www.iyezine.com, 14 dicembre 2020Costretti a sanguinare
Quella che abbiamo finalmente tra le mani è la nuova edizione aggiornata di Costretti a sanguinare. Duecentosessantasei pagine riviste e revisionate, sia nel testo che nella parte grafica totalmente improntata sui lavori del compianto prof. Bad Trip. Del testo originale è stato mantenuto lo stile accattivante e dinamico che scandisce in modo ritmico e serrato l’esperienza personale di Marco Philopat nella Milano occupata degli anni settanta ottanta. Dagli stabili occupati abusivamente per chi lasciava la famiglia e cercava una sua dimensione sociopolitica alla nascita dei primi centri sociali negli anni ottanta. Inizia qui la storia di Philopat e del movimento punk italiano e va avanti fino al decennio seguente, tra scontri [sia di piazza che interni al movimento], slogan, birre, droga, repressione, ingenuità e tutto quello che ha caratterizzato quegli anni turbolenti in cui qualcuno ha davvero creduto [e sperato] di riuscire a cambiare il mondo.
Ci sono un sacco di passaggi del libro che delineano gli scenari e le sensazioni che hanno pervaso queste realtà ai margini. Riportarli tutti alla lunga stonerebbe e sarebbe fuori contesto, per cui ci limitiamo a soffermarci su quelli a nostro avviso più significativi. Non possiamo non partire dalla sentenza che sin dalle prime pagine chiarisce come già allora fossimo un passo indietro al resto del mondo, nonostante si pensasse [e spesso si pensa tuttora] di essere all’avanguardia. “in Italia di punk c’è ben poco, ogni cosa arriva in ritardo di anni diventando patetica e provinciale”. Potremmo fermarci qui. Salvare il file e spegnere il pc. In queste poche parole c’è tutto quello che serve per inquadrare il movimento. Se forse al tempo l’affermazione era provocatoria negli anni a seguire si realizza la sua vera consacrazione. Soprattutto per il nostro piccolo mondo quotidiano. DR mi ha sempre fatto riflettere su una cosa [e su questo gli ho sempre dato ragione in toto]. Nel 1997 a Spezia si inneggiava nei concerti a suon di Gabba Gabba Hey e si scopriva il punk mentre nel resto del mondo il Grunge ribaltava le prospettive dando vita alla terza ondata punk, quella degli anni novanta [la seconda quella degli ottanta era stata quella del Grindcore]. Eravamo in ritardo di vent’anni rispetto al resto del pianeta e pensavamo, anzi pensavano visto che io ero uno dei reduci dell’ondata Grindcore del decennio precedente non fosse altro che per ragioni anagrafiche, di essere parte di un movimento che in realtà si era estinto due decenni prima. Una tristezza epocale, patetica e provinciale come giustamente ha scritto Philopat. Da qui alla provocazione ulteriore [anche perché il punk privato della sua componente provocatoria è praticamente nullo, diventa mainstream] del “il punk non è mai morto perché per fortuna il movimento punk non è mai nato” è un attimo, un battito d’ali o poco più.
Certo oltre la vena provocatoria c’era [e non poteva essere altrimenti] una forte componente attitudinale, ma resta il fatto che il compiacersi nel “no future” era uno dei cardini intorno al quale ruotava tutto. Ci piace sottolineare come sin da subito anche i più sfigati videro nel movimento il loro modo di emergere da una vita priva di soddisfazioni. Si moltiplicarono i figli di papà che grazie alle finanze illimitate del proprio casato potevano permettersi di soggiornare settimanalmente a Londra e reperire tutti i dischi che qui arrivavano in pochissime copie [quando arrivavano] per poterli sfoggiare nella villetta in Brianza davanti agli amici che vedevano Londra come un sogno difficilmente raggiungibile. Qui torna il discorso sull’attitudine che si scontra con la moda che fiuta il terreno fertile rappresentato dal movimento punk, inizialmente relegato a fenomeno di folclore. La cosa che più risulta degradante, avendola subita sulla nostra pelle anche in tempi recenti è il grossolano errore che individua nei punk nichilisti “vestiti di nero con borchie” i nuovi fascisti metropolitani. Come dire, se non sei come me o come vorrei che tu fossi allora sei un fascista. Sorvoliamo su ulteriori approfondimenti in merito, se non altro per non scendere al livello di chi ancora crede che questo sia lo strumento migliore per discriminare che cosa sia giusto [noi] da che cosa sia sbagliato [voi].
