http://francotirature.blogspot.com, 25 dicembre 2010Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza
È proprio il caso di dirlo: su certi autori El Aleph ci ha sempre visto lungo. Era il novembre 2007 quando sul numero 7 veniva pubblicato il racconto Le aste di Roberto Mandracchia.
A tre anni esatti di distanza ci troviamo tra le mani il suo primo romanzo e quel che viene da chiedersi in questi casi è da dove cominciare. Sempre difficili, gli incipit, quando si deve dissertare su qualcosa.
Ma per questa Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza è tutto più semplice: questo è un romanzo che non inizia mai.
Basta prendere la scena d’esordio, in cui l’anonimo protagonista spegne la sigaretta sulla spalla di Marta, e confrontarla col resto del libro per rendersi conto che si è di fronte soltanto a uno dei brandelli strappati con violenza dal corpo esistenziale del narrato. Non è un gigante che va crescendo man mano che cammina, questa storia, non ha la pretesa di formarsi di pagina in pagina per poi dar vita a una storia unitaria: Mandracchia disseziona il cadavere del vissuto adolescenziale universale scegliendo con precisione da medico legale (un po’ come la intendeva Hippolyte Taine) il taglio da tracciare. Se non fosse per i richiami alla prigionia che condurrà il lettore sino all’inevitabile epilogo, si potrebbe avere proprio la sensazione di trovarsi dinanzi ai cocci sparsi di un vaso di cristallo scaraventato violentemente contro il muro.
Le microstorie narrate pagina per pagina sono arti espunti e poi scagliati con veemenza nel gorgo biancastro della carta sotto la lente d’ingrandimento del nichilismo, dell’iperbole negativista, del cinismo estremo e senza vie di mezzo.
Mandracchia dà vita a un caotico Grand Guignol dell’esistenza attraverso gli occhi rabbiosi e sfibrati di un io narrante che fagocita e vomita il mondo circostante dopo la centrifuga. I mali della generazione Y (passatemi la semplicistica dicitura sociologica) escono allo scoperto dalla prosa scarnita ed essenziale sulla quale galoppa il romanzo in piccole frasi lapidarie del tipo: “Io continuo a rigettare tutto il niente che ho dentro”.
Tutto questo si svolge sul palcoscenico di una Agrigento travestita da Garogenti, che è come un girone infernale in cui s’innesta il girotondo masochistico dei tre protagonisti principali, l’io narrante, Marta, figura cinica e quasi stirneriana della quale il protagonista è innamorato, e Gero. Garogenti è il ricettacolo di tutti i mali, la pista da ballo sulla quale si consuma l’esiziale fandango delle finzioni umane, dalle amicizie evanescenti e insincere ai rapporti matrimoniali marciti nell’ipocrisia del mantenere le apparenze. C’è del pirandelliano (e forse era inevitabile) nel gioco di maschere che tira le fila dei personaggi del romanzo: ma quanto di pirandelliano c’è in Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza viene letteralmente asfaltato dal caterpillar del nichilismo, del torbidume che anima queste laide figure prive di ideali fermi o sentimenti positivi, o fin troppo disilluse per lasciarvi spazio. Nulla si salva, nulla ha possibilità di redenzione: né la lotta politico-ideologica, né i valori tradizionali, né i sentimenti puri, né lo spirito. Tanto meno Dio: “Mia madre dice sempre che tutto il mondo, compresi noi patetici individui, è frutto di un disegno intelligente del Creatore. Sarei curioso di conoscere il quoziente intellettivo di Dio. Davvero”.
La narrazione si dipana in un frammischiarsi dei piani temporali e spaziali, e il rischio è grosso per un autore così giovane: ciò nonostante, Mandracchia riesce ad alternare con sapienza le parti di cui si compone il romanzo, che si succedono l’una all’altra come sequenze cinematografiche, divise da dissolvenze policromatiche, repentine interruzioni della dinamica degli eventi e intermezzate da considerazioni nette e lapidarie su Garogenti o da aneddoti adolescenziali ambientati tra la strada e il liceo. Non mancano le digressioni oniriche a rendere ancora più ossessivo il senso di vuoto e di tormento che trascolora le cose: i sogni sono spesso, in letteratura, strumenti atti a caricare di valenza simbolica il narrato, e in questo romanzo il loro uso non assume valenza diversa: “Vedo in sogno tre scimmiette e tutte e tre hanno un volto umano. Io non parlo; Marta non sente; Gero non vede”.
Mandracchia qui sintetizza la fragilità delle relazioni umane intrecciando l’adolescenza con l’indefettibile sicilianità dal quale lui stesso, agrigentino di nascita e formazione, non può esimersi.
Questa commistione dell’elemento “umano” con quello meramente “siciliano” si manifesta in tutta la sua potenza in un passo in cui il protagonista e Marta sono seduti sul ramo di un ulivo saraceno e lei racconta l’omicidio dei genitori da parte della mafia: “Le torsioni dell’albero, quegli spasmi che si accumulano da decenni, mi sembrano riverberare l’imbarazzante scattare a vuoto delle mie azioni. Il dolore del fallimento incessante. L’angoscia di non cambiare nulla, proprio nulla, di ciò che mi ha sempre assediato. E io ero sempre uguale a me stesso con un piede dentro una scatola che ormai stava andando in fiamme. Ero il calco di un calco di un calco di un calco di me stesso. Ero come una culla che pur muovendosi restava inchiodata al suolo”.
L’ulivo saraceno, arbusto tipico del paesaggio siculo, diviene simbolo catalizzatore di tutti gli elementi negativi che gravano sull’anima degli umani: il dolore tortuoso e inespresso, l’immutabilità delle cose, l’impotenza di fronte agli eventi, l’irredimibilità dell’essere di fronte al disegno prepotente dell’esistenza.
Il tutto condotto con ritmo musicale, per certi versi jazzistico, con leitmotiv sapientemente innestati (l’eterno ritorno su Garogenti, il mantrico ripetersi di formule come “quando dico noi intendo io e Marta”) come fossero standard dai quali dare il “La” all’improvvisazione.
Con una lingua scarna e ridotta ai minimi termini, Mandracchia dà vita a un romanzo recrudescente, a una narrazione che azzanna di episodio in episodio ( come già si potrebbe desumere dall’epigrafe di Jack London: non a caso il sottotitolo dell’opera doveva essere proprio “romanzo a morsi”), a una storia cruda e viscerale le cui pagine trasudano budella e trachee e umori interni che ribollono e si fanno parola come miasmi contaminatori.
E poco importa se il finale è per certi versi fin troppo prevedibile o scontato, perché il romanzo centra l’obiettivo di restituire al lettore nella maniera più vivida e cruda il ritratto di una generazione ridotta al nulla – ancor prima di essersi inverata nel tessuto intricato e fatiscente dell’esistenza, destinata a rimanere irrealizzata: “Siamo assenze rimandate. Ecco cosa siamo”.
di Gero MiccichèA tre anni esatti di distanza ci troviamo tra le mani il suo primo romanzo e quel che viene da chiedersi in questi casi è da dove cominciare. Sempre difficili, gli incipit, quando si deve dissertare su qualcosa.
Ma per questa Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza è tutto più semplice: questo è un romanzo che non inizia mai.
Basta prendere la scena d’esordio, in cui l’anonimo protagonista spegne la sigaretta sulla spalla di Marta, e confrontarla col resto del libro per rendersi conto che si è di fronte soltanto a uno dei brandelli strappati con violenza dal corpo esistenziale del narrato. Non è un gigante che va crescendo man mano che cammina, questa storia, non ha la pretesa di formarsi di pagina in pagina per poi dar vita a una storia unitaria: Mandracchia disseziona il cadavere del vissuto adolescenziale universale scegliendo con precisione da medico legale (un po’ come la intendeva Hippolyte Taine) il taglio da tracciare. Se non fosse per i richiami alla prigionia che condurrà il lettore sino all’inevitabile epilogo, si potrebbe avere proprio la sensazione di trovarsi dinanzi ai cocci sparsi di un vaso di cristallo scaraventato violentemente contro il muro.
Le microstorie narrate pagina per pagina sono arti espunti e poi scagliati con veemenza nel gorgo biancastro della carta sotto la lente d’ingrandimento del nichilismo, dell’iperbole negativista, del cinismo estremo e senza vie di mezzo.
Mandracchia dà vita a un caotico Grand Guignol dell’esistenza attraverso gli occhi rabbiosi e sfibrati di un io narrante che fagocita e vomita il mondo circostante dopo la centrifuga. I mali della generazione Y (passatemi la semplicistica dicitura sociologica) escono allo scoperto dalla prosa scarnita ed essenziale sulla quale galoppa il romanzo in piccole frasi lapidarie del tipo: “Io continuo a rigettare tutto il niente che ho dentro”.
Tutto questo si svolge sul palcoscenico di una Agrigento travestita da Garogenti, che è come un girone infernale in cui s’innesta il girotondo masochistico dei tre protagonisti principali, l’io narrante, Marta, figura cinica e quasi stirneriana della quale il protagonista è innamorato, e Gero. Garogenti è il ricettacolo di tutti i mali, la pista da ballo sulla quale si consuma l’esiziale fandango delle finzioni umane, dalle amicizie evanescenti e insincere ai rapporti matrimoniali marciti nell’ipocrisia del mantenere le apparenze. C’è del pirandelliano (e forse era inevitabile) nel gioco di maschere che tira le fila dei personaggi del romanzo: ma quanto di pirandelliano c’è in Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza viene letteralmente asfaltato dal caterpillar del nichilismo, del torbidume che anima queste laide figure prive di ideali fermi o sentimenti positivi, o fin troppo disilluse per lasciarvi spazio. Nulla si salva, nulla ha possibilità di redenzione: né la lotta politico-ideologica, né i valori tradizionali, né i sentimenti puri, né lo spirito. Tanto meno Dio: “Mia madre dice sempre che tutto il mondo, compresi noi patetici individui, è frutto di un disegno intelligente del Creatore. Sarei curioso di conoscere il quoziente intellettivo di Dio. Davvero”.
La narrazione si dipana in un frammischiarsi dei piani temporali e spaziali, e il rischio è grosso per un autore così giovane: ciò nonostante, Mandracchia riesce ad alternare con sapienza le parti di cui si compone il romanzo, che si succedono l’una all’altra come sequenze cinematografiche, divise da dissolvenze policromatiche, repentine interruzioni della dinamica degli eventi e intermezzate da considerazioni nette e lapidarie su Garogenti o da aneddoti adolescenziali ambientati tra la strada e il liceo. Non mancano le digressioni oniriche a rendere ancora più ossessivo il senso di vuoto e di tormento che trascolora le cose: i sogni sono spesso, in letteratura, strumenti atti a caricare di valenza simbolica il narrato, e in questo romanzo il loro uso non assume valenza diversa: “Vedo in sogno tre scimmiette e tutte e tre hanno un volto umano. Io non parlo; Marta non sente; Gero non vede”.
