TuttoMilano, 27 maggio 2021 Alla ricerca della boxe popolare
L’arte semplice
“Muoversi come pugili, colpire come compagni”, era il titolo della tesi di dottorato di Lorenzo Pedrini, ricercatore di sociologia all'Università Bicocca che per tre anni ha studiato la boxe popolare a Milano. Un’attività che si svolge in spazi autogestiti, associazioni, centri sociali: ambienti politicamente lontani da quelli che nel secolo scorso hanno cercato di appropriarsi della cultura pugilistica. Quella tesi di ricerca è confluita in due libri: La boxe popolare. Etnografia di una cultura fisica e politica, uscito l’anno scorso per Novalogos, e Cuore, classe e fegato in uscita per Agenzia X.
Molti vedono il pugilato come uno sport reazionario.
«Alcune forze politiche reazionarie si sono appropriate di varie discipline marziali in diversi Paesi, penso per esempio a Stati Uniti o all’ex Unione Sovietica. Ma il panorama è più complesso, in Polonia o nel Regno Unito ci sono tante realtà di pugilato legate anche ai mondi socialistici o anarchici».
In Italia?
«Abbiamo il peso del fascismo, che ha usato tutti gli sport come strumento di propaganda e costruzione nazionalistica. Tuttavia, nelle città con una certa tradizione antagonista, come Torino, Napoli, Bologna, Roma, Milano, negli ultimi vent’anni il pugilato è stato praticato anche in diversi spazi autogestiti che si sono creati proprio attorno a questo e altri sport».
Come nasce il fenomeno?
«Dopo il G8 di Genova è iniziata la repressione di quei movimenti e molti hanno cercato modi alternativi di aprirsi alla cittadinanza. In questo contesto sono emerse le attività di sport popolare: calcio, basket, pallavolo, yoga. E boxe».
Perché la boxe?
«Soprattutto per una questione di accessibilità materiale: non servono spazi, impianti o attrezzi particolari. Ci si può allenare anche in un parco con fasce e guanti comprati per 15 euro. Inoltre, tra tutte le arti marziali, il pugilato è la più “semplice”».
A Milano?
«L’esperienza più nota a palestra Torricelli. Nel 2017 esistevano una decina di spazi autogestiti in cui si praticava la boxe in città, che sono quelli in cui ho condotto le mie ricerche, ma la crisi sanitaria ha rimesso tutto in discussione».
Come si concilia l’etica della boxe con quei movimenti?
«Le coordinate etiche che accomunano un certo modo di fare boxe con l’universo politico progressista o antagonista so-no quelle della lotta, della cooperazione, dell’impegno e della socievolezza».
Nicola Baroni“Muoversi come pugili, colpire come compagni”, era il titolo della tesi di dottorato di Lorenzo Pedrini, ricercatore di sociologia all'Università Bicocca che per tre anni ha studiato la boxe popolare a Milano. Un’attività che si svolge in spazi autogestiti, associazioni, centri sociali: ambienti politicamente lontani da quelli che nel secolo scorso hanno cercato di appropriarsi della cultura pugilistica. Quella tesi di ricerca è confluita in due libri: La boxe popolare. Etnografia di una cultura fisica e politica, uscito l’anno scorso per Novalogos, e Cuore, classe e fegato in uscita per Agenzia X.
Molti vedono il pugilato come uno sport reazionario.
«Alcune forze politiche reazionarie si sono appropriate di varie discipline marziali in diversi Paesi, penso per esempio a Stati Uniti o all’ex Unione Sovietica. Ma il panorama è più complesso, in Polonia o nel Regno Unito ci sono tante realtà di pugilato legate anche ai mondi socialistici o anarchici».
In Italia?
«Abbiamo il peso del fascismo, che ha usato tutti gli sport come strumento di propaganda e costruzione nazionalistica. Tuttavia, nelle città con una certa tradizione antagonista, come Torino, Napoli, Bologna, Roma, Milano, negli ultimi vent’anni il pugilato è stato praticato anche in diversi spazi autogestiti che si sono creati proprio attorno a questo e altri sport».
Come nasce il fenomeno?
«Dopo il G8 di Genova è iniziata la repressione di quei movimenti e molti hanno cercato modi alternativi di aprirsi alla cittadinanza. In questo contesto sono emerse le attività di sport popolare: calcio, basket, pallavolo, yoga. E boxe».
Perché la boxe?
«Soprattutto per una questione di accessibilità materiale: non servono spazi, impianti o attrezzi particolari. Ci si può allenare anche in un parco con fasce e guanti comprati per 15 euro. Inoltre, tra tutte le arti marziali, il pugilato è la più “semplice”».
A Milano?
«L’esperienza più nota a palestra Torricelli. Nel 2017 esistevano una decina di spazi autogestiti in cui si praticava la boxe in città, che sono quelli in cui ho condotto le mie ricerche, ma la crisi sanitaria ha rimesso tutto in discussione».
Come si concilia l’etica della boxe con quei movimenti?
«Le coordinate etiche che accomunano un certo modo di fare boxe con l’universo politico progressista o antagonista so-no quelle della lotta, della cooperazione, dell’impegno e della socievolezza».