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Senza chiedere permesso
Ddonna – la Repubblica, 3 dicembre 2023 Le libertà in ballo
Improvvisi e dirompenti come fulmini, invisibili come ninja. I rave hanno un grande vantaggio sugli apparati di potere che li odiano molto più di quanto li conoscano davvero. Così accade che la stretta introdotta dal governo Meloni a fine 2022 potrebbe paradossalmente dare nuova linfa al movimento, riportandolo alla segretezza clandestina degli anni Novanta.
Allora ci voleva del tempo per accorgersi che, in quell’area abbandonata al largo di Segrate o in quella fabbrica torinese dismessa, migliaia di ragazzi ballavano notte e giorno, con casse a tutto volume che sparavano bassi da far tremare l’aria per chilometri. Quando i primi abitanti cominciavano a infastidirsi, le forze dell’ordine ad avvicinarsi e i media a interessarsene, era già tutto finito.
«L’apparato di controllo negli anni Novanta non sapeva nemmeno cosa fosse un rave party», racconta Pablito el Drito, dj e scrittore che ha contribuito a organizzare i primi raduni in Italia e li ha raccontati in tre libri per Agenzia X. «Quando polizia e carabinieri arrivavano, li si depistava raccontando che era un compleanno, una festa a sorpresa, una specie di concerto». E loro, che non avrebbero avuto problemi a sgomberare case occupate, campi nomadi o centri sociali, di fronte a una festa notturna con migliaia di giovani che ballavano alterati dalla danza e dall’uso di sostanze, non sapevano che fare. C’era tutto il tempo di smontare e ripartire.
«All’inizio convivevano diversi generi musicali – techno, trance, psy-trance, hardcore, reggae, jungle – poi si è imposta la techno nella sua versione più ruvida, veloce, arrabbiata», racconta el Drito, che in Senza chiedere permesso ha ricostruito la storia del movimento in Italia attraverso le testimonianze dei protagonisti e le immagini dei flyer. In assenza di internet, le informazioni viaggiavano su questi pezzi di carta.
Il massimo della tecnologia era un numero di telefono che, terminati gli allestimenti, si attivava, di solito con una segreteria registrata che forniva indicazioni su come arrivare alla festa. Organizzazione e invisibilità erano le parole d’ordine, messe nero su bianco dall’anarchico americano Hakim Bey in Taz, Zone temporaneamente autonome (Shake edizioni).
Poi però sono arrivati internet, le tecnologie di tracciamento, la sorveglianza capillare, e tutto è cambiato. «Con telecamere a ogni angolo della strada, smartphone e social, praticare l’invisibilità è diventato più difficile», racconta Tobia D’Onofrio, autore di Rave New World. L’ultima controcultura (Agenzia X). «Le nuove generazioni spesso non erano del tutto consapevoli di quello che stavano facendo perché non avevano visto nascere il movimento. Così è accaduto che ragazzini di vent’anni ai loro primi rave facessero dirette Facebook: un’assurdità se vuoi mantenere anonimato e invisibilità».
I maggiori rave europei oggi vengono organizzati in collaborazione tra diversi Paesi, durano diversi giorni e richiamano decine di migliaia di persone. Difficile mantenere a lungo la segretezza. «Anche per questo negli ultimi anni lo stigma dei media e la repressione sono aumentate», racconta el Drito, «Il culmine dell’esposizione mediatica in Italia sono stati i due rave dell’estate 2021, che hanno monopolizzato l’attenzione dei media: un segnale di allarme che qualcosa si stava muovendo». Infatti a fine 2022 è arrivato il decreto anti-rave del governo, che prevede pene detentive da tre a sei anni.
Ai raver italiani sono rimaste tre strade: andare in altri Paesi, in discoteca o organizzare rave più piccoli e nascosti, come agli inizi. «Come già accaduto in Gran Bretagna e Francia, ogni volta che le leggi anti-rave sono state inasprite, il movimento si è rafforzato e ha acquisito maggiore coscienza politica», spiega D’Onofrio. «In Italia è accaduto con le parate di protesta “Smash Repression”. Il movimento si era ingrandito a tal punto da perdere la sua identità più politicizzata. Musica e ballo techno si praticano ovunque, anche nel mainstream più commerciale, ma il movimento rave ha altre ragioni di esistere e ora le sta recuperando – dal diritto alla casa alle rivendicazioni del mondo del lavoro, di genere e Lgbtq+, dalla libertà e autodeterminazione dei corpi alla riduzione del danno per uso di sostanze».
Istanze per cui si potrebbe lottare anche in una dimensione riconosciuta e legale. «Ma la festa è un momento di celebrazione, l’apice di esplosione delle energie dell’individuo. Solo nell’underground certe tematiche trovano terreno fertile e quando il movimento si espande il mainstream non può più ignorarle». Lo dimostrano certe esperienze di riduzione del rischio e del danno dall’uso di sostanze nate negli ambienti rave e in seguito riconosciute dalle istituzioni, come Lab57 Infoshock di Bologna, GoodNight di Bergamo e Neutravel di Torino. «Il rave è un baccanale elettrico, una centrifuga sociale neopagana a base di ritmi tribali e ossessivi, necessari per “rompere” con la vita alienante di tutti i giorni, un rito misterioso, futurista e arcaico allo stesso tempo», riassume el Drito, «ma soprattutto, era e resta la cosa giusta da fare».
Nicola Baroni
www.djmagitalia.com, 29 agosto 2023Ai rave non si deve mai chiedere permesso
Il nuovo libro di Pablito el Drito, che idealmente completa una trilogia. Sottotitolo? Ventun variazioni sul tema del rave

