile: «Sono diventato un artista reggae involontariamente. Ero un poeta, un poeta giamaicano che lavorava con la lingua giamaicana e inglese nel tentativo di raccontare le esperienze vissute dalla seconda generazione di neri in Inghilterra e in particolare dei giovani, di cui facevo parte all’epoca. Il mio lavoro di poeta si inseriva nella tradizione caraibica della poesia orale».
Fondamentale per la definizione del tipico sound di Johnson è l’incontro con il produttore musicale e bassista barbadiano Dennis Bovell, anche lui emigrato in Gran Bretagna in tenera età.
«Il basso di Dennis Bovell diventa portante», scrive Surace, che articola poi in maniera più approfondita: «La base musicale che Dennis offre al poeta non accompagna semplicemente i suoi versi, ma si fonde con la ritmicità delle parole […] tutto è in equilibrio e al servizio di un messaggio che trae la sua forza dall’esperienza di oppressione e discriminazione e dalla speranza di un futuro in cui, insieme, si combatte contro le ingiustizie del sistema».
Il saggio prosegue dunque raccogliendo dichiarazioni dei protagonisti della storia (e non solo: numerosi anche gli interventi riportati di studiosi, critici e giornalisti che hanno affrontato in precedenza la vicenda artistica di Johnson) e analizzando i testi delle composizioni, album dopo album.
Il libro è diviso così in tre sezioni (che riprendono la suddivisione che lo stesso poeta e cantore ha proposto per la propria carriera) a cui si aggiungono una conclusione relativa agli anni post-2000 e un’appendice che raccoglie «informazioni utili per approfondire il contesto in cui LKJ si inserisce». Al netto di un forse eccessivo didascalismo generale, particolarmente efficaci e interessanti risultano le pagine dedicate alla scelta della lingua utilizzata da Johnson. L’artista, infatti, recita in creolo giamaicano.
Una scelta, sottolinea Surace, non neutra: «Il poeta non si accontenta di realizzare poesie in cui critica la politica inglese e i maltrattamenti psicofisici subiti dagli afrocaraibici, ma rende la lingua stessa uno strumento di denuncia e rivendicazione».
Per questo motivo, non è neanche giusto incasellare Johnson in una, unica e immutabile, dimensione: «Ciò che scrivo e il modo in cui lo dico sono il risultato della tensione tra il creolo giamaicano, l’inglese giamaicano e l’inglese inglese (inglese standard). E tutto ciò, in realtà, è la conseguenza di essere cresciuto in una società coloniale per poi venire a vivere qui andando in una scuola tipicamente inglese. La tensione si accumula».
Ed è proprio grazie a questa tensione mai risolta, quindi, che l’arte di Johnson continua ad apparire ancora oggi coinvolgente e ricca di fascino. Non solo per i soggetti diasporici che, in Inghilterra, continuano a rapportarsi con un hostile environment sempre più estremo e istituzionalizzato (si pensi allo scandalo Windrush e anche alla Brexit: tutte questioni informate dal mai concluso discorso riguardante l’identità nazionale), ma per chiunque «denuncia il sistema», per chiunque «esprime un’esigenza ancora viva: il diritto di non tollerare gli intolleranti».
di Nicolò Arpinati
Alias inserto “il manifesto”, 16 gennaio 2021 Un giamaicano a Brixton
Linton Kwesi Johnson ha sempre avuto un’inaspettata considerazione in Italia, tra articoli, concerti, libri (vedi la recente pubblicazione di Agenzia X, con Inglan is a bitch di Mara Surace che ne riprende le fasi salienti della vita). Inusuale per chi ha sempre parlato di una realtà molto specifica (quella inglese in cui è cresciuto), in un linguaggio incomprensibile (un creolo giamaicano broken english).
Ma la fascinazione che ha sempre esercitato il suo profilo ha superato facilmente ogni incomprensione, unita all’apporto musicale di Dennis Bovell, vero maestro del dub e del reggae, colonna sonora delle poesie di Linton. Grazie anche a testi espliciti, chiari, senza giri di parole, che fotografano i tempi e gli ambiti in cui sono stati scritti e che si sono sempre avvalsi di un tagliente senso dell’ironia.
