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Incognita K

Tribal Cabaret, novembre 2025Incognita K di Ana Nitu 


Quel virus (Covid). Quell’affollato raduno senza chiedere permesso: il Witchtek di Modena. Uno come tanti, tutto ballo diurno/notturno, zainetti e camper. Scrive Rote Zora nella prefazione: “I Mutoid sostengono che l’unica alternativa per sopravvivere è la mutazione: ed ecco che in questo scenario di paralisi esistenziale ci siamo modificati in nomadi digitali, in amabili padroni di cani, in esperti pollici verdi. La ‘vita vera’ si è trasformata in un’esperienza sempre più ‘onlife’, mediante la didattica a distanza, i meet, gli aperitivi in videochiamata, i live set in streaming. Tutti tentativi di sopravvivere all’apocalisse attraverso piccole dosi di vitalità domestica. Un’interruzione della vita personale e collettiva che ha gravato soprattutto sulle nuove generazioni private dei baci proibiti, del contatto fisico, degli sguardi ravvicinati, dell’esperienza diretta. Tuttavia, la fame di autodeterminazione e di senso ha trovato le sue vie di fuga e ha scavato varchi in questa realtà distopica”. La calorica e caparbia scrittura di Ana Nitu ci introduce in aree in disuso e “prese per mano”, recapiti temporanei, teknival, fotogrammi mossi e in movimento. Free party a più variabili, scaturiti dal basso dove flussi desideranti, disc-jockey in penombra sono solo una parte di una progettualità totalmente autogestita. È “agit-dance”, è contropotere, è l’addizionare elementi che equivalgono ad altrettante premesse. Nuovi mandati, nuove esigenze. La cassa dritta, lontana dalla monetizzazione. L’alto volume a procacciare diverse sensibilità. Modena, ottobre 2022: rispondono in migliaia alla “chiamata” (passaparola arcaica-digitale). Questa volta bisogna fare i conti con l’ultra-repressivo decreto di sicurezza emanato dall’attuale governo di centrodestra. Il pullulare di hippies-tecnologici e di altre moltitudini costretto allo stand-by. Diatriba sull’uso di sostanze. Ricorda di avere cura di te stesso (furgone riduzione del danno, presente!). Quelli là pensavano di avere a che fare con “l’anello debole della catena” ma dall’altra parte, in tempi brevi ci si mette in moto per riavviare e soprattutto ravvivare contesti in grado di fare scricchiolare anche le gentrificazione più spinte e pigliatutto. Contrapporsi al controllo massificato. Si dà vita a Smash Repression. “L’attacco esterno non ha funzionato bene, perché da un certo punto di vista si è trasformato in un collante. Mentre “fuori” si preparavano i forconi, “dentro” prendeva forma un rizoma pluricellulare che in poco tempo ha intrecciato un tessuto che si è sviluppato in tutta Italia (…) una moltitudine di teste pronte a rispondere, a mettersi in gioco per capire cosa si dovesse fare e soprattutto come”. Attenzione: “Chi ce tocca s’appiccia” (Ex OPG, Naples). La giovane autrice (studiosa delle controculture, ideatrice di fanzine, laureata in Estetiche e fotografa) con disinvoltura e polso fermo ma anche ponendosi domande e facendo tesoro delle proprie esperienze racconta i transiti dell’adesso, dell’immediato futuro. Tutti gli aromi del suo singolare interpretare Mark Fisher, Hakim Bey, Living Theatre, Jefferson Airplane, T.A.Z. cyberpunk, umanesimi tecnologici a vapore. E poi: “bisogna sporcarsi le mani per superare lo scarto”. Kappaverso: affronto all’enigma, maschere sintattiche, dirompenza dell’interruzione, collassarsi dei paradigmi, increspature del sistema vigente, ecomostri, cancelli da spalancare, far sprigionare il calore dei sensi. Tuffarsi in tecno-tribalismi, street-parade, nell’utopico possibile. Che è un tutt’uno col social-politico più efferato ed in evoluzione. E sia ben chiaro: tutto ciò non può essere considerato reato. E qualora si dovesse andare in cortocircuito “non si scappa, non si diserta, c’è un momento per abbandonarsi e lasciarsi cadere preda all’ebbrezza e c’è un momento in cui bisogna fare muro”. Raver tessitore, raver danzatore cosmico. Il raver è tessitore, il raver è danzatore cosmico. Sempre Rote Zora: “Ana è la portavoce di un coro di giovani in rivolta che rifiuta di essere addomesticato, di essere ridotto a merce, oggetto, dato. Per loro la festa è una pratica collettiva in mutazione ogni volta che il suono riprende a vibrare. La festa è mutopia che si realizza nel fluire della sua trasformazione, il luogo in cui il possibile prende forma e il futuro si fa presente”. Spazio, tempo, corpo. Nel corposo volume sono contenute anche alcune interviste. Sara Dralion Fabretti (Sound One System, artista multimediale): “Il mondo ci parla mentre noi siamo atrofizzati a ricevere solo gli stimoli che riceviamo con più frequenza, guardando solo alla superficie. Dobbiamo abbattere tutte le congetture. È una questione di coscienza, tecnica, empatia e simbiosi”. Nko (Puppetz Underground Project, producer): “Dalla fruizione alla creazione (…) Grazie alle feste, alla musica e alla tribe mi sono riconnesso a me stesso”. Ad irradiare ulteriormente alcune decine di fotografie (con tanto di flyer e manifesti). Scatti dalla Francia, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Albania, Napoli, Parma, Bologna, Milano, Modena.

