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Speciale "Pulp Libri"
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Speciale "Pulp Libri"
Luciano Bianciardi: riapriamo il fuoco
di Michele Barbolini
"Pulp libri", n. 71, gennaio/febbraio 2008

Bianciardi il successo lo raggiunge solo nel 1962 con la pubblicazione presso Rizzoli de La vita agra, dal quale Carlo Lizzani trasse l’omonimo film del 1964, interpretato da Ugo Tognazzi. Bianciardi è a Milano dal ’54, vi era stato chiamato per partecipare alla grande iniziativa culturale a cui stava per dare vita Giangiacomo Feltrinelli. L’esperienza presso il grande editore non è delle migliori (venne licenziato ufficialmente per “scarso rendimento”) come racconta ne Il lavoro culturale (1957) e il salto dalla provincia alla grande metropoli del boom economico resterà sempre una ferita aperta.
A Milano Bianciardi inizia quello che chiamerà il suo “diuturno battonaggio”, il lavoro di traduttore, che si porterà dietro come una condanna per tutta la vita. Avvia anche diverse collaborazioni giornalistiche, negli anni sempre più numerose, sperimentando dolorosamente un vero e proprio precariato del lavoro culturale. Ma fino al ’62 lo scrittore grossetano se ne sta nel suo angolo protetto, con gli amici di Brera e la compagna Maria Jatosti, a tradurre per giorni interi, e negli ambienti culturali viene considerato perlopiù un “rompicoglioni”, uno che non sa stare al suo posto, che va oltre il lecito. Con la pubblicazione de La vita agra all’improvviso le porte dei salotti milanesi si aprono, Bianciardi è chiamato alla radio, in televisione, arrivano i primi soldi dopo anni di stenti. Arriva perfino una recensione entusiasta di Indro Montanelli, cui segue l’invito a collaborare al “Corriere della sera”. Bianciardi rifiuta, Montanelli è pur sempre Montanelli e nell’immaginario dell’anarchico grossetano rappresenta il nemico. Il successo coglie lo scrittore toscano impreparato, in un primo tempo ne gode i frutti e ci si adagia, gira l’Italia per promuovere il suo libro, firma centinaia di dediche, risponde a domande sempre uguali, ma si accorge presto che rischia di essere assorbito proprio da quel mondo della cultura che gli aveva dato il benservito; “finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano”, constaterà ironicamente in quei mesi. Il rischio vero è quell’integrazione alla quale Bianciardi ha resistito con tutte le sue forze e che ora il mondo della cultura gli paventa come possibilità per una vita finalmente tranquilla. Bianciardi non può accettarlo, si rituffa nell’unico lavoro in cui sente di recuperare la propria dignità: la traduzione. Tornare al proprio mestiere quotidiano non è sufficiente, e nel ’64 si trasferisce a Sant’Anna di Rapallo, lascia Milano e si isola il più possible, rifiuta i grandi progetti narrativi e si getta nel lavoro giornaliero per riviste di ogni tipo. Quando torna a Milano nel ’70 ha ormai pochi contatti. La strada dell’alcolismo sembra averla intrapresa coscientemente, come forma di lento suicidio. Il 26 ottobre del 1971 all’ospedale San Carlo di Milano arriva un’ambulanza, sulla lettiga sta un uomo semiaddormentato dai farmaci, con lui un amico e una richiesta urgente di ricovero. Così Pino Corrias descrive in Vita agra di un anarchico (Baldini&Castoldi, 1993) quegli ultimi giorni:
“Nessuno tra i medici ha la più pallida idea di chi sia. É soltanto un paziente arrivato troppo tardi all’ospedale, uno dei tanti dannati dell’alcol, un uomo che sta per morire. Nei diciannove giorni successivi qualcuno si fa vivo per chiedere notizie: un paio di giornalisti amici; un editore. Poi una donna, arrivata da Parigi, che piange e che ogni tanto scappa via dalla camera, e si siede in corridoio e resta lì, in silenzio.
Nessun parente.
Chi è quest’uomo quasi solo?”
L’oblio per Luciano Bianciardi è inziato ben prima della morte a cui è arrivato da solo, a nemmeno quarantonove anni, il 14 novembre del 1971.