Mandracchia qui sintetizza la fragilità delle relazioni umane intrecciando l’adolescenza con l’indefettibile sicilianità dal quale lui stesso, agrigentino di nascita e formazione, non può esimersi.
Questa commistione dell’elemento “umano” con quello meramente “siciliano” si manifesta in tutta la sua potenza in un passo in cui il protagonista e Marta sono seduti sul ramo di un ulivo saraceno e lei racconta l’omicidio dei genitori da parte della mafia: “Le torsioni dell’albero, quegli spasmi che si accumulano da decenni, mi sembrano riverberare l’imbarazzante scattare a vuoto delle mie azioni. Il dolore del fallimento incessante. L’angoscia di non cambiare nulla, proprio nulla, di ciò che mi ha sempre assediato. E io ero sempre uguale a me stesso con un piede dentro una scatola che ormai stava andando in fiamme. Ero il calco di un calco di un calco di un calco di me stesso. Ero come una culla che pur muovendosi restava inchiodata al suolo”.
L’ulivo saraceno, arbusto tipico del paesaggio siculo, diviene simbolo catalizzatore di tutti gli elementi negativi che gravano sull’anima degli umani: il dolore tortuoso e inespresso, l’immutabilità delle cose, l’impotenza di fronte agli eventi, l’irredimibilità dell’essere di fronte al disegno prepotente dell’esistenza.
Il tutto condotto con ritmo musicale, per certi versi jazzistico, con leitmotiv sapientemente innestati (l’eterno ritorno su Garogenti, il mantrico ripetersi di formule come “quando dico noi intendo io e Marta”) come fossero standard dai quali dare il “La” all’improvvisazione.
Con una lingua scarna e ridotta ai minimi termini, Mandracchia dà vita a un romanzo recrudescente, a una narrazione che azzanna di episodio in episodio ( come già si potrebbe desumere dall’epigrafe di Jack London: non a caso il sottotitolo dell’opera doveva essere proprio “romanzo a morsi”), a una storia cruda e viscerale le cui pagine trasudano budella e trachee e umori interni che ribollono e si fanno parola come miasmi contaminatori.
E poco importa se il finale è per certi versi fin troppo prevedibile o scontato, perché il romanzo centra l’obiettivo di restituire al lettore nella maniera più vivida e cruda il ritratto di una generazione ridotta al nulla – ancor prima di essersi inverata nel tessuto intricato e fatiscente dell’esistenza, destinata a rimanere irrealizzata: “Siamo assenze rimandate. Ecco cosa siamo”.
http://lettereegiorni.blogspot.com, 21 dicembre 2010Roberto Mandracchia. Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza
“Qualsiasi cosa portata all’eccesso, contiene sempre il suo opposto.”
Avrei potuto recensire questo libro, immediatamente. Ultima pagina, giù con la penna.
Se ho scelto, invece, di non farlo e di attendere, è stato perché volevo un segnale che realmente mi desse la possibilità di cogliere ogni cosa. Il momento è arrivato sul regionale Bologna-Milano delle cinque e trenta del mattino, un breve viaggio tragicomico d’espiazione.
Il pensiero di dover ricorrere, in un così breve spazio, a una ripetizione, mi indispone, ma non posso far a meno di notare, come il lemma tragicomico sia particolarmente adeguato anche a descrivere alcuni dei tratti più peculiari (corrispondenti nella fattispecie ai luoghi e ai personaggi) di questo romanzo nichilista e, per certi versi, surrealista.
Quando partecipai all’incontro con Roberto Mandracchia, il giovane siculo autore del romanzo, già dalle prime letture delle poche pagine, fu facile percepire i toni nichilisti e autodistruttivi, la drammaticità parodistica, grottesca, respirabile, sia camminando per le strade di Garogenti, sia osservando i personaggi (soprattutto i comprimarii) legati alla vicenda.
Per scoprire la restante parte, ho avuto bisogno di molto più tempo. Ho dovuto, infatti, focalizzare la mia attenzione sulla relazione fisica, anche se del tutto platonica, tra il protagonista e Marta e, soprattutto, sulla maniera in cui si innesca la violenza, improvvisa e quasi sorprendente per l’agghiacciante crudezza.
Psichedelia come gocce di siero schizzate dall’ago di una siringa.
Tutto quel che ho gia detto riguardo all’incontro, resta, come resta il consiglio alla lettura di quest’opera prima.
Del resto come dice l’adagio popolare, chi ben comincia è a metà dell’opera e non posso far altro che attendere fibrillante la sua prossima fatica letteraria.
Buona lettura.
Avrei potuto recensire questo libro, immediatamente. Ultima pagina, giù con la penna.
Se ho scelto, invece, di non farlo e di attendere, è stato perché volevo un segnale che realmente mi desse la possibilità di cogliere ogni cosa. Il momento è arrivato sul regionale Bologna-Milano delle cinque e trenta del mattino, un breve viaggio tragicomico d’espiazione.
Il pensiero di dover ricorrere, in un così breve spazio, a una ripetizione, mi indispone, ma non posso far a meno di notare, come il lemma tragicomico sia particolarmente adeguato anche a descrivere alcuni dei tratti più peculiari (corrispondenti nella fattispecie ai luoghi e ai personaggi) di questo romanzo nichilista e, per certi versi, surrealista.
Quando partecipai all’incontro con Roberto Mandracchia, il giovane siculo autore del romanzo, già dalle prime letture delle poche pagine, fu facile percepire i toni nichilisti e autodistruttivi, la drammaticità parodistica, grottesca, respirabile, sia camminando per le strade di Garogenti, sia osservando i personaggi (soprattutto i comprimarii) legati alla vicenda.
Per scoprire la restante parte, ho avuto bisogno di molto più tempo. Ho dovuto, infatti, focalizzare la mia attenzione sulla relazione fisica, anche se del tutto platonica, tra il protagonista e Marta e, soprattutto, sulla maniera in cui si innesca la violenza, improvvisa e quasi sorprendente per l’agghiacciante crudezza.
Psichedelia come gocce di siero schizzate dall’ago di una siringa.
Tutto quel che ho gia detto riguardo all’incontro, resta, come resta il consiglio alla lettura di quest’opera prima.
Del resto come dice l’adagio popolare, chi ben comincia è a metà dell’opera e non posso far altro che attendere fibrillante la sua prossima fatica letteraria.
Buona lettura.
www.lesflaneurs.it, 29 novembre 2010Il sabotaggio dell’esistenza secondo Mandracchia
“L’adolescenza è l’epoca in cui l’esperienza la si conquista a morsi”. Sono queste le sante parole di Jack London che Roberto Mandracchia ha scelto come epigrafe per il suo Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza. Ed è proprio di questo genere di esperienza, sofferta e spesso autolesionista, che l’autore racconta nel suo libro. Lo fa gettando sul mondo uno sguardo crudo, condito da tocchi di comicità grottesca. E dice, senza troppi giri di parole, quanto può arrivare a fare schifo la vita di un ragazzo qualsiasi, come i circoli viziosi in cui ci si ritrova possano portarti in basso e la famiglia possa essere un buco nero di incomprensione e nevrosi. La storia, in fondo, dello scontro con l’amore, che facilmente nell’adolescenza diventa assoluto e senza via di uscita, trasformandosi nel suo contrario.
Roberto è nato ad Agrigento nel 1986 ed ha già pubblicato dei racconti in diverse antologie, ma questo è il suo primo romanzo. E forse anche per questo la struttura del testo non è lineare. La narrazione, infatti, procede per evocazioni apparentemente casuali di sprazzi di vita, che vengono fuori accompagnati da residui di percezioni tattilo-visive, riuscendo così a restituire bene quel genere di sensazioni che i ricordi si portano appresso. E sullo sfondo la voce del protagonista che si scandisce un inesorabile conto alla rovescia verso la morte.Nel leggere questa “Guida” mi sono venute in mente alcune domande, così le ho poste direttamente all’autore. Cogliendo l’occasione per conoscerlo un po’.
Ho letto il libro ed anche alcune recensioni che ne sono state fatte. La parola che compare più spesso è “nichilismo”. È usata anche nella quarta di copertina. A me però non sembra che il povero protagonista possa essere definito proprio nichilista. Direi che è sì, passivo, succube, ma piange, si incazza, si droga e si ubriaca, crede più volte di aver trovato la propria strada, ma si fa scoraggiare prima ancora di cominciare. E soprattutto ama e odia Marta con tutto se stesso (“qualsiasi cosa portata all’eccesso contiene sempre il suo opposto”), arrivando alla violenza disperata, come ultima possibile forma di espressione dei suoi sentimenti. Tutti atteggiamenti non così rari in quel periodo della vita e comunque segno di una frustrazione dei propri valori, più che di un’assenza di questi. Ma tu, in realtà, come lo volevi fare questo personaggio?
Il mio personaggio doveva essere – e, a giudicare dal contenuto della tua domanda, per fortuna è – una “spugna” (passivo, succube) con una ristretta capacità d’azione (piange, si incazza, beve e si droga parecchio) che comunque porta all’annullamento di sé (anche attraverso la violenza - più o meno verbale - nei confronti dell’Altro). Si è parlato di nichilismo, ma dal momento che mi piace scartare di lato nel romanzo ho voluto inserire la frase che hai citato. Niente è come sembra, di solito è la réclame dei film horror, ma dovrebbe essere anche quella della vita su questo pianeta. Quello descritto nel romanzo è un nichilismo forzato - spesso sforzato - condizionato dai soliti fattori esterni: famiglia, società, modo di governare dei potenti e persino il clima. Inoltre, ci vuole del coraggio nell’essere veri nichilisti e soltanto il tempo lo dimostra. Il tempo che poi è le scelte che ognuno fa e, in questo caso, non fa.
Lo sfondo delle azioni del romanzo è Garogenti, parodia grottesca di una città, che in realtà è la tua città di origine, Agrigento. Apatica, fintamente perbenista, immobile, meno viva dei suoi ruderi. La Sicilia sa essere così. Tu adesso vivi a Roma, è stata l’apatia a spingerti a partire?