DJ Mag Italia da sempre è attento nel raccontare l’età dell’oro dei rave, con particolare attenzione alle iniziative editoriali come il recente Il rave perduto o la graphic novel Cassa dritta, piuttosto che documentari quali Better Days. non potevamo pertanto lasciarci sfuggire l’opportunità di una bella chiacchierata con pablo Pistolesi aka Pablito el Drito, attivista, storico delle controculture e dj, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro Senza chiedere permesso (Agenzia X), che segue altri ormai storici volumi dell’autore come Once Were Ravers (2017), Rave in Italy (2018), Diversamente pusher (2019) e Dalla parte del torto con Dome La Muerte (2020). Un autore sempre fortemente, orgogliosamente underground che oggi torna a parlare di un fenomeno del quale è tra i maggiori esperti nel nostro paese.

Che cosa ti ha spinto a scrivere un nuovo libro?
I miei primi due libri Once Were Ravers e Rave in Italy, altrettanti successi editoriali, mi hanno riportato in contatto con la comunità dei raver. Vecchi e nuovi amici mi hanno inviato volantini e raccontato le loro storie durante le decine di presentazioni degli ultimi anni e mi hanno spinto a completare il mio lavoro di storicizzazione.

Come si differenzia dalle narrazioni precedenti?
Nei primi due libri mancava una visione di insieme relativa alla decade 1993-2003, una chiave interpretativa del fenomeno dei rave illegali della scena pioneristica. Rave in Italy è uscito nel 2018 ed è un libro di storia orale, che racconta 32 microstorie di personaggi legati alla scena, non cerca un minimo comun denominatore tra le storie, anzi valorizza le differenze di percorso dei vari protagonisti. Senza chiedere permesso è una raccolta cronologica di flyer e racconta la scena italiana tramite l’evoluzione delle grafiche; contiene una anche una parte di analisi che il mio amico Marco Liberatore del Gruppo Ippolita ha definito “21 variazioni sul tema del rave”.

Negli anni novanta i flyer dei rave erano quasi – anzi togliamo il quasi – oggetti da collezione. Erano più che altro oggetti funzionali. Se non si aveva il flyer non si sapeva dove fosse il meeting point e/o non se si aveva l’infoline e al rave non ci arrivava; internet e cellulari erano poco diffusi. I flyer sono diventati oggetti da collezione ora. Il vero casino, a livello di ricerca, è stato metterli in ordine cronologico: in questo mi hanno aiutato amici da tutta Italia.

Come si contrapponeva la scena romana rispetto a quella milanese o comunque del Nord Italia?
Fino al 2000 la scena romana e quella del Nord Italia di fatto si sono ignorate. Soltanto nella Pasqua del 2000 Acid Drops, crew di Torino, e Kernel Panik, tekno tribe di Roma, organizzarono la prima festa che mise insieme le due scene autoctone più importanti, che fino ad allora si guardavano da lontano, ma non collaboravano. In compenso già del 1998-99 esistevano feste che riunivano crew che si muovevano nell’asse padano Torino-Milano-Bologna, come Olstad e Tekno Mobil Squad.

