http://festinalente.ztl.eu, 17 ottobreEvasioni e rivolte
Ormai non c’è più distinzione tra guerra interna e guerra esterna. Gli scenari sparsi sulla superficie del globo – periferie, fabbriche e cantieri, cpt nelle nostre città; i Balcani; il Medio Oriente; l’Africa – sono collegati da un doppio filo: il primo, rosso sangue, è la storia di disperazione di migranti e clandestini, degli schiavi dell’ordine mondiale della globalizzazione, necessari per tenere in piedi il nostro tenore di vita, che viene comunque eroso ogni giorno; il secondo filo è nero, e spinato, percorso da scariche elettriche, ed è il filo del potere o, meglio, dei poteri, da quelli dello Stato che sancisce la clandestinità di un essere umano a quelli delle polizie (corrotte o meno) che si accaniscono tra margini e frontiere, per arrivare a quello dei trafficanti di uomini e dei contractors, mercenari di sicurezze private ad allargare l’anello della guerra permanente in ogni settore.
Questo è ciò che ci racconta evasioni e rivolte, di Emilio Quadrelli, di cui già più volte ho accennato qui sul blog. E ce lo racconta con ferocia, perché non fa sconti sulla verità.
Se grazie a testi come Lager Italiani di Marco Rovelli o Mamadou va a morire di Gabriele Del Grande abbiamo potuto sentire i racconti dei migranti, dall’inizio dei loro viaggi colmi di speranza verso un futuro migliore alle esistenze all’interno dei cpt, nel testo di Quadrelli ci viene raccontato il dopo: dopo la rivolta all’interno dei centri, dopo la fuga, in esistenze ancora più estreme, assolutamente individuali e proprio per questo paradigma di modelli globali di cui stiamo vivendo solo la fase aurorale, come ci dice lo stesso Quadrelli nell’introduzione.
Cinque storie compongono il libro.
La prima è quella di un nomade, consegnato dal consiglio del suo campo alle autorità per evitare uno sgombero, che una volta evaso dal cpt si unisce a un’organizzazione criminale attiva nei Balcani che assalta banche e portavalori, vicina a territori e situazioni di guerra, in cui la criminalità è contigua all’azione militare vera e propria, quasi sempre mercenaria, e a traffici d’armi.
La seconda è quella di un sudamericano che vive nel Nord Italia che aiuta il fratello finito in un cpt a evadere, raccontandoci della gestione del potere all’interno delle comunità nazionali e del rapporto ambiguo di queste con l’autorità; non solo, ci dice anche molto chiaramente della difficoltà di dialogo tra chi l’esperienza del cpt la vive e chi – italiano – la studia e la segue: quando la questione viene messa giù nell’unico termine possibile per i migranti, cioè l’evasione, gli italiani si tirano indietro, mascherandosi dietro il falso problema della legalità, che “solo chi ha i soldi può fare un discorso del genere”, dice il protagonista: è illegale cercare di sopravvivere? Il terzo testimone è un africano che in patria milita in un gruppo politico armato che si oppone al regime filoccidentale, scappa in Francia ma non ottiene lo status di rifugiato e arriva in Italia, come clandestino a lavorare sotto ricatto: la ribellione dei lavoratori come lui finisce nel cpt, mettendo il luce gli intrecci tra mercato, politica e gestione della sicurezza. Un’altra evasione e di nuovo una vita nell’illegalità criminale delle grandi città, e ci fa rendere conto che l’attraversamento del confine tra legale e illegale è molto più diffuso di quanto si pensi.
La quarta vita che si racconta è quella di un ragazzo arabo con il miraggio dell’occidente che arriva in Italia solo per essere sfruttato e tenuto sotto ricatto da suoi connazionali, per lavorare tessuti per grandi firme della moda italiana con una paga da fame. Retata, cpt, evasione. Il copione è sempre simile, ma all’interno del centro il ragazzo conosce un fedayin, che lo riavvicina all’Islam e alla necessità della piccola jihad, ricostruendo un senso di comunità e un contesto in cui agire.