Per fortuna Philopat racconta come stavano veramente le cose al di là delle censure degli anni a seguire: “coi compagni ogni rapporto è pressoché impossibile, al sabato non si cono più gli scontri con la madama e allora se la prendono con noi, nel migliore dei casi ci sfottono, nel peggiore ci prendono per fascisti e allora c’è solo da scappare”. Lasciamo quindi alla vostra intelligenza ogni commento. Mentre noi ci spostiamo su un versante che riveste una sostanziale importanza a livello sociologico, dal momento che entrano in gioco le periferie, con tutte le difficoltà annesse al ritrovarsi a nascere e crescere in palazzoni di cemento armato privi di ogni servizio anche il più indispensabile. I primi punk sono originari proprio elle periferie e figli del degrado famigliare e logistico. La loro ribellione nasce proprio nel momento in cui realizzano di non avere futuro tra i palazzoni delle strade che si allontanano da Milano, “no future” appunto. La loro è una scelta tra farsi la cresta e farsi in vena. Purtroppo spesso le due cose coincisero. “nella mia zona c’erano solo l’oratorio e l’eroina nonostante la famiglia pseudocattolica in via stabilizzazione economica”. Si evince facilmente come non ci fossero grosse alternative alla fuga nelle droghe [di qualunque tipo] soprattutto per i meno fortunati.
L’iniziazione alla droga leggendo le pagine del libro pare essere già parte delle loro vite sin dal momento in cui sono venuti al mondo. Per fortuna Philopat pare aver scampato la cosa grazie al suo prolungato soggiorno londinese altrimenti non saremo qui a raccontarci tutto questo. La loro era una generazione morta in partenza, che non aveva più niente da perdere, facile cadere se sei già lanciato verso il fondo. Il mondo sta cambiando e “in molti tra quelli che sono interessati a cambiare aria vedono in noi punk la via d’uscita, la gente molla i circoli, ci sono scazzi per la scelta della lotta armata, per l’eroina e per gli arresti”. Si perdono insomma le certezze granitiche figlie di un’ortodossia filocomunista e si assiste ad uno sfaldamento del movimento politico con le forze dell’ordine che reagiscono dopo anni difficili prendendosi libertà in odore di regime forti della nullità politica che si sta affermando sostituendosi al movimento. Chi può torna a Londra dove niente sembra essere cambiato, anche perché la capitale britannica “alla fine degli anni settanta è la città dove ogni esperienza underground diventa un segnale, un faro per il resto del mondo, c’è una produzione pazzesca di modelli diversificati di vita e ogni tendenza di strada si trasforma in una moda e le controculture si mischiano”. Anche qui noi sfigati di provincia arriviamo con un ritardo abissale, per non dire ridicolo, coi nostri coetanei che, figli di una ribellione che non esiste e non può esistere perché non c’è nulla contro cui ribellarsi negli anni novanta, emigrano a Londra scimmiottando i nostri predecessori. Peccato che [oltre appunto alla ribellione verso il nulla] nessuno ancora mi abbia spiegato che cosa ci fosse di punk nel 1994 [dieci anni dopo l’orwelliano 1984 vero spartiacque del movimento punk italiano] nel lasciare Spezia per andare a lavorare al McDonald a Londra. Ancora non abbiamo trovato risposte in merito, se qualcuno tra voi che state leggendo vuole venirci in contro e farci partecipi della “verità” gli saremmo eternamente grati. È proprio in questi anni che abbiamo iniziato ad odiare la perfida albione e tutto quello che per noi ha rappresentato, vale a dire l’ultimo rifugio degli sfigati, il cimitero degli elefanti per tutti quelli che non avevano voglia di fare un cazzo e, magari sovvenzionati dai soldi di mammina che arrivavano via vaglia postale, giocavano a fare gli alternativi. Chiusa questa parentesi [auto]biografica torniamo alle pagine del libro, che non smettono di sollecitare i nostri pensieri riga dopo riga. Insieme alle prime fanzine fatte coi ritagli di giornale [l’archetipo del copia incolla odierno] nascono anche i primi gruppi musicali. Figli anch’essi dei retaggi imposti dall’esterno, con le paranoie sulla scelta del nome e della lingua da usare in modo da evitare richiami autarchici al ventennio ma al tempo stesso con la voglia di non scimmiottare gli inglesi. Per cui spesso chi canta in inglese si ritrova a dover [o voler questo non è del tutto chiaro] tradurre i testi in italiano e a leggerli prima del concerto in modo da dissipare ogni dubbio su ammiccamenti fascitoidi.
