www.punk-hxc.com, 10 agosto 2012 Crass bomb
Escritos, declaraciones y fotos de la banda más peligrosab del Reino Unido. CRASS y sus integrantes escribieron un importante capítulo en la escena musical más combativa surgida entre el derrumbe de las protestas hippies y el nacimiento del punk. Crass bomb se seleccionan textos, declaraciones y vivencias que son el testimonio vivo del ocaso de las formas y propuestas del tardío movimiento hippie y la crítica feroz del fenómeno punk. Del mismo modo CRASS, expresándose como plataforma de propaganda política por medio de la música punk, dieron un gran impulso al surgimiento de movimientos como la defensa animal o el célebre periódico-grupo Crass War.
by Kafrewww.audiodrome.it, aprile 2011Crass bomb
Come affrontare un nome ingombrante come quello dei Crass senza finire nel solito saggio o peggio nella classica carrellata di aneddoti e dati statistici? Il collettivo D.I.Y. (ovvero il team formato dall’italiana Agenzia X e dalla madrilena La Felguera Ediciones) ha deciso di utilizzare una sorta di collage – o meglio un patchwork – che affianca testimonianze dirette – su tutte, l’interessante “Investigando l’ascella privata” di Penny Rimbaud – e indirette, come la testimonianza di Marco Philopat circa l’impatto dei Crass sulla scena punk italiana, interviste, dichiarazioni, scritti, volantini, testi, persino poesie, a formare un quadro pulsante e vivo, in cui l’interesse dei contenuti supera la mancanza di omogeneità che una tale impostazione, va da sé, finisce per produrre. Del resto, il fenomeno Crass è talmente ricco e sfaccettato, con la continua lotta interna tra contenuti ideologici e forma musicale, necessità di attenersi ad un codice morale ferreo e volontà di condividere e far circolare le proprie idee, da impedire qualsiasi oggettività: o si amano e si venerano come eroi assoluti dell’etica d.i.y. oppure si deplora la loro impostazione rigida e in qualche modo manichea.
In realtà, i Crass sono stati entrambe le cose, motori principali di un cambiamento necessario e reale (visto che il punk alla fine si era risolto in un’ennesima moda consegnata alle case discografiche), ma anche fenomeno auto-referenziale e incapace di evolversi senza implodere, una sorta di vittima sacrificale nata con una scadenza e votata al martirio. Perché, vale la pena sottolinearlo, il mondo dei Crass era tenuto insieme da una tensione superficiale sempre sul punto di spezzarsi, combattuto tra la voglia di essere un collettivo a tutti gli effetti e il rischio di vedere una delle personalità coinvolte prendere il sopravvento sulle altre, il che alla lunga si è rivelato anche il vero punto debole dell’utopia crassiana. Sarebbe, però, altamente ingiusto considerare i Crass dei semplici idealisti incapaci di sortire effetti nel mondo reale, perché la storia del collettivo è principalmente storia di azioni e come tale va trattata. Si va dalla Crass Records alla famosa tape con il finto dialogo tra la Thatcher e Reagan (che portò sull’orlo di una crisi diplomatica), dai concerti in appoggio alla protesta dei minatori all’impegno durante la guerra delle Falkland: i Crass non amavano di certo starsene con le mani in mano, né pensavano di poter cambiare la realtà con i soli dischi, anzi, troppo spesso il loro limite viene rintracciato proprio nel non dare abbastanza peso al fattore musicale, tanto da essere considerati da molti come il gruppo degno del massimo rispetto ma pressoché inascoltabile.
Il libro uscito in questi giorni ha il merito di rendere alla perfezione la molteplicità della materia trattata, tutte le sue sfumature e – perché no? – i punti deboli di questo percorso, riporta alla luce momenti toccanti, come la storia di Wally Hope e del suo internamento, e lascia spazio alla viva voce dei protagonisti, Penny Rimbaud in primis. Probabilmente non farà cambiare idea ai detrattori, né getterà nuova luce sul collettivo, ma ha dalla sua la capacità di mettere a fuoco alcuni momenti meno didascalici dell’avventura, così da lasciarsi apprezzare anche da chi non rientra nella schiera dei seguaci stretti. In fondo, è davvero impossibile racchiudere l’intera vicenda Crass in un solo volume, così come appare assurdo voler ridurre alla mera storia di una formazione rock l’epopea di chi nelle rock-star e nello star-system ha sempre visto il principale nemico e l’obiettivo contro cui scagliarsi.
di Michele GiorgiIn realtà, i Crass sono stati entrambe le cose, motori principali di un cambiamento necessario e reale (visto che il punk alla fine si era risolto in un’ennesima moda consegnata alle case discografiche), ma anche fenomeno auto-referenziale e incapace di evolversi senza implodere, una sorta di vittima sacrificale nata con una scadenza e votata al martirio. Perché, vale la pena sottolinearlo, il mondo dei Crass era tenuto insieme da una tensione superficiale sempre sul punto di spezzarsi, combattuto tra la voglia di essere un collettivo a tutti gli effetti e il rischio di vedere una delle personalità coinvolte prendere il sopravvento sulle altre, il che alla lunga si è rivelato anche il vero punto debole dell’utopia crassiana. Sarebbe, però, altamente ingiusto considerare i Crass dei semplici idealisti incapaci di sortire effetti nel mondo reale, perché la storia del collettivo è principalmente storia di azioni e come tale va trattata. Si va dalla Crass Records alla famosa tape con il finto dialogo tra la Thatcher e Reagan (che portò sull’orlo di una crisi diplomatica), dai concerti in appoggio alla protesta dei minatori all’impegno durante la guerra delle Falkland: i Crass non amavano di certo starsene con le mani in mano, né pensavano di poter cambiare la realtà con i soli dischi, anzi, troppo spesso il loro limite viene rintracciato proprio nel non dare abbastanza peso al fattore musicale, tanto da essere considerati da molti come il gruppo degno del massimo rispetto ma pressoché inascoltabile.