di Massimo Pirotta

Rockit.it , 11 novembre 2025 La repressione non ci fermerà, i rave sono esperienze radicali di vita: il racconto dopo il Witchtek di Modena

Quasi tremila persone identificate, nove arrestati dopo il "rave di Halloween" a Modena. Si torna a criminalizzare i free party e dopo il cosidetto decreto Anti-Rave a punirli ancora più severamente. Ma non sarà questo a fermare un movimento, come ci racconta Ana, l’autrice di Incognita K.

Il 2 novembre manganelli e lacrimogeni hanno “accolto” chi usciva dal Witchtek di Modena, il “rave di Halloween”. Quasi 3000 persone identificate, 9 sono state prima arrestate, e ora liberate, e sono stati sequestrati gli impianti audio. Dopo 3 anni dal decreto Anti-Rave e da quel vento misto tra dichiarazioni politiche e sensazionalismo mediatico, il clima in Italia è stato più o meno unanime: gogna mediatica verso chi ha organizzato e partecipato al free party, difesa senza se e senza ma delle forze di polizia.
Il Witchtek 2025 è stato un momento di organizzazione dal basso importante, dove al centro del discorso non c’erano droghe ed esagerazioni, come piace raccontare ai media, ma la solidarietà con la Palestina. Tanto che nel centro della festa è stato proiettato un video di Tony Lapiccirella che diceva: “Dalle periferie, alle feste, fino al mare: restituiamo voce alla Palestina libera. Questo è il momento di riorganizzare le nostre vite e i nostri desideri verso un’unica direzione: la liberazione”. 
I rave fanno paura, sono momenti che non sono capiti, spaventano tante e tanti: rompere le regole, prendersi spazi, ascoltare e ballare per giorni filati, sperimentare droghe, fare comunità, organizzarsi in maniera autonoma, stare fuori dalle regole del mercato. Un free party è tante di queste cose, che non sempre hanno a che vedere con una scelta politica, ma sempre hanno a che vedere con il cercare qualcosa che nella società normata e ordinata non si riesce a trovare. 
Il decreto Anti-Rave non li ha fermati, il Witchtek 2025 non è stata un’anomalia, ma una conferma della vitalità di una scena che si è fatta più forte dopo l'attacco del 2022. C’è una grande letteratura su questo mondo: c’è Muro di casse di Vanni Santoni, Rave New World di Tobia D’Onofrio, ci sono i libri di Pablito el Drito e Incognita K. Free tekno e cospirazioni in cassa dritta per Agenzia X. Per andare oltre la semplice spettacolarizzazione da giornale scandalistico, che definisce le feste covi di drogati e sbandati, c’è quindi parecchio materiale. 
Per la prima volta, nel nostro Paese, il 2 novembre 2025 alcune persone sono state arrestate perché hanno partecipato a un free party: un cambio di fase non da poco. Nei giorni a seguire si sono lette e sentite una serie di accuse su presunti deturpamenti dell’area dell’ex Bugatti, abbandonata da anni e che non vede alcun progetto industriale per il suo futuro. 
Oltre la paura, oltre i modi di dire, oltre tutto, c’è che i free party sono un’incredibile esperienza. Io li ho frequentati anni fa, per un po’. Già lavoravo tra concerti e giornalismo, e ogni volta che arrivavo vedendo migliaia di persone e trovavo uno spazio abbandonato acchittato a spazio di festa mi chiedevo: “Come fanno?”. Per far cose così spesso ci volevano giorni di lavoro, quando mi trovavo in fase di allestimento a festival o altro. Lì tutto avveniva in poche ore. 
E poi mi sono sempre chiesto come girassero queste informazioni: no spot, no radio, no uffici stampa. Per anni c’era un sito, Shockraver, e ora? I Freeparty sono spazi di contro-cultura, si danno in diverse parti del mondo con modalità diverse ma dentro una comune visione di sperimentazione. Si potrebbe dire che sono espressione pre-politica di una critica alla società e alla città. 
Allora, davanti alla fastidiosa litania anti-rave che si è alzata, e dopo aver visto la violenza di polizia e politica abbattersi su chi usciva dalla festa di Modena, ho pensato che il modo migliore per raccontare la complessità della scena fosse contattare Ana, l’autrice di Incognita K.