Da qui al passo degli autoriduttori è un attimo e si assiste troppo spesso a concerti interrotti per dare vita ad interminabili assemblee con cui stabilire se un termine era corretto da un punto di vista sociopoliticoesistenziale oppure se si dovesse imporre una censure con conseguente allontanamento del gruppo dal palco. Eravamo al punto che si faceva un’assemblea anche per decidere chi avrebbe partecipato all’assemblea stessa. Una retorica soffocante che ha allontanato dal movimento politico tutti coloro che non si riconoscevano in questo stucchevole modo di ragionare consegnandolo di fatto nelle mani dell’eroina che ha avuto in quei momenti il suo massimo fulgore e la sua più capillare diffusione. Restando in argomenti più strettamente musicali un altro elemento che capta l’attenzione dell’autore e che viene riproposto spesso è quello riguardante l’estetica del punk in quegli anni, a cui è dedicato il primo capitolo, in cui viene presentato un vademecum su come vestirsi, agghindarsi e pettinarsi per potersi effettivamente sentire punk a tutti gli effetti. Il tutto ovviamente con una buona dose di autoironia, lo specifichiamo anche se non ce ne sarebbe bisogno. In ogni caso l’essenza punk passava veramente attraverso un riconoscimento anche “esteriore” cui non era possibile sottrarsi. L’alternatività era riconosciuta a partire da come uno si poneva [spesso con quel poco che aveva, tra soluzioni arrabattate e riciclo di vecchi indumenti] solo dopo, in seconda battuta si poteva passare ad un’alternativa che fosse soprattutto di pensiero e non foriera dell’ultima moda. Qui interviene ancora Philopat sottolineando come “quando potranno farci diventare un prodotto lo faranno e anche lo schifo si potrà vendere”, a ribadire come le mode [e chi di moda campa] siano [e fossero] sempre pronte a sfruttare il mood del momento. E se di mode vogliamo parlare un passaggio interessante è quello dedicato ai Dark.
Partendo dal presupposto che il movimento giovanile “it’s not fashion” agli occhi dei punk “i dark sono nostri compagni e invece li trattiamo come regolari”. Si cercava di essere più alternativi degli alternativi [io sono punk più di te, concetto che su altre basi e in altri campi non ha mai abbandonato un certo modo di fare politica] e invece non si capiva come i lugubri darkettoni altro non fossero che ragazzi che come loro cercavano di comunicare la morte della società, facendolo con un diverso approccio e una differente estetica. La parentela c’era ed era piuttosto stretta, peccato non la si sia voluta vedere. Un elemento di transizione che ha sancito una prima e decisiva spaccatura del fenomeno politico di quegli anni è stata la morte di Aldo Moro, vissuta da buona parte dei ragazzi delle periferie degradate come la fine di un sogno [forse mai davvero iniziato per alcuni di loro]. Trauma che li ha allontanati dalla lotta politica in prima persona per catapultarli diretti e senza difese in pasto all’eroina. Viene a mancare la spinta sociopolitica che il movimento punk associato a quello giovanile universitario in particolare hanno messo nel proprio motore come propulsore per la lotta al sistema. La socialità si sfilaccia e si inizia a vivere in funzione della dose da procurarsi. Si perdono i contatti, la stima e le amicizie e si inizia a vivere come morti in attesa del proprio funerale.
Contemporaneamente i figli di papà hanno dimesso l’eskimo e la lotta politica per tornare a scuola dai loro professori, membri di quella destra che fino al giorno prima avrebbero messo al muro. La ricreazione è finita, tutti in classe. Il tutto mentre i “figli di nessuno” muoiono copiosamente di overdose tra l’indifferenza generale. “i tempi dei bisogni dei proletari, della rivoluzione dietro l’angolo, sono finiti da un pezzo, la capacità di recupero del sistema ha avuto ragione di ogni forma di ribellione, la tua rabbia è messa al servizio dell’industria discografica o del negozio di abbigliamento all’angolo”. Tutto sta decisamente andando nelle direzione contraria a quella che si voleva prendere. I ribelli, quelli veri sono stufi di vivere la loro frustrazione come fosse una moda e si ripropone l’eterno ed incompiuto dilemma della diatriba tra provocazione e reale attitudine.
Un sussulto di orgoglio si ha per la discesa in Italia dei Clash a Bologna, il primo giugno del 1980 in piazza Maggiore. Memorabile lo striscione di contestazione “Punk is Crass not Clash” con cui gli antagonisti bolognesi [tra cui l’amica del Tritacarne Helena Velena] accolsero e contestarono Joe Strummer e compagnia rei di aver firmato per una major mentre continuano a rivendicare una verginità militante punk e di suonare per conto del comune di Bologna e quindi per le istituzioni. Sta di fatto che questo episodio diventa uno spartiacque andando a determinare una radicalizzazione della scena punk italiana, una sorta di seconda ondata più fortemente politicizzata rispetto alla prima forse più “ruspante”. Mentre succede tutto questo, ma non solo, a Milano Philopat e gli altri occupanti degli alloggi di via Correggio danno vita al primo centro sociale