Il libro uscito in questi giorni ha il merito di rendere alla perfezione la molteplicità della materia trattata, tutte le sue sfumature e – perché no? – i punti deboli di questo percorso, riporta alla luce momenti toccanti, come la storia di Wally Hope e del suo internamento, e lascia spazio alla viva voce dei protagonisti, Penny Rimbaud in primis. Probabilmente non farà cambiare idea ai detrattori, né getterà nuova luce sul collettivo, ma ha dalla sua la capacità di mettere a fuoco alcuni momenti meno didascalici dell’avventura, così da lasciarsi apprezzare anche da chi non rientra nella schiera dei seguaci stretti. In fondo, è davvero impossibile racchiudere l’intera vicenda Crass in un solo volume, così come appare assurdo voler ridurre alla mera storia di una formazione rock l’epopea di chi nelle rock-star e nello star-system ha sempre visto il principale nemico e l’obiettivo contro cui scagliarsi.
www.rockit.it, 15 marzo 2011Crass Bomb
Il collettivo che risponde al nome di Do It Yourself è composto dalle redazioni di Agenzia X e dell’editore spagnolo La Felguera. Il lavoro del gruppo risponde ad un’antologizzazione del Crass pensiero: testi delle canzoni, poesie, fotografi e grafiche, oltre che brevi saggi, tradotti ed offerti come utile compendio per inquadrare una realtà mai definitivamente centrata o abbastanza ragionata della controcultura degli ultimi decenni. Nell’analizzare le parole degli inglesi, si riscontra un valore sovversivo emblematico e condivisibile anche se spesso strutturalmente utopico (vedi il caos interno derivato dalla recente riedizione degli album). Una miccia che ancora brucia ma che mai è diventata fuoco (forse per volontà, forse giustamente), una realtà importate da studiare per avere qualche appiglio in più per comprendere il presente, pur senza cadere nel culto. Introduzione di Marco Philopat.
di Stefano FantiRumore, marzo 2011Crass. Do It Yourself (or fuck off)
Si parla spesso di musica e messaggio, di importanza dedicata alla prima servendosi della seconda o di musica usata come mero veicolo per l’impegno politico; eterna dicotomia che accompagna l’arte dalle sue origini fino ai tempi nostri.
In genere il “messaggio” è stato usato per conquistare un target sicuro, coinvolgendo gli arrabbiati, ribelli perennemente assetati di parole violente contro il sistema e in cerca di una miccia che possa innescare un’esplosione di magnitudo ragguardevole. È lecito dividersi sul “chi ci è chi ci fa”, ma è indubbio che in diverse epoche gente come Chicago Transit Authority, Jamiroquai e – con tutti i distinguo del caso – pure Sua Maestà Bob Dylan (così engagé agli inizi, così disimpegnato dopo l’abbandono del folk) – giù giù fino a fenomeni nostrani come Gipo Farassino o altri che nel ’70 ottenevano consensi sbraitando slogan – abbiano cavalcato l’onda della protesta quando era (commercialmente) accorto farlo. Niente di male in sé, ogni strategia di marketing è lecita quando si tratta di vendere un prodotto, anche la più inusuale. Sono molti meno, invece, i nomi che vengono in mente quando si pensa a chi ha certo privilegiato il contenuto (politico), fottendosene in grande stile della forma. Probabilmente occorre limitarsi ai Fugs per gli anni ’60 e ai Crass per l’era punk. I Crass sono l’anomalia dell’anomalia, esplosi nel ’77 In cui i Sex Pistols sconvolsero il mondo ma distanti anni luce da lutto ciò che riguardava Rotten e compagni. Dove quelli erano giovani arroganti e legati a doppio filo, con una tendenza fashion, vagamente situazionista e certamente attenta al business, i Crass rispondevano con una maggiore età anagrafica e con uno scavalcamento a (ultra-)sinistra dei punk e delle sue ambiguità. “Sinistra” perché oggi le istanze vegane, femministe, salutiste, anti-clericali, pacifiste e anarchiche del gruppo hanno trovato inequivocabilmente una collocazione politica, dove allora, in un’età più confusa ma assai più dinamica, non era così chiaro far rientrare i Crass da una parte o dall’altra.“Non crediamo di essere un gruppo punk. Io, personalmente, non mi identifico con niente di ciò che va sotto il nome di punk.”
Così nelle parole di Penny Rimbaud, batterista e anima(le) politico della band, motore di tutte le iniziative do protesta di un collettivo che univa l’estro di Gee Vaucher, la furia delirante di Steve Ignorant, il femminismo aggressivo di Eve Libertine e Joy de Vivre. Come racconta Marco Philopat nell’introduzione a Crass bomb. L’azione diretta nel punk (Agenzia X, 176 pp.), fu sconvolgente per molti accorgersi così rapidamente che la rabbia iconoclasta del Pistols e persino dei politicamente espliciti Clash finisse per sembrare l’ennesimo sberleffo del sistema, paragonato alla sostanza della filosofia esistenziale secondo i Crass. I più punk di tutti sanza esserlo, anzi insistendo nel contraddire tutti i (pochi) comandamenti del genere. Fanculo ai simboli e alle spille da balia, fanculo alle mitizzazioni da rockstar e fanculo pure all’odio verso gli hippie, che i Crass finiranno per preferire al testosterone punk. Il punk portava avanti la sua rivoluzione, per “mandare a casa” i conservatori della chitarra; l’obiettivo dei Crass erano gli altri conservatori, quelli che sedevano in Parlamento.
“Eravamo arrabbiati proprio perché consapevoli delle possibilità esistenti. È questo a produrre la rabbia più grande di tutte. Lo eravamo perché sapevamo che attraverso la cooperazione era possibile produrre il proprio cibo, proteggersi e nutrirsi. Se tu sai non hai più scuse, noi ne eravamo la prova.”
Philopat e Agenzia X, si diceva, parlando di un libro imbevuto totalmente di etica crassiana, un omaggio nello spirito originario della band di Penny Rimbaud. Realizzato grazie alla collaborazione delle redazioni di Agenzia X e La Felguera Ediciones, sotto l’acronimo DIY, Crass Bomb è una sorta di collage di schegge crassiane: estratti di interviste, testi dei brani, autobiografie uscite insieme ai dischi e persino estratti dal blog di Penny. Confusinario ma efficace, spezzettato ma pronto ad accendersi, proprio come i nostri solevano fare dal vivo o in album come Christ – the Album.
