neutopiablog.org, 5 settembre 2024I pirati dei Navigli. Intervista corsara a Marco Philopat
“In the city there’s a thousand things I want to say to you” così cantava la band The Jam in una delle loro canzoni più famose, In the City (1977), dando il via insieme ad altre band punk a un filone generazionale di riscatto collettivo nella giungla urbana.
Come per l’Internazionale Situazionista, anche per i punx la città era il luogo di alienazione per eccellenza, un “solitario confino” per dirla con i The Members, ma proprio per questo bisogna trovare i modi per distruggerla dall’interno, creando comunità pirata che assaltassero le navi mercantili del presente.
Dall’Inghilterra, la febbre punk aveva infettato tutta l’Europa, Italia compresa, che lentamente aveva sviluppato una sua specifica “scena” con peculiarità riconosciute in tutto il mondo: la forte politicizzazione da una parte, e la possibilità di creare dei veri e propri spazi “pirata” in cui si condividessero musica, cultura e cospirazioni.
Questa epopea ci viene narrata da Marco Philopat, testimone e protagonista di quell’epoca, in Costretti a sanguinare (prima edizione del 1997), la storia del punk/hardcore milanese fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, e in particolare del “Virus” di via Correggio, uno spazio occupato solo da punx.
Questo spazio viene sgomberato nel 1984, ma invece di fermarsi, i punx si diffondono in tutta la città, sperimentando nuovi saperi, dal cyberpunk e l’etica hacker alla letteratura, con il supporto di alcune leggende dei movimenti autonomi come Primo Moroni e Nanni Balestrini, attaccando nuovi bastimenti.
Questa seconda storia è narrata da Philopat in I pirati dei navigli. Dal punk al cyberpunk, uscito qualche anno fa per Bompiani e oggi ripubblicato da Agenzia X in edizione integrale.
Ne abbiamo parlato con l’autore proprio all’interno della sua Agenzia X, la casa editrice che, sempre citando i The Jam “wanna say, wanna tell you, about the young ideas.”
Ciao Marco, cominciamo da principio. Cosa ti ha spinto a scrivere “I pirati dei navigli”? Insomma, a riprendere in mano i fili di quella storia che si era interrotta con “Costretti a sanguinare”?
Con I Pirati dei navigli ho voluto raccontare il periodo che va più o meno dal 1984 fino al 1989, un periodo molto importante per la storia dei movimenti che non è quasi mai stato narrato. Nota questo: c’è una storiografia dei movimenti di contestazione che si chiude alla fine degli anni ’70, fra il sequestro Moro, l’omicidio di Fausto e Iaio e il teorema d’aprile del 1979. Poi c’è invece la storia del punk in Italia, una stagione che si apre nel ’77 e si approfondisce a inizio anni ’80, e di cui ho scritto io, ha scritto Roberto Perciballi in Come se nulla fosse (2003) e sono usciti tanti altri documenti importanti come Collezione di attimi sui Negazione o Schiavi nella città più libera del mondo di Laura Carroli e tanto altro. Insomma, quel periodo è stato mappato. Ma poi, dal 1984 al 1989, come se fino alla nascita del movimento della Pantera non ci fosse nulla, solo la Milano da Bere e la Milano da Pere, il socialismo craxiano e il PCI. Ecco, sentivo l’esigenza di riempire un buco, e parlare di esperienze che sono state importanti per i movimenti di lotta. Così nasce I Pirati dei navigli, un romanzo che non vuole essere autobiografico ma biografico, il racconto di una generazione, di un noi imprecisato, le creature simili appunto, o ancora meglio i pirati.
Cosa cambia dall’84 in poi? Come si sviluppano i movimenti che erano nati all’interno del Virus?
Direi “maturazione” e “contaminazione”. Il punk nasce come una cosa di strada, di giovani dai 16 ai 21 anni come ero io. Con il Virus incominciamo a consolidarci proprio come comunità: lo spazio diventa famoso in tutto il mondo, ci troviamo i nostri gruppi preferiti come i DOA a bussare alla nostra porta e chiederci di farli suonare, facciamo contestazioni, andiamo a Comiso contro la base militare, prendiamo un fracco di botte dalla polizia… Insomma, in quei quattro anni diventiamo un bel gruppo: ignoranti come capre eh, ma comunque un gruppo anarchico, antisessista, antispecista, antimilitarista. Ormai maturati, a 25-26 anni, ci contaminiamo con le “creature simili”, gli universitari, che chiamiamo così perché avevano fatto altre scelte di vita rispetto a noi che rifiutavamo famiglia, scuola, lavoro, ma che condividono con noi tensioni e intenti.