Cos’è stato il Witchtek? 
Il Witchtek – o meglio, Tribal Laboratory, che è il nome con cui è stata chiamata questa edizione – è stata una zona temporaneamente autonoma necessaria. Tre giorni di autodeterminazione e guerriglia artistica, musicale e politica. Un luogo dove conflitto e autogestione si sono fusi per creare un esperimento reale di libertà. 

C’è stata una scintilla? 
Il motore di tutto è stato la Palestina. L’intento era chiaro: costruire un benefit e donare tutto il ricavato alle missioni civili che cercano di rompere il blocco navale e restituire respiro a chi è sotto assedio. Witchtek è stato questo: un grumo di lotte trasversali, perché la lotta o è trasversale o non è. È stata una barricata sonora e simbolica, l’unico muro che non divide: quello di casse. Il sound system ha una storia che viene da lontano: da Kingston a Detroit, fino all’Europa, ha sempre allargato lo spazio dell’autonomia. Tribal Laboratory è stato davvero un laboratorio di reinvenzione reale, una festa che ha riflettuto su se stessa. Ci sono stati momenti di confronto, dibattiti, pratiche di cura. Tutto intrecciato alla musica, perché – come scrive McKenzie Wark in Raving – “i concetti ballano nella musica e ne diventano consapevolezza”. Quello che da fuori chiamano alienazione, per noi è riconnessione. Non è fuga dal mondo: è creazione di un’alternativa. 

Secondo te c’è stata la volontà di sfidare il decreto anti-rave, o è stato un caso che si sia tornati a Modena? 
Non è stato affatto un caso. Niente viene scelto per caso, e nemmeno i luoghi. Ogni spazio porta dentro di sé una relazione di potere. Tornare proprio a Modena – dove tre anni fa nacque la criminalizzazione dei free party – era necessario. 

Perché? 
Serviva dimostrare che le politiche di sicurezza e sorveglianza non funzionano, che il loro sistema è pieno di crepe. E sono proprio quelle crepe il terreno in cui noi prosperiamo. Il Witchtek è arrivato dopo mesi di piazze piene, di cortei, di una nuova coscienza collettiva. La festa, in fondo, ha sempre sfidato l’ordine costituito. È nella sua natura: il free party vive del conflitto, lo attraversa, lo trasforma. E anche questa volta è riuscito a farlo. Ti aspettavi questo livello di violenza della polizia? Sì, purtroppo sì. Anche se vederlo e viverlo è sempre diverso. Tornare verso casa e trovarsi davanti quello schieramento di camionette ha fatto effetto, ma non sorpresa. È stato un confronto diretto, tra chi difende la libertà e chi rappresenta uno Stato che non sa più dialogare se non con la forza. 

Be’, dopo il decreto anti-rave è stata una scelta coraggiosa, no? 
In realtà, quella che abbiamo vissuto non è solo l’applicazione del decreto anti-rave, ma anche del decreto sicurezza. La repressione che abbiamo visto è il risultato di una politica che ha dato sempre più libertà d’azione alla polizia, costruendo di fatto uno “stato di polizia”. Noi lo dicevamo fin dall’inizio: il decreto anti-rave non era un attacco ai rave in sé, ma un cavallo di Troia per colpire qualsiasi esperienza di autogestione non allineata al sistema. E così è stato. 

Cos’è successo, per quello che hai capito, perché le notizie parlano di attacco alla polizia non della polizia? 
Tutto è filato liscio fino a quando abbiamo iniziato a smontare. Eravamo in fila, ordinati, pronti a lasciare il posto. Poi la polizia ha bloccato la carovana e ha iniziato a caricare. Lacrimogeni lanciati ad altezza uomo, persone tirate fuori dalle auto, mezzi distrutti, teste spaccate. Ambulanze che non passavano. Tredici ore di violenza fisica e psicologica. I vigili del fuoco erano increduli. A un certo punto sembrava che anche loro e la Croce Rossa fossero schierati con noi contro l’assurdità di quello che stava accadendo. Pioveva, faceva freddo, eravamo esausti, senza acqua né cibo. È stata una strategia di tensione calcolata: volevano che degenerasse. Avevano bisogno dell’ennesima rappresentazione del caos per giustificare il loro potere. 

Pensi che sarebbe successo anche se non fosse stato a Modena? 
Sì, assolutamente. Quello che abbiamo vissuto non è un episodio isolato. Già durante la TAZ Mutazione a Torino, in primavera, ci furono cariche e feriti. E poi al Free Spring in Trentino: una notte di lacrimogeni e assedio, con l’unica via di fuga chiusa dagli antisommossa. Sgomberare una festa in piena notte è una follia: significa cercare un incidente. È la linea repressiva di questo governo, iniziata con il decreto anti-rave del 2022 e mai fermata. 