Dalla sua scomparsa, la fortuna dell’opera di Bianciardi ha avuto fasi alterne. Autore scomodo, irriducibile e inclassificabile, si è preferito a lungo tacerne, salvo rispolverarne il nome per qualche breve stagione, spesso per parlarne a sproposito, per tirarlo in qualche modo dalla propria parte o per unirsi a un coro di celebrazioni quanto mai tardive e destinate a estinguersi rapidamente. L’ultima occasione fu con la pubblicazione a fine 2005 del primo Antimeridiano delle opere complete, edito da Isbn ed Ex cogita. Il volume raccoglieva tutta l’opera narrativa e saggistica dello scrittore grossetano, i romanzi, i racconti e i diari giovanili e di guerra. Un tomo di oltre 2000 pagine che rendeva finalmente accessibili testi da tempo difficili da reperire. Non ci fu allora quotidiano che non celebrò l’evento con plauso, da Umberto Eco a Antonio D’Orrico, i grandi nomi della critica si affannarono a riempire pagine e colonne per cantare le lodi del “bell’anarchico”, del “giovane ribelle”. Qualcuno magari si sarà chiesto cos’hanno fatto questi potentissimi intellettuali perchè il nome di Bianciardi non venisse dimenticato, perché le sue opere fossero ripubblicate, ma non conta, ci hanno pensato Massimo Coppola, Alberto Piccinini e Luciana Bianciardi e questo basta. Da allora il nome di Bianciardi non ha smesso di circolare grazie anche a numerose pubblicazioni. A metà del 2007 esce Il fuorigioco mi sta antipatico, edito da Stampa Alternativa, curato dal figlio Ettore Bianciardi, raccoglie per la prima volta tutti gli scritti comparsi sul “Guerin sportivo” dal 1970 fino alla morte dello scrittore. Libro preziosissimo per mettere a fuoco la personalità di Bianciardi, stranamente snobbato dalla critica che solo pochi mesi prima aveva applaudito l’Antimeridiano. Poco dopo Feltrinelli ha ripubblicato nell’Universale Economica Il lavoro culturale edito per la prima volta nel 1957. Come una giostra ormai avviata l’onda lunga della riscoperta di Bianciardi sembra non fermarsi. Arrivano in questi mesi nuove importanti iniziative, destinate – ci auguriamo – a dare il via ad una seria riflessione critica sulla figura e l’opera dell’autore toscano.
A riaccendere i riflettori sull’opera bianciardiana sono almeno due soggetti, con idee per molti versi parallele e incompatibili. Da una parte Isbn porta a termine il lavoro intrapreso nel 2005 con la pubblicazione del secondo e ultimo Antimerdiano e la produzione del documentario Bianciardi! prodotto dalla Isbn Milano Films, presentato all’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia.
Dall’altra troviamo un sodalizio ormai collaudato, quello di Ettore Bianciardi e Stampa Alternativa, nella figura del direttore editoriale Marcello Baraghini; mossi dal desiderio di recuperare lo spirito del lavoro bianciardiano hanno dato alle stampe l’“inedito” (vedremo perchè) Ai miei cari compagni e inaugurato il progetto dei Bianciardini, la prima collana di libri a un centesimo.

Isbn, l’antimeridiano e Bianciardi!