Quale delle due scene era migliore?
A Roma era coinvolta più gente e da più tempo. Nel 1994 nella capitale gli illegali già coinvolgevano migliaia di persone. Roma è stata uno dei poli di produzione di musica techno più importanti del mondo, sviluppando un proprio suono, il cosiddetto Suono di Roma. Torino aveva altre caratteristiche: location più centrali, attenzione alle scenografie, musica dura e molto valida. Milano aveva una scena frammentata, ma molto sotterranea e politicizzata. Bologna una grandissima apertura ai nuovi linguaggi grazie alla presenza di una marea di giovani e al DAMS: sembrava il paese dei balocchi.

Perché tutto finì, ammesso sia finito?
I rave non sono affatto finiti. I rave sono in una fase di stallo, ma non penso che basti una legge per distruggere una cultura trentennale. Ce ne sono appena stati e altri ce ne saranno, ma sono più nascosti perché nessuno dei dj o organizzatori vuole rischiare da 2 a 6 anni di galera. La legge del governo Meloni, oltre ad essere un obbrobrio giuridico, punisce i raver come fossero mafiosi o brigatisti. È una barzelletta che non fa ridere. Ma l’idea di fare feste senza chiedere permesso non morirà mai, ne sono sicuro. Il fatto è che qualcuno pagherà un conto salato soltanto per il fatto da avere fatto ballare delle persone, il che è assurdo.

Esiste anche in ambito rave l’effetto nostalgia?
Esistono gruppi, come i Kernel Panik di Roma che sono attivi da 25 anni e che da allora continuano a organizzare feste. Ne esistono altri che si sono sciolti, per poi riformarsi recentemente, spesso con persone che nella crew originale non c’erano. Non so se questo dipenda dalla nostalgia o da altri fattori. Forse anche soltanto dalla voglia di stare insieme e fare quello che ci è sempre piaciuto fare: musica. Personalmente non frequento più la scena da 18 o 19 anni, per quello mi limito a parlare del decennio in cui ne ho fatto parte. Cerco di tenere vivo lo spirito rave organizzando serate accessibili in termini di prezzi (5 euro per entrare) ed in condizioni in cui le persone abbiano la libertà di esprimersi liberamente. Mixo vinili ancora soprattutto anni novanta e uso tecnologie spesso considerate obsolete, perché mi ci trovo bene! Non si può vivere nel passato, il rischio è quello di mitizzare un’età dell’oro che tanto non può tornare. E poi si fa proprio la figura dei vecchi, diciamocelo.
Dan Mc Sword
Rolling Stone, 22 luglio 2023 Come spiegare un rave degli anni ’90 a un ventenne che ama la techno illegale
Ce lo siamo fatti dire da Pablito el Drito, dj, attivista e autore di libri sul mondo rave che da poco ha pubblicato Senza chiedere permesso, un viaggio nell'immaginario dei free party.
Nel momento in cui stiamo scrivendo, non è ancora arrivato il grande classicone: il rave estivo che monopolizza i servizi dei telegiornali di luglio ed agosto (a fianco di servizi sul bere tanto e mangiare tanta frutta), creando scandalo e sconcerto fra i benpensanti raccontando di infernali baccanali dove la gente muore a frotte e i giovani si rovinano la vita diventando irrecuperabili zombie che minacciano l’ordine costituito. D’altro canto il jolly ce lo siamo giocato a fine 2022, col grande rave nel capannone di Modena a ridosso di Halloween che è stato il pretesto perfetto per il neo-insediato governo Meloni per mostrare i muscoli (e farlo pure male, tanto da fare subito marcia indietro su alcuni aspetti dei provvedimenti varati d’urgenza: quando il talento si vede fin dal principio). Ma tranquilli: a breve ci sarà un altro rave, anzi, detto con maggior precisione un altro free party a creare subbuglio. Sì. Perché è un fenomeno che va avanti da decenni e che, soprattutto, ha radici etiche ed estetiche profondissime. Non sarà una legiferazione d’urgenza a fermarlo, ecco (e se permettete aggiungiamo proprio: per fortuna).
In queste settimane, per quel bastione della controcultura che è la casa editrice Agenzia X guidata da Marco Philopat, è uscito Senza chiedere permesso: libro in cui Pablito el Drito (un vero veterano fra i narratori della scena con cognizione di causa) rimette in fila tutta una serie di punti fermi e di stimoli audio-visivi alla base del tutto. Per chi conosce poco la faccenda dei rave/free party e vuole capirci qualcosa di più, è una mappa chiara ed attendibile; per chi invece da anni ci è dentro fino al collo, è invece un ottimo recap dalle origini ad oggi. Ci siamo scambiati qualche chiacchiera con Pablito: per parlare del libro in sé, certo, ma anche per capire fino a quali confini arriva il rave rispetto alla scena dei festival più normali ed alla club culture più tradizionale: perché da anni sempre più si cerca di confondere le acque, qualche volta anche in buona fede e per idee nobili – ma le differenze restano eccome.