Ritorna la frase “ogni cosa portata all’eccesso contiene sempre il suo opposto”, i riferimenti a Garogenti grondando odio e disgusto risultano anche essere una dichiarazione d’amore come ne La 25ora la tirata del protagonista sulla città di New York. Ciò che mi ha spinto a lasciare la mia città d’origine è stata la curiosità e anche l’apatia sì; anche se devo dire che Agrigento, negli ultimi anni, sta come rinascendo grazie all’apporto di chi è andato da un’altra parte e poi cerca di comunicare le esperienze (e intendo: libri, riviste, cortometraggi, musical) create altrove. Purtroppo quest’apporto nell’arco di un anno si limita a dei periodi ristretti: natale, pasqua e soprattutto l’estate. Quando chi vive fuori torna per le vacanze, in pratica. Chi rimane lì spesso non produce nient’altro che libri – il più delle volte stampati in proprio – che campeggiano accanto alla cassa delle edicole e manifestazioni culturali con i soliti ringraziamenti all’assessore Tizio e al presidente Caio. Parecchio presenzialismo e poca sostanza; “poca ciccia” direbbe un mio amico.
In una tua precedente intervista hai dichiarato che “un libro deve provocare scombussolamento, angoscia e disgusto nel lettore; non rassicurarlo”. Quest’idea della letteratura non è certo di moda in questo periodo...
C’è una bellissima canzone dei Quinto stato in cui ad un certo punto viene detto: “i miliardi sputtanati ogni anno in psicofarmaci”. Ecco, diciamo che è dura proporre qualcosa che provochi angoscia quando ogni anno vengono spesi tanti e tanti bei soldini in ansiolitici. Parecchi lettori mi hanno confidato incubi vividissimi subiti dopo aver letto il mio romanzo. Ma c’è da dire che anche per Guida pratica funziona la frase più citata in questa intervista e quindi, a mio parere, molte delle scene sono così grottesche che, come minimo, dovrebbero anche far sorridere il lettore. Un sorriso che può essere di sollievo, secondo la teoria di Aristotele sulla catarsi artistica.
C’è una scena del libro che mi ha colpito, quella in cui il “nostro” ritrova il senso del “PRODUCI CONSUMA CREPA”, di cccpiana memoria, nell’odore di una divisa del McDonald’s. Che significato ha per te quella frase?
Innanzitutto ascolti ripetuti dei CCCP, anche in questa sorta di veglia funebre per quello che un tempo era il loro leader: Giovanni Lindo Ferretti. Poi non condivido in pieno il mito del lavoro che nobilita l’uomo; forse alcuni lavori, la maggior parte lo debilita. E quindi si lavora soprattutto per consumare la fiumana continua di merci, non per progredire. Molti fanno finta che non sia così per non impazzire, presumo. Oggi poi, noi giovani, il lavoro – per giunta precario – lo dobbiamo elemosinare perché è stato stabilito di non farci più lavorare, e purtroppo non nel senso che auspico. E, dulcis in fundo, se sei fortunato smetti di lavorare quando hai un catetere infilato nell’uretra e non ti ricordi mai cosa hai fatto dieci minuti prima.
Dopo un conto alla rovescia di nove giorni, è da poco disponibile on line una versione scaricabile del tuo romanzo, sotto la licenza creative commons. Come mai questa scelta?
Lo strapotere di alcune case editrici (spesso gestite da manager specializzati nella gestione di altri settori che non quello editoriale) strozza le voci altre, impedisce il pluralismo che dovrebbe caratterizzare ogni tipo di offerta, soprattutto culturale. Il copyleft è come un megafono per queste voci e quindi è giusto che lo si usi, e se ne parli. Sinora tutto ciò che ho scritto è uscito sotto la licenza creative commons e ho intenzione di continuare finché me lo permetteranno. Per fortuna, la casa editrice del mio romanzo (Agenzia X) è una casa editrice “illuminata” in tal senso.
Nella tua biografia si legge che fai parte della redazione di TN, rivista della quale abbiamo già parlato qui. Pensi di poterci dare qualche anticipazione sul prossimo numero, che ovviamente “esce quando è pronto”?
Il prossimo numero di “Tn-scritture a sorgente libera” sarà il numero tre. Il comix stavolta ha una firma internazionale ed è previsto un “intervento armato” della misteriosa Cricca 33. Per quel che mi riguarda, curo una rubrica di recensioni del mondo materiale e dopo essermi occupato di crocefissi e francobolli “Gronchi rosa” stavolta dovrebbe toccare alla sputacchiera – sto già raccogliendo il materiale per scriverne, e mi diverte tanto – e posso anticiparti che trovo ingiusto non si usi più, dal momento che in giro c’è ancora tanta gente che scaracchia.
di Claudia PrimeranoRoberto è nato ad Agrigento nel 1986 ed ha già pubblicato dei racconti in diverse antologie, ma questo è il suo primo romanzo. E forse anche per questo la struttura del testo non è lineare. La narrazione, infatti, procede per evocazioni apparentemente casuali di sprazzi di vita, che vengono fuori accompagnati da residui di percezioni tattilo-visive, riuscendo così a restituire bene quel genere di sensazioni che i ricordi si portano appresso. E sullo sfondo la voce del protagonista che si scandisce un inesorabile conto alla rovescia verso la morte.Nel leggere questa “Guida” mi sono venute in mente alcune domande, così le ho poste direttamente all’autore. Cogliendo l’occasione per conoscerlo un po’.
Ho letto il libro ed anche alcune recensioni che ne sono state fatte. La parola che compare più spesso è “nichilismo”. È usata anche nella quarta di copertina. A me però non sembra che il povero protagonista possa essere definito proprio nichilista. Direi che è sì, passivo, succube, ma piange, si incazza, si droga e si ubriaca, crede più volte di aver trovato la propria strada, ma si fa scoraggiare prima ancora di cominciare. E soprattutto ama e odia Marta con tutto se stesso (“qualsiasi cosa portata all’eccesso contiene sempre il suo opposto”), arrivando alla violenza disperata, come ultima possibile forma di espressione dei suoi sentimenti. Tutti atteggiamenti non così rari in quel periodo della vita e comunque segno di una frustrazione dei propri valori, più che di un’assenza di questi. Ma tu, in realtà, come lo volevi fare questo personaggio?
Il mio personaggio doveva essere – e, a giudicare dal contenuto della tua domanda, per fortuna è – una “spugna” (passivo, succube) con una ristretta capacità d’azione (piange, si incazza, beve e si droga parecchio) che comunque porta all’annullamento di sé (anche attraverso la violenza - più o meno verbale - nei confronti dell’Altro). Si è parlato di nichilismo, ma dal momento che mi piace scartare di lato nel romanzo ho voluto inserire la frase che hai citato. Niente è come sembra, di solito è la réclame dei film horror, ma dovrebbe essere anche quella della vita su questo pianeta. Quello descritto nel romanzo è un nichilismo forzato - spesso sforzato - condizionato dai soliti fattori esterni: famiglia, società, modo di governare dei potenti e persino il clima. Inoltre, ci vuole del coraggio nell’essere veri nichilisti e soltanto il tempo lo dimostra. Il tempo che poi è le scelte che ognuno fa e, in questo caso, non fa.
Lo sfondo delle azioni del romanzo è Garogenti, parodia grottesca di una città, che in realtà è la tua città di origine, Agrigento. Apatica, fintamente perbenista, immobile, meno viva dei suoi ruderi. La Sicilia sa essere così. Tu adesso vivi a Roma, è stata l’apatia a spingerti a partire?
Ritorna la frase “ogni cosa portata all’eccesso contiene sempre il suo opposto”, i riferimenti a Garogenti grondando odio e disgusto risultano anche essere una dichiarazione d’amore come ne La 25ora la tirata del protagonista sulla città di New York. Ciò che mi ha spinto a lasciare la mia città d’origine è stata la curiosità e anche l’apatia sì; anche se devo dire che Agrigento, negli ultimi anni, sta come rinascendo grazie all’apporto di chi è andato da un’altra parte e poi cerca di comunicare le esperienze (e intendo: libri, riviste, cortometraggi, musical) create altrove. Purtroppo quest’apporto nell’arco di un anno si limita a dei periodi ristretti: natale, pasqua e soprattutto l’estate. Quando chi vive fuori torna per le vacanze, in pratica. Chi rimane lì spesso non produce nient’altro che libri – il più delle volte stampati in proprio – che campeggiano accanto alla cassa delle edicole e manifestazioni culturali con i soliti ringraziamenti all’assessore Tizio e al presidente Caio. Parecchio presenzialismo e poca sostanza; “poca ciccia” direbbe un mio amico.
In una tua precedente intervista hai dichiarato che “un libro deve provocare scombussolamento, angoscia e disgusto nel lettore; non rassicurarlo”. Quest’idea della letteratura non è certo di moda in questo periodo...
C’è una bellissima canzone dei Quinto stato in cui ad un certo punto viene detto: “i miliardi sputtanati ogni anno in psicofarmaci”. Ecco, diciamo che è dura proporre qualcosa che provochi angoscia quando ogni anno vengono spesi tanti e tanti bei soldini in ansiolitici. Parecchi lettori mi hanno confidato incubi vividissimi subiti dopo aver letto il mio romanzo. Ma c’è da dire che anche per Guida pratica funziona la frase più citata in questa intervista e quindi, a mio parere, molte delle scene sono così grottesche che, come minimo, dovrebbero anche far sorridere il lettore. Un sorriso che può essere di sollievo, secondo la teoria di Aristotele sulla catarsi artistica.
C’è una scena del libro che mi ha colpito, quella in cui il “nostro” ritrova il senso del “PRODUCI CONSUMA CREPA”, di cccpiana memoria, nell’odore di una divisa del McDonald’s. Che significato ha per te quella frase?
Innanzitutto ascolti ripetuti dei CCCP, anche in questa sorta di veglia funebre per quello che un tempo era il loro leader: Giovanni Lindo Ferretti. Poi non condivido in pieno il mito del lavoro che nobilita l’uomo; forse alcuni lavori, la maggior parte lo debilita. E quindi si lavora soprattutto per consumare la fiumana continua di merci, non per progredire. Molti fanno finta che non sia così per non impazzire, presumo. Oggi poi, noi giovani, il lavoro – per giunta precario – lo dobbiamo elemosinare perché è stato stabilito di non farci più lavorare, e purtroppo non nel senso che auspico. E, dulcis in fundo, se sei fortunato smetti di lavorare quando hai un catetere infilato nell’uretra e non ti ricordi mai cosa hai fatto dieci minuti prima.
Dopo un conto alla rovescia di nove giorni, è da poco disponibile on line una versione scaricabile del tuo romanzo, sotto la licenza creative commons. Come mai questa scelta?
