Una scena underground ancora in piena espansione nonostante lo stato di polizia del generale El Sisi. Siamo sicuri che la rivoluzione egiziana è stata definitivamente sconfitta?
Il Cairo chiama ancora, ci chiama da lontano, dalla sua civiltà millenaria, dalla posizione strategica, nel settore più delicato della scacchiera geopolitica del conflitto mondiale. Il Cairo ci chiama perché è una megalopoli dove si concentrano le contraddizioni e le diseguaglianze più atroci del nostro presente, ci chiamano le sue sterminate periferie, dove vive un popolo orgoglioso tenuto nell’ignoranza da troppo tempo. Ci chiama il suo tentativo di sollevarsi e dopo tre anni di regime paranoico ci chiede attenzione e solidarietà.
Questo libro, scritto da una donna italiana con padre egiziano, ripercorre cinque anni trascorsi dalla rivolta del gennaio 2011, gli istanti di speranza o di ansia tra una telefonata, un aggancio a skype, un messaggio, le voci dei parenti, dei tanti amici writer e musicisti che le spiegano la situazione, poi due viaggi in Egitto con il registratore in mano a esplorare l’underground. Un memoir affettivo nel quale si intrecciano fatti di cronaca, vicende personali, luoghi, incontri, immaginari e riflessioni.
Qui si sente il respiro del Nilo, il vento che soffia su piazza Tahrir e per le vie affollate di Downtown, su e giù per i viali di Zamalek e per i quartieri più popolari, ma soprattutto si ascoltano le voci di una scena controculturale in fermento che tenta ancora oggi di organizzare battaglie in nome della libertà d’espressione e per la parità dei diritti.
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