della città, il Virus che diventerà il principale punto di riferimento per chiunque facesse o ascoltasse musica in quegli anni. Con tutti i suoi difetti e le sue problematiche il Virus resiste alle pressioni istituzionali esterne e si innalza a livelli europei ospitando serate di livello internazionale e diventando una realtà consolidata. Non c’è una serata che non registri il sold out. Le cose prendono forma e si concretizzano quasi magicamente fino alla chiusura del 1984, data non casuale se si ripensa ai riferimenti orwelliani di un certo tipo di pensiero. Il 1984 dunque, il punto di svolta tanto atteso è finalmente arrivato. Purtroppo però dietro l’angolo non c’è il nuovo mondo ma il peggiore degli incubi. Il Virus viene chiuso e con lui spariscono le speranze sotterrate dalla “Milano da bere” che incombe con il suo carico di cocaina, modelle facili e imbonitori televisivi pronti a venderti nuovi sogni confezionati per l’occasione. Viene a mancare un cambio di mentalità e di obiettivi e la reazione tarda ad arrivare. Il fuoco della rivolta si spegne e tra le ceneri restano i rimpianti di chi ha investito la propria vita tra le mura del Virus. Il libro non è tutto qui, in quello che vi abbiamo raccontato. Ci sono tante sfumature che non vogliamo svelarvi. Possiamo solo dire che non si tratta di un romanzo vero e proprio così come non è possibile assimilarlo ad un saggio. È e dovrebbe a nostro avviso essere visto /letto/diffuso come un racconto [“urlato” come dice lo spesso Philopat nel sottotitolo] in cui tra episodi reali di vita vissuta dell’autore si innestano elementi di un’eco collettiva. Si potrebbe inquadrare quindi riprendo ancora una volta le parole di chi lo ha scritto come “un lavoro di ricerca, un intreccio tra memoria e scrittura, non un lavoro di invenzione quindi ma una sedimentazione di ricordi conseguente ad un accurata elaborazione di fatti tratti da materiali di archivio e di testimonianze dirette”. Sostanzialmente, per concludere, ciò che emerge dal racconto di Philopat è una realtà talmente lontana dai nostri giorni che molti faranno fatica anche solo ad immaginare, sono stati anni crudi e spietati che difficilmente torneranno, anni descritti alla perfezione da uno che li ha vissuti in prima persona, “da dentro” e che ha pagato lo scotto di una ribellione verso una società subito pronta a condannare il “diverso” additandolo come feccia e relegandolo all’emarginazione non solo sociale. Se a ciò aggiungiamo quella vena autoghettizzante figlia di una “superiorità” non dichiarata ma sentita e condivisa da parte dei “ribelli” rispetto al resto del mondo si spiega molto facilmente come nonostante tutte le buone intenzioni spesso si sia faticato oltre il dovuto per coinvolgere la “gente normale” nelle iniziative sociopolitiche degli spazi occupati. C’è sempre stato, magari silente e sottaciuto per non incorrere in accuse di classismo, il pensiero se non la convinzione da parte di chi stava “dentro” a certe situazioni di essere nel giusto. Era colpa dei qualunquisti e dei “normali” se le cose non prendevano la giusta piega, erano loro a non capire. Eppure era tutto così chiaro. Ora a distanza di anni si può anzi si deve fare autocritica e magari [senza vergogna, perché nessuno è scevro da errori soprattutto di valutazione] ammettere che in fondo faceva in parte comodo sentirsi [ed essere] isolati, in modo da usarlo come parziale giustificazione per gli insuccessi. In realtà credo [e qui parlo per la mia esperienza di autogestione] che fosse difficile andare oltre quello che si è fatto. Se la società non ha risposto alle nostre sollecitazioni probabilmente non siamo riusciti a individuare i tasti da toccare per sensibilizzarla ed avvicinarla ai nostri sogni di uguaglianza. Io ho vissuto la secondo ondata, quella di fine anni ottanta ed inizio novanta, quella dove l’aspetto sociale era meno forte e sentito rispetto ad un decennio prima in cui lo scontro di classe aveva assunto proporzioni maggiori. Noi ci siamo affacciati su un mondo che stava cambiando ma non siamo stati capaci di capire che parlavamo un linguaggio ormai obsoleto. Andavamo verso un mondo che si proiettava nel futuro mentre noi restavamo ancorati a modelli comportamentali superati. Magari giustissimi ma che non facevano presa sui nostri coetanei. E così, fortificandoci nell’idea isolazionistica di essere dalla parte giusta abbiamo chiuso ancora di più gli occhi finendo per decretare la fine di un’utopia che è durata lo spazio di un istante e nulla più. Ora forse ragioniamo troppo in modo negativo e non ricordiamo i momenti belli [che sono stati tanti, tantissimi, in pratica la stragrande maggioranza] e vediamo il nostro ragionamento condizionato dal finale delle nostre esperienze. Come dire, abbiamo giocato bene ma abbiamo perso. È profondamente sbagliato farsi condizionare dall’esito finale di un’esperienza perché la priva di ogni suo significato, spersonalizzandola ma oggi con gli anni sulle spalle che iniziano ad essere troppi e troppo faticosi da portare non siamo più così entusiasti e speranzosi come a vent’anni.