Lo strapotere di alcune case editrici (spesso gestite da manager specializzati nella gestione di altri settori che non quello editoriale) strozza le voci altre, impedisce il pluralismo che dovrebbe caratterizzare ogni tipo di offerta, soprattutto culturale. Il copyleft è come un megafono per queste voci e quindi è giusto che lo si usi, e se ne parli. Sinora tutto ciò che ho scritto è uscito sotto la licenza creative commons e ho intenzione di continuare finché me lo permetteranno. Per fortuna, la casa editrice del mio romanzo (Agenzia X) è una casa editrice “illuminata” in tal senso.
Nella tua biografia si legge che fai parte della redazione di TN, rivista della quale abbiamo già parlato qui. Pensi di poterci dare qualche anticipazione sul prossimo numero, che ovviamente “esce quando è pronto”?
Il prossimo numero di “Tn-scritture a sorgente libera” sarà il numero tre. Il comix stavolta ha una firma internazionale ed è previsto un “intervento armato” della misteriosa Cricca 33. Per quel che mi riguarda, curo una rubrica di recensioni del mondo materiale e dopo essermi occupato di crocefissi e francobolli “Gronchi rosa” stavolta dovrebbe toccare alla sputacchiera – sto già raccogliendo il materiale per scriverne, e mi diverte tanto – e posso anticiparti che trovo ingiusto non si usi più, dal momento che in giro c’è ancora tanta gente che scaracchia.
www.mangialibri.com, novembre 2010Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza
Stanco della monotonia senza speranze di Garogenti, cittadina – immaginaria e immutabile – del sud Italia, un post adolescente inizia a sperimentare forme estreme di nichilismo. Conosce Marta, ragazza affascinante, alternativa e misteriosa, se ne innamora e prova a conquistarla attraverso pratiche di autolesionismo e sadismo estremo. Il suo migliore amico è Gero, con cui si diverte a prendere qualche droga e a sparare contro mobili nuovi in aperta campagna per antichizzarli. Il padre è uno sciupafemmine e un bel giorno si schianta insieme all’amante contro un camion della Coca Cola. La madre esce di senno, non tanto per la morte del marito ma al pensiero che l’abbia tradita spudoratamente durante tutto il loro matrimonio. Ad un certo punto, improvvisamente, Marta scompare. Il nostro protagonista vorrebbe ritrovarla ma si ritrova a lavorare – strafatto di eroina – come assistente per le fototessere in un negozio di un amico del defunto padre…
Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza è un libro intriso di nichilismo e disperazione. La narrazione è strutturata su due livelli - il presente e la ricostruzione della vicenda - che si alternano scandendo il ritmo della storia. È un romanzo che attraversa alcune delle tematiche tipiche di chi sta abbandonando l’adolescenza e si avvicina a stento alla maggiore età, tra tentativi di rivolta individuale al “sistema” e disperate rincorse su se stesso alla ricerca di uno straccio di identità. Il suo giovane autore, Roberto Mandracchia, sembra rendere perfettamente - con questo volume - tutto il vuoto desolante che si è parato davanti alle ultime generazioni nate e vissute negli anni del berlusconismo. È un libro che somiglia ad un grido astioso, che esprime tutta l’insofferenza nei confronti della normalità perbenista. Ma è anche un grido ancora troppo acerbo, che non riesce a lasciare un segno netto e si limita a descrivere la necessità di un generico rifiuto dell’esistente. Da accompagnare la lettura a un sottofondo punk, canticchiando God save the Queen dei Sex Pistols.
di Carlo Dojmi di DelupisGuida pratica al sabotaggio dell’esistenza è un libro intriso di nichilismo e disperazione. La narrazione è strutturata su due livelli - il presente e la ricostruzione della vicenda - che si alternano scandendo il ritmo della storia. È un romanzo che attraversa alcune delle tematiche tipiche di chi sta abbandonando l’adolescenza e si avvicina a stento alla maggiore età, tra tentativi di rivolta individuale al “sistema” e disperate rincorse su se stesso alla ricerca di uno straccio di identità. Il suo giovane autore, Roberto Mandracchia, sembra rendere perfettamente - con questo volume - tutto il vuoto desolante che si è parato davanti alle ultime generazioni nate e vissute negli anni del berlusconismo. È un libro che somiglia ad un grido astioso, che esprime tutta l’insofferenza nei confronti della normalità perbenista. Ma è anche un grido ancora troppo acerbo, che non riesce a lasciare un segno netto e si limita a descrivere la necessità di un generico rifiuto dell’esistente. Da accompagnare la lettura a un sottofondo punk, canticchiando God save the Queen dei Sex Pistols.
Incontro con l’autore - Roberto Mandracchiahttp://lettereegiorni.blogspot.com, 28 ottobre 2010
Un posto che pare uscito da un miraggio librario, di quelle librerie che paiono la casa di uno studente universitario sballato, ma ben fonito di letture e di cd musicali ricercati, che vive da solo in un monolocale di 50 metri quadri con soppalco. Così è apparso il Modo infoshop di Bologna al nostro primo vero incontro. L’autore che avrebbe presentato il suo libro d’esordio in serata, sarebbe stato un giovane siculo di 24 anni, R. Mandracchia, Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, edito da Agenzia X.
Dal momento in cui ci si accomoda tra poltrone e sedie, si comprendono immediatamente due cose: la prima è che lo scrittore gioca abbastanza in casa; infatti la presenza di amici, amiche e conoscenti è percepibile dalle molte battute di confidenza (che sarebbero continuate per tutta la durata dell’incontro); la seconda è che se ci sono due parole che potrebbero dare il titolo all’incontro, queste sono “informalità” ed “emotività”.
Non ho ancora letto il libro e pertanto mi asterrò dal dare peculiari giudizi sullo stesso, che rimanderò a data da destinarsi (anche perché gli spoiler son stati parte integrante della presentazione e vorrei invece invitarvi all’acquisto librario), ma gli estratti letti dall’autore e dallo scrittore Saverio Fattori, l’introduttore dell’incontro, accompagnati dall’arpeggio acustico della chitarra di Fausto Savatteri, sembrano promettere davvero bene, un assaggio nichilista di un libro breve e decisamente intenso, che sotto l’anagramma di Garogenti, nei meandri di una storia d’amore dai tratti agghiaccianti, nasconde la profondità tragicomica dell’animo del Sud, in particolare di quella parte di sud che si chiama Sicilia.
Come tiene a sottolineare Mandracchia (ma chiamatelo pure Roberto, a piacere) non si può avere un libro ambientato nel Sud, senza che si parli di Mafia, ma non è con la solita mafia che si avrà a che fare, quella dei gangster da prendere a modello, da cui sentirsi esteticamente appagati, bensì quella del quotidiano, che esiste proprio per insozzare il posto in cui vivi e non solo attraverso il puzzo dei soldi.
Un incontro che lascia l’amaro alla fine, proprio per la sua brevità di un’ora, che arriva quando ne vorresti di più. Un coito interrotto, per cercare un’analogia descrittiva al libro usata dallo stesso autore. E sarà pure vero, forse, che “la cosa che ci annienta è che non abbiamo ancora vissuto niente e già non ne possiamo più”, ma chissà che almeno non se ne esca vivi per poterla raccontare.
Sempre che a qualcuno interessi.
Buona lettura e a presto.
di Andrea BroggiDal momento in cui ci si accomoda tra poltrone e sedie, si comprendono immediatamente due cose: la prima è che lo scrittore gioca abbastanza in casa; infatti la presenza di amici, amiche e conoscenti è percepibile dalle molte battute di confidenza (che sarebbero continuate per tutta la durata dell’incontro); la seconda è che se ci sono due parole che potrebbero dare il titolo all’incontro, queste sono “informalità” ed “emotività”.
Non ho ancora letto il libro e pertanto mi asterrò dal dare peculiari giudizi sullo stesso, che rimanderò a data da destinarsi (anche perché gli spoiler son stati parte integrante della presentazione e vorrei invece invitarvi all’acquisto librario), ma gli estratti letti dall’autore e dallo scrittore Saverio Fattori, l’introduttore dell’incontro, accompagnati dall’arpeggio acustico della chitarra di Fausto Savatteri, sembrano promettere davvero bene, un assaggio nichilista di un libro breve e decisamente intenso, che sotto l’anagramma di Garogenti, nei meandri di una storia d’amore dai tratti agghiaccianti, nasconde la profondità tragicomica dell’animo del Sud, in particolare di quella parte di sud che si chiama Sicilia.
Come tiene a sottolineare Mandracchia (ma chiamatelo pure Roberto, a piacere) non si può avere un libro ambientato nel Sud, senza che si parli di Mafia, ma non è con la solita mafia che si avrà a che fare, quella dei gangster da prendere a modello, da cui sentirsi esteticamente appagati, bensì quella del quotidiano, che esiste proprio per insozzare il posto in cui vivi e non solo attraverso il puzzo dei soldi.
Un incontro che lascia l’amaro alla fine, proprio per la sua brevità di un’ora, che arriva quando ne vorresti di più. Un coito interrotto, per cercare un’analogia descrittiva al libro usata dallo stesso autore. E sarà pure vero, forse, che “la cosa che ci annienta è che non abbiamo ancora vissuto niente e già non ne possiamo più”, ma chissà che almeno non se ne esca vivi per poterla raccontare.
Sempre che a qualcuno interessi.
Buona lettura e a presto.