Il suo concetto politico di «democrazia socialista» lo pone orgogliosamente in prima linea a fianco dei più deboli, delle vittime delle ingiustizie sociali e della brutalità della polizia, felice ed entusiasta nel vedere il recente sollevarsi della popolazione americana (e non solo) intorno al movimento del Black Lives Matter: «Sono al settimo cielo per ciò che sta succedendo tra i giovani. Vengo da una generazione ribelle di attivisti che volevano cambiare il paese e sembra che questa nuova generazione stia proseguendo di nuovo su questa strada. Sono così felice di essere vivo per vederlo succedere. C’è stata una risposta enorme anche qui in Inghilterra perché il razzismo è nel sistema legale e c’è impunità nella polizia. Direi che il razzismo è parte del dna culturale della Gran Bretagna».
Allo stesso modo è adamantino nella visione politica sulle scelte a livello mondiale e sulle prospettive riservate al popolo: «Trovo decisamente ironico che metà del mondo si preoccupi del disarmo nucleare mentre il resto del globo non è nemmeno consapevole che esista il problema. Le loro priorità hanno a che fare con la sopravvivenza giorno per giorno: trovare cibo, vestiti e un posto dove vivere, confrontandosi sempre con alcuni dei regimi più oppressivi e crudeli del mondo, massacri e fame».

L’INFANZIA
Nato in Giamaica nel 1952, trasferitosi in Inghilterra all’età di 11 anni, travolto da una dimensione completamente nuova e altrettanto ostile: «La mia esperienza è il frutto di un’infanzia tropicale e contadina prima e della vita di una città industriale dove i neri vivono in condizioni coloniali, poi. Quando arrivai a Brixton mi aspettavo grandi strade, case belle, gente ricca. Arrivavo da un piccolo paese rurale e sbarcare a Londra fu un grande shock. Fui sorpreso nel vedere bianchi che pulivano le strade, in Giamaica erano tutti ricchi e li chiamavamo signori o padroni. Anche le case mi sembravano tutte fabbriche con i comignoli che buttavano sempre fumo. Lo stesso senso di straniamento, scollamento, in costante posizione di difesa contro la realtà circostante, che troviamo nella maggior parte degli immigrati dalle West Indies, soprattutto dopo l’indipendenza ottenuta dalla Giamaica dal Regno Unito nell’agosto del 1962 (vedi l’autobiografia di Neville Staple degli Specials che riferisce le stesse amare sensazioni o il brano B.L.M. dall’ultimo album della band in cui il chitarrista Lynval Golding canta “Ricordo il primo momento di gioco a scuola/un ragazzo mi urla/Hey bastardo negro vieni qui/Ancora non riuscivo a crederci/Benvenuto in Inghilterra” e appena prima la canzone dice “Nel 1964 mio padre gridò alla Giamaica: figlio vieni con me/Così salpai sulla nave Askena e arrivai a Northampton in una fredda notte d’inverno/si congelava/Volevo dire al capitano di riportarmi in Giamaica/Ma invece ero qui per restare”)». Una vita dura, costantemente esposto a un razzismo sempre più esplicito e arrembante, la creazione di ghetti, la palese separazione culturale e sociale tra bianchi autoctoni eredi dell’Impero e quelli che sono stati sudditi fino a poco tempo prima. «Ho fatto la mia prima esperienza col razzismo a scuola. Credevo veramente che i bianchi fossero brava gente, invece i ragazzini mi chiamavano sporco negro e gli insegnanti facevano commenti razzisti tipo: “Dove credi di essere? Nella giungla?”».
Linton studia e si laurea in sociologia, approfondisce l’impegno politico e culturale, nel 1973 entra a far parte delle locali Black Panthers, lavora e incomincia a impegnarsi nella scrittura, anche musicale, con la quale approda a Melody Maker, New Musical Express, Black Music, oltre a scrivere note biografiche per gli artisti reggae della Virgin Records. Ma è la poesia che lo attrae maggiormente. E diventa il tratto distintivo della sua forma di creatività, destinata ad essere unica. Il suo è un linguaggio duro, aspro, abrasivo, che fonde cultura caraibica con una cupa visione di un’Inghilterra industriale e spietata che sta per entrare nei terribili anni thatcheriani. Il linguaggio attinge dal Patois giamaicano, imbastardimento dell’inglese, mischiato a parole e assonanze creole. Ma ha bisogno di una musica di accompagnamento, ovviamente il reggae, a cui provvederà il grande Dennis Bovell.