E questo succede nel 1984… Qual è il momento in cui questa “contaminazione” scatta?
La data fondamentale è il 4 aprile 1984. Quel giorno nel Palazzo della Provincia di Corso Monforte, a Milano, va in scena la conferenza stampa di presentazione de “Le bande giovanili: una realtà nella metropoli degli anni ’80” una indagine sociologica sui movimenti controculturali (punks, mods, metallari eccetera) redatta da sociologi legati al PCI e commissionata tra l’altro da un ente che lavorava sulla criminalità, che aiutava la polizia. Insomma ’sta cosa di venire “analizzati” ci sta sui coglioni, e quindi decidiamo di andare a contestarli, e a noi si uniscono per la prima volta gli universitari che finalmente si stavano svegliando dopo il grande sonno che dal ’78 fino all’84 aveva subito l’università. Ebbene, ci incontriamo e facciamo faville. Oltre a contestare la conferenza, a prenderli per il culo, ci tagliamo il petto con delle lamette e sporchiamo di sangue dei volantini che recitavano: “Questo è il nostro sangue, analizzatelo, scoprirete i nostri veri bisogni”. Il giorno dopo ne parlano tutti, e noi sempre per contestare i sociologi il sabato successivo occupiamo per una sera il Teatro di Porta Romana. Insomma, alleandoci con gli studenti di filosofia, di sociologia spacchiamo. Poi poco dopo arriva lo sgombero del Virus, e gli studenti arrivano a darci una mano contro la repressione. Incomincia un legame importante fra punx e studenti che sarà poi al centro dei fatti che racconto in I pirati dei navigli.
Arriviamo a questo, e partiamo dalla prima contaminazione, la letteratura… anzi, una libreria di movimento, la Calusca (via Calusca 18, Milano)…
Qui entra in scena un personaggio fondamentale, anzi a modo suo il tessitore della unione fra universitari e punk: Primo Moroni. Lo conosciamo durante l’occupazione del Teatro, perché viene lì a vederci mentre facciamo suonare i gruppi. Lì si comincia a interessare a noi, ci invita in Calusca, e inizialmente ci sembra strano frequentare ’sto posto che ci sembrava un po’ da vecchi comunisti, ma poco a poco cominciamo a sentirci a casa.
Primo fa da vero elemento di connessione fra noi e intellettuali e scrittori come Nanni Balestrini, e ci fa capire che le differenze non costruiscono solo confini, ma anche condivisione. Che possono essere preziose, insomma.
Ed è proprio in Calusca che nasce “Decoder”…
In Calusca, ma anche al Leocavallo con l’Helter Skelter, ci contaminiamo e ci apriamo a nuove influenze, una di queste è il cyberpunk, all’epoca qualcosa di decisamente moderno, di cui nessuno parlava, a parte i nostri due grandi riferimenti letterari, che erano Philip K. Dick da una parte e J. C. Ballard dall’altra. Noi sapevamo che il mondo stava cambiando, che le tecnologie si stavano evolvendo. Bisognava adeguarsi in qualche maniera e sovvertire quel mondo. Così nasce “Decoder”, una rivista che indaga sulle nuove tecnologie, sull’hacking e la sua etica che oggi, con i social i telefonini e tutto ’sto casino di tecnologia, è ancora più importante che mai. Il digitale era per noi come la scoperta dell’America, intere praterie abbandonate da occupare, per creare il nostro mondo e sovvertire quello del capitale. E ci siamo anche riusciti, fino a un certo punto. Pensa a Indymedia, che è nata anni prima dei social e che era completamente gestita in autonomia, era vero contropotere.
“Trasformare il mondo, cambiare la vita, appropriarsi dei mezzi di produzione”, tutto questo si avverte nei racconti delle tue esperienze. Cosa non è funzionato? Insomma oggi la Milano che descrivi non c’è più, via Correggio è una zona completamente diversa, i navigli sono fighetti (a parte il Cox18, la Calusca e via Gola che resistono alla gentrificazione). Cosa è andato storto?
Qui è sempre la solita questione: le avanguardie sono utopiche, aprono possibilità e immaginari nuovi perché si rendono conto che il mondo sta cambiando. Ma a seguire le orme dell’avanguardia c’è spesso qualche pesce cane che si prende la bella idea e la mette nel ciclo capitalista, la commercializza sostanzialmente.