“Se qualche cambiamento c’è stato, è avvenuto con Christ – the Album, siamo diventati schifosamente autocompiacenti. Voglio dire, abbiamo rimixato alcune parti sei volte, ci abbiamo messo sei giorni di lavoro. Cazzo, stavamo diventando i Pink Floyd del mondo punk.
Per una curiosa coincidenza editoriale, pressoché in contemporanea con Agenzia X, esce anche La storia dei Crass di George Berger (Shake, 224 pp.), biografia dettagliata sulla storia della band. Dove Crass bomb predilige frammentarietà e la folgorazione delle delle dichiarazioni di Penny Rimbaud – da lì sono tratte tutte o quasi le citazioni di questo articolo – il libro di Berger sceglie un formato molto più organico e tradizionale, partendo in ordine cronologico dalle radici del fenomeno negli anni Sessanta e premurandosi di contestualizzare le diverse epoche trattate, con una narrazione della vicenda meticolosa quando non prolissa. Inutile dire che quando quest’ultima si dilunga sulle dichiarazioni o le gesta di Penny Rimbaud la materia trattata dai due libri finisce per coincidere. Esempio tipico quello della triste vicenda di Wally Hope, l’hippy di Stonehenge perseguitato dal sistema fino ad essere tolto di mezzo mediante segregazione in un ospedale psichiatrico. Pagine struggenti quelle su Wally, che mostrano tutta l’umanità di un gruppo costantemente in prima linea contro il potere.
“Non ci e mai importato crescere dai punto di vista musicale, non era nei nostri piani. La nostra risposta al mondo non era una risposta né lirica né musicale, era una risposta politica. Io non ho mai considerato i Crass un gruppo musicale e non abbiamo mai fatto parte di quella pantomima che si chiama rock’n’roll e, probabilmente, ancora meno di quella chiamata punk. Non ci interessava niente di tutto ciò: la musica era lo strumento per fare ciò che volevamo.”
Infatti, nonostante The Feeding of the 5000 del 1978 (“Intitolammo l’album The Feeding of the 5000 perché cinquemila era il minimo di copie che e potevamo incidere: quasi 4900 in più di quelle che pensavamo di riuscire a vendere”) o Stations of the Crass del 1979 abbiano venduto uno sproposito di copie, la musica è rimasta costantemente sullo sfondo. Specie quando scoppiò la guerra delle Falkland, denunciata con tutti i mezzi dai Crass fino al culmine del singolo How Does It Feel to Be the Mother of 1000 Dead, approdato in Parlamento e impugnato dai tories inviperiti. Il braccio di ferro tra Crass e Thatcher finisce senza vincitori né vinti, visto che sono altre le ragioni che di lì a poco (1984) spingeranno i Cross allo scioglimento, lasciando un vuoto che ancora oggi attende di essere colmato.
“A guerra finita pubblicammo How Does It Feel to Be the Mother of 1000 Dead, fu allora che la merda finì nel ventilatore e si sparse ovunque. Come c’era da aspettarsi, all’indomani di una discussione alla Camera dei comuni nella quale si chiedeva alla Thatcher se avesse ascoltato il disco, lei e il suo partito decisero di farcela pagare.”
Interpellanze parlamentari, cause senza fine che impoveriranno le casse del collettivo, uno scontro con la censura ancora più acceso di quanto era avvenuto con il discusso Christ – the Album (1982), già accusato dai benpensanti di ogni genere di blasfemia, o dell’esplicito Penis Envy, inno al femminismo senza se e senza ma. Dopo lo scioglimento l’attività dei Crass non si è fermata e i nostri si sono dedicati con dedizione inalterata al DIY e alla produzione di dischi nuovi. Tra i nomi che hanno debuttato sulla label dei Crass figura anche gente come KUKL (primo gruppo di Björk), Rudimentary Peni, Anthrax o Poison Girls, a dimostrazione dell’eterogeneità dei gusti dei nostri.
“Eravamo una macchina, una macchina incredibilmente efficiente, grazie alla quale potevamo agire come esseri umani e cosi abbiamo fatto. Abbiamo commesso errori e abbiamo avuto meriti, ma tutto sembrava far parte dello stesso insieme. Sono sicuro che gli altri direbbero di ricordare chi una cosa, chi un’altra, ma io non ci riesco, perché non ero io, ero i Crass, e in un certo modo lo siamo stati tutti. Nonostante l’opinione di Steve Ignorant, che considerava una stronzata l’avanguardia a cui io aderivo, e la mia che giudicava banale il suo rok’n’roll, riuscimmo a lavorare con sorprendente umorismo e armonia (entrambi enormemente facilitati dall’ingestione di sostanze legali e non).”
L’influenza dei Crass resta notevole negli anni successivi. Da un punto di vista strettamente estetico, la predilezione per il bianco e nero delle copertine ideate da Gee Vaucher segna un’epoca e trova degli imitatori più o maro illustri (alcuni esempi si sono potuti ammirare alla mostra Europunk a Roma in questi mesi), così come il look militaresco e privo di compromessi. Musicalmente si crea ura spaccatura tra chi intende la cacofonia hardcore come liberazione energetica, divertimento fine a se stesso (gli Exploited di Troops of Tomorrow), e chi riprende la lezione crassiana; magari più nell’etica e nello stile di vita che in quello musicale, come i Chumbawamba che scaleranno le classifiche con Tubthumping.
“A volte eravamo così sbronzi, da non renderci conto che nel bel mezzo di una canzone ognuno di noi stava suonando un pezzo diverso. Nonostante ciò, era tutto un gran divertimento e a quei tempi nessuno si lamentava se usavamo stivali di cuoio, a nessuno interessava sapere se l’anarchia e la pace fossero conciliabili e nessuno ci annoiava con i monologhi di Bakunin, un nome che, per quel che ne sapevamo noi all’epoca, non poteva essere altro che una marca di vodka.”