Arrivi da Once Were Ravers e Rave in Italy, e direi anche da Dalla parte del torto: cosa ti ha spinto a tornare di nuovo sull’argomento rave? Quanto lunga è stata la lavorazione di Senza chiedere permesso?
Once Were Ravers è stato il mio incipit letterario. Si tratta di una drug fiction che racconta di un raver idealista che diventa un pusher. Uscito nel 2017, è uno dei primi romanzi ambientati nella scena rave. Cinque anni fa, nel 2018, usciva Rave in Italy, un libro di storia orale con cui ho iniziato a storicizzare il discorso rave nel nostro paese. Dopo l’uscita, un sacco di persone mi scrivevano non solo per esprimere il proprio punto di vista o raccontarmi il loro percorso all’interno della scena, ma inviandomi proprio volantini di feste. In cinque anni ne ho raccolti più di mille. Quando li mostravo agli amici, mi dicevano di farci un libro. Un giorno si è presentato un editore con un progetto di questo tipo, che poi è scomparso nel nulla. Nel frattempo non solo avevo messo in ordine cronologico i flyer (una faticaccia!), ma avevo pure scritto dei brani, una ventina di variazioni sul tema rave, che poi sono confluiti, insieme ad una selezione dei volantini, in Senza chiedere permesso. È stato un lavoro di raccolta e di elaborazione medio-lungo, ma poi, quando mi sono messo a scrivere, in due mesi ho chiuso il progetto. Marco Philopat ha voluto pubblicare il libro al volo, in quanto c’era l’urgenza di una risposta culturale alla stretta repressiva voluta dal governo Meloni.

Ecco: fino a quando ci sarà uno stigma attorno ai rave? Anche perché bene o male (quasi) tutte le forme di controcultura sono state assorbite dal sistema… Capiterà anche ai rave?
Il discorso rave è scivoloso in quanto immediatamente compaiono immagini mentali di un certo tipo: giovani che infrangono le regole, che non rispettano confini, veri e propri folk devil contemporanei. Meloni e la sua cricca hanno dichiarato il raver un vero e proprio soggetto criminale per cui è stata creata un’apposita legge, che punisce chi organizza feste illegali con pene da 2 a 6 anni. Praticamente i raver sono equiparati ai mafiosi o alle Brigate Rosse, come se fossero una specie di associazione a delinquere: cosa che da un lato fa ridere, ma dall’altro ci fa capire a che punto è arrivata l’idiozia populista nel nostro paese. Detto questo, esiste un “mondo pop” che da sempre cerca di fagocitare il “mondo techno”. Questo fenomeno avviene su più livelli. Pirelli fece uno spot con Carl Lewis e la musica di Aphex Twin, il musicista elettronico più importante degli anni novanta, già nel 1995. Non era un brano leggero, anzi. Era un pezzo industrial feroce, con un kick pesante e distorto. In più ora come ora dilagano festival commerciali che costano un sacco di soldi e che promettono di simulare l’esperienza del rave. Dico simulare perché il pubblico di questi festival non è quello del rave: l’atmosfera che si crea è diversa, si respira un’aria di artificialità ben lontana da quanto avviene – nel bene e nel male – in un free party. Al di là del prezzo d’entrata e delle bevute, in questi contesti non puoi fare quello che vuoi. Non puoi improvvisare una performance, montare un banchetto di libri-fumetti-fanzine, vendere magliette o fare un graffito. Sono situazioni pulitine e rassicuranti, dei “Disneyland rave” confezionati dall’alto e venduti a caro prezzo ai partecipanti, quasi tutti della middle-class, spesso affascinati dal mondo dei media e della moda. Basta guardare le foto dei partecipanti per capire che questi eventi sembrano più sfilate che altro. In questi contesti gli appartenenti alle classi più umili al massimo lavorano come baristi, cuochi, fonici o allestitori: certo non possono permettersi di spendere cinquanta o cento euro al giorno per partecipare. Ed è per questa ragione, e non per un motivo ideologico che il rave sopravviverà sia alla commercializzazione che alla repressione governativa. La gente vuole ballare e rivendicherà il diritto a farlo, senza chiedere permesso.