Come sono cambiati i rave dal 2022 a oggi? 
Il decreto ha segnato una battuta d’arresto, ma non una fine. Le feste hanno rallentato, sì, ma solo per riorganizzarsi. È stato necessario capire come muoversi in un nuovo scenario repressivo. Negli ultimi tre anni il movimento ha riscoperto la sua natura politica e conflittuale, diventando più consapevole. Oggi i free party non sono solo spazi di festa, ma esperienze radicali di vita. La TAZ – come dice Hakim Bey – prospera nei vuoti di Babilonia, negli interstizi dello Stato. È una forma di intensificazione dell’esistenza. E grazie anche alla nascita di Smash Repression, una rete nazionale che ha messo in comunicazione tribe, spazi sociali e realtà francesi, il movimento si è riorganizzato. Siamo tornati in strada, con le street parade, le feste sotto casa: se non ci fanno spazio nei capannoni, portiamo le casse nelle città. Hanno tentato di stroncare un intero movimento, ma hanno solo gettato benzina sul fuoco. Siamo diventati più organizzati, più consapevoli, più presenti. 

Perché vai ai free party? 
Perché sono una delle ultime utopie concrete rimaste. In un tempo segnato dal proibizionismo e dall’individualismo, i free party sono un’esperienza radicale e necessaria. Mi hanno cambiato la vita: mi hanno insegnato a uccidere lo “sbirro interiore”, a smontare i meccanismi di controllo che tutti abbiamo dentro. E mi hanno ricordato che possiamo dare forma alla realtà con le nostre mani, con le nostre teste. Il do it yourself è questo: inventare, costruire, creare. Ogni festa è un atto d’immaginazione. Nel free party non c’è mediazione: solo immanenza, movimento puro, espansione. È un’esperienza di libertà collettiva e di mescolanza. Ecco perché ci torno. 

Se esistessero spazi legali dove consumare sostanze e fare festa, li useresti? 
Domanda complessa. Da un lato sì: significherebbe che qualcosa è cambiato a livello politico, che il proibizionismo è stato superato e che si è aperto un discorso reale sulla riduzione del danno. Dall’altro no: perché la festa legale non è la stessa cosa. L’illegalità è una posizione politica. Il free party è una pratica di liberazione, non può esistere senza rottura, senza conflitto. Gli spazi legali hanno sempre un perimetro, un permesso, un controllo. La nostra vita, invece, risplende quando si svincola dalla legge. Come scrive ancora Hakim Bey: “Per ottenere ciò che desideriamo dobbiamo contemplare non solo una vita di pura arte, ma anche di pura insurrezione".

Perché le persone hanno paura di chi va ai rave? 
Perché i rave mettono in discussione tutto. Sono esperienze che risvegliano, che ti fanno uscire dal torpore. E questo, per chi vive dentro un ordine sociale rigido, è destabilizzante. Il dionisiaco spaventa. È caos, e il potere odia il caos. Il decreto anti-rave è solo l’ennesimo strumento per criminalizzare la differenza. È anche una forma di razzismo musicale, come lo è stato in passato per la musica nera o queer. L’identità del raver è sempre stata quella dell’altro, del corpo fuori posto. E molta gente non sa gestirsi in condizioni di libertà totale. È più facile aver paura di chi balla che imparare a ballare insieme. 

Pensi sia cambiata la percezione delle persone su queste feste, o è sempre stato così? 
Qualcosa sta cambiando. Tre anni fa, dopo il decreto, i free party furono criminalizzati due volte: prima dall’opinione pubblica e poi dallo Stato. Ma oggi la narrazione dominante comincia a sgretolarsi. Basta guardare i commenti ai video del Witchtek di quest’anno: non più solo odio, ma anche curiosità, solidarietà, empatia. Forse perché la festa è contagiosa. Perché abitiamo le crepe e ci nutriamo degli scarti, ma da lì continuiamo a crescere. Come diceva Toni Lapiccirella nel suo messaggio: “Questo è il momento di riorganizzare le nostre vite e i nostri desideri". E se volete davvero capire cosa significa, venite a un free party. I cancelli sono aperti. Non c’è biglietto. Solo vita che pulsa. 