RESISTERE
«Non sono un musicista, sono un poeta che però lavora in una tradizione dove la musica e le parole sono una parte integrante e le influenze maggiori sono caraibiche e di poesia orale. Le mie esperienze di poeta sono frutto di un’infanzia contadina. Nei Caraibi i bambini conoscono centinaia di giochi e storielle in rima. Musicalmente sono stato influenzato da molte forme sonore, prima fra tutte la Kumina, di matrice africana e quelle di tipo afro protestante, battista e pentecostale. In Inghilterra ho trovato rock e r’n’b. Quando incominciai a scrivere, la musica si insinuava tra le righe della poesia, le parole mi venivano sempre in mente accompagnate da un giro di basso. Nel reggae il basso dà anche la melodia, non soltanto il ritmo e quando compongo ho sempre dentro un giro di basso. Partendo da questo, aggiungo la batteria e quindi decido il tempo. In seguito decido se metterci delle tastiere, dei fiati o qualche assolo di chitarra e ne discuto coi musicisti durante la registrazione».
Dread Beat an’ Blood è il suo primo successo letterario, nel 1975, e sarà la base per il fulminante, omonimo, esordio discografico del 1978 tra heavy dub, reggae e parole pesantissime. «Per me scrivere poesie è un atto politico. Un modo di articolare la rabbia e il dolore della mia generazione, cresciuta come gioventù nera in un ambiente razziale ostile… i bambini e gli insegnanti erano razzisti. Ero consapevole che l’educazione era l’unica via d’uscita dalla povertà per uno come me».
Seguiranno album di sempre maggior successo e spessore ma soprattutto di enorme importanza letteraria, che lo consacreranno tra i più rappresentativi cantori dell’Inghilterra dei neri e degli oppressi. In particolare Bass Culture del 1980 con l’immortale e sferzante inno Inglan is a bitch: «L’Inghilterra è una puttana/non si può evitarlo/dobbiamo imparare a sopravvivere».
«È la cultura popolare giamaicana che mi ha permesso di resistere in Inghilterra. Furono le mie radici e la mia lingua un’arma da usare contro la cultura del razzismo in Gran Bretagna». Negli ultimi anni la sua presenza sulla scena si è sempre più diradata (complici anche seri problemi di salute) ma i semi piantati da anni hanno continuato a germogliare e a permettergli di raccogliere premi, onorificenze, tributi in tutto il mondo. Un nome seminale per comprendere la nascita della commistione tra black music giamaicana e la cultura antagonista punk che sfociò nel 1977 nei primi dischi di band come Clash, Stiff Little Fingers, Ruts.
Antonio Bacciocchi
tonyface.blogspot.com, 24 novembre 2020Kwesi Johnson, dalla Giamaica a Londra
Linton Kwesi Johnson ha sempre avuto un'inaspettata considerazione in Italia, tra articoli, libri, concerti. Inusuale per chi ha sempre parlato di una realtà molto specifica (quella inglese in cui è cresciuto), in un linguaggio incomprensibile (un creolo giamaicano broken english). Ma la fascinazione che ha sempre esercitato il suo profilo ha superato facilmente ogni incomprensione, unita all'apporto musicale di Dennis Bovell.
Mara Surace ripercorre la sua storia, intransigente e cristallina, attraverso una lunga serie di citazioni da interviste e, soprattutto, i suoi testi. Un libro perfetto per conoscere a fondo un personaggio spesso trascurato e dimenticato ma basilare e seminale nell'economia della musica inglese degli anni 80.
"Per me scrivere poesie è un atto politico. Un modo di articolare la rabbia e il dolore della mia generazione, cresciuta come gioventù nera in un ambiente razziale ostile... i bambini e gli insegnanti erano razzisti. Ero consapevole che l'educazione era l'unica via d'uscita dalla povertà per uno come me." "Trovo decisamente ironico che metà del mondo si preoccupi del disarmo nucleare mentre il resto del globo non è nemmeno consapevole che esista il problema. Le loro priorità hanno a che fare con la sopravvivenza giorno per giorno: trovare cibo, vestiti e un posto dove vivere, confrontandosi sempre con alcuni dei regimi più oppressivi e crudeli del mondo, massacri e fame." "Mi dispiaccio del fatto che la nuova generazione dia le cose per scontate senza rendersi conto che le persone hanno dovuto lottare per ottenerle".
tonyface
reggaerevolution.it, 23 novembre 2020Kwesi Johnson, dalla Giamaica a Londra
Nuovo libro della casa editrice Agenzia X, Inglan is a bitch, vita e opere diLinton Kwesi Johnson, della genovese Mara Surace.LKJ ha un rapporto particolare con l’Italia, grazie soprattutto alla prima traduzione in italiano, del recensore di musica reggae, Gianni Galli (“Rockerilla”); questo è sottolineato anche dai primi riconoscimenti che Linton ottenne per le opere proprio in Italia.