Come si riesce a tracciare il confine tra club culture e rave?
A Berlino venti anni fa entravi in un club e non riuscivi a capire se era uno spazio occupato o meno. Qua in Italia il confine è sempre stato molto più chiaro: da una parte c’è il discorso dell’entertainment “presentabile”, cioè quello club, che non è una cosa per tutti, perché costa, devi vestirti in un certo modo e accettare certe regole; dall’altro il discorso rave, che è aperto a tutti, è gratuito, non ha buttafuori e dress code e in cui le regole le fa una comunità che autogestisce il proprio tempo libero. Dal punto di vista del djing posso dire che suonare in un club è cosa molto diversa che farlo ad un rave. Per esempio in spazi legali e normati puoi suonare più a lungo, proporre anche set di 3-4 ore, cosa che nella scena illegale raramente mi è capitato di poter fare. Negli anni novanta c’era una grande pressione sulla consolle per cui live e dj set duravano un’ora, magari due. Non di più.

Quanto è stato difficile scegliere cosa mettere e cosa invece non mettere nella tua mappatura su ciò che contribuisce a creare l’immaginario dei rave? Quali criteri hai utilizzato nel perimetrare questa mappa?
Non molto, in realtà. Io ho una buona memoria per quanto riguarda i prodotti culturali. Ho dovuto più che altro rivedere film, riaprire fanzine e fumetti, rileggere libri e riascoltare dischi. E scegliere quelli che secondo me sono stati più influenti nel creare quella nebulosa che ora, a posteriori, riconosciamo come immaginario rave. Ovviamente in un lavoro di questo tipo bisogna darsi dei limiti, non potevo certo scrivere un’enciclopedia. Volevo che il ragionamento fosse accessibile a tutti, quindi ho usato un linguaggio semplice, che evitasse le supercazzole che a volte trovo in altri libri sulle culture alternative. Questo libro l’ho scritto per un ipotetico ventenne che ama la techno illegale e che vuole capire cosa succedeva nel 1993-2003, quando a ballare ci andava suo padre e lui non era manco nato. L’ho scritto per raccontare quel che significava organizzare feste nel periodo precedente la diffusione di massa di cellulari e internet, che hanno cambiato non solo le feste, ma il mondo in generale, soprattutto quello della socialità.

Tu ormai hai una esperienza trentennale: come va gestita questa cosa del «Era meglio prima» che ricorre immancabilmente anche nei forum e nei social dove si parla di rave e dove ci sono veterani della scena? E insomma: era meglio prima davvero?
La prima scena – parlo soprattutto di Milano – era costituita di gruppuscoli di adepti di questa nuova musica abbastanza impopolare, che organizzavano feste per il mutuo beneficio. All’inizio si trattava di poche decine di persone, poi due-trecento, finché nella seconda metà degli anni novanta si è creata una specie di massa critica e in seguito, grazie all’esempio delle tribe anglo-francesi, uno stile di vita traveller-rave. All’inizio non c’era un discorso di soldi, ma di mutuo beneficio e basta. Ci si nascondeva ben bene e la festa durava circa dodici ore, da mezzanotte a mezzogiorno. La polizia non arrivava quasi mai. Le poche volte che le forze dell’ordine si sono palesate non sapevano come gestire la situazione. Non c’era infatti market di sostanze, ognuno portava quel che voleva da casa. Certe volte non c’era nemmeno il bar! Quasi nessuno sapeva cos’era un rave, chi partecipava non faceva proselitismo. Era un segreto per pochi. Se facevi una foto rischiavi le botte, non parliamo di video… A me sembrava una nuova religione: anche perché all’albeggiare, complice la sovrastimolazione chimica e lo stare in pochi in spazi industriali enormi e abbandonati, c’era ogni volta una straordinaria sensazione di rinascita. L’idea di un futuro diverso. Detto questo, il mitizzare una presunta “età dell’oro” è sempre una cazzata. Anche perché ognuno ha vissuto un pezzo diverso di questa storia trentennale: c’è chi mitizza le tribe originarie, chi il suono di Roma, chi la prima scena di Ibiza o di Goa, chi il Teknival di Pinerolo o sul Lago di Bolsena. Ognuno pensa di essere il “padre nobile” di qualcosa e svaluta il presente. Però, secondo me, al di là della nostalgia canaglia bisogna pensare a tenere in vita un certo tipo di mentalità oggi, che sono tempi molto duri. Non basta rifugiarsi in un passato che non ritornerà dicendo quanto eravamo fighi. Secondo me, la sfida è immaginare e progettare il futuro.