I rave sono un mondo complesso e troppo spesso, come capita con ultras e graffiti, attaccato in maniera ampia perché rappresenta libertà. Proprio come diceva Paolo Virno “Chi detesta la moralità corrente, proprio costui, deve sapere che le nuove istanze di liberazione non potranno che ripercorrere con un segno opposto gli stessi sentieri lungo i quali si è consumata l’esperienza dell’opportunista e del cinico”.

di Andrea Cegna

www. youtube.com , 18 ottobre 2025 Intervista a Ana Nitu

Ascolta l’intervista realizzata in occasione della presentazione del libro Incognita K presso il Csoa Forte Prenestino del 24 ottobre 2025

www.dolcevitaonline.it, 15 agosto 2025 Cospirazioni in cassa dritta: la sfida dei free party 

I free party sono una sfida radicale alle fondamenta del capitalismo e al tentativo ossessivo dello Stato di controllare ogni forma di aggregazione sociale. Non stupisce quindi che i rave siano il principale bersaglio della narrazione mainstream e delle politiche repressive nostrane culminate nel Decreto AntiRave (d.l. 162/2022, poi art. 633-bis c.p.) e nel Decreto Sicurezza. 

La criminalizzazione del dissenso
La decretazione d’urgenza per i rave party come primo atto dell’esecutivo, ha sdoganato l’uso demagogico degli strumenti giuridici e l’estensione della punibilità a condotte disparate. L’introduzione nel codice penale di pene severe per organizzatori e promotori dei rave (da 3 a 6 anni di reclusione e multe elevate) ha dato inizio alla crociata contro ogni forma di dissenso, limitando peraltro libertà costituzionali come quelle di riunione. 
La limitazione delle libertà civili si è rafforzata con il successivo Decreto Sicurezza – con diversi profili di incostituzionalità secondo una recente relazione della Corte di Cassazione – mediante la previsione di nuovi reati e aggravanti che, pur non menzionando direttamente i rave, possono essere applicati a contesti simili o a qualsiasi forma di protesta e di aggregazione non autorizzata. Nonostante la morsa repressiva, i free party e il dissenso continuano a tracciare percorsi di libertà e di resistenza. 
Oggi come ieri infatti, l’adozione di leggi repressive, prima in Inghilterra (1994) e poi in Francia (2001) ha spinto la controcultura legata ai free party a unirsi, coordinarsi e a sviluppare una forte coscienza politica, portando a risultati opposti a quelli desiderati dai legislatori. In risposta al decreto anti-rave è nata Smash Repression, una rete nazionale tra le diverse realtà dissidenti, crew e sound system destinata a trasportare il battito pulsante della militanza dalle fabbriche in disuso e dai campi di periferia nelle strade e nelle piazze cittadine. La lotta si manifesta con le street parade: muri di casse montati su camion che in carovana bucano il tessuto urbano per cospirare la rivoluzione in cassa dritta e per proporre modi alternativi di divertimento, socializzazione e di militanza. 

I free party come alternativa solidale e autogestita
La matrice illegale dei rave pertanto non va confusa con l’intento primario di infrangere la legge, ma con la volontà di creare alternative vitali basate su solidarietà, autogestione e pratiche di riduzione del rischio, molto più efficaci in termini di sicurezza e di salute rispetto a qualsiasi intervento punitivo. 
Non sono solo feste, ma una vera e propria lotta di classe che rivendica e difende spazi di autonomia, riconsegnando alla comunità la capacità di autodeterminazione. La loro essenza infatti risiede nell’organizzazione orizzontale e nell’emancipazione dalle logiche capitalistiche che invece pervadono l’industria dell’intrattenimento. Inoltre come evidenziato da Tobia D’Onofrio in Rave New World. L’ultima controcultura (Agenzia X), i free party non sono fenomeni isolati, ma si inseriscono in una tradizione millenaria di rituali collettivi che trascendono l’ordinario. Affondano le loro radici nelle feste dionisiache dell’antica Grecia e nei misteri di Eleusi, dimostrando un desiderio umano intrinseco di riunirsi e danzare per accedere allo straordinario. 