Ancora oggi, mentre Steve Ignorant non riesce ad abbandonare i palchi hardcore-punk, spesso riproponendo ad nauseam Do They Owe Us a Living e i vecchi cavalli di battaglia, è ancora Penny Rimbaud a riempire di parole la Rete attraverso il suo blog, sfoggiando una lucidità per nulla intaccata dal tempo. Nelle sue parole si legge un pizzico di disillusione mista alla consapevolezza che lo status quo assomiglia molto poco a quel che i Crass ritenevano possibile avvenisse nel mondo, ma non suonano mai come il lamento di un perdente. Al contrario, si avverte l’orgoglio di chi ha lottato strenuamente e ha dedicato la vita a una causa alla quale semplicemente non poteva sottrarsi. Come se non avesse mai avuto una scelta.
di Emanuele SacchiIn genere il “messaggio” è stato usato per conquistare un target sicuro, coinvolgendo gli arrabbiati, ribelli perennemente assetati di parole violente contro il sistema e in cerca di una miccia che possa innescare un’esplosione di magnitudo ragguardevole. È lecito dividersi sul “chi ci è chi ci fa”, ma è indubbio che in diverse epoche gente come Chicago Transit Authority, Jamiroquai e – con tutti i distinguo del caso – pure Sua Maestà Bob Dylan (così engagé agli inizi, così disimpegnato dopo l’abbandono del folk) – giù giù fino a fenomeni nostrani come Gipo Farassino o altri che nel ’70 ottenevano consensi sbraitando slogan – abbiano cavalcato l’onda della protesta quando era (commercialmente) accorto farlo. Niente di male in sé, ogni strategia di marketing è lecita quando si tratta di vendere un prodotto, anche la più inusuale. Sono molti meno, invece, i nomi che vengono in mente quando si pensa a chi ha certo privilegiato il contenuto (politico), fottendosene in grande stile della forma. Probabilmente occorre limitarsi ai Fugs per gli anni ’60 e ai Crass per l’era punk. I Crass sono l’anomalia dell’anomalia, esplosi nel ’77 In cui i Sex Pistols sconvolsero il mondo ma distanti anni luce da lutto ciò che riguardava Rotten e compagni. Dove quelli erano giovani arroganti e legati a doppio filo, con una tendenza fashion, vagamente situazionista e certamente attenta al business, i Crass rispondevano con una maggiore età anagrafica e con uno scavalcamento a (ultra-)sinistra dei punk e delle sue ambiguità. “Sinistra” perché oggi le istanze vegane, femministe, salutiste, anti-clericali, pacifiste e anarchiche del gruppo hanno trovato inequivocabilmente una collocazione politica, dove allora, in un’età più confusa ma assai più dinamica, non era così chiaro far rientrare i Crass da una parte o dall’altra.“Non crediamo di essere un gruppo punk. Io, personalmente, non mi identifico con niente di ciò che va sotto il nome di punk.”
Così nelle parole di Penny Rimbaud, batterista e anima(le) politico della band, motore di tutte le iniziative do protesta di un collettivo che univa l’estro di Gee Vaucher, la furia delirante di Steve Ignorant, il femminismo aggressivo di Eve Libertine e Joy de Vivre. Come racconta Marco Philopat nell’introduzione a Crass bomb. L’azione diretta nel punk (Agenzia X, 176 pp.), fu sconvolgente per molti accorgersi così rapidamente che la rabbia iconoclasta del Pistols e persino dei politicamente espliciti Clash finisse per sembrare l’ennesimo sberleffo del sistema, paragonato alla sostanza della filosofia esistenziale secondo i Crass. I più punk di tutti sanza esserlo, anzi insistendo nel contraddire tutti i (pochi) comandamenti del genere. Fanculo ai simboli e alle spille da balia, fanculo alle mitizzazioni da rockstar e fanculo pure all’odio verso gli hippie, che i Crass finiranno per preferire al testosterone punk. Il punk portava avanti la sua rivoluzione, per “mandare a casa” i conservatori della chitarra; l’obiettivo dei Crass erano gli altri conservatori, quelli che sedevano in Parlamento.
“Eravamo arrabbiati proprio perché consapevoli delle possibilità esistenti. È questo a produrre la rabbia più grande di tutte. Lo eravamo perché sapevamo che attraverso la cooperazione era possibile produrre il proprio cibo, proteggersi e nutrirsi. Se tu sai non hai più scuse, noi ne eravamo la prova.”
Philopat e Agenzia X, si diceva, parlando di un libro imbevuto totalmente di etica crassiana, un omaggio nello spirito originario della band di Penny Rimbaud. Realizzato grazie alla collaborazione delle redazioni di Agenzia X e La Felguera Ediciones, sotto l’acronimo DIY, Crass Bomb è una sorta di collage di schegge crassiane: estratti di interviste, testi dei brani, autobiografie uscite insieme ai dischi e persino estratti dal blog di Penny. Confusinario ma efficace, spezzettato ma pronto ad accendersi, proprio come i nostri solevano fare dal vivo o in album come Christ – the Album.
“Se qualche cambiamento c’è stato, è avvenuto con Christ – the Album, siamo diventati schifosamente autocompiacenti. Voglio dire, abbiamo rimixato alcune parti sei volte, ci abbiamo messo sei giorni di lavoro. Cazzo, stavamo diventando i Pink Floyd del mondo punk.
Per una curiosa coincidenza editoriale, pressoché in contemporanea con Agenzia X, esce anche La storia dei Crass di George Berger (Shake, 224 pp.), biografia dettagliata sulla storia della band. Dove Crass bomb predilige frammentarietà e la folgorazione delle delle dichiarazioni di Penny Rimbaud – da lì sono tratte tutte o quasi le citazioni di questo articolo – il libro di Berger sceglie un formato molto più organico e tradizionale, partendo in ordine cronologico dalle radici del fenomeno negli anni Sessanta e premurandosi di contestualizzare le diverse epoche trattate, con una narrazione della vicenda meticolosa quando non prolissa. Inutile dire che quando quest’ultima si dilunga sulle dichiarazioni o le gesta di Penny Rimbaud la materia trattata dai due libri finisce per coincidere. Esempio tipico quello della triste vicenda di Wally Hope, l’hippy di Stonehenge perseguitato dal sistema fino ad essere tolto di mezzo mediante segregazione in un ospedale psichiatrico. Pagine struggenti quelle su Wally, che mostrano tutta l’umanità di un gruppo costantemente in prima linea contro il potere.