Al tuo occhio, come sono invecchiati graficamente i flyer che hai raccolto nel libro? Voler “immaginare” graficamente il futuro è sempre un’arte difficile e rischiosa…
Ora che la tecnologia la fa da padrona i volantini disegnati a mano e fotocopiati in bianco e nero sembrano proprio manufatti di un’altra epoca. Alcuni di quelli che ho pubblicato sono dei capolavori della grafica: penso al volantino che realizzò Prof Bad Trip per una festa a Vaiano Valle nel 1993. Altri, al di là delle abilità tecniche di chi li ha realizzati, sono testimonianze di una scena che è stata importante, perché in trent’anni ha coinvolto decine di migliaia di persone.

Ci sono dei grandi eventi a cui rimpiangi di non essere stato, in campo rave e non solo?
Non ho mai amato i grandi eventi, mi fanno venire un senso di vertigine. Ho sempre privilegiato situazioni più contenute. Sono molto felice quando metto i dischi o ballo in sale che contengono tre-quattrocento massimo cinquecento persone perché lo ritengo il numero ottimale di partecipanti. Certo: una street parade con trentamila o centomila partecipanti crea un’energia fortissima, ma si tratta di un evento all’aperto, che dura qualche ora. Lo stesso vale per il discorso rave: mi piace, ma dopo dieci ore di sovrastimolazione non vedo l’ora di tornare a casa a dormire.

Qual è il disco non techno (e non tekno), anzi, in generale non a cassa dritta o non breakbeat più adatto per capire lo spirito dei rave?
A me piace guardare indietro, tra i pionieri dei generi. Per cui ti direi Clear di Cybotron: un brano electro del 1983 ideale per una battle tra ballerini breakdance, che però anticipa l’immaginario cyberpunk. Ma anche la seconda parte di I Feel Love, di Donna Summer e Giorgio Moroder (la versione da 8 minuti del 1977), in cui la base suona senza vocal.
di Damir Ivic
www.rocknread.it, 10 luglio 2023 Senza chiedere permesso di Pablito al Drito
Senza chiedere permesso è un’analisi approfondita dello scenario rave italiano, europeo e mondiale. Non uno studio canonico però perché si basa sulla conoscenza e il lavoro di Pablito El Drito, pensatore di spicco del movimento attuale dei rave.
Rave è una parola piccola, quattro lettere, che racchiude in sé una forza unica. Di rave si parla già negli anni sessanta. Nei decenni a venire si sfrutta questa parola per indicare la rottura con l’ordine precostituito con un mezzo potente come la musica.
In Senza chiedere permesso il veicolo per raccontare l’epopea “raveiana” che ha contraddistinto i primi anni novanta fino ai primi anni duemila sono i flyer. Mezzi di comunicazione efficaci al tempo dell’assenza dei social che permettevano anche un regime di segretezza molto alto.
I flyer avevano un’espressione massima, libera e creativa come quegli stessi rave ai quali partecipava lo stesso autore. Nei flyer inoltre erano presenti le raffigurazioni del tempo e della storia che il suo autore stava vivendo, in quella che era cresciuto e cosa voleva raccontare del rave che andava a pubblicizzare.
Sempre però ricordandoci che pubblicizzare è una parola scomoda per i rave, illegal e free party, raccontati dall’autore. Il segreto e l’invisibilità sono due fenomeni assolutamente salienti nell’organizzazione di queste feste. Party che vengono ispirati anche dal pensiero del filosofo Hakim Bey che ha teorizzato una zona temporaneamente occupata, la cosiddetta T.A.Z., per resistere ai mali del mondo. Non una fuga ma una presa di coscienza dentro a una spazio inutilizzato dove creare un proprio mondo speciale, autogestito e momentaneo.
Pablito el Drito racconta come dall’inizio i rave fossero anonimi e orizzontali. Il dj era uno del gruppo. Tutti concorrevano alla riuscita della festa e alle volte bisognava portarsi da bere da casa perché non c’era neppure il bar.
Nel tempo il meccanismo si evolve e si collauda e si producono delle feste sensazionali con migliaia di persone che durano per giorni con il pieno rispetto dell’essere umano. Una pausa dal convenzionale che trasporta i partecipanti in un limbo di vicinanza, complicità e buona musica.
Tutto a questo mondo ha un inizio e una fine e anche qui come sempre accade ci troviamo ad affrontare una parabola discendente con le criticità che affiorano sempre più spesso. Fino ai giorni nostri con le notizie di cronaca nera, e criminale, appioppate all’immaginario collettivo come fenomeno ricorrente dei rave.
Ma Senza chiedere permesso non è solo questo. È anche il racconto di tribes, traveller e raver che s’incontrano e solidarizzano in un mondo ideale e lontano dal giudizio sociale. C’è tanta musica e una ricostruzione fedele delle trasformazioni interne che ha avuto questo movimento. Dei tanti contributi dalle inglesi acid house alla migrazione verso una Francia ancora libertina fino all’affaccio su tutta l’Europa e quindi in Italia.
Ci sono le leggi che hanno regolato (male) questo fenomeno sociale, c’è l’avvento dei social che ha informato troppo (male) l’opinione pubblica e c’è quel giornalismo sempre in cerca di una notizia che per diritto di cronaca ha dipinto (male) i rave di colori non veritieri e allusivi senza ovviamente possibilità di replica.
Tutto questo passando per quei flyer che Pablito el Drito ha generosamente pubblicato alla fine del libro insieme alle testimonianze dei suoi disegnatori.
Questo è un libro fondamentale per capire l’attuale scenario rave. E per comprendere come i media e la politica abbiano preso l’ennesima cantonata classificandolo semplicemente come generatore di morte e spaccio di droga.
Nel rave c’è molto di più. C’è racchiusa la capacità dell’uomo di ribellarsi all’ordine consolidato, al bigottismo e alle imposizioni. Ed è per questo che il rave fa tanta paura.
di Andrea Paolucci
www.rivistastudio.com, 8 giugno 2023Storia del rave in Italia e dei suoi flyer
Pablito el Drito, aka Pablo Pistoiesi, è una figura di riferimento della scena underground milanese. Un personaggio eclettico che puoi incrociare spesso agli eventi di un certo tipo, in veste di venditore di libri indipendenti, come performer con il suo Gameboy in un live 8 bit, come manifestante e attivista, oppure con la sua borsa di dischi che si prepara per un viaggio vinilico. È un testimone diretto della scena rave italiana, che con il passare degli anni ha sentito il bisogno di storicizzare, ma anche un esperto di spaccio e sostanze che girano in quegli ambienti. Su questi temi ha pubblicato diversi libri, sempre con la casa editrice Agenzia X. L’ultimo, Senza chiedere permesso. Flyer e immagini del rave è uscito qualche giorno fa. Una ricerca visuale formata da circa 1.500 volantini scannerizzati, che per quanto mi riguarda poteva uscire per Taschen ed essere venduto a 50 euro. «Ma è proprio per questo che l’ho pubblicato con Agenzia X, così costa 15 carte», mi ha risposto quando gliel’ho fatto notare.