Era già successo col punk: noi facevamo le battaglie per far suonare i gruppi musicali non solo nei grandi concerti ai palazzetti – che comunque non si facevano più per via degli scontri negli anni ’70 – ma in ogni bar, nei locali. A pensarci adesso, con tutto il casino che c’è, forse era proprio una pessima idea: voglio dire, ogni tanto penso “Guarda che cazzo di errore abbiamo fatto, saremmo dovuti rimanere a suonare nelle nostre cantine”, ma in quel momento ci sembrava una cosa rivoluzionaria, di riappropriazione degli spazi, mai avremmo pensato che oggi ti fanno spendere 30 euro per un concerto che magari vanno solo al locale e ai promoter e manco ai musicisti. “Panem et circensem”, si diceva, ma oggi di pane non ce n’è e il circo è estremamente frustrante con ’sti concertoni qui, i concertoni là, l’aperitivo dall’altra parte, senza mai il tempo di fermarsi a confabulare, a ribellarsi.
Stessa cosa con il digitale: avevamo praterie davanti, ma dietro di noi non abbiamo visto che stava arrivando un esercito di coloni, ovvero prima Microsoft, poi gli anarco-capitalisti, che tra l’altro oggi sono i padroni del mondo.
Questi anarco-capitalisti, Steve jobs, Elon Musk, Mark Zuckerberg, sono anzi la produzione stessa di quella prateria di libertà che noi credevamo di avere: noi eravamo spiriti liberi che credevamo nella socializzazione dei saperi, nel creare sapere senza fondare potere, e da quello sono arrivati loro a prendere potere senza creare sapere.
I situazionisti li chiamavano “recuperatori”, ed è quello che sono Bill Gates, Steve Jobs e…
I CCCP (risate, NdA).
Ecco la domanda che volevo evitare! Scherzi a parte… e oggi? Dove vedi sacche di utopia pirata? Cosa auspichi per esse?
La questione è che in città è veramente difficile ormai trovare pirateria, perché la città è inquinata totalmente da questa civiltà tecnologica capitalista. Bisogna innanzitutto tenere preziosi tutti i piccoli spazi di libertà che ci sono rimasti, come i centri sociali, e farli lavorare, tenerli aperti, organizzare iniziative che stimolino all’incontro, a rompere la solitudine e l’alienazione. Che è pervasiva, perché dal lavoro al concerto siamo sempre davanti al telefonino, al computer, facciamo fatica a creare relazioni con le persone. E questo crea depressione, che a sua volta crea altra solitudine e alienazione. E quindi serve creare delle esperienze di comunità, delle iniziative conviviali, dove si sta bene insieme e si può chiacchierare. Noi dovremmo tentare di trovare questi luoghi incontaminati, ecco, dove la convivialità sia il primo posto. Nei centri sociali si riesce, in strada pure, ma altrove come nei club diventa molto più difficile, perché roba come sponsor, bandi, in fondo tirano l’acqua al mulino della Milano anarco-capitalista. Però bisognerebbe anche farli ripigliare i centri sociali, perché a stare chiusi muoiono: devono stare aperti il più possibile, attirare la gente. C’è bisogno di mense popolari, ad esempio, con la fame che c’è in città, non di qualche mega cena di movimento ogni tanto. Non fare la pasta gourmet, cazzo te ne frega, fai pasta e fagioli, fai le lenticchie, non lo so, fai le insalate, cose che costano poco, a 5 euro. E così rispondi ai bisogni delle persone, crei comunità, come facevano le Black Panthers, come facevano e fanno i comitati di lotta per la casa. In ogni caso, la città non è tutto: con I pirati dei navigli mi piacerebbe fare un tour in provincia, perché Agenzia X ha sempre avuto lo sguardo rivolto alle periferie però alle province un po’ di meno, e io credo che probabilmente lì si è un po’ meno inquinata dalla follia della città. Quindi è un progetto che vorrei inaugurare con questo libro e poi stimolare tutte le autrici e gli autori di Agenzia X di fare la stessa cosa. In ogni caso, le utopie pirata sono ancora possibili, il punto non è trovarle, ma costruirle insieme.