Arriva in libreria il secondo Antimeridiano delle opere di Bianciardi, edito come il precedente da Isbn e Ex Cogita, curato ancora una volta da Massimo Coppola, Alberto Piccinini e Luciana Bianciardi. Il volume raccoglie l’enorme mole di articoli (circa un migliaio) pubblicati da Bianciardi dal 1952 al 1971 su una trentina di testate giornalistiche. È una raccolta importante, che restituisce un versante meno noto e floridissimo della produzione bianciardiana, parallelo alla narrativa e al lavoro di traduzione, a questi strettamente connesso e complementare. Dalle cronache di costume degli Incontri provinciali sulla “Gazzetta” di Livorno (’52-’54) alla lunga e intermittente collaborazione con l’ “Avanti!” dove Bianciardi pubblicò i reportage sui minatori della Maremma che divennero poi il suo primo libro, scritto in tandem con Carlo Cassola: I minatori della Maremma, edito da Laterza nel 1956. La produzione pubblicistica del grossetano non si fermerà più e al pari delle traduzioni spazierà in ambiti eterogenei, da testate prestigiose e engagé come “L’unità” o “Il contemporaneo”, alle pagine sportive del “Guerino” fino alle riviste per adulti “Le Ore”, “Playmen”, “Kent”. È un Bianciardi a tutto tondo quello emerge dalle colonne delle riviste, un osservatore attento ed instancabile del suo tempo. Ogni singolo articolo è anche l’occasione per dare sfogo alle ossessioni che ritroviamo nei romanzi degli stessi anni: la curiosità filologica che lo porta a cercare etimologie e origine di parole italiane e straniere; la passione per il Risorgimento, cui ha dedicato almeno tre romanzi, affiora ogni volta che se ne presenta l’occasione; il tema della liberazione sessuale, che gli costò diverse censure. Se dovessimo azzardare una cifra sotto la quale racchiudere il senso di una produzione così frammentata, queste centinaia di articoli potremmo chiamarli scritti politici. È questa la qualità intrinseca di ogni colonna battuta a macchina da Bianciardi, che commenti una sfilata di moda o la mediocrità di Mike Bongiorno, c’è sempre nelle parole dello scrittore toscano una presa di posizione forte, che obbliga alla riflessione. Non sorprenda allora trovare un articolo come Le penne della Edison (1955) in cui Bianciardi bacchetta Enzo Biagi per aver assunto la direzione di “Colloqui” una rivista distribuita gratuitamente dalla Edison, nella quale hanno spazio le penne più prestigiose dell’Italia del quieto vivere. Ed è profetica l’osservazione del grossetano riferita al mondo culturale dell’epoca, in cui “I nuovi principi che non possono più comprarsi un blasone, comprano una squadra di calcio, o un mazzetto di intellettuali, per farsene una corte”.
Due cose almeno, da notare sul volume di Isbn. Quell’anti, nel titolo che si capisce poco, perchè, diciamolo, a parte la copertina differente e il nome dell’editore, i due volumi bianciardiani sono dei veri e propri meridiani e allora un poco infastidisce questo voler usare Bianciardi per polemiche editoriali. Resta poi da notare che queste opere complete, proprio complete non sono. Mancano, ad esempio, molti articoli apparsi sul “Guerin sportivo” che troviamo nel volume curato da Ettore Bianciardi per Stampa Alternativa.
A suggellare la passione per Bianciardi, Massimo Coppola ha inaugurato la neonata Isbn Milano Films con un documentario sullo scrittore grossetano. Bianciardi! ricostruisce la figura dell’intellettuale toscano sul filo delle testimonianze di chi l’ha conosciuto e gli è stato accanto, prime fra tutti Maria Jatosti e la figlia Luciana. Montando le interviste sui filmati degli anni ‘50 e ’60, dalla Maremma a Milano, Coppola ripercorre le orme della vicenda bianciardiana. Nonostante la cura del montaggio e il buon lavoro d’archivio, ne esce una storia parziale e lacunosa. Se non si comprende perchè non sia stato interpellato il primo figlio di Bianciardi, Ettore, è ancor più fastidioso vedere indugiare la macchina da presa su un Lando Buzzanca che insiste nel dipingere Bianciardi come un alcolizzato sessuomane: un po’ come se in un film su Pasolini si sentissero minuti interi di racconti sul poeta che va a cercarsi i ragazzetti la sera! Ancor più imbarazzante poi l’insinuazione reiterata che Bianciardi amasse la figlia “un po’ troppo”, che ne fosse davvero innamorato, ripetutamente paventata nella pellicola. Se l’intento era meritevole, il risultato è in buona parte deludente, a volte fin troppo irritante.

Riaprire il fuoco: da Ai miei cari compagni ai Bianciardini
Dopo Il fuorigioco mi sta antipatico, torna la coppia Marcello Baraghini-Ettore Bianciardi. I due si sono messi in testa di fare qualcosa di più che ripubblicare lo scrittore grossetano: vogliono “portare avanti le sue battaglie culturali”. Ecco allora un testo “filologicamente scorretto”: Ai miei cari compagni è infatti un romanzo inedito per il semplice fatto che Bianciardi non l’ha mai scritto. Luciano almeno, perchè a comporlo, coi materiali paterni ci ha pensato il figlio. Raccogliendo e montando vari scritti sul Risorgimento, racconti, frammenti di romanzo, articoli, Ettore Bianciardi ci offre una viva testimonianza di una delle passioni inestinguibili del grossetano, quel Risorgimento italiano che per tutta la vita sognò di poter rivivere. In Ai miei cari compagni il sogno si realizza, Bianciardi prende parte alle cinque giornate di Milano (come già in Aprire il fuoco) e sbarca a Marsala al seguito di Garibaldi. Ettore Bianciardi si limita al montaggio ed aggiunge un utile indice dei nomi, svelando in buona parte i consueti giochi di maschere adottati dal padre. Ne esce un libro divertente e appassionante che centra l’obiettivo bianciardiano di far rinascere, magari nei più giovani, l’interesse per un periodo storico del nostro Paese, trattato spesso e volentieri con sufficienza e inutile retorica.