Riduzione del rischio e del danno
L’elemento psichedelico e mistico, spesso indotto dall’uso di sostanze, era caratteristico di queste esperienze e lo è anche per i free party, tuttavia i rave sono uno dei pochi spazi dove si pratica un uso consapevole delle sostanze grazie alla presenza costante di presidi per la riduzione del danno (RDD) e la riduzione del rischio (RDR). La RDD e la RDR sono pratiche essenziali all’interno della scena dei free party e più in generale nei contesti di consumo di sostanze, avendo l’obiettivo di tutelare la salute e il benessere delle persone presenti alla festa. La riduzione del rischio agisce a monte, puntando a massimizzare i benefici ricreativi e a prevenire i pericoli legati all’uso di sostanze o a comportamenti a rischio, attraverso informazione, prevenzione e consigli per un consumo più sicuro (per esempio, uso di pippotti puliti, test di dosaggio, analisi delle sostanze). La riduzione del danno, invece, si applica al consumo già in atto, mirando a minimizzare le conseguenze negative fisiche, psicologiche e sociali senza richiedere necessariamente l’interruzione del consumo, migliorando così la qualità della vita delle persone. 
Storicamente, il consumo di sostanze è un fenomeno antico e complesso, influenzato non solo da fattori scientifici ma anche da dinamiche socio-politiche. Le droghe socialmente accettate (alcol, tabacco) tendono a essere quelle che alimentano l’economia, mentre quelle legate a culture marginali o rivoluzionarie sono stigmatizzate e represse. 
Nei free party la presenza di pratiche di riduzione del rischio rendono effettivo il Triangolo di Zinberg (1986) che evidenzia come l’esperienza con le sostanze dipenda da tre fattori interdipendenti: la sostanza, l’individuo e il contesto fisico e sociale, quest’ultimo capace di fornire una regolazione sociale del consumo, a differenza del proibizionismo che isola e stigmatizza. 
Nei free party, i collettivi Rdd/Rdr colmano il vuoto istituzionale offrendo supporto concreto, con pratiche come: 
– Mappatura del luogo per individuare spazi adatti a banchetti informativi, laboratori e aree chill out. 
– Banchetto con distribuzione di materiali informativi, pippotti puliti, soluzioni saline, chewing gum, carta stagnola, preservativi, acqua e cibo. Un esempio è il progetto itinerante “Famigliatek” che promuove la Rdr autofinanziandosi. 
– Laboratorio di drug checking per l’analisi anonima delle sostanze, fondamentale per informare sui rischi reali e monitorare il mercato, con analisi qualitative e quantitative. 
– Chill out, uno spazio di decompressione lontano dal sound, per riposare e ricevere supporto psicologico (“psycare”). 
– Primo soccorso per gestire emergenze dovute a mix pericolosi o sovradosaggi, spesso trascurate dai servizi medici tradizionali. 
– Informazione sui mix pericolosi, ad esempio sui rischi di combinare alcol con ketamina o stimolanti, cruciale per la sicurezza. 
Gli operatori Rdd/Rdr svolgono ruoli molteplici (psicologi, assistenti sociali, amici, educatori) e si basano su un approccio “peer” di empatia profonda, provenendo dagli stessi contesti e creando uno spazio sicuro di fiducia e supporto, lontano da giudizi e tabù. 
Queste pratiche si scontrano con politiche proibizioniste e repressione, rendendo gli operatori anche attivisti antiproibizionisti. La mancanza di supporto istituzionale rende la loro azione ancora più vitale. 
Il rave tesse una tela relazionale e pulsionale capace di generare quei “riti dionisiaci” descritti da Lapassade e che si materializzano nelle “zone temporaneamente autonome” (TAZ) di Hakim Bey, ovvero in micro-sistemi indipendenti che si sottraggono al controllo dello Stato per sperimentare comunità di pratiche autonome e autogestite. 
La definizione di rave come “invasioni arbitrarie”, adottata nel codice penale, risulta essere una distorsione semantica, essendo questi la manifestazione tangibile dell’attitudine controculturale che disegna immaginari futuri, i cui schizzi sono abbozzati nel presente mediante la riappropriazione di spazi, spesso abbandonati, per conferire loro un significato antitetico ai modelli dominanti di consumo e di controllo. La loro criminalizzazione è un tentativo deliberato di annichilire una pratica che, attraverso l’autogestione, si solleva contro la mercificazione della cultura e l’egemonia degli eventi commerciali. Il rave, in questo contesto, emerge come una vera e propria lotta di classe volta a creare e a difendere spazi di autonomia e di autodeterminazione. 
Gli Spiral Tribe, crew fondativa della scena free party, urlavano contro le politiche thatcheriane “You might stop the party but you can’t stop the future”, perché il dissenso trova le sue comunità di pratica come testimonia il libro Incognita K. Free tekno e cospirazioni in cassa dritta di Ana Nitu, recentemente pubblicato da Agenzia X. Nel libro-ragnatela di storie individuali e collettive, saggi e testimonianze ridisegnano un presente fatto a brandelli dalla psicosi del controllo e della repressione, rafforzando l’azione diretta e la militanza a suon di tekno. 
Di fronte a un sistema che ammanetta la libertà di espressione e manganella il dissenso, la cospirazione in cassa dritta non è solo la “lotta” per i free party, ma la battaglia contro il proibizionismo ideologico che soffoca le forze generatrici di possibilità, lasciando impunite le forze distruttive del capitalismo.

Elisa Fosforino

Ulisseonline.it, 11 agosto 2025 InKognita, free tekno e cospirazioni in cassa dritta 

Intervistare Ana è stato un grande privilegio. Mi sento particolarmente legata ad Ana, perché siamo due grandi giovani legate alla cultura del sound system. Siamo due ragazze nate nella provincia terrona, dell’agronocerinosarnese più precisamente, e abbiamo fatto anche lo stesso liceo. Ma chi è Ana e di cosa parla il suo racconto? Ana Nitu è attiva nella controcultura di FreeParty è laureata in Estetica, scrittrice e fotografa. Incognita K è la sua prima pubblicazione, nata dalla costola di una fanzine autoprodotta. 