Profondo conoscitore delle controculture e dell’underground, Marco Philopat è uno dei personaggi di riferimento del punk italiano. Ha fondato due case editrici: ShaKe Edizioni e Agenzia X, e pubblicato i romanzi Costretti a sanguinare,La banda Bellini e Lumi di punk.
Come per l’Internazionale Situazionista, anche per i punx la città era il luogo di alienazione per eccellenza, un “solitario confino” per dirla con i The Members, ma proprio per questo bisogna trovare i modi per distruggerla dall’interno, creando comunità pirata che assaltassero le navi mercantili del presente.
Dall’Inghilterra, la febbre punk aveva infettato tutta l’Europa, Italia compresa, che lentamente aveva sviluppato una sua specifica “scena” con peculiarità riconosciute in tutto il mondo: la forte politicizzazione da una parte, e la possibilità di creare dei veri e propri spazi “pirata” in cui si condividessero musica, cultura e cospirazioni.
Questa epopea ci viene narrata da Marco Philopat, testimone e protagonista di quell’epoca, in Costretti a sanguinare (prima edizione del 1997), la storia del punk/hardcore milanese fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, e in particolare del “Virus” di via Correggio, uno spazio occupato solo da punx.
Questo spazio viene sgomberato nel 1984, ma invece di fermarsi, i punx si diffondono in tutta la città, sperimentando nuovi saperi, dal cyberpunk e l’etica hacker alla letteratura, con il supporto di alcune leggende dei movimenti autonomi come Primo Moroni e Nanni Balestrini, attaccando nuovi bastimenti.
Questa seconda storia è narrata da Philopat in I pirati dei navigli. Dal punk al cyberpunk, uscito qualche anno fa per Bompiani e oggi ripubblicato da Agenzia X in edizione integrale.
Ne abbiamo parlato con l’autore proprio all’interno della sua Agenzia X, la casa editrice che, sempre citando i The Jam “wanna say, wanna tell you, about the young ideas.”
Ciao Marco, cominciamo da principio. Cosa ti ha spinto a scrivere “I pirati dei navigli”? Insomma, a riprendere in mano i fili di quella storia che si era interrotta con “Costretti a sanguinare”?
Con I Pirati dei navigli ho voluto raccontare il periodo che va più o meno dal 1984 fino al 1989, un periodo molto importante per la storia dei movimenti che non è quasi mai stato narrato. Nota questo: c’è una storiografia dei movimenti di contestazione che si chiude alla fine degli anni ’70, fra il sequestro Moro, l’omicidio di Fausto e Iaio e il teorema d’aprile del 1979. Poi c’è invece la storia del punk in Italia, una stagione che si apre nel ’77 e si approfondisce a inizio anni ’80, e di cui ho scritto io, ha scritto Roberto Perciballi in Come se nulla fosse (2003) e sono usciti tanti altri documenti importanti come Collezione di attimi sui Negazione o Schiavi nella città più libera del mondo di Laura Carroli e tanto altro. Insomma, quel periodo è stato mappato. Ma poi, dal 1984 al 1989, come se fino alla nascita del movimento della Pantera non ci fosse nulla, solo la Milano da Bere e la Milano da Pere, il socialismo craxiano e il PCI. Ecco, sentivo l’esigenza di riempire un buco, e parlare di esperienze che sono state importanti per i movimenti di lotta. Così nasce I Pirati dei navigli, un romanzo che non vuole essere autobiografico ma biografico, il racconto di una generazione, di un noi imprecisato, le creature simili appunto, o ancora meglio i pirati.
Cosa cambia dall’84 in poi? Come si sviluppano i movimenti che erano nati all’interno del Virus?
Direi “maturazione” e “contaminazione”. Il punk nasce come una cosa di strada, di giovani dai 16 ai 21 anni come ero io. Con il Virus incominciamo a consolidarci proprio come comunità: lo spazio diventa famoso in tutto il mondo, ci troviamo i nostri gruppi preferiti come i DOA a bussare alla nostra porta e chiederci di farli suonare, facciamo contestazioni, andiamo a Comiso contro la base militare, prendiamo un fracco di botte dalla polizia… Insomma, in quei quattro anni diventiamo un bel gruppo: ignoranti come capre eh, ma comunque un gruppo anarchico, antisessista, antispecista, antimilitarista. Ormai maturati, a 25-26 anni, ci contaminiamo con le “creature simili”, gli universitari, che chiamiamo così perché avevano fatto altre scelte di vita rispetto a noi che rifiutavamo famiglia, scuola, lavoro, ma che condividono con noi tensioni e intenti.