“Non ci e mai importato crescere dai punto di vista musicale, non era nei nostri piani. La nostra risposta al mondo non era una risposta né lirica né musicale, era una risposta politica. Io non ho mai considerato i Crass un gruppo musicale e non abbiamo mai fatto parte di quella pantomima che si chiama rock’n’roll e, probabilmente, ancora meno di quella chiamata punk. Non ci interessava niente di tutto ciò: la musica era lo strumento per fare ciò che volevamo.”
Infatti, nonostante The Feeding of the 5000 del 1978 (“Intitolammo l’album The Feeding of the 5000 perché cinquemila era il minimo di copie che e potevamo incidere: quasi 4900 in più di quelle che pensavamo di riuscire a vendere”) o Stations of the Crass del 1979 abbiano venduto uno sproposito di copie, la musica è rimasta costantemente sullo sfondo. Specie quando scoppiò la guerra delle Falkland, denunciata con tutti i mezzi dai Crass fino al culmine del singolo How Does It Feel to Be the Mother of 1000 Dead, approdato in Parlamento e impugnato dai tories inviperiti. Il braccio di ferro tra Crass e Thatcher finisce senza vincitori né vinti, visto che sono altre le ragioni che di lì a poco (1984) spingeranno i Cross allo scioglimento, lasciando un vuoto che ancora oggi attende di essere colmato.
“A guerra finita pubblicammo How Does It Feel to Be the Mother of 1000 Dead, fu allora che la merda finì nel ventilatore e si sparse ovunque. Come c’era da aspettarsi, all’indomani di una discussione alla Camera dei comuni nella quale si chiedeva alla Thatcher se avesse ascoltato il disco, lei e il suo partito decisero di farcela pagare.”
Interpellanze parlamentari, cause senza fine che impoveriranno le casse del collettivo, uno scontro con la censura ancora più acceso di quanto era avvenuto con il discusso Christ – the Album (1982), già accusato dai benpensanti di ogni genere di blasfemia, o dell’esplicito Penis Envy, inno al femminismo senza se e senza ma. Dopo lo scioglimento l’attività dei Crass non si è fermata e i nostri si sono dedicati con dedizione inalterata al DIY e alla produzione di dischi nuovi. Tra i nomi che hanno debuttato sulla label dei Crass figura anche gente come KUKL (primo gruppo di Björk), Rudimentary Peni, Anthrax o Poison Girls, a dimostrazione dell’eterogeneità dei gusti dei nostri.
“Eravamo una macchina, una macchina incredibilmente efficiente, grazie alla quale potevamo agire come esseri umani e cosi abbiamo fatto. Abbiamo commesso errori e abbiamo avuto meriti, ma tutto sembrava far parte dello stesso insieme. Sono sicuro che gli altri direbbero di ricordare chi una cosa, chi un’altra, ma io non ci riesco, perché non ero io, ero i Crass, e in un certo modo lo siamo stati tutti. Nonostante l’opinione di Steve Ignorant, che considerava una stronzata l’avanguardia a cui io aderivo, e la mia che giudicava banale il suo rok’n’roll, riuscimmo a lavorare con sorprendente umorismo e armonia (entrambi enormemente facilitati dall’ingestione di sostanze legali e non).”
L’influenza dei Crass resta notevole negli anni successivi. Da un punto di vista strettamente estetico, la predilezione per il bianco e nero delle copertine ideate da Gee Vaucher segna un’epoca e trova degli imitatori più o maro illustri (alcuni esempi si sono potuti ammirare alla mostra Europunk a Roma in questi mesi), così come il look militaresco e privo di compromessi. Musicalmente si crea ura spaccatura tra chi intende la cacofonia hardcore come liberazione energetica, divertimento fine a se stesso (gli Exploited di Troops of Tomorrow), e chi riprende la lezione crassiana; magari più nell’etica e nello stile di vita che in quello musicale, come i Chumbawamba che scaleranno le classifiche con Tubthumping.
“A volte eravamo così sbronzi, da non renderci conto che nel bel mezzo di una canzone ognuno di noi stava suonando un pezzo diverso. Nonostante ciò, era tutto un gran divertimento e a quei tempi nessuno si lamentava se usavamo stivali di cuoio, a nessuno interessava sapere se l’anarchia e la pace fossero conciliabili e nessuno ci annoiava con i monologhi di Bakunin, un nome che, per quel che ne sapevamo noi all’epoca, non poteva essere altro che una marca di vodka.”
Ancora oggi, mentre Steve Ignorant non riesce ad abbandonare i palchi hardcore-punk, spesso riproponendo ad nauseam Do They Owe Us a Living e i vecchi cavalli di battaglia, è ancora Penny Rimbaud a riempire di parole la Rete attraverso il suo blog, sfoggiando una lucidità per nulla intaccata dal tempo. Nelle sue parole si legge un pizzico di disillusione mista alla consapevolezza che lo status quo assomiglia molto poco a quel che i Crass ritenevano possibile avvenisse nel mondo, ma non suonano mai come il lamento di un perdente. Al contrario, si avverte l’orgoglio di chi ha lottato strenuamente e ha dedicato la vita a una causa alla quale semplicemente non poteva sottrarsi. Come se non avesse mai avuto una scelta.
Rockerilla, gennaio 2011Crass bomb
Il fenomeno Crass esplose come una bomba ad orologeria quando il punk sferrò il suo primo blitz al grido di “Anarchy In The U.K.”. La storia aveva voltato pagina e una coscienza nuova venne ad albeggiare fra i kids che si schierarono compatti contro l’establishment. I Crass, collettivo hippy-punk politicamente impegnato, istituirono nel Punk un circolo (contro) culturale autogestito, promossero uno stile di vita all’insegna del Do It Yourself (DIY) a partire dalla loro produzione discografica costituita di vinili artigianali ed efficaci poster-copertina di matrice agit-prop. L’epopea anarchica dei Crass è raccontata bene in Crass bomb, 173 pagine che sanno di testamento ideologico, di dossier scandito da interviste, testimonianze (fra cui quella di Penny Rimbaud, ex batterista del gruppo), illustrazioni, poesie e testi tradotti: piani d’azione diretta di un “nucleo d’assalto” che della propria arte fece uno strumento di lotta all’ombra della A cerchiata.