Cosa ti ha spinto a partorire questo libro? 
Questo libro nasce come una fanzine cucita a mano, mossa dall’esigenza di riappropriarsi della propria storia e del proprio immaginario. L’esistenza stessa di questo libro pone le sue radici in una volontà di autonarrazione politica e personale. Infatti, il libro è, prima di tutto, un racconto generazionale che vive e parte da un’esigenza di cristallizzazione. Sui FreeParty esiste già una bella produzione culturale, anche di natura storica e antropologica. La differenza di Incognita K però è che prende forma a partire dalla scena presente italiana e campana, dal nostro tempo, dalle nostre esperienze vive e vissute. Anche perché gli ultimi tre anni sono stati segnati dal decreto anti-rave, il 633-bis, quindi c’è stato inevitabilmente un prima e un dopo il famigerato Witchtek di Modena… Ecco, Incognita K prende le mosse soprattutto da lì, da questa realtà distopica e opprimente che negli ultimi anni ha incalzato sempre di più. Quindi il libro parla di questa controcultura – e non sottocultura, attenzione –, dei suoi viaggi, delle sue lotte e delle sue resistenze in un contesto storico ben preciso che ha ulteriormente criminalizzato la festa. Diciamo che ha compiuto un moto inverso: non dalla teoria alla prassi, ma dalla prassi alla teoria, partendo dall’immanenza del vissuto, della carne. 

Il posizionamento del libro è politico perché risponde, per l’appunto, a un preciso quadro storico che ha portato ad un cambiamento nel mondo dei FreeParty. Ci vuoi spiegare meglio questo? 
Ci sono tre tappe storiche fondamentali che vanno inquadrate e che hanno decisamente colpito, sì, i FreeParty, ma non solo… La prima è il periodo della pandemia e il suo seguito; la seconda è il 663bis, ovvero il decreto anti-rave che, di fatti, ha reso i FreeParty punibili con il carcere; la terza è il nuovo decreto sicurezza che, in qualche modo, il 633-bis aveva anticipato. Ecco, questi tre eventi insieme hanno determinato un disegno politico ben preciso che ha esacerbato tutte le tecniche psicopolitiche basate sul controllo, sulla repressione e sulla violenza come monopolio dello Stato e che ogni giorno diventano sempre più imperanti. Incognita K ha preso forma proprio in questo arco temporale che, nonostante la gravità della situazione, ha comunque visto esplodere la magia della reazione, soprattutto con la nascita di Smash Repression, questo contenitore meticcio nazionale e intersezionale che non ha unito solo le tribe e le crew tekno, ma anche tutte quelle collettività e soggettività che, con grande lucidità e immediatezza, hanno saputo intravedere nel 633-bis il pericolo di un attacco più ampio a qualsiasi esperienza di autodeterminazione. Infatti, non è un caso che un governo di destra abbia scelto la festa come primo bersaglio da attaccare. La Storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa, non è la prima volta e non sarà l’ultima: dai riti dionisiaci ai Baccanali, per arrivare all’Inghilterra del periodo thatcheriano e degli anni Novanta, passando per la Francia dei primi anni Duemila, la Storia pullula di divieti e repressioni della festa e della festività intesa come stato dell’essere, prima ancora che come sound e bpm… Colpire la festa significa colpire, per contenere, una forza dirompente, un moto perpetuo di liberazione e trasformazione della quotidianità, sebbene sia un’intensificazione di quest’ultima. La musica non è mai stata solo musica perché si è sempre configurata come un agente di cambiamento che ha avuto la capacità di impattare interi tessuti sociali, creando campi energetici ed espandendo quelli della libertà e dell’autonomia. E non è un caso che la maggior parte delle innovazioni musicali che hanno rivoluzionato e sovvertito il corso lineare degli eventi ci siano arrivate da chi ha sempre vissuto ai margini o fuori dagli schemi dell’ordine e del potere costituito, dalla legalità istituzionalizzata… In questo senso i FreeParty sono anche delle tecniche di guerriglia artistico-musicale dove, prima di tutto, si sperimentano diversi modi di relazionarsi, di costruire nuove comunità di senso e di abitare, inteso come le differenti modalità attraverso cui l’essere umano riesce a permanere nel mondo. Il 633-bis è stato concepito in maniera molto furba e strategica perché l’invasione dei terreni e degli edifici era un reato già esistente, solo che è stato inserito all’interno dei reati contro l’incolumità pubblica. È una prerogativa di un governo di destra quella di creare il problema e di “risolverlo”, in un certo senso, per segnare goffamente una battuta di arresto rispetto ai governi precedenti accusati di lassismo, cacciando fuori il pugno di ferro, all’occorrenza… Soprattutto attraverso lo strumento della gogna pubblica, che prima di agire a livello giudiziario, agisce a livello mediatico, infatti i FreeParty sono stati pre-criminalizzati ancora prima che il governo emanasse il decreto, grazie alle dirette live di alcune testate giornalistiche che hanno contribuito a creare l’atmosfera perfetta per una lapidazione in piazza pubblica. È anche per questo che successivamente con Smash abbiamo ri-portato le feste nelle città, dalle periferie ai centri, riappropriandoci anche dello strumento delle street parade oltre a quello delle occupazioni temporanee… Come ha detto una mia amica, Gaia, durante la prima presentazione di Incognita K, la questione non è più quella di (ri)portare la militanza nei rave, ma raverizzare i militanti. 