Questo è il tuo terzo libro a tema rave, stavolta ti sei concentrato sull’aspetto estetico: flyer, film, fumetti, libri, musica. Come si è svolta la tua ricerca? In parte immagino sia legata ai tuoi ricordi, ma allo stesso tempo è parecchio sistematica…
Dopo l’uscita del mio secondo libro, Rave in Italy, un numero imprecisato di persone mi ha inviato più di mille foto di flyer. Alcuni erano organizzatori di party, altri i disegnatori dei flyer, altri ancora semplici partecipanti alle feste. Sono partito dalle immagini. Guardandole mi sono venuti in mente una serie di prodotti culturali, in maggioranza fantascientifici, che in qualche modo potevano avere ispirato le grafiche. Quindi ho chiesto conferma ad alcuni degli autori, anche per capire attraverso quali percorsi individuali approdarono alla scena rave 1993-2003.

I flyer più vecchi risalgono appunto al 1993, quest’anno è l’inizio di tutto?
Be’, il 1993 è stato l’anno in cui quattro città – Torino, Bologna, Milano e Roma – hanno ospitato i primi rave autorganizzati. Si trattava di un fenomeno nuovo, che rappresentava un taglio netto con le logiche discotecare (biglietto, buttafuori, dress code, Siae, etc.) ma anche con i primi “finti rave” commerciali, che altro non erano che spin-off delle discoteche, anche se organizzati in magazzini e campi di patate…

A proposito, durante il Fuorisalone 2023 in città si parlava di un presunto rave di Ikea. Ti dà un po’ fastidio questa appropriazione? La vivi come tale? Anche la moda ultimamente ci sta mettendo del suo…
Il sistema della moda è un tritatutto. Mi viene in mente che dopo il G8 di Genova alcune sfilate di alta moda sembravano una parata di black bloc. Riguardo a Ikea, diciamo che semplicemente spesso si abusa del termine rave, che è un evento costruito dal basso, messo su senza chiedere permesso. Non una festa organizzata in location esotiche con le logiche del business o del marketing.