E questo succede nel 1984… Qual è il momento in cui questa “contaminazione” scatta?
La data fondamentale è il 4 aprile 1984. Quel giorno nel Palazzo della Provincia di Corso Monforte, a Milano, va in scena la conferenza stampa di presentazione de “Le bande giovanili: una realtà nella metropoli degli anni ’80” una indagine sociologica sui movimenti controculturali (punks, mods, metallari eccetera) redatta da sociologi legati al PCI e commissionata tra l’altro da un ente che lavorava sulla criminalità, che aiutava la polizia. Insomma ’sta cosa di venire “analizzati” ci sta sui coglioni, e quindi decidiamo di andare a contestarli, e a noi si uniscono per la prima volta gli universitari che finalmente si stavano svegliando dopo il grande sonno che dal ’78 fino all’84 aveva subito l’università. Ebbene, ci incontriamo e facciamo faville. Oltre a contestare la conferenza, a prenderli per il culo, ci tagliamo il petto con delle lamette e sporchiamo di sangue dei volantini che recitavano: “Questo è il nostro sangue, analizzatelo, scoprirete i nostri veri bisogni”. Il giorno dopo ne parlano tutti, e noi sempre per contestare i sociologi il sabato successivo occupiamo per una sera il Teatro di Porta Romana. Insomma, alleandoci con gli studenti di filosofia, di sociologia spacchiamo. Poi poco dopo arriva lo sgombero del Virus, e gli studenti arrivano a darci una mano contro la repressione. Incomincia un legame importante fra punx e studenti che sarà poi al centro dei fatti che racconto in I pirati dei navigli.
Arriviamo a questo, e partiamo dalla prima contaminazione, la letteratura… anzi, una libreria di movimento, la Calusca (via Calusca 18, Milano)…
Qui entra in scena un personaggio fondamentale, anzi a modo suo il tessitore della unione fra universitari e punk: Primo Moroni. Lo conosciamo durante l’occupazione del Teatro, perché viene lì a vederci mentre facciamo suonare i gruppi. Lì si comincia a interessare a noi, ci invita in Calusca, e inizialmente ci sembra strano frequentare ’sto posto che ci sembrava un po’ da vecchi comunisti, ma poco a poco cominciamo a sentirci a casa.
Primo fa da vero elemento di connessione fra noi e intellettuali e scrittori come Nanni Balestrini, e ci fa capire che le differenze non costruiscono solo confini, ma anche condivisione. Che possono essere preziose, insomma.
Ed è proprio in Calusca che nasce “Decoder”…
In Calusca, ma anche al Leocavallo con l’Helter Skelter, ci contaminiamo e ci apriamo a nuove influenze, una di queste è il cyberpunk, all’epoca qualcosa di decisamente moderno, di cui nessuno parlava, a parte i nostri due grandi riferimenti letterari, che erano Philip K. Dick da una parte e J. C. Ballard dall’altra. Noi sapevamo che il mondo stava cambiando, che le tecnologie si stavano evolvendo. Bisognava adeguarsi in qualche maniera e sovvertire quel mondo. Così nasce “Decoder”, una rivista che indaga sulle nuove tecnologie, sull’hacking e la sua etica che oggi, con i social i telefonini e tutto ’sto casino di tecnologia, è ancora più importante che mai. Il digitale era per noi come la scoperta dell’America, intere praterie abbandonate da occupare, per creare il nostro mondo e sovvertire quello del capitale. E ci siamo anche riusciti, fino a un certo punto. Pensa a Indymedia, che è nata anni prima dei social e che era completamente gestita in autonomia, era vero contropotere.
“Trasformare il mondo, cambiare la vita, appropriarsi dei mezzi di produzione”, tutto questo si avverte nei racconti delle tue esperienze. Cosa non è funzionato? Insomma oggi la Milano che descrivi non c’è più, via Correggio è una zona completamente diversa, i navigli sono fighetti (a parte il Cox18, la Calusca e via Gola che resistono alla gentrificazione). Cosa è andato storto?
Qui è sempre la solita questione: le avanguardie sono utopiche, aprono possibilità e immaginari nuovi perché si rendono conto che il mondo sta cambiando. Ma a seguire le orme dell’avanguardia c’è spesso qualche pesce cane che si prende la bella idea e la mette nel ciclo capitalista, la commercializza sostanzialmente.