Linton nasce in Giamaica e si trasferisce bambino a Londra e l’autrice spiega come Linton attraverso la politica si sia avvicinato prima alla poesia e poi alla musica. La vita del poeta viene raccontata dagli anni del liceo, la sua adesione al movimento delle Black Panthers, le prima collaborazioni con il giornale “Race Today”, in seguito diretto da lui stesso, la militanza politica, le denunce al governo a causa delle brutali repressioni della polizia rivolte spesso contro gli immigrati caraibici ad opera soprattutto del famigerato Special Patrol Group, le serate “Blues dance”, i sound system con reggae “from Jamaica” e “from Ingland”.
Attraverso le interviste che Linton ha rilasciato si ripercorre un po’ tutta la storia di quegli anni. Periodo di grandi lotte, ma anche fi grande musica che fece da colonna sonora agli avvenimenti.
Quindi le parole, i versi e la musica vengono usate per criticare il sistema e le sue politiche. Un periodo che vedeva uniti artisti di “musiche diverse” come punk e rasta, in una lotta principalmente antifascista contro il governo guidato da Margaret Thatcher.
LKJ inizia un percorso di ricerca sulla parola, sulla lingua non codificata, patois o creole giamaicano, in una specie di riscoperta del Word Sound & Power, in modo particolare “dread talk” giamaicano dei Rastafarians. Scrove quindi in patois, creole giamaicano/inglese, attribuendo e scegliendo le parole, anche per il loro suono e per la loro “power”.
La musica è reggae, o reggae poetry o meglio dub poetry. L’esordio con semplici letture ad un piccolo pubblico, poi i libriccini con le prime raccolte con le sue poesie, il clamoroso album Dread, Beat an’ Blood, la collaborazione magica con Dennis Bovell & Dub Band, con alcuni dei musicisti storici della scena inglese come John Kypiane, gli album per la casa discografica Island di Blackwell, gli spettacoli e concerti in tutto il mondo, il grande successo.
Vengono poi analizzate alcune delle sue poesie/song più belle e tutta la discografia dell’artista fino agli ultimi lavori, i riconoscimenti e premi internazionali ricevuti, approfondendo, con traduzione, le poesie/song più conosciute degli album più famosi, come l’indimenticabile Sonny Lettah, la song manifesto Inglan is a bitch e Forces of Victory, sicuramente uno degli album reggae più importanti e conosciuti, fondamentale ed essenziale nel Uk-Reggae.
Intervista a Gianni Galli, recensore e scrittore reggae, che per primo tradusse alcune delle sue poesie.
Cenni antropologici e menzione del dub poet ligure Marco Carbone (U Carbu), che usa il dialetto genovese come “broken english” (“Zeneise ruttu”) in un percorso un po’ come Linton sul Word Sound & Power.
Lettura piacevole e scorrevole, le 210 pgine di Mara non possono mancare nella vostra dread library. “It ago dread”.
Papa Paul” Novaro
Giornalino mensile di Coop Liguria, novembre 2020Kwesi Johnson, dalla Giamaica a Londra
Questo libro racconta una esperienza artistica e umana unica, quella del cantante, poeta e agitatore sociale Linton Kwesi Johnson, artista giamaicano che, come tanti della sua terra, lasciò l’isola per vivere in Inghilterra. Il testo non è solo una biografia del musicista, ma è la storia dell’impatto che i suoni delle strade di Kingston, il dub e lo ska in particolare, hanno avuto sullo sviluppo della cultura giovanile (e non solo) a Londra. Gli incontri, i concerti, le serate di poesie recitate su una colonna sonora fatta di echi e riverberi, creati dai virtuosi del dub, che utilizzavano il mixer e i giganteschi sound system come fossero strumenti musicali, i quartieri multietnici che diventano piste da ballo. In questi scenari si muovono le rime di Linton Kwesi Johnson, fatte di ribellione, senso della comunità, desiderio di comunicazione.

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