Le battaglie di Bianciardi per una cultura popolare sono note ai più, basti pensare al bibliobus, il furgone carico di libri con cui lo scrittore, al tempo direttore della biblioteca Chelliana di Grosseto, girava per la Maremma per portare libri ai braccianti e ai minatori. Con questo spirito nascono i Bianciardini, la prima collana di libri a 1 centesimo. Grafica scarna, formato che ricorda i gloriosi Millelire inventati proprio da Baraghini, questi microlibri sono in tutto e per tutto fuorilegge; non hanno codice isbn, non sono distribuiti nelle librerie. Per averli bisogna andare sul sito www.riaprireilfuoco.org, acquistarli o scaricarli gratuitamente. In verità il prezzo di un Bianciardino è di almeno un centesimo, quanto basta per coprire le spese di stampa delle 16 paginette. Da un centesimo in su, tutto quello che viene versato all’acquisto diventa una vera e propria partecipazione attiva all’iniziativa, garantendo i fondi per i successivi Bianciardini. I primi titoli sono tutti dedicati all’ispiratore dell’iniziativa. Occupa i primi due Bianciardini un ironico e attualissimo scritto comparso su “ABC” nel 1966: Come si diventa un intellettuale in cui Bianciardi appronta un vero e proprio manualetto su come comportarsi per entrare a pieno titolo nel mondo culturale, in particolare per quelli che “madre natura non ha dotato di talento”. Segue poi quello che è probabilmente l’ultimo scritto prima della scomparsa, La mamma maestra, un commovente racconto sulla madre e l’infanzia grossetana. Di seguito troviamo La tradotta per Mosca, prima puntata di un reportage sul viaggio di Bianciardi da Venezia a Mosca apparso su “Il Giorno” nel’63 e il racconto del ’67 Un occhio a Cracovia. Il progetto complessivo dell’iniziativa, ribattezzata Riaprire il fuoco dal titolo dell’ultimo romanzo di Bianciardi (Aprire il fuoco, 1969), prevede la pubblicazione di altri titoli di autori italiani e stranieri (il prossimo sarà Leo Longanesi) nell’intento di divulgare opere dimenticate e di combattere un mercato editoriale in cui il libro è ormai trattato alla stregua di un qualunque altro prodotto commerciale. Sulla scia di questa iniziativa, nel 2008 è prevista la ripubblicazione di Aprire il fuoco per Stampa Alternativa, col titolo originariamente coniato da Bianciardi: Le 5 giornate di Milano. Accompagneranno il libro un video con la sceneggiatura del primo capitolo del romanzo e un cd audio con la lettura dell’opera.
Il terreno è fertile. L’opera di Luciano Bianciardi è per la prima volta accessibile nella sua totalità. È arrivato il momento di riaprire il fuoco, di confrontarsi senza remore con gli scritti dell’autore grossetano e la speranza è che questa volta si tratti di un confronto proficuo, in grado di cogliere il valore imprescindibile dei suoi testi. Ci auguriamo di non dover leggere più di un Bianciardi come “figura cristologica” o “fantozziana”. Speriamo che i suoi testi siano letti e amati dai nuovi lettori come da quelli di un tempo. Gli strumenti per una critica serrata e corrosiva alla nostra società li troviamo, come un’eredità preziosa, nelle pagine dei suoi romanzi, articoli e racconti, con l’implicito invito a servircene.
Su un segnalibro della Rizzoli del 1969 per promuovere Aprire il fuoco era stampata questa frase: “A Grosseto, e nei dintorni immediati, si diceva un tempo, forse lo si dice ancora ‘bianciardata’; e la parola stava a significare un'impresa risicata, pericolosa, stravagante”. Oggi più che mai è tempo di bianciardate.

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