di Aldo Chimentiwww.ondarock.it, gennaio 2011Crass, la bomba anarchista del punk
Partiamo da un assunto di fondo: non ci sarebbe nulla di più sbagliato e fuorviante che tentare di scrivere una storia dei Crass considerando questa esperienza come confinata unicamente alle irrepetibili vicende del punk britannico di fine anni 70. Intendiamoci, il collettivo albionico è stato sicuramente una tra le migliori espressioni toccate dal movimento in quel frangente temporale, tanto che, ai tempi, si parlava non a caso delle terribili 3 C del punk inglese: Clash, Crass, Crisis. Ma la storia dei Crass prescinde dalla musica; questa ne è sicuramente il mezzo comunicativo d’elezione, ma l’essenza di quell’esperienza è racchiusa principalmente nell’incendiaria azione politica che il collettivo britannico sceglie di portare avanti tra il finire degli anni 70 ed il primo lustro degli anni 80, mediante i continui attacchi portati al cuore dell’Inghilterra thatcheriana e, più in generale, a quegli assetti internazionali determinati dalla costante minaccia di una guerra nucleare.
Coglie nel segno, quindi, l’iniziativa dell’italiana AgenziaX che sceglie attraverso il volume “Crass Bomb, l’azione diretta nel punk” di consegnarci una lucida testimonianza corale dell’esperienza dei Crass, raccogliendo le parole di chi ne fu parte attiva – come nel caso del batterista e fondatore della band inglese Penny Rimbaud – alle quali si aggiungono quelle di alcuni protagonisti di quegli anni che vissero le vicende del collettivo britannico in prima persona come spettatori, per poi decidere di trapiantare a casa propria i semi di quell’esperienza (si vedano le parole di Marco Philopat in riferimento alla nascita del Virus di Milano e di quanto l’esperienza di Via Correggio fosse per molti versi figlia diretta delle intuizioni codificate dai Crass e dai loro adepti).
“L’unico gruppo che ha portato avanti un percorso politico e musicale sono stati i Crass. Hanno contribuito più loro alla diffusione dell’anarchismo dello stesso Kropotkin”.
Queste parole – citate nel libro dall’editore iberico Servando Rocha – utilizzate dal collettivo politico inglese Class War codificano meglio di qualunque analisi storico-sociologica cosa sono stati i Crass.
Nella sua disamina sullo stato del movimento anarchico del secolo scorso, Errico Malatesta scriveva che se l’anarchia era il fine ultimo cui tendere – ovvero quello di una società di liberi ed eguali in cui non sarebbe più esistito diritto di cittadinanza per alcun tipo di sfruttamento e autoritarismo – allora l’anarchismo si configurava come il mezzo per tendere a tale fine, la pratica quotidiana fondata sul risveglio delle coscienze, l’azione volta a sovvertire gli istituti prodotti da Stato e Capitale, la prassi che incendia le anime di sfruttati e diseredati e li muove a innalzare il vessillo nero di Utopia.
I Crass sono stati tutto questo.
I Crass hanno assolto agli obblighi derivanti dall’analisi malatestiana, toccando lo zenit dell’anarchismo europeo in quello scorcio di decade che fu la fine dei 70 e la prima metà degli 80 e, a differenza di tante entità libertarie a loro coeve, senza alcuna preparazione ideologica o politica alle loro spalle. Crass, infatti, come emerge dal volume in oggetto non studia Bakunin, non legge la Goldman, non manda a memoria gli insegnamenti di Berneri o di Fabbri. Crass sceglie l’azione, Crass agisce, Crass crea: che il prodotto di tale prassi si inserisca organicamente nella storia del movimento libertario europeo è un dato di fatto che i protagonisti di quella esperienza avrebbero poi capito nel divenire storico.
Le lucide parole di Penny Rimbaud racchiuse in queste pagine ci illuminano sul fatto che comune denominatore dell’etica e dell’azione crassiana è sempre stato quel do it yourself, diventato parola d’ordine del movimento punk e applicato alla volontà di riappropriazione della propria vita da parte dei tanti giovani “senza futuro”, nauseati dalla vacuità e dall’assenza di prospettive caratterizzanti lo scorcio della metà dei 70. Riappropiarsi della propria vita: questo è l’obiettivo e fine ultimo che muove Rimbaud e Steve Ignorant – futura voce della band albionica – ad aderire al sovversivismo punk e a dare quindi voce a Crass.
Ma in tutto questo si ravvisano sostanziali e radicali differenze rispetto alle contemporanee esperienze musicali britanniche di matrice punk.
“They said that we were trash / Well the name is Crass, not Clash.”
Con queste parole si apre infatti “White Punks On Hope”, canzone risalente al 1979 e contenuta nel lavoro “Stations Of The Crass”, in cui i nostri danno voce alla virulente disistima nei confronti di quelle contemporanee esperienze bollate come sovversivismo punk, ma che di sovversivo non avevano nulla e il cui punk si riduceva ad abili manovre di marketing promozionale o a ridicoli compromessi di natura commerciale. Crass infatti, come risulta dal capitolo “Informazioni Sovversive”, riconosce nel punk di gruppi come Pistols e Clash l’ennesimo narcotico che dietro le sirene di autodistruzione, nichilismo e massimalismo verbale a buon mercato cerca di addomesticare una volta di più le coscienze dei giovani per far banchettare di nuovo il Capitale, l’industria musicale, squali e avvoltoi. I Crass rispondono quindi con un serrato fuoco di fila che fa nomi e cognomi di chi, dietro le sembianze di nuovi profeti armati, affossa nuovamente le prospettive di lotta. Ed ecco che quindi i nostri fanno tabula rasa di tutti quei luoghi comuni associati al punk come gli stupidi orpelli estetici che per molti sembrano racchiudere l’unico valore intrinseco del movimento: i Crass si vestono di nero e, memori delle esperienze pregresse di alcuni di loro all’interno dei movimenti di contro cultura hippy – ulteriore elemento di rottura con il resto del punk, considerando anche il “never trust a hippie” di Johnny “Rotten” Lydon – danno vita a quell’esperienza di autogestione della propria vita che si dipana in tutti i rami dell’esistenza: dalla produzione e autogestione dei propri lavori attraverso la Crass Records, alla vita quotidiana all’interno della comune rurale Dial House, dall’organizzazione dei concerti attraverso una fitta rete di centri autogestiti situati al di fuori dei tradizionali locali del consenso punk – vedasi per esempio l’ostracismo riservato alla band dal Roxy, club inglese culla del movimento punk londinese – fino alla creazione di quella lunga serie di manifesti di lotta e propaganda che accompagneranno, in tipico stile iconografico situazionista, tutte le produzioni musicali di Crass.