Era già successo col punk: noi facevamo le battaglie per far suonare i gruppi musicali non solo nei grandi concerti ai palazzetti – che comunque non si facevano più per via degli scontri negli anni ’70 – ma in ogni bar, nei locali. A pensarci adesso, con tutto il casino che c’è, forse era proprio una pessima idea: voglio dire, ogni tanto penso “Guarda che cazzo di errore abbiamo fatto, saremmo dovuti rimanere a suonare nelle nostre cantine”, ma in quel momento ci sembrava una cosa rivoluzionaria, di riappropriazione degli spazi, mai avremmo pensato che oggi ti fanno spendere 30 euro per un concerto che magari vanno solo al locale e ai promoter e manco ai musicisti. “Panem et circensem”, si diceva, ma oggi di pane non ce n’è e il circo è estremamente frustrante con ’sti concertoni qui, i concertoni là, l’aperitivo dall’altra parte, senza mai il tempo di fermarsi a confabulare, a ribellarsi.
Stessa cosa con il digitale: avevamo praterie davanti, ma dietro di noi non abbiamo visto che stava arrivando un esercito di coloni, ovvero prima Microsoft, poi gli anarco-capitalisti, che tra l’altro oggi sono i padroni del mondo.
Questi anarco-capitalisti, Steve jobs, Elon Musk, Mark Zuckerberg, sono anzi la produzione stessa di quella prateria di libertà che noi credevamo di avere: noi eravamo spiriti liberi che credevamo nella socializzazione dei saperi, nel creare sapere senza fondare potere, e da quello sono arrivati loro a prendere potere senza creare sapere.
I situazionisti li chiamavano “recuperatori”, ed è quello che sono Bill Gates, Steve Jobs e…
I CCCP (risate, NdA).
Ecco la domanda che volevo evitare! Scherzi a parte… e oggi? Dove vedi sacche di utopia pirata? Cosa auspichi per esse?
La questione è che in città è veramente difficile ormai trovare pirateria, perché la città è inquinata totalmente da questa civiltà tecnologica capitalista. Bisogna innanzitutto tenere preziosi tutti i piccoli spazi di libertà che ci sono rimasti, come i centri sociali, e farli lavorare, tenerli aperti, organizzare iniziative che stimolino all’incontro, a rompere la solitudine e l’alienazione. Che è pervasiva, perché dal lavoro al concerto siamo sempre davanti al telefonino, al computer, facciamo fatica a creare relazioni con le persone. E questo crea depressione, che a sua volta crea altra solitudine e alienazione. E quindi serve creare delle esperienze di comunità, delle iniziative conviviali, dove si sta bene insieme e si può chiacchierare. Noi dovremmo tentare di trovare questi luoghi incontaminati, ecco, dove la convivialità sia il primo posto. Nei centri sociali si riesce, in strada pure, ma altrove come nei club diventa molto più difficile, perché roba come sponsor, bandi, in fondo tirano l’acqua al mulino della Milano anarco-capitalista. Però bisognerebbe anche farli ripigliare i centri sociali, perché a stare chiusi muoiono: devono stare aperti il più possibile, attirare la gente. C’è bisogno di mense popolari, ad esempio, con la fame che c’è in città, non di qualche mega cena di movimento ogni tanto. Non fare la pasta gourmet, cazzo te ne frega, fai pasta e fagioli, fai le lenticchie, non lo so, fai le insalate, cose che costano poco, a 5 euro. E così rispondi ai bisogni delle persone, crei comunità, come facevano le Black Panthers, come facevano e fanno i comitati di lotta per la casa. In ogni caso, la città non è tutto: con I pirati dei navigli mi piacerebbe fare un tour in provincia, perché Agenzia X ha sempre avuto lo sguardo rivolto alle periferie però alle province un po’ di meno, e io credo che probabilmente lì si è un po’ meno inquinata dalla follia della città. Quindi è un progetto che vorrei inaugurare con questo libro e poi stimolare tutte le autrici e gli autori di Agenzia X di fare la stessa cosa. In ogni caso, le utopie pirata sono ancora possibili, il punto non è trovarle, ma costruirle insieme.
Profondo conoscitore delle controculture e dell’underground, Marco Philopat è uno dei personaggi di riferimento del punk italiano. Ha fondato due case editrici: ShaKe Edizioni e Agenzia X, e pubblicato i romanzi Costretti a sanguinare,La banda Bellini e Lumi di punk.
Luca Gringieri