Satisfiction, ottobre 2010Guida al sabotaggio dell’esistenza
“La cosa che ci annienta è che non abbiamo vissuto niente e già non ne possiamo più” dice uno dei personaggi di Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, primo romanzo di Roberto Mandracchia pubblicato dalla sperimentale Agenzia X. Una storia adolescenziale ed esistenziale declinata dall’autore in chiave strettamente nichilista: rappresentazione ideale della vita quotidiana delle giovani generazioni in un momento storico in cui, sconfitte le grandi narrazioni, il nulla resta l’ultimo rifugio di chi non è ancora pronto per farsi addomesticare dalle rate del mutuo o dalle visioni in 3D offerte dai multisala nei centri commerciali. La struttura dell’opera, guastata a tratti da un lirismo non sempre maturo, è frammentaria come la memoria del protagonista del romanzo, impegnato a ricordare tutto ciò che lo ha condotto alla dipendenza da eroina e ad un misterioso conto alla rovescia. In questo caleidoscopio, dove l’amore appare ancora come l’ultima speranza, Gesù Cristo può insegnarti la masturbazione, Pirandello ti può far desistere dalla voglia di scrivere narrativa e tua madre rischia di tentare il suicidio immergendosi in una vasca piena di coca-cola. Le utopie politiche consunte, insieme a una società esplosa in monadi sfinite che si parlano addosso o non si parlano proprio, sono gli altri ingredienti del libro, ambientato in una città siciliana dove la vitalità sta “nelle case sfasciate e incrostate di merda di piccione del centro storico, nelle rovine greche conficcate nella valle e, declinando sempre più verso il mare, nelle concrezioni fossili delle rocce sedimentarie. E non nel respirare, non nel muoversi”. Per il resto, nessun assalto al cielo per i protagonisti del libro, ma soltanto il suono sordo di un continuo schiantarsi sulla terra: la colonna sonora ideale per un libro che individua nella totale assenza di futuro uno dei tratti più caratteristici della contemporaneità.
di Cristiano Armatiwww.paradisodegliorchi.com, 3 settembre 2010Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza
La nostra è un’epoca ben educata e ragionevole. Le millenarie aspirazione ascetiche, la voglia di disinfettata purezza orfica si vende nei supermercati e tutti sappiamo guardare con diffidenza e distaccato ai sentimenti. Abbiamo dalla nostra il disincanto e il sarcasmo, e sappiamo dare una spiegazione a tutto. Eppure sembra che, ancora oggi, operare nei limiti dell’impossibile possa essere la speranza che nutre le aspettative di uno scrittore.
Per esempio il giovanissimo Roberto Mandracchia si incarica di praticare un genere che, sui banchi dei supermercati di cui sopra, prolifica con successo, ossia quel romanzo adolescenziale che si fa insieme reportage e strumento pedagogico in una società infantile che soffre di un costante bisogno di essere intrattenuta e maternamente rieducata. La cultura si è rinchiusa nei limiti della civilizzazione, e questa si è ridotta ad una psicoterapia di gruppo, o a un’ascesi da salotto, in cui si dà sfogo ai sentimenti per controllarli. Mandracchia, che vuole operare in quello che oggi ci sembra impossibile, sembra pensare che, questo controllo dei sentimenti, è esattamente lo strumento che rende possibile l’epocale attacco di panico, l’apocalisse snervante che stiamo vivendo.
Il suo romanzo adolescenziale è, per questo motivo, un romanzo di sformazione, un racconto visivamente sfigurativo, alla Bacon. Racconta la vicenda di un giovane siciliano, nato e cresciuto in una piccola città sprofondata nei soffocanti riti della mafia e di una chiesa che usa le peggiori premure nei confronti delle sue pecorelle più giovani. Con una restituzione del gotico al nostro meridione, la città potrebbe essere l’ambientazione di una pellicola di David Linch, e la vicenda si apparenta con quella di Mysterious Skin e, per certi versi, con quella di Doom Generation di Gregg Araki. Eppure questa comune qualità allucinogena e fantastica è di segno opposto. In Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza l’allucinazione non è alterazione di coscienza, non è una visione alternativa della realtà o dell’io, non c’è introspezione e analisi. I sentimenti, nel romanzo, vengono scatenati per essere vissuti implacabilmente quali sono; e l’allucinazione è un fatto corporeo, che sa di postumi escrementizi.
Siamo abituati a pensare all’estasi come a qualcosa che ci sospinga in alto, in regioni apollinee. Qui, invece, ci troviamo nella terra del grande dio Pan. Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, infatti, ripercorre la vicenda erotica di Pan alle prese con le sue ninfe. La mafia, la chiesa, la città, i ragazzi e gli adulti che la abitano, i genitori del protagonista (altro segno della presenza del dio: un padre erotomane e una madre pazza) sono fatti circostanziali di una allucinazione viscerale della carne, che Mandracchia, con una lingua viva e vera, restituisce nei particolari con prepotente e dolorosa precisione. L’allucinazione di un giovane eroe che si rende a una ninfa e si fa trascinare nel segreto della sua essenza: la distruzione. L’eroe, che si finge autobiograficamente l’io del narratore (ed è, dunque, l’io) si innamora di una ragazza irresistibile, una ragazza che, come tutte le ninfe, c’è e non c’è, il cui erotismo è esuberante e minaccioso; una ragazza che lo fa morire di desiderio, che lo apre a tutte le proprie fantasie e a tutti i propri sentimenti; che li devasta come per un’inondazione e che, come per un’inondazione trascina via il giovane eroe, fino alla totale distruzione.
Le ninfe sono pericolose, portano via i marinai e non li restituiscono alle famiglie e ai cari ed educati affetti famigliari. Sono millenni che, con autodafè o altre terapie a vario titolo, cerchiamo di curare le ninfe dalla loro pericolosità e avvertire i marinai del pericolo, ma non c’è niente da fare.
Solo Pan aveva la soluzione.
Immergersi, con questo racconto viscerale, di allucinazione carnale, nel suo mondo è una piccola ma buona occasione di dare nuovamente spazio a questo dio impuro, e salvarci un po’ dall’epocale attacco di panico, dalla snervante apocalisse della nostra società.
di Pier Paolo Di MinoPer esempio il giovanissimo Roberto Mandracchia si incarica di praticare un genere che, sui banchi dei supermercati di cui sopra, prolifica con successo, ossia quel romanzo adolescenziale che si fa insieme reportage e strumento pedagogico in una società infantile che soffre di un costante bisogno di essere intrattenuta e maternamente rieducata. La cultura si è rinchiusa nei limiti della civilizzazione, e questa si è ridotta ad una psicoterapia di gruppo, o a un’ascesi da salotto, in cui si dà sfogo ai sentimenti per controllarli. Mandracchia, che vuole operare in quello che oggi ci sembra impossibile, sembra pensare che, questo controllo dei sentimenti, è esattamente lo strumento che rende possibile l’epocale attacco di panico, l’apocalisse snervante che stiamo vivendo.
Il suo romanzo adolescenziale è, per questo motivo, un romanzo di sformazione, un racconto visivamente sfigurativo, alla Bacon. Racconta la vicenda di un giovane siciliano, nato e cresciuto in una piccola città sprofondata nei soffocanti riti della mafia e di una chiesa che usa le peggiori premure nei confronti delle sue pecorelle più giovani. Con una restituzione del gotico al nostro meridione, la città potrebbe essere l’ambientazione di una pellicola di David Linch, e la vicenda si apparenta con quella di Mysterious Skin e, per certi versi, con quella di Doom Generation di Gregg Araki. Eppure questa comune qualità allucinogena e fantastica è di segno opposto. In Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza l’allucinazione non è alterazione di coscienza, non è una visione alternativa della realtà o dell’io, non c’è introspezione e analisi. I sentimenti, nel romanzo, vengono scatenati per essere vissuti implacabilmente quali sono; e l’allucinazione è un fatto corporeo, che sa di postumi escrementizi.
Siamo abituati a pensare all’estasi come a qualcosa che ci sospinga in alto, in regioni apollinee. Qui, invece, ci troviamo nella terra del grande dio Pan. Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, infatti, ripercorre la vicenda erotica di Pan alle prese con le sue ninfe. La mafia, la chiesa, la città, i ragazzi e gli adulti che la abitano, i genitori del protagonista (altro segno della presenza del dio: un padre erotomane e una madre pazza) sono fatti circostanziali di una allucinazione viscerale della carne, che Mandracchia, con una lingua viva e vera, restituisce nei particolari con prepotente e dolorosa precisione. L’allucinazione di un giovane eroe che si rende a una ninfa e si fa trascinare nel segreto della sua essenza: la distruzione. L’eroe, che si finge autobiograficamente l’io del narratore (ed è, dunque, l’io) si innamora di una ragazza irresistibile, una ragazza che, come tutte le ninfe, c’è e non c’è, il cui erotismo è esuberante e minaccioso; una ragazza che lo fa morire di desiderio, che lo apre a tutte le proprie fantasie e a tutti i propri sentimenti; che li devasta come per un’inondazione e che, come per un’inondazione trascina via il giovane eroe, fino alla totale distruzione.
Le ninfe sono pericolose, portano via i marinai e non li restituiscono alle famiglie e ai cari ed educati affetti famigliari. Sono millenni che, con autodafè o altre terapie a vario titolo, cerchiamo di curare le ninfe dalla loro pericolosità e avvertire i marinai del pericolo, ma non c’è niente da fare.
Solo Pan aveva la soluzione.
Immergersi, con questo racconto viscerale, di allucinazione carnale, nel suo mondo è una piccola ma buona occasione di dare nuovamente spazio a questo dio impuro, e salvarci un po’ dall’epocale attacco di panico, dalla snervante apocalisse della nostra società.
Il mucchio selvaggio, settembre 2010Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza
Una pistola infilata nella bocca slabbrata e siliconata della nostra società che una volta premuto il grilletto, scopriamo caricata a salve. L’unica vittima che fa è il futuro delle nuove generazioni, che già sapevamo spaccato. “La cosa che ci annienta e che non abbiamo vissuto niente e già non ne possiamo più”, è ciò che dice Marta al protagonista del libro. Ecco, in un riuscito turbine narrativo che mischia violenza, famiglie sventrate, eroina, intrecci mafiosi e disperato amore, il bravo ventiquattrenne autore agrigentino in questo suo primo romanzo non prevede nessuna uscita di sicurezza, anzi. Con uno stile corrosivo, poetico, ironico e struggente, attua una radiografia cruda e spietata dell’attuale disagio esistenziale dall’interno, ovvero dal bordo fradicio di saliva e sangue della bocca di quella pistola.
di Andrea Provincialiwww.ilrecensore.comIl sabotaggio dell’esistenza. Parla Roberto Mandracchia
Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza(AgenziaX, 2010) è un romanzo duro, violento, a tratti estremo. Il giovane protagonista vive in Sicilia, vittima di se stesso e della società che lo circonda.E’ inoltre ossessionato da un patologico desiderio per la sua amica Marta, è in preda a una crisi d’astinenza da eroina e gli restano solo nove giorni prima di morire. Roberto Manfrecchia, l’autore di questo romanzo, ci racconta come è nato il suo libro che come lo definisce lui stesso è un genere di narrativa fantascientifica.
È il tuo primo romanzo, quanto c’è di te nel protagonista e come mai hai scelto un titolo così inquietante come: Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza?