L’ultima storia è quella di una ragazza albanese, strappata con la violenza alla propria casa per finire a lavorare nelle fabbriche occidentali in Albania e poi, con l’arrivo degli eserciti, chiusa in un bordello. Evade grazie a un’azione da commando e in commando rimane: è l’unico modo per garantirsi un’esistenza che non sia fatta di stupri, violenze e privazione di diritti.
Storie che per la nostra tranquillità di vita forse non riusciamo nemmeno a capire davvero, che sentiamo talmente lontane da credere che non ci riguardino.
E invece arriva l’ultimo capitolo a tirare tutti i fili, perché forse che le storie partano o passino dal nostro Paese e dai cpt non è un legame sufficiente. Ci sono allora le testimonianze di militari italiani in missione in Medio Oriente (Iraq e Afghanistan) e di contractors che hanno lavorato sia in aree di guerra che in Italia, come vigilanza dei lavoratori nei cantieri, per esempio.
Definire certi passaggi agghiaccianti non rende l’idea. L’altro - che sia migrante, iracheno, afghano poco importa – è sempre nemico e l’attività degli eserciti pubblici e privati è quella di garantire la sicurezza del nostro mondo dall’assalto di queste persone. Questo è ciò che ci dicono le testimonianze e le attività di contractors ed eserciti, stando alle informazioni che circolano e alle prassi che si stanno diffondendo, saranno sempre più importanti non solo in zone di guerra ma direttamente nelle nostre città. E queste persone continuano a considerarsi difensori della nostra civiltà, nutrendo un disprezzo senza pari per gli altri, considerati barbari quando va bene e bestie nella maggior parte dei casi.
…Sembra lecito sostenere che, sulle popolazioni migranti, siano in atto modelli di gestione e controllo estendibili più o meno velocemente anche ai nativi. Ciò che le interviste ai vari operatori sicuritari hanno evidenziato non sono altro che anticipazioni di un modello di governo dei viventi la cui posta in palio rimane il lavoro dei corpi (…) ed è qui che, con ogni probabilità, molti nodi vengono al pettine e l’anomalia a cui attualmente è soggetto il migrante tende piuttosto a farsi modello normativo dei nostri mondi.
E se è “dalla guerra che bisogna partire per spiegare il conflitto che attraversa anche le nostre metropoli”, lo scenario che abbiamo davanti agli occhi si fa ogni giorno più inquietante e cupo.
di RobertoQuesto è ciò che ci racconta evasioni e rivolte, di Emilio Quadrelli, di cui già più volte ho accennato qui sul blog. E ce lo racconta con ferocia, perché non fa sconti sulla verità.
Se grazie a testi come Lager Italiani di Marco Rovelli o Mamadou va a morire di Gabriele Del Grande abbiamo potuto sentire i racconti dei migranti, dall’inizio dei loro viaggi colmi di speranza verso un futuro migliore alle esistenze all’interno dei cpt, nel testo di Quadrelli ci viene raccontato il dopo: dopo la rivolta all’interno dei centri, dopo la fuga, in esistenze ancora più estreme, assolutamente individuali e proprio per questo paradigma di modelli globali di cui stiamo vivendo solo la fase aurorale, come ci dice lo stesso Quadrelli nell’introduzione.
Cinque storie compongono il libro.
La prima è quella di un nomade, consegnato dal consiglio del suo campo alle autorità per evitare uno sgombero, che una volta evaso dal cpt si unisce a un’organizzazione criminale attiva nei Balcani che assalta banche e portavalori, vicina a territori e situazioni di guerra, in cui la criminalità è contigua all’azione militare vera e propria, quasi sempre mercenaria, e a traffici d’armi.