Nel libro, la questione del “do-it-yourself” ha un ruolo centrale. Puoi spiegarcela meglio?
Il DIY non è un semplice slogan, è parte integrante dell’anima dell’underground, ed è nato ed esploso soprattutto con la scena punk. Ma è parte integrante anche dell’anima dell’inKognita, perché per me è stato fondamentale a livello personale, è stata una chiave che mi ha aiutato a cambiare la semantica della mia esistenza. Il periodo della pandemia mi aveva lasciato preda di un vuoto che non riuscivo più a riempire, fin a quando non ho incontrato le feste. Ogni volta che andavo in festa mi rendevo conto che tutt* contribuivano a creare quell’esplosione conflittuale di libido, intesa propria come energia psichica complessiva. A un certo punto ho avuto un’epifania perché mi sono ricordata che con le nostre mani possiamo dare forma alla materia secondo i nostri desideri. Il DIY ha significato per me avere una presa diretta e ostinata sulla realtà. È stato come diventare veramente autori della propria storia senza farla scrivere a qualcun altro, delegandogli il protagonismo inteso come autodeterminazione e forza agente… Se tutto fuori inneggiava alla distruzione, le feste e il DIY mi hanno spinto alla costruzione. Ed è certamente una questione pratica, fisica, ma anche alchemica, magica, perché DIY significa anche riscoprire la propria creatività e spiritualità, nonché la costruzione di legami basati su logiche totalmente diverse che riabilitano anche il rifiuto… Quindi il DIY non è solo un’alternativa, è l’alternativa… fare, costruire, intervenire attivamente sulla realtà ordinaria delle cose, creando. 

Già sfogliando l’indice ci si rende conto che coesistono più voci nel libro, come mai questa scelta? Infatti il nome sulla copertina lascia il tempo che trova perché all’inizio, prima che il libro inizi effettivamente, c’è anche un disclaimer che sottolinea che la lettura deve avvenire sempre al plurale. Incognita K è prima di tutto un’orchestra dissonante, un circo psichico autorganizzato, per citare Hakim Bey… è una polifonia. E non poteva essere diversamente perché l’intento era di costruirla come una festa: chiassosa, mai singola, sempre una moltitudine. Non è facile collocare il libro in un genere perché oscilla tra il romanzo e il saggio, infatti contiene racconti, interviste, restituzioni, divulgazione culturale, saggi quasi scientifico-filosofici, fotografie, flyer… Ogni testo ha la sua voce, il suo ritmo, il suo colore, ed è stato interessante vedere come ognuno, partendo dalle proprie esperienze personali, sia arrivato in un territorio comune dove siamo coagulati tutti in un nucleo di reciproco riconoscimento. E devo dire che, in questo, il dialogo con Agenzia X è stato importante perché mi ha ricordato quanto siamo importante lavorare sul e attraverso l’immaginario. C’è sempre bisogno di storie, forse oggi più che mai, proprio per far rivivere e prosperare l’immaginario, che poi, come il desiderio, è ciò che tiene insieme il piano utopico con quello del reale. In sintesi, diciamo che Incognita K, così come la festa, si dà come un dono, ovvero all’insegna della reciprocità e della corresponsabilizzazione. Il dono implica il mantenimento del ritmo del dare e del ricevere, e questo può avvenire solo nella forma della polifonia.

di Carlotta Catone

Danceland n. 2, summer 2025Incognita K, guerriglia artistica

Un testo critico che si pone dei quesiti su come evitare l’onda di demenza diffusa che si sta abbattendo sul nostro presente. Nella guerriglia artistica e musicale coagulano rivendicazioni, amori, dolori, dubbi, rabbie, sogni lisergici e piaceri sintetici. La politica si intreccia al godimento in una danza p/ossessiva dando vita a pianeti stroboscopici che oscillano tra neotribalismo e postumano, capaci di custodire ancora quella che forse è l’ultima utopia concreta rimasta. Incognita K è tutto questo e molto altro. Il volume è arricchito da un ampio apparato iconografico che include fotografie, flyer e manifesti.

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