“Il romanzo - pur essendo scritto in prima persona singolare e pur narrando una fase della vita che ho attraversato - contiene ben poco di strettamente mio e molto di ciò che mi sta intorno. Mi piace pensarmi come una spugna che assorbe i pensieri, le esperienze, i discorsi delle persone che mi capita di incontrare o che frequento con una certa costanza e che dopo rielabora il tutto in forma narrativa. Diciamo che più che aggrapparmi al mio cordone ombelicale ho seguito quelli altrui. Ho scelto questo titolo perché ho come l’impressione che parecchia gente stia seguendo i dettami di un’ipotetica guida al sabotaggio della propria esistenza o subisca dal prossimo i dettami di un’ipotetica guida al sabotaggio dell’esistenza altrui.”
Non pensi che il tuo personaggio sia un po’ descritto con eccessiva enfasi negativa? Cosa vuoi raccontare veramente attraverso il tuo romanzo?
“Penso che non soltanto il personaggio principale ma tutto ciò che sta dentro al romanzo sia descritto con eccessiva enfasi negativa. Uno dei pregi della narrativa fantascientifica (o comunque di un certo tipo di narrativa fantascientifica e penso ai romanzi di Kurt Vonnegut o di Philip K. Dick) è quello di esasperare gli aspetti e le dinamiche del presente per comprendere meglio quest’ultimo. Da questo punto di vista mi piace pensare che il mio romanzo racconti una di queste storie: parla di una società “esplosa” mentre viviamo un tipo di società quantomeno “slabbrata” in cui le utopie politiche sono evaporate e ognuno pensa al proprio tornaconto, in cui ci si parla addosso e ci si ascolta poco, in cui i vizi e le ossessioni sono prassi quotidiana.”
La disperazione, la depressione, il mondo che circonda il protagonista è oscuro. La scelta di ambientarlo in un paesino della Sicilia che è per natura solare e non in una grande metropoli da dove nasce?
“Garogenti, la città in cui è ambientato il romanzo, è l’anagramma di Agrigento, il nome della città in cui sono nato e ho vissuto per diciotto anni così come quello che avviene a Garogenti è l’anagramma di quello che avviene nella realtà ad Agrigento. La storia parla di un’adolescenza vissuta in una città siciliana perché da adolescente ho vissuto in una città siciliana e sapevo più di due o tre cose su quella specifica realtà. Dell’adolescenza vissuta in una grande metropoli - ad esempio Roma, dal momento che adesso vivo lì - avrei saputo molto meno: il ritratto ne sarebbe uscito piuttosto sfuocato. E non volevo questo. Sulla Sicilia “solare” ci sarebbe parecchio da discutere, diciamo che basta leggere la citazione - tratta da quel capolavoro che è “Il Gattopardo” - in epigrafe al mio romanzo e questa banale considerazione: non c’è sole senza ombra.”
In questo romanzo aleggia grande tristezza e senso di oppressione, è così che vedi il mondo e la vita fatto di corruzione, molestie e di disagio giovanile?
“E’ ovvio che non veda soltanto questo nel mondo e nella vita e che nel mondo e nella vita non ci sia soltanto questo, ma ritengo sia più interessante raccontare le laidezze piuttosto che le cose belle. Scrivo quello che mi piacerebbe leggere. E il racconto di una società fin troppo serena e pacifica mi annoierebbe a morte. Per come la vedo io un libro deve provocare scombussolamento, angoscia e disgusto nel lettore; non rassicurarlo.”
di Daniela AlloccoÈ il tuo primo romanzo, quanto c’è di te nel protagonista e come mai hai scelto un titolo così inquietante come: Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza?
“Il romanzo - pur essendo scritto in prima persona singolare e pur narrando una fase della vita che ho attraversato - contiene ben poco di strettamente mio e molto di ciò che mi sta intorno. Mi piace pensarmi come una spugna che assorbe i pensieri, le esperienze, i discorsi delle persone che mi capita di incontrare o che frequento con una certa costanza e che dopo rielabora il tutto in forma narrativa. Diciamo che più che aggrapparmi al mio cordone ombelicale ho seguito quelli altrui. Ho scelto questo titolo perché ho come l’impressione che parecchia gente stia seguendo i dettami di un’ipotetica guida al sabotaggio della propria esistenza o subisca dal prossimo i dettami di un’ipotetica guida al sabotaggio dell’esistenza altrui.”
Non pensi che il tuo personaggio sia un po’ descritto con eccessiva enfasi negativa? Cosa vuoi raccontare veramente attraverso il tuo romanzo?
“Penso che non soltanto il personaggio principale ma tutto ciò che sta dentro al romanzo sia descritto con eccessiva enfasi negativa. Uno dei pregi della narrativa fantascientifica (o comunque di un certo tipo di narrativa fantascientifica e penso ai romanzi di Kurt Vonnegut o di Philip K. Dick) è quello di esasperare gli aspetti e le dinamiche del presente per comprendere meglio quest’ultimo. Da questo punto di vista mi piace pensare che il mio romanzo racconti una di queste storie: parla di una società “esplosa” mentre viviamo un tipo di società quantomeno “slabbrata” in cui le utopie politiche sono evaporate e ognuno pensa al proprio tornaconto, in cui ci si parla addosso e ci si ascolta poco, in cui i vizi e le ossessioni sono prassi quotidiana.”
La disperazione, la depressione, il mondo che circonda il protagonista è oscuro. La scelta di ambientarlo in un paesino della Sicilia che è per natura solare e non in una grande metropoli da dove nasce?
“Garogenti, la città in cui è ambientato il romanzo, è l’anagramma di Agrigento, il nome della città in cui sono nato e ho vissuto per diciotto anni così come quello che avviene a Garogenti è l’anagramma di quello che avviene nella realtà ad Agrigento. La storia parla di un’adolescenza vissuta in una città siciliana perché da adolescente ho vissuto in una città siciliana e sapevo più di due o tre cose su quella specifica realtà. Dell’adolescenza vissuta in una grande metropoli - ad esempio Roma, dal momento che adesso vivo lì - avrei saputo molto meno: il ritratto ne sarebbe uscito piuttosto sfuocato. E non volevo questo. Sulla Sicilia “solare” ci sarebbe parecchio da discutere, diciamo che basta leggere la citazione - tratta da quel capolavoro che è “Il Gattopardo” - in epigrafe al mio romanzo e questa banale considerazione: non c’è sole senza ombra.”
In questo romanzo aleggia grande tristezza e senso di oppressione, è così che vedi il mondo e la vita fatto di corruzione, molestie e di disagio giovanile?
“E’ ovvio che non veda soltanto questo nel mondo e nella vita e che nel mondo e nella vita non ci sia soltanto questo, ma ritengo sia più interessante raccontare le laidezze piuttosto che le cose belle. Scrivo quello che mi piacerebbe leggere. E il racconto di una società fin troppo serena e pacifica mi annoierebbe a morte. Per come la vedo io un libro deve provocare scombussolamento, angoscia e disgusto nel lettore; non rassicurarlo.”
www.luminol.it, 28 luglio 2010Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, di Roberto Mandracchia
Al protagonista di Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza restano da vivere solo nove giorni. In una Agrigento che è «un posacenere colmo di cicche» la sua vita non sembra nient’altro che una catena di sant’Antonio di situazioni traumatiche: il suo desiderio estremo per Marta, l’eroina, l’amicizia scadente di Gero, il suo mentore tossico detto il Puparo, un catechista che continua a molestarlo, un padre sessuomane che non vuole per nulla al mondo pentirsi di «averlo eruttato dai suoi coglioni», e una madre depressa e rinchiusa dopo aver tentato di annegarsi nella Coca-Cola.Questa guida pratica è però soprattutto, anzi solamente un libro d’amore: dilaniato, dissanguato dall’amore folle e controllato, delirante e casto del protagonista per la sua Marta. Sì, certo, c’è anche altro; ritroviamo ad esempio l’eroina, così come nel recente Devozione di Antonella Lattanzi.
Ma è proprio Marta il personaggio angolare della storia: sfuggente e saggia, solitaria e vitale, rimasta orfana per mano della Mafia e nichilista; una giovane donna che sabota ogni cognizione di normalità dell’esistenza da parte del nostro uomo.
Roberto Mandracchia scrive dunque un romanzo viscerale, discontinuo nel suo oscillare tra disperazione e volontà riflessiva. E, neanche troppo a sorpresa, proprio quando il baricentro si attesta nella narrazione più strutturata e meno delirante (dove invece si alternano in un andirivieni lisergico e dalla punteggiatura non sempre impeccabile: Gesù Cristo, Van Gogh, Pirandello e Keith Moon), il testo vive le sue pagine più felici, quelle che riescono ad andare davvero a segno, perché sanno trovare la lucidità di mettere a fuoco e governare il magma tematico che erutta dalla mente e dal ventre del protagonista.
di Alessandro de SantisMa è proprio Marta il personaggio angolare della storia: sfuggente e saggia, solitaria e vitale, rimasta orfana per mano della Mafia e nichilista; una giovane donna che sabota ogni cognizione di normalità dell’esistenza da parte del nostro uomo.
Roberto Mandracchia scrive dunque un romanzo viscerale, discontinuo nel suo oscillare tra disperazione e volontà riflessiva. E, neanche troppo a sorpresa, proprio quando il baricentro si attesta nella narrazione più strutturata e meno delirante (dove invece si alternano in un andirivieni lisergico e dalla punteggiatura non sempre impeccabile: Gesù Cristo, Van Gogh, Pirandello e Keith Moon), il testo vive le sue pagine più felici, quelle che riescono ad andare davvero a segno, perché sanno trovare la lucidità di mettere a fuoco e governare il magma tematico che erutta dalla mente e dal ventre del protagonista.
La voce di tutti, 15 luglio 2010Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza
Amore intriso di violenza, preti molesti, insulse fughe allo squallore, per la quanto mai realistica rappresentazione di un mondo che si ritrova allo sfacelo quasi per caso, paradossalmente senza essersi mosso. E’ così che l’autore Roberto Mandracchia dipinge la realtà che ci circonda, quell’esistenza dalla quale l’unica via di scampo pare essere il sabotaggio più estremo. Fa da sfondo una Sicilia arsa di calore e sudiciume, una Sicilia che il giovane scrittore agrigentino conosce bene; Garogenti, simulacro di un eventuale ridente paesino siculo, colleziona con avidità le sue “assenze rimandate”, confermandosi un “posacenere colmo di cicche” così come “un’accozzaglia di quinte teatrali” o un triste “libro in cui non succede mai niente”. E’ con intensa ironia che Mandracchia spennella adeguatamente il perfetto quadretto sociale: il catechista avventuroso ma timorato dei suoi alti gerarchi, l’emblematico scemo del villaggio, parte della mobilia del bar, le coppie frustrate ma apparentemente felici; ogni rituale viene smascherato nella sua più infima essenza: così alla processione di San Lacò i portatori del Santo inneggiano a espressioni non del tutto religiose, nella messa funerea tra i pianti sgorga qualche sospirato “Fitusazzo”, e la tanto amata Coca-cola diventa arma da suicidio. Personaggi tanto assurdi quanto squallidamente consueti: una nonna aspra e sgradevole che gode nell’infastidire figlio e nipote, un caro amico, Gero, che si immola nella scalata sociale metamorfizzandosi, lo “Stricato” che giustifica il suo legittimo ruolo di mafioso, un incerto professore che promette ripetutamente spiegazioni su illustri “eroi” storici. E’ una lente che non nasconde la deformità dell’universo percepibile da un occhio umano più attento del normale: è la visione di uno squallore dilagante, di un mondo in cui ogni cosa è la “parodia grottesca di qualcos’altro”.