Utile risulta in questo senso la scelta di includere nel volume alcune delle più rappresentative canzoni della band inglese in traduzione italiana; canzoni che danno conto dell’assoluto impegno di Crass verso temi quali l’antimilitarismo, l’antiautoritarsimo, il rifiuto dello sfruttamento degli animali, dell’immagine e del corpo della donna, tematiche che contemporaneamente vengono esaminate a partire dalla negazione della comune accezione del termine punk, inteso come puro divertimento, disimpegno nichilista, farsa autodistruttiva e che invece si ricollegano alla più alta “battaglia” per il risveglio delle coscienze in senso libertario e che si cristallizzerà nell’episodio, ripreso nel libro, che vede i nostri impegnati in prima linea contro la guerra intrapresa dall’Inghilterra thatcheriana contro l’Argentina per il controllo delle Falkland. È una costante propedeutica alla libertà quella che ci insegnano i Crass e che è mirabolmente riassunta dal già citato Rimbaud in quello struggente capitolo pieno di pathos che è “Investigando l’ascella privata”, nel quale si dà conto delle utopie che hanno armato mano e lingua dei Crass e che hanno saputo meravigliosamente inverarsi in poco più di un lustro di vita, periodo in cui i Serpenti Incrociati – simbolo iconografico del collettivo albionico – ci hanno insegnato quanto tutto, nella nostra vita, dipenda primariamente da noi stessi.
di Sandro ZinaniCoglie nel segno, quindi, l’iniziativa dell’italiana AgenziaX che sceglie attraverso il volume “Crass Bomb, l’azione diretta nel punk” di consegnarci una lucida testimonianza corale dell’esperienza dei Crass, raccogliendo le parole di chi ne fu parte attiva – come nel caso del batterista e fondatore della band inglese Penny Rimbaud – alle quali si aggiungono quelle di alcuni protagonisti di quegli anni che vissero le vicende del collettivo britannico in prima persona come spettatori, per poi decidere di trapiantare a casa propria i semi di quell’esperienza (si vedano le parole di Marco Philopat in riferimento alla nascita del Virus di Milano e di quanto l’esperienza di Via Correggio fosse per molti versi figlia diretta delle intuizioni codificate dai Crass e dai loro adepti).
“L’unico gruppo che ha portato avanti un percorso politico e musicale sono stati i Crass. Hanno contribuito più loro alla diffusione dell’anarchismo dello stesso Kropotkin”.
Queste parole – citate nel libro dall’editore iberico Servando Rocha – utilizzate dal collettivo politico inglese Class War codificano meglio di qualunque analisi storico-sociologica cosa sono stati i Crass.
Nella sua disamina sullo stato del movimento anarchico del secolo scorso, Errico Malatesta scriveva che se l’anarchia era il fine ultimo cui tendere – ovvero quello di una società di liberi ed eguali in cui non sarebbe più esistito diritto di cittadinanza per alcun tipo di sfruttamento e autoritarismo – allora l’anarchismo si configurava come il mezzo per tendere a tale fine, la pratica quotidiana fondata sul risveglio delle coscienze, l’azione volta a sovvertire gli istituti prodotti da Stato e Capitale, la prassi che incendia le anime di sfruttati e diseredati e li muove a innalzare il vessillo nero di Utopia.
I Crass sono stati tutto questo.
I Crass hanno assolto agli obblighi derivanti dall’analisi malatestiana, toccando lo zenit dell’anarchismo europeo in quello scorcio di decade che fu la fine dei 70 e la prima metà degli 80 e, a differenza di tante entità libertarie a loro coeve, senza alcuna preparazione ideologica o politica alle loro spalle. Crass, infatti, come emerge dal volume in oggetto non studia Bakunin, non legge la Goldman, non manda a memoria gli insegnamenti di Berneri o di Fabbri. Crass sceglie l’azione, Crass agisce, Crass crea: che il prodotto di tale prassi si inserisca organicamente nella storia del movimento libertario europeo è un dato di fatto che i protagonisti di quella esperienza avrebbero poi capito nel divenire storico.
Le lucide parole di Penny Rimbaud racchiuse in queste pagine ci illuminano sul fatto che comune denominatore dell’etica e dell’azione crassiana è sempre stato quel do it yourself, diventato parola d’ordine del movimento punk e applicato alla volontà di riappropriazione della propria vita da parte dei tanti giovani “senza futuro”, nauseati dalla vacuità e dall’assenza di prospettive caratterizzanti lo scorcio della metà dei 70. Riappropiarsi della propria vita: questo è l’obiettivo e fine ultimo che muove Rimbaud e Steve Ignorant – futura voce della band albionica – ad aderire al sovversivismo punk e a dare quindi voce a Crass.
Ma in tutto questo si ravvisano sostanziali e radicali differenze rispetto alle contemporanee esperienze musicali britanniche di matrice punk.
“They said that we were trash / Well the name is Crass, not Clash.”
Con queste parole si apre infatti “White Punks On Hope”, canzone risalente al 1979 e contenuta nel lavoro “Stations Of The Crass”, in cui i nostri danno voce alla virulente disistima nei confronti di quelle contemporanee esperienze bollate come sovversivismo punk, ma che di sovversivo non avevano nulla e il cui punk si riduceva ad abili manovre di marketing promozionale o a ridicoli compromessi di natura commerciale. Crass infatti, come risulta dal capitolo “Informazioni Sovversive”, riconosce nel punk di gruppi come Pistols e Clash l’ennesimo narcotico che dietro le sirene di autodistruzione, nichilismo e massimalismo verbale a buon mercato cerca di addomesticare una volta di più le coscienze dei giovani per far banchettare di nuovo il Capitale, l’industria musicale, squali e avvoltoi. I Crass rispondono quindi con un serrato fuoco di fila che fa nomi e cognomi di chi, dietro le sembianze di nuovi profeti armati, affossa nuovamente le prospettive di lotta. Ed ecco che quindi i nostri fanno tabula rasa di tutti quei luoghi comuni associati al punk come gli stupidi orpelli estetici che per molti sembrano racchiudere l’unico valore intrinseco del movimento: i Crass si vestono di nero e, memori delle esperienze pregresse di alcuni di loro all’interno dei movimenti di contro cultura hippy – ulteriore elemento di rottura con il resto del punk, considerando anche il “never trust a hippie” di Johnny “Rotten” Lydon – danno vita a quell’esperienza di autogestione della propria vita che si dipana in tutti i rami dell’esistenza: dalla produzione e autogestione dei propri lavori attraverso la Crass Records, alla vita quotidiana all’interno della comune rurale Dial House, dall’organizzazione dei concerti attraverso una fitta rete di centri autogestiti situati al di fuori dei tradizionali locali del consenso punk – vedasi per esempio l’ostracismo riservato alla band dal Roxy, club inglese culla del movimento punk londinese – fino alla creazione di quella lunga serie di manifesti di lotta e propaganda che accompagneranno, in tipico stile iconografico situazionista, tutte le produzioni musicali di Crass.
Utile risulta in questo senso la scelta di includere nel volume alcune delle più rappresentative canzoni della band inglese in traduzione italiana; canzoni che danno conto dell’assoluto impegno di Crass verso temi quali l’antimilitarismo, l’antiautoritarsimo, il rifiuto dello sfruttamento degli animali, dell’immagine e del corpo della donna, tematiche che contemporaneamente vengono esaminate a partire dalla negazione della comune accezione del termine punk, inteso come puro divertimento, disimpegno nichilista, farsa autodistruttiva e che invece si ricollegano alla più alta “battaglia” per il risveglio delle coscienze in senso libertario e che si cristallizzerà nell’episodio, ripreso nel libro, che vede i nostri impegnati in prima linea contro la guerra intrapresa dall’Inghilterra thatcheriana contro l’Argentina per il controllo delle Falkland. È una costante propedeutica alla libertà quella che ci insegnano i Crass e che è mirabolmente riassunta dal già citato Rimbaud in quello struggente capitolo pieno di pathos che è “Investigando l’ascella privata”, nel quale si dà conto delle utopie che hanno armato mano e lingua dei Crass e che hanno saputo meravigliosamente inverarsi in poco più di un lustro di vita, periodo in cui i Serpenti Incrociati – simbolo iconografico del collettivo albionico – ci hanno insegnato quanto tutto, nella nostra vita, dipenda primariamente da noi stessi.
http://hotmag.me, 9 dicembre 2010Crass bomb
Da appassionata di musica mi sono avvicinata a questo libro su una delle band più esplosive della scena punk britannica. Ma per i Crass la musica è solo l’inizio: un veicolo attraverso cui far circolare le loro idee. Anarchici, eversivi, iconoclasti per vocazione, battaglieri e arrabbiati, i Crass sono un collettivo politico e musicale attivo tra il ’77 e l’84. Dalla loro base, una comunità pacifista/anarchica a Dial House a una cinquantina di chilometri da Londra, hanno incendiato la società e il mondo dello spettacolo con l’organizzazione di concerti, festival, distribuzione di volantini che erano autentici atti contro il sistema, arrivando ad attirare l’attenzione dei servizi segreti americani e un’indagine formale da parte del Parlamento britannico.
Il libro, uscito l’Agenzia X di Marco Philopat e firmato DIY (acronimo di quel “Do It Yourself” che proprio tramite i Crass si è imposto nella scena punk dell’epoca), contiene i migliori saggi che sono stati scritti sul collettivo e i racconti dalla voce dei protagonisti, tra cui spiccano gli interventi di Penny Rimbaud, batterista e compositore della band. Devastante il testo “L’ultimo degli hippies” sulla morte di Wally Hope, incarcerato e rinchiuso in un centro per malati mentali perché trovato in possesso di una piccola quantità di droga. Completano l’opera la lucidissima prefazione di Marco Philopat e una ricca appendice con copertine, grafiche dei flyer e la traduzione di alcune delle canzoni più significative come Reality asylum, Punk is dead o Banned from the Roxy. È una lettura autentica, appassionante, una vibrante testimonianza su un’epoca e su un pensiero che ha lasciato un solco profondo nel concetto di controcultura. Assolutamente imperdibile.
Da recuperare anche l’edizione rimasterizzata del primo album dei Crass, The feeding of the 5000, acquistabile nel sito della Southern records, a testimonianza che il Punk può ancora essere la risposta ad anni di schifo, una maniera per dire no, quando avevamo sempre detto sì.
di Barbara ShareIl libro, uscito l’Agenzia X di Marco Philopat e firmato DIY (acronimo di quel “Do It Yourself” che proprio tramite i Crass si è imposto nella scena punk dell’epoca), contiene i migliori saggi che sono stati scritti sul collettivo e i racconti dalla voce dei protagonisti, tra cui spiccano gli interventi di Penny Rimbaud, batterista e compositore della band. Devastante il testo “L’ultimo degli hippies” sulla morte di Wally Hope, incarcerato e rinchiuso in un centro per malati mentali perché trovato in possesso di una piccola quantità di droga. Completano l’opera la lucidissima prefazione di Marco Philopat e una ricca appendice con copertine, grafiche dei flyer e la traduzione di alcune delle canzoni più significative come Reality asylum, Punk is dead o Banned from the Roxy. È una lettura autentica, appassionante, una vibrante testimonianza su un’epoca e su un pensiero che ha lasciato un solco profondo nel concetto di controcultura. Assolutamente imperdibile.
Da recuperare anche l’edizione rimasterizzata del primo album dei Crass, The feeding of the 5000, acquistabile nel sito della Southern records, a testimonianza che il Punk può ancora essere la risposta ad anni di schifo, una maniera per dire no, quando avevamo sempre detto sì.