Il libro è dedicato all’artista Matteo Guarnaccia che, oltre a essere un tuo amico, è stato una figura di riferimento. Cosa gli deve la scena?
Matteo ha ispirato sicuramente molto l’ala “goana”, che si rifà all’estetica hippie e psichedelica. Secondo me è stato non solo un grande artista visivo, ma anche uno scrittore molto brillante. Io lo conobbi a un incontro sulla controcultura americana organizzato al circolo anarchico Ponte della Ghisolfa e da allora siamo rimasti in contatto. Ho avuto anche la fortuna di collaborare con lui ad alcuni progetti artistici, per me è stato un maestro.

Tornando ai volantini, cosa c’è nell’immaginario fantascienza/cyberpunk che ha affascinato così tanto la scena rave, secondo te?
La fantascienza cyberpunk è stata rivoluzionaria in quel momento storico: al centro non c’è più lo spazio, come nella fantascienza classica, ma il corpo. Inoltre, il cyberpunk è legato a una nuova forma di psichedelia, più implosiva e introspettiva rispetto a quella hippie, più da ketamina che da Lsd. Non a caso William Gibson, il più importante esponente di questo filone della fantascienza anni ’80, definisce il cyberspazio «allucinazione consensuale». Il sogno di pace, libertà e fratellanza degli anni ’60/’70 si è trasformato nella disillusione dell’individualismo economico post Reagan e Thatcher. Per i raver l’Apocalisse c’è già stata, ci si può solo ritagliare il proprio spazio al suo interno.

Da lì l’idea di occupare gli spazi industriali abbandonati?
Sì, negli anni novanta, con la deindustrializzazione, era normale provare curiosità per gli edifici non più utilizzati. Ce n’erano a bizzeffe, e occuparli ci sembrava giusto e naturale. Erano dei set perfetti per le nostre prime sperimentazioni con le sostanze. Concettualmente, si prendeva ispirazione dagli autori di riferimento. C’era un grande amore per Burroughs, non solo perché aveva capito la centralità delle sostanze nella società a venire, ma anche per alcuni concetti che ha introdotto, come ad esempio quello di “interzona”. Un altro ispiratore è stato ovviamente Hakim Bey, un anarco-hippie intriso di esoterismo, con il suo leggendario pamphlet T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome, pubblicato in Italia a metà anni ’90 da Shake Edizioni Underground.

Italia come l’Inghilterra trent’anni fa: nel 1994 vennero banditi i rave nel Regno Unito, da noi nel 2023 arriva una legge durissima, cosa è successo secondo te?
Il governo per legittimarsi crea capri espiatori: stranieri che minacciano l’italianità, gay che minacciano la mascolinità, poveri che non han voglia di lavorare, etc. Hanno deciso di creare un nuovo soggetto criminale: il raver, pericoloso quasi come un mafioso o un brigatista – infatti chi organizza rave rischia poco di meno di chi organizza associazioni criminali: da due a sei anni di carcere invece che da quattro a sette.

Quel decreto è una barzelletta che non fa ridere…
A un certo punto dici che questo tipo di repressione potrebbe scatenare un potenziale violento, di ribellione… A me sembra abbastanza difficile, vedo gli italiani sempre più remissivi. Quello italiano è un popolo di vecchi, ma vedo ovunque segni di insofferenza, soprattutto nelle grandi città. Non credo che la maggioranza dei giovani si beva la propaganda del governo. Oltretutto la violenza, non solo quella delle polizia ma anche quella economica, viene sempre più spesso denunciata da chi la subisce. Basta una scintilla per dare fuoco alla prateria: il futuro non è ancora scritto, lo determinano le azioni di ognuno di noi. Bisogna avere la capacità di vedere oltre, di sognare qualcosa di meglio del grigiore che ci propongono politici e burocrati.

Per concludere, qui su “Rivista Studio” si parla molto di libri. Tre classici imprescindibili per chi vuole farsi una cultura sul rave? Anche dal punto di vista musicale.
Mondo Techno di Andrea Benedetti, Energy Flash. Viaggio nella cultura rave di Simon Reynolds, Rave New World di Tobia d’Onofrio.
di Antonella Di Biase

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