Il protagonista necessita di una via d’uscita dalla sua desolazione: un padre “sporco” e sregolato, una madre che nasconde la frustrazione fino a impazzire, un lavoro che fa della reiterazione la sua caratteristica più spiccata, i costanti incontri con un emblematico puparo e poi Marta, quella “che non c’è e non c’è”. Ed è proprio Marta, la ragazza eclettica e disincantata, ad accompagnare le sue giornate, a condividere con lui ogni tipo di droga e rapirlo nel suo turbine avvolgente. Con Marta il desiderio si materializza con la violenza, l’erotismo è sangue, brutalità e passione: “sei così bella che ti vorrei narcotizzare e mentre dormi aprirti la pancia e tirare fuori tutto. Organi interni, ossa, legamenti. Tutto quanto. E dopo infilarmi dentro, sotto la tua pelle, chiudendola come fosse un sacco a pelo.” Ai racconti del protagonista si alternano le avventurose parole di Marta, mentre riaffiorano ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza che sanno di asprezza e insieme comicità; è un alternarsi di sensazioni, associate a schegge di colori, a lampi e suoni. A smorzare i racconti di traumi sono spesso immagini non del tutto idilliache ma che insaporiscono con un efficace effetto tragicomico; così come si mostrano efficaci le colorite espressioni sicule e i rimandi a protagonisti del passato.
E di pari passo con le pagine del romanzo cresce anche l’ansia per una scappatoia che si fa sempre più vicina; a poco serve l’oblio dell’eroina, mentre a nulla servono le aspirazioni artistiche, grottescamente inibite da tre sadici Pirandello, Van Gogh e Keith Moon. “L’angoscia di non cambiare nulla, proprio nulla, di ciò che mi ha sempre assediato. E io ero sempre uguale a me stesso con un piede ancora dentro una scatola che ormai stava andando in fiamme. Ero il calco di un calco di me stesso. Ero come la culla che pur muovendosi restava inchiodata al suolo“. Un romanzo aspro e pungente, una Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza che ci ricorda come “La cosa che ci annienta è che non abbiamo ancora vissuto niente e già non ne possiamo più”.
di Ambra CasertaIl protagonista necessita di una via d’uscita dalla sua desolazione: un padre “sporco” e sregolato, una madre che nasconde la frustrazione fino a impazzire, un lavoro che fa della reiterazione la sua caratteristica più spiccata, i costanti incontri con un emblematico puparo e poi Marta, quella “che non c’è e non c’è”. Ed è proprio Marta, la ragazza eclettica e disincantata, ad accompagnare le sue giornate, a condividere con lui ogni tipo di droga e rapirlo nel suo turbine avvolgente. Con Marta il desiderio si materializza con la violenza, l’erotismo è sangue, brutalità e passione: “sei così bella che ti vorrei narcotizzare e mentre dormi aprirti la pancia e tirare fuori tutto. Organi interni, ossa, legamenti. Tutto quanto. E dopo infilarmi dentro, sotto la tua pelle, chiudendola come fosse un sacco a pelo.” Ai racconti del protagonista si alternano le avventurose parole di Marta, mentre riaffiorano ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza che sanno di asprezza e insieme comicità; è un alternarsi di sensazioni, associate a schegge di colori, a lampi e suoni. A smorzare i racconti di traumi sono spesso immagini non del tutto idilliache ma che insaporiscono con un efficace effetto tragicomico; così come si mostrano efficaci le colorite espressioni sicule e i rimandi a protagonisti del passato.
E di pari passo con le pagine del romanzo cresce anche l’ansia per una scappatoia che si fa sempre più vicina; a poco serve l’oblio dell’eroina, mentre a nulla servono le aspirazioni artistiche, grottescamente inibite da tre sadici Pirandello, Van Gogh e Keith Moon. “L’angoscia di non cambiare nulla, proprio nulla, di ciò che mi ha sempre assediato. E io ero sempre uguale a me stesso con un piede ancora dentro una scatola che ormai stava andando in fiamme. Ero il calco di un calco di me stesso. Ero come la culla che pur muovendosi restava inchiodata al suolo“. Un romanzo aspro e pungente, una Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza che ci ricorda come “La cosa che ci annienta è che non abbiamo ancora vissuto niente e già non ne possiamo più”.
il manifesto, 12 luglio 2010La violenza contro il conflitto
Le violenze della polizia sugli aquilani a Roma e le cariche degli agenti contro gli operai della Mangiarotti a Milano sono l’ennesimo epilogo di una ormai molto lunga sequela di comportamenti nella gestione dell’ordine pubblico. Purtroppo, la memoria corta anche fra la sinistra ne fa dimenticare la sequenza: da Seattle a Napoli, al G8 di Genova e dopo ripetutamente in molteplici occasioni di manifestazioni di operai, lotte per la casa, No-Tav, No-Dal Molin, No-Discariche, tifosi, e persino di disabili, o studenti o insegnanti. Tutti questi episodi sono palesemente in continuum rispetto a torture, massacri e assassinii quali quelli di Aldrovandi, Bianzino, Cucchi, Gugliotta e altri ancora.
Come suggeriscono le ricerche in questo campo, in Italia come nel resto d’Europa e di fatto dappertutto (non solo in Iraq o in Cina o in Thailandia) siamo di fronte all’involuzione autoritaria imposta dalla rivoluzione liberista. I poteri pubblici e privati pretendono di non ammettere contestazioni e di non concedere alcuno spazio di negoziazione pacifica. Non vogliono concedere alcuna mediazione ma imporre con la violenza le loro scelte, forti di un’asimmetria schiacciante rispetto a chi non ha potere e paga anche per l’assenza di un’effettiva opposizione parlamentare. Il liberismo è appunto l’opposto anche dello stesso liberalismo-democratico (degli Schumpeter, Keynes, Polany ecc.) è negazione del contratto sociale (e anche del contratto di lavoro) è erosione sempre più forte dello stato di diritto democratico che, anche solo in parte e con tanta fatica, lacrime e sangue, era stato conquistato negli anni ’60-70. Allora, se l’analisi è questa appare ancora più tragico stupirsi del ricorso alla violenza da parte dei poteri mentre forse sarebbe più sensato cercare di capire come resistere e poi reagire. Ovviamente è sempre indispensabile non smettere mai di indignarsi e di denunciare ogni violenza e ogni abuso di potere e cercare di sensibilizzare anche chi sinora stava apriori con la «legge e l’ordine» o la «legalità» che i poteri hanno sempre la forza di ricrearsi. Ma c’è forse un elemento nuovo che via via tende a emergere: la logica e le pratiche della tolleranza zero hanno tirato troppo la corda e la situazione appare sempre più insostenibile. Non solo nelle carceri dove abbondano le celle minuscole di 9 persone che possono farsi la doccia solo una volta alla settimana mentre si muore di caldo e si suda da far diventare pazzi anche i più zen di questo mondo, e si va all’aria solo un’ora al giorno e spesso mancano persino gli psicofarmaci per narcotizzare tutti.
Come dicono alcuni operatori delle polizie, «non se ne può più» di fare la guerra permanente a rom, immigrati, tifosi, manifestanti e marginali in genere. E lo stesso constatano gli operatori sociali, i magistrati e gli avvocati che hanno un minimo di buon senso anche se qualcuno fino a poco tempo fa aveva sottoscritto la scelta sicuritaria. È quindi forse importante cominciare a prestare più attenzione ai democratici che in questi mondi della gestione della sicurezza e del disagio sociale chiedono spesso disperatamente aiuto (da non confondere con la stupida e meschina solidarietà agli aspetti corporativi). Da De Gennaro a Manganelli, da Bianco a Maroni, da Violante ad Alfano, non solo la continuità ma l’alzo zero sono stati assicurati. I ragazzi di 14-16 anni (come quelli di Londra zero zero e del romanzo di romanzo di Roberto Mandracchia, Agenzia X) pensano che siamo di fronte a un cimitero: non c’è nulla da recuperare dalla «distruzione non-creativa» che ha prodotto il liberismo odierno. Un neo-nichilismo assoluto che sembra giustificato sin quando non si riuscirà a intravedere una resistenza che possa far sperare in un agire politico effettivamente rinnovato.
di Salvatore PaliddaCome suggeriscono le ricerche in questo campo, in Italia come nel resto d’Europa e di fatto dappertutto (non solo in Iraq o in Cina o in Thailandia) siamo di fronte all’involuzione autoritaria imposta dalla rivoluzione liberista. I poteri pubblici e privati pretendono di non ammettere contestazioni e di non concedere alcuno spazio di negoziazione pacifica. Non vogliono concedere alcuna mediazione ma imporre con la violenza le loro scelte, forti di un’asimmetria schiacciante rispetto a chi non ha potere e paga anche per l’assenza di un’effettiva opposizione parlamentare. Il liberismo è appunto l’opposto anche dello stesso liberalismo-democratico (degli Schumpeter, Keynes, Polany ecc.) è negazione del contratto sociale (e anche del contratto di lavoro) è erosione sempre più forte dello stato di diritto democratico che, anche solo in parte e con tanta fatica, lacrime e sangue, era stato conquistato negli anni ’60-70. Allora, se l’analisi è questa appare ancora più tragico stupirsi del ricorso alla violenza da parte dei poteri mentre forse sarebbe più sensato cercare di capire come resistere e poi reagire. Ovviamente è sempre indispensabile non smettere mai di indignarsi e di denunciare ogni violenza e ogni abuso di potere e cercare di sensibilizzare anche chi sinora stava apriori con la «legge e l’ordine» o la «legalità» che i poteri hanno sempre la forza di ricrearsi. Ma c’è forse un elemento nuovo che via via tende a emergere: la logica e le pratiche della tolleranza zero hanno tirato troppo la corda e la situazione appare sempre più insostenibile. Non solo nelle carceri dove abbondano le celle minuscole di 9 persone che possono farsi la doccia solo una volta alla settimana mentre si muore di caldo e si suda da far diventare pazzi anche i più zen di questo mondo, e si va all’aria solo un’ora al giorno e spesso mancano persino gli psicofarmaci per narcotizzare tutti.