di Marco ValentiCi sono un sacco di passaggi del libro che delineano gli scenari e le sensazioni che hanno pervaso queste realtà ai margini. Riportarli tutti alla lunga stonerebbe e sarebbe fuori contesto, per cui ci limitiamo a soffermarci su quelli a nostro avviso più significativi. Non possiamo non partire dalla sentenza che sin dalle prime pagine chiarisce come già allora fossimo un passo indietro al resto del mondo, nonostante si pensasse [e spesso si pensa tuttora] di essere all’avanguardia. “in Italia di punk c’è ben poco, ogni cosa arriva in ritardo di anni diventando patetica e provinciale”. Potremmo fermarci qui. Salvare il file e spegnere il pc. In queste poche parole c’è tutto quello che serve per inquadrare il movimento. Se forse al tempo l’affermazione era provocatoria negli anni a seguire si realizza la sua vera consacrazione. Soprattutto per il nostro piccolo mondo quotidiano. DR mi ha sempre fatto riflettere su una cosa [e su questo gli ho sempre dato ragione in toto]. Nel 1997 a Spezia si inneggiava nei concerti a suon di Gabba Gabba Hey e si scopriva il punk mentre nel resto del mondo il Grunge ribaltava le prospettive dando vita alla terza ondata punk, quella degli anni novanta [la seconda quella degli ottanta era stata quella del Grindcore]. Eravamo in ritardo di vent’anni rispetto al resto del pianeta e pensavamo, anzi pensavano visto che io ero uno dei reduci dell’ondata Grindcore del decennio precedente non fosse altro che per ragioni anagrafiche, di essere parte di un movimento che in realtà si era estinto due decenni prima. Una tristezza epocale, patetica e provinciale come giustamente ha scritto Philopat. Da qui alla provocazione ulteriore [anche perché il punk privato della sua componente provocatoria è praticamente nullo, diventa mainstream] del “il punk non è mai morto perché per fortuna il movimento punk non è mai nato” è un attimo, un battito d’ali o poco più.
Certo oltre la vena provocatoria c’era [e non poteva essere altrimenti] una forte componente attitudinale, ma resta il fatto che il compiacersi nel “no future” era uno dei cardini intorno al quale ruotava tutto. Ci piace sottolineare come sin da subito anche i più sfigati videro nel movimento il loro modo di emergere da una vita priva di soddisfazioni. Si moltiplicarono i figli di papà che grazie alle finanze illimitate del proprio casato potevano permettersi di soggiornare settimanalmente a Londra e reperire tutti i dischi che qui arrivavano in pochissime copie [quando arrivavano] per poterli sfoggiare nella villetta in Brianza davanti agli amici che vedevano Londra come un sogno difficilmente raggiungibile. Qui torna il discorso sull’attitudine che si scontra con la moda che fiuta il terreno fertile rappresentato dal movimento punk, inizialmente relegato a fenomeno di folclore. La cosa che più risulta degradante, avendola subita sulla nostra pelle anche in tempi recenti è il grossolano errore che individua nei punk nichilisti “vestiti di nero con borchie” i nuovi fascisti metropolitani. Come dire, se non sei come me o come vorrei che tu fossi allora sei un fascista. Sorvoliamo su ulteriori approfondimenti in merito, se non altro per non scendere al livello di chi ancora crede che questo sia lo strumento migliore per discriminare che cosa sia giusto [noi] da che cosa sia sbagliato [voi].
Per fortuna Philopat racconta come stavano veramente le cose al di là delle censure degli anni a seguire: “coi compagni ogni rapporto è pressoché impossibile, al sabato non si cono più gli scontri con la madama e allora se la prendono con noi, nel migliore dei casi ci sfottono, nel peggiore ci prendono per fascisti e allora c’è solo da scappare”. Lasciamo quindi alla vostra intelligenza ogni commento. Mentre noi ci spostiamo su un versante che riveste una sostanziale importanza a livello sociologico, dal momento che entrano in gioco le periferie, con tutte le difficoltà annesse al ritrovarsi a nascere e crescere in palazzoni di cemento armato privi di ogni servizio anche il più indispensabile. I primi punk sono originari proprio elle periferie e figli del degrado famigliare e logistico. La loro ribellione nasce proprio nel momento in cui realizzano di non avere futuro tra i palazzoni delle strade che si allontanano da Milano, “no future” appunto. La loro è una scelta tra farsi la cresta e farsi in vena. Purtroppo spesso le due cose coincisero. “nella mia zona c’erano solo l’oratorio e l’eroina nonostante la famiglia pseudocattolica in via stabilizzazione economica”. Si evince facilmente come non ci fossero grosse alternative alla fuga nelle droghe [di qualunque tipo] soprattutto per i meno fortunati.