La seconda è quella di un sudamericano che vive nel Nord Italia che aiuta il fratello finito in un cpt a evadere, raccontandoci della gestione del potere all’interno delle comunità nazionali e del rapporto ambiguo di queste con l’autorità; non solo, ci dice anche molto chiaramente della difficoltà di dialogo tra chi l’esperienza del cpt la vive e chi – italiano – la studia e la segue: quando la questione viene messa giù nell’unico termine possibile per i migranti, cioè l’evasione, gli italiani si tirano indietro, mascherandosi dietro il falso problema della legalità, che “solo chi ha i soldi può fare un discorso del genere”, dice il protagonista: è illegale cercare di sopravvivere? Il terzo testimone è un africano che in patria milita in un gruppo politico armato che si oppone al regime filoccidentale, scappa in Francia ma non ottiene lo status di rifugiato e arriva in Italia, come clandestino a lavorare sotto ricatto: la ribellione dei lavoratori come lui finisce nel cpt, mettendo il luce gli intrecci tra mercato, politica e gestione della sicurezza. Un’altra evasione e di nuovo una vita nell’illegalità criminale delle grandi città, e ci fa rendere conto che l’attraversamento del confine tra legale e illegale è molto più diffuso di quanto si pensi.
La quarta vita che si racconta è quella di un ragazzo arabo con il miraggio dell’occidente che arriva in Italia solo per essere sfruttato e tenuto sotto ricatto da suoi connazionali, per lavorare tessuti per grandi firme della moda italiana con una paga da fame. Retata, cpt, evasione. Il copione è sempre simile, ma all’interno del centro il ragazzo conosce un fedayin, che lo riavvicina all’Islam e alla necessità della piccola jihad, ricostruendo un senso di comunità e un contesto in cui agire.
L’ultima storia è quella di una ragazza albanese, strappata con la violenza alla propria casa per finire a lavorare nelle fabbriche occidentali in Albania e poi, con l’arrivo degli eserciti, chiusa in un bordello. Evade grazie a un’azione da commando e in commando rimane: è l’unico modo per garantirsi un’esistenza che non sia fatta di stupri, violenze e privazione di diritti.
Storie che per la nostra tranquillità di vita forse non riusciamo nemmeno a capire davvero, che sentiamo talmente lontane da credere che non ci riguardino.
E invece arriva l’ultimo capitolo a tirare tutti i fili, perché forse che le storie partano o passino dal nostro Paese e dai cpt non è un legame sufficiente. Ci sono allora le testimonianze di militari italiani in missione in Medio Oriente (Iraq e Afghanistan) e di contractors che hanno lavorato sia in aree di guerra che in Italia, come vigilanza dei lavoratori nei cantieri, per esempio.
Definire certi passaggi agghiaccianti non rende l’idea. L’altro - che sia migrante, iracheno, afghano poco importa – è sempre nemico e l’attività degli eserciti pubblici e privati è quella di garantire la sicurezza del nostro mondo dall’assalto di queste persone. Questo è ciò che ci dicono le testimonianze e le attività di contractors ed eserciti, stando alle informazioni che circolano e alle prassi che si stanno diffondendo, saranno sempre più importanti non solo in zone di guerra ma direttamente nelle nostre città. E queste persone continuano a considerarsi difensori della nostra civiltà, nutrendo un disprezzo senza pari per gli altri, considerati barbari quando va bene e bestie nella maggior parte dei casi.
…Sembra lecito sostenere che, sulle popolazioni migranti, siano in atto modelli di gestione e controllo estendibili più o meno velocemente anche ai nativi. Ciò che le interviste ai vari operatori sicuritari hanno evidenziato non sono altro che anticipazioni di un modello di governo dei viventi la cui posta in palio rimane il lavoro dei corpi (…) ed è qui che, con ogni probabilità, molti nodi vengono al pettine e l’anomalia a cui attualmente è soggetto il migrante tende piuttosto a farsi modello normativo dei nostri mondi.
E se è “dalla guerra che bisogna partire per spiegare il conflitto che attraversa anche le nostre metropoli”, lo scenario che abbiamo davanti agli occhi si fa ogni giorno più inquietante e cupo.