Come dicono alcuni operatori delle polizie, «non se ne può più» di fare la guerra permanente a rom, immigrati, tifosi, manifestanti e marginali in genere. E lo stesso constatano gli operatori sociali, i magistrati e gli avvocati che hanno un minimo di buon senso anche se qualcuno fino a poco tempo fa aveva sottoscritto la scelta sicuritaria. È quindi forse importante cominciare a prestare più attenzione ai democratici che in questi mondi della gestione della sicurezza e del disagio sociale chiedono spesso disperatamente aiuto (da non confondere con la stupida e meschina solidarietà agli aspetti corporativi). Da De Gennaro a Manganelli, da Bianco a Maroni, da Violante ad Alfano, non solo la continuità ma l’alzo zero sono stati assicurati. I ragazzi di 14-16 anni (come quelli di Londra zero zero e del romanzo di romanzo di Roberto Mandracchia, Agenzia X) pensano che siamo di fronte a un cimitero: non c’è nulla da recuperare dalla «distruzione non-creativa» che ha prodotto il liberismo odierno. Un neo-nichilismo assoluto che sembra giustificato sin quando non si riuscirà a intravedere una resistenza che possa far sperare in un agire politico effettivamente rinnovato.
Giornale di Sicilia, 12 giugno 2010Uscito in libreria il primo romanzo di Roberto Mandracchia
Lo scrittore agrigentino Roberto Mandracchia di 24 anni, pubblica il suo primo romanzo, Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, già in libreria dallo scorso 9 giugno. La postfazione del romanzo di Mandracchia è firmata da Gianluca Morozzi. L’opera sarà presentate ad Agrigento il prossimo agosto in un giorno ancora da stabilire.
di AMMwww.infoagrigento.it, 11 giugno 2010Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza
Il giovane scrittore agrigentino Roberto Mandracchia, pubblica il suo primo romanzo per Agenzia X, intitolato Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza, già in libreria dal 9 giugno.
Mandracchia, a soli 24 anni annovera un curriculum di tutto rispetto con collaborazioni e pubblicazioni di racconti su varie antologie come Il primo bacio fa schifo e Dove sognano le tartarughe; ha anche scritto nella rivista “El Aleph” degli agrigentini Alessio Cupardo e Gero Micciche’. Nel sottotitolo si legge: “la cosa che ci annienta è che non abbiamo ancora vissuto niente e già non ne possiamo più” mentre la postfazione è firmata dallo scrittore Gianluca Morozzi.
Nel mese di agosto inoltre è prevista anche l’organizzazione di una serata culturale nella quale il libro verrà presentato.
di Messina ClaudioMandracchia, a soli 24 anni annovera un curriculum di tutto rispetto con collaborazioni e pubblicazioni di racconti su varie antologie come Il primo bacio fa schifo e Dove sognano le tartarughe; ha anche scritto nella rivista “El Aleph” degli agrigentini Alessio Cupardo e Gero Micciche’. Nel sottotitolo si legge: “la cosa che ci annienta è che non abbiamo ancora vissuto niente e già non ne possiamo più” mentre la postfazione è firmata dallo scrittore Gianluca Morozzi.
Nel mese di agosto inoltre è prevista anche l’organizzazione di una serata culturale nella quale il libro verrà presentato.
Tg agrigentino, 11 giugno 2010Mandracchia al tg agrigentino
Il libro di Roberto Mandracchia segnalato al tg agrigentino
guarda il video
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www.terranullius.it, 8 giugno 2010Sognando postfazioni al Montenegro
Il Mandracchia esordisce domani in libreria
La postfazione di Gianluca Morozzi
Questa postfazione l’ho sognata. Davvero. Sapete, ci sono postfattori – se il termine non esiste, l’ho appena coniato – che prendono chili di appunti, si impegnano, ragionano, cancellano, riscrivono, meditano. E altri come me che vanno fuori la sera, bevono un po’, un altro po’, un altro po’ ancora, a ora tarda vanno a dormire, e la postfazione, a quel punto, grazie al Montenegro ingollato, la sognano. I primi sono più professionali, ma i secondi si divertono di più.
La postfazione a questo romanzo l’ho sognata in forma di booktrailer. O come quei video di youtube in cui scorre in sovrimpressione il testo di una canzone, sopra una serie di immagini suggestive selezionate con cura e senso artistico dall’autore del video stesso.
La canzone in questione è Disarm degli Smashing Pumpkins, il pezzo che Zambuto canticchia a un certo punto della storia. Nel mio sogno il testo scorreva tradotto in italiano, in una mia traduzione personale fatta apposta per il sogno, e sempre nel sogno tutto era molto logico, con la tipica logica onirica che ben conosciamo, noi esseri umani dotati di fase REM di serie, la canzone era proprio il commento al romanzo, all’atmosfera del romanzo, a quell’inquietudine repressa, al conto alla rovescia, mancano nove giorni, mancano otto giorni, mancano sette giorni...
Il testo diceva: Ti disarmo con un sorriso e ti taglio come vuoi che faccia, e sotto c’erano immagini di Marta, che parla di Dio come di un maniaco sessuale, che si sistema una ciocca dietro l’orecchio, che chiude gli occhi mostrando le poesie sulle palpebre.
Dice: Ero un ragazzino così vecchio nelle sue scarpe, e quel che scelgo è la mia scelta, cosa dovrebbe fare un ragazzo?, e sotto scorrono immagini di Garogenti che è un posacenere pieno di cicche, dove le uniche cose a trasmettere vitalità sono i ruderi in tufo.
Dice: Ti lascio come mi hanno lasciato loro, ad appassire nella negazione, l’amarezza di chi è rimasto solo, e qui vengono fuori le tre scimmiette, Salvo - che non si chiama Salvo - che non parla, Marta che non sente, Gero che non vede.
E poi il ritornello sullo schermo a caratteri cubitali, sullo sfondo di un globo scuro, un buco nero, L’assassino in me è l’assassino in te, amore mio, ti mando questo sorriso.
Dopo mi sono svegliato tutto allegro, e mi sono ricordato del secondo impegno della giornata, postfazione a parte: trovare una frase brillante con cui agganciare una ragazza in astinenza da romanticismo. Si chiama Linda, se vi interessa, è alta e ha gli occhi chiari, il suo numero è 347 ecc. ecc.
Ho riguardato questo romanzo a cui dovevo fare la postfazione, a cui, in realtà, grazie al mio sogno, l’avevo praticamente già fatta, la postfazione, e le ho scritto Sei così bella che ti vorrei narcotizzare e mentre dormi aprirti la pancia e tirare fuori tutto, organi interni, ossa, legamenti, tutto quanto, e dopo infilarmi dentro sotto la tua pelle chiudendola come fosse un sacco a pelo.
Ladro maledetto e stramaledetto, eh? Oh, be’, tanto il romanzo mica è ancora uscito. Quando Linda si accorgerà del furto io sarò già lontano.
Non aspettatemi alzati.
La postfazione di Gianluca Morozzi
Questa postfazione l’ho sognata. Davvero. Sapete, ci sono postfattori – se il termine non esiste, l’ho appena coniato – che prendono chili di appunti, si impegnano, ragionano, cancellano, riscrivono, meditano. E altri come me che vanno fuori la sera, bevono un po’, un altro po’, un altro po’ ancora, a ora tarda vanno a dormire, e la postfazione, a quel punto, grazie al Montenegro ingollato, la sognano. I primi sono più professionali, ma i secondi si divertono di più.
La postfazione a questo romanzo l’ho sognata in forma di booktrailer. O come quei video di youtube in cui scorre in sovrimpressione il testo di una canzone, sopra una serie di immagini suggestive selezionate con cura e senso artistico dall’autore del video stesso.
La canzone in questione è Disarm degli Smashing Pumpkins, il pezzo che Zambuto canticchia a un certo punto della storia. Nel mio sogno il testo scorreva tradotto in italiano, in una mia traduzione personale fatta apposta per il sogno, e sempre nel sogno tutto era molto logico, con la tipica logica onirica che ben conosciamo, noi esseri umani dotati di fase REM di serie, la canzone era proprio il commento al romanzo, all’atmosfera del romanzo, a quell’inquietudine repressa, al conto alla rovescia, mancano nove giorni, mancano otto giorni, mancano sette giorni...
Il testo diceva: Ti disarmo con un sorriso e ti taglio come vuoi che faccia, e sotto c’erano immagini di Marta, che parla di Dio come di un maniaco sessuale, che si sistema una ciocca dietro l’orecchio, che chiude gli occhi mostrando le poesie sulle palpebre.
Dice: Ero un ragazzino così vecchio nelle sue scarpe, e quel che scelgo è la mia scelta, cosa dovrebbe fare un ragazzo?, e sotto scorrono immagini di Garogenti che è un posacenere pieno di cicche, dove le uniche cose a trasmettere vitalità sono i ruderi in tufo.
Dice: Ti lascio come mi hanno lasciato loro, ad appassire nella negazione, l’amarezza di chi è rimasto solo, e qui vengono fuori le tre scimmiette, Salvo - che non si chiama Salvo - che non parla, Marta che non sente, Gero che non vede.
E poi il ritornello sullo schermo a caratteri cubitali, sullo sfondo di un globo scuro, un buco nero, L’assassino in me è l’assassino in te, amore mio, ti mando questo sorriso.
Dopo mi sono svegliato tutto allegro, e mi sono ricordato del secondo impegno della giornata, postfazione a parte: trovare una frase brillante con cui agganciare una ragazza in astinenza da romanticismo. Si chiama Linda, se vi interessa, è alta e ha gli occhi chiari, il suo numero è 347 ecc. ecc.
Ho riguardato questo romanzo a cui dovevo fare la postfazione, a cui, in realtà, grazie al mio sogno, l’avevo praticamente già fatta, la postfazione, e le ho scritto Sei così bella che ti vorrei narcotizzare e mentre dormi aprirti la pancia e tirare fuori tutto, organi interni, ossa, legamenti, tutto quanto, e dopo infilarmi dentro sotto la tua pelle chiudendola come fosse un sacco a pelo.
Ladro maledetto e stramaledetto, eh? Oh, be’, tanto il romanzo mica è ancora uscito. Quando Linda si accorgerà del furto io sarò già lontano.
Non aspettatemi alzati.