L’iniziazione alla droga leggendo le pagine del libro pare essere già parte delle loro vite sin dal momento in cui sono venuti al mondo. Per fortuna Philopat pare aver scampato la cosa grazie al suo prolungato soggiorno londinese altrimenti non saremo qui a raccontarci tutto questo. La loro era una generazione morta in partenza, che non aveva più niente da perdere, facile cadere se sei già lanciato verso il fondo. Il mondo sta cambiando e “in molti tra quelli che sono interessati a cambiare aria vedono in noi punk la via d’uscita, la gente molla i circoli, ci sono scazzi per la scelta della lotta armata, per l’eroina e per gli arresti”. Si perdono insomma le certezze granitiche figlie di un’ortodossia filocomunista e si assiste ad uno sfaldamento del movimento politico con le forze dell’ordine che reagiscono dopo anni difficili prendendosi libertà in odore di regime forti della nullità politica che si sta affermando sostituendosi al movimento. Chi può torna a Londra dove niente sembra essere cambiato, anche perché la capitale britannica “alla fine degli anni settanta è la città dove ogni esperienza underground diventa un segnale, un faro per il resto del mondo, c’è una produzione pazzesca di modelli diversificati di vita e ogni tendenza di strada si trasforma in una moda e le controculture si mischiano”. Anche qui noi sfigati di provincia arriviamo con un ritardo abissale, per non dire ridicolo, coi nostri coetanei che, figli di una ribellione che non esiste e non può esistere perché non c’è nulla contro cui ribellarsi negli anni novanta, emigrano a Londra scimmiottando i nostri predecessori. Peccato che [oltre appunto alla ribellione verso il nulla] nessuno ancora mi abbia spiegato che cosa ci fosse di punk nel 1994 [dieci anni dopo l’orwelliano 1984 vero spartiacque del movimento punk italiano] nel lasciare Spezia per andare a lavorare al McDonald a Londra. Ancora non abbiamo trovato risposte in merito, se qualcuno tra voi che state leggendo vuole venirci in contro e farci partecipi della “verità” gli saremmo eternamente grati. È proprio in questi anni che abbiamo iniziato ad odiare la perfida albione e tutto quello che per noi ha rappresentato, vale a dire l’ultimo rifugio degli sfigati, il cimitero degli elefanti per tutti quelli che non avevano voglia di fare un cazzo e, magari sovvenzionati dai soldi di mammina che arrivavano via vaglia postale, giocavano a fare gli alternativi. Chiusa questa parentesi [auto]biografica torniamo alle pagine del libro, che non smettono di sollecitare i nostri pensieri riga dopo riga. Insieme alle prime fanzine fatte coi ritagli di giornale [l’archetipo del copia incolla odierno] nascono anche i primi gruppi musicali. Figli anch’essi dei retaggi imposti dall’esterno, con le paranoie sulla scelta del nome e della lingua da usare in modo da evitare richiami autarchici al ventennio ma al tempo stesso con la voglia di non scimmiottare gli inglesi. Per cui spesso chi canta in inglese si ritrova a dover [o voler questo non è del tutto chiaro] tradurre i testi in italiano e a leggerli prima del concerto in modo da dissipare ogni dubbio su ammiccamenti fascitoidi.
Da qui al passo degli autoriduttori è un attimo e si assiste troppo spesso a concerti interrotti per dare vita ad interminabili assemblee con cui stabilire se un termine era corretto da un punto di vista sociopoliticoesistenziale oppure se si dovesse imporre una censure con conseguente allontanamento del gruppo dal palco. Eravamo al punto che si faceva un’assemblea anche per decidere chi avrebbe partecipato all’assemblea stessa. Una retorica soffocante che ha allontanato dal movimento politico tutti coloro che non si riconoscevano in questo stucchevole modo di ragionare consegnandolo di fatto nelle mani dell’eroina che ha avuto in quei momenti il suo massimo fulgore e la sua più capillare diffusione. Restando in argomenti più strettamente musicali un altro elemento che capta l’attenzione dell’autore e che viene riproposto spesso è quello riguardante l’estetica del punk in quegli anni, a cui è dedicato il primo capitolo, in cui viene presentato un vademecum su come vestirsi, agghindarsi e pettinarsi per potersi effettivamente sentire punk a tutti gli effetti. Il tutto ovviamente con una buona dose di autoironia, lo specifichiamo anche se non ce ne sarebbe bisogno. In ogni caso l’essenza punk passava veramente attraverso un riconoscimento anche “esteriore” cui non era possibile sottrarsi. L’alternatività era riconosciuta a partire da come uno si poneva [spesso con quel poco che aveva, tra soluzioni arrabattate e riciclo di vecchi indumenti] solo dopo, in seconda battuta si poteva passare ad un’alternativa che fosse soprattutto di pensiero e non foriera dell’ultima moda. Qui interviene ancora Philopat sottolineando come “quando potranno farci diventare un prodotto lo faranno e anche lo schifo si potrà vendere”, a ribadire come le mode [e chi di moda campa] siano [e fossero] sempre pronte a sfruttare il mood del momento. E se di mode vogliamo parlare un passaggio interessante è quello dedicato ai Dark.
Partendo dal presupposto che il movimento giovanile “it’s not fashion” agli occhi dei punk “i dark sono nostri compagni e invece li trattiamo come regolari”. Si cercava di essere più alternativi degli alternativi [io sono punk più di te, concetto che su altre basi e in altri campi non ha mai abbandonato un certo modo di fare politica] e invece non si capiva come i lugubri darkettoni altro non fossero che ragazzi che come loro cercavano di comunicare la morte della società, facendolo con un diverso approccio e una differente estetica. La parentela c’era ed era piuttosto stretta, peccato non la si sia voluta vedere. Un elemento di transizione che ha sancito una prima e decisiva spaccatura del fenomeno politico di quegli anni è stata la morte di Aldo Moro, vissuta da buona parte dei ragazzi delle periferie degradate come la fine di un sogno [forse mai davvero iniziato per alcuni di loro]. Trauma che li ha allontanati dalla lotta politica in prima persona per catapultarli diretti e senza difese in pasto all’eroina. Viene a mancare la spinta sociopolitica che il movimento punk associato a quello giovanile universitario in particolare hanno messo nel proprio motore come propulsore per la lotta al sistema. La socialità si sfilaccia e si inizia a vivere in funzione della dose da procurarsi. Si perdono i contatti, la stima e le amicizie e si inizia a vivere come morti in attesa del proprio funerale.
Contemporaneamente i figli di papà hanno dimesso l’eskimo e la lotta politica per tornare a scuola dai loro professori, membri di quella destra che fino al giorno prima avrebbero messo al muro. La ricreazione è finita, tutti in classe. Il tutto mentre i “figli di nessuno” muoiono copiosamente di overdose tra l’indifferenza generale. “i tempi dei bisogni dei proletari, della rivoluzione dietro l’angolo, sono finiti da un pezzo, la capacità di recupero del sistema ha avuto ragione di ogni forma di ribellione, la tua rabbia è messa al servizio dell’industria discografica o del negozio di abbigliamento all’angolo”. Tutto sta decisamente andando nelle direzione contraria a quella che si voleva prendere. I ribelli, quelli veri sono stufi di vivere la loro frustrazione come fosse una moda e si ripropone l’eterno ed incompiuto dilemma della diatriba tra provocazione e reale attitudine.
Un sussulto di orgoglio si ha per la discesa in Italia dei Clash a Bologna, il primo giugno del 1980 in piazza Maggiore. Memorabile lo striscione di contestazione “Punk is Crass not Clash” con cui gli antagonisti bolognesi [tra cui l’amica del Tritacarne Helena Velena] accolsero e contestarono Joe Strummer e compagnia rei di aver firmato per una major mentre continuano a rivendicare una verginità militante punk e di suonare per conto del comune di Bologna e quindi per le istituzioni. Sta di fatto che questo episodio diventa uno spartiacque andando a determinare una radicalizzazione della scena punk italiana, una sorta di seconda ondata più fortemente politicizzata rispetto alla prima forse più “ruspante”. Mentre succede tutto questo, ma non solo, a Milano Philopat e gli altri occupanti degli alloggi di via Correggio danno vita al primo centro sociale della città, il Virus che diventerà il principale punto di riferimento per chiunque facesse o ascoltasse musica in quegli anni. Con tutti i suoi difetti e le sue problematiche il Virus resiste alle pressioni istituzionali esterne e si innalza a livelli europei ospitando serate di livello internazionale e diventando una realtà consolidata. Non c’è una serata che non registri il sold out. Le cose prendono forma e si concretizzano quasi magicamente fino alla chiusura del 1984, data non casuale se si ripensa ai riferimenti orwelliani di un certo tipo di pensiero. Il 1984 dunque, il punto di svolta tanto atteso è finalmente arrivato. Purtroppo però dietro l’angolo non c’è il nuovo mondo ma il peggiore degli incubi. Il Virus viene chiuso e con lui spariscono le speranze sotterrate dalla “Milano da bere” che incombe con il suo carico di cocaina, modelle facili e imbonitori televisivi pronti a venderti nuovi sogni confezionati per l’occasione. Viene a mancare un cambio di mentalità e di obiettivi e la reazione tarda ad arrivare. Il fuoco della rivolta si spegne e tra le ceneri restano i rimpianti di chi ha investito la propria vita tra le mura del Virus. Il libro non è tutto qui, in quello che vi abbiamo raccontato. Ci sono tante sfumature che non vogliamo svelarvi. Possiamo solo dire che non si tratta di un romanzo vero e proprio così come non è possibile assimilarlo ad un saggio. È e dovrebbe a nostro avviso essere visto /letto/diffuso come un racconto [“urlato” come dice lo spesso Philopat nel sottotitolo] in cui tra episodi reali di vita vissuta dell’autore si innestano elementi di un’eco collettiva. Si potrebbe inquadrare quindi riprendo ancora una volta le parole di chi lo ha scritto come “un lavoro di ricerca, un intreccio tra memoria e scrittura, non un lavoro di invenzione quindi ma una sedimentazione di ricordi conseguente ad un accurata elaborazione di fatti tratti da materiali di archivio e di testimonianze dirette”. Sostanzialmente, per concludere, ciò che emerge dal racconto di Philopat è una realtà talmente lontana dai nostri giorni che molti faranno fatica anche solo ad immaginare, sono stati anni crudi e spietati che difficilmente torneranno, anni descritti alla perfezione da uno che li ha vissuti in prima persona, “da dentro” e che ha pagato lo scotto di una ribellione verso una società subito pronta a condannare il “diverso” additandolo come feccia e relegandolo all’emarginazione non solo sociale. Se a ciò aggiungiamo quella vena autoghettizzante figlia di una “superiorità” non dichiarata ma sentita e condivisa da parte dei “ribelli” rispetto al resto del mondo si spiega molto facilmente come nonostante tutte le buone intenzioni spesso si sia faticato oltre il dovuto per coinvolgere la “gente normale” nelle iniziative sociopolitiche degli spazi occupati. C’è sempre stato, magari silente e sottaciuto per non incorrere in accuse di classismo, il pensiero se non la convinzione da parte di chi stava “dentro” a certe situazioni di essere nel giusto. Era colpa dei qualunquisti e dei “normali” se le cose non prendevano la giusta piega, erano loro a non capire. Eppure era tutto così chiaro. Ora a distanza di anni si può anzi si deve fare autocritica e magari [senza vergogna, perché nessuno è scevro da errori soprattutto di valutazione] ammettere che in fondo faceva in parte comodo sentirsi [ed essere] isolati, in modo da usarlo come parziale giustificazione per gli insuccessi. In realtà credo [e qui parlo per la mia esperienza di autogestione] che fosse difficile andare oltre quello che si è fatto. Se la società non ha risposto alle nostre sollecitazioni probabilmente non siamo riusciti a individuare i tasti da toccare per sensibilizzarla ed avvicinarla ai nostri sogni di uguaglianza. Io ho vissuto la secondo ondata, quella di fine anni ottanta ed inizio novanta, quella dove l’aspetto sociale era meno forte e sentito rispetto ad un decennio prima in cui lo scontro di classe aveva assunto proporzioni maggiori. Noi ci siamo affacciati su un mondo che stava cambiando ma non siamo stati capaci di capire che parlavamo un linguaggio ormai obsoleto. Andavamo verso un mondo che si proiettava nel futuro mentre noi restavamo ancorati a modelli comportamentali superati. Magari giustissimi ma che non facevano presa sui nostri coetanei. E così, fortificandoci nell’idea isolazionistica di essere dalla parte giusta abbiamo chiuso ancora di più gli occhi finendo per decretare la fine di un’utopia che è durata lo spazio di un istante e nulla più. Ora forse ragioniamo troppo in modo negativo e non ricordiamo i momenti belli [che sono stati tanti, tantissimi, in pratica la stragrande maggioranza] e vediamo il nostro ragionamento condizionato dal finale delle nostre esperienze. Come dire, abbiamo giocato bene ma abbiamo perso. È profondamente sbagliato farsi condizionare dall’esito finale di un’esperienza perché la priva di ogni suo significato, spersonalizzandola ma oggi con gli anni sulle spalle che iniziano ad essere troppi e troppo faticosi da portare non siamo più così entusiasti e speranzosi come a vent’anni.
www.wumingfoundation.com, 8 ottobre 2016 Asor Rosa non ascoltava i Sex Pistols. Intervista a Marco Philopat
Abbiamo preso in esame molte volte il lavoro di Marco Philopat, nostro vecchio compagno di strade. Oggi torniamo a scriverne, se non proprio cogliendo la palla al balzo (siamo in ritardo di qualche mese!), quantomeno raccogliendola da terra e facendo qualche palleggio, senza pretese.
Sì, perché è tornato in libreria, ripubblicato da Agenzia X, il libro d’esordio di Philopat Costretti a sanguinare, in una versione riveduta e corretta dall’autore. Nella prefazione, Philopat ripercorre la storia del libro, uscito per la prima volta nel 1997, e scrive: «Sono passati venticinque anni da quando iniziai a registrare e sbobinare a matita i miei ricordi su fogli volanti, poi su quaderni e quaderni che con il trascorrere dei mesi andavano a riempirsi di segni, cancellature, correzioni e altri foglietti incollati o pinzati qua e là. Dopo avere riportato il testo su un computer preistorico che ancora non andava in rete, stampato e letto tutto d’un fiato, mi resi conto con sorpresa di aver scritto una specie di romanzo, purtroppo mi sembrava talmente sperimentale da avere il timore che fosse quasi impossibile da leggere. Non si trattava nemmeno di un racconto orale come originariamente si voleva fare, un progetto editoriale sulle orme degli insegnamenti di Cesare Bermani per narrare le vicende legate alla storia del punk italiano, un modo per incidere su carta un’esperienza che rischiava di finire in soffitta, in un periodo in cui, spintonato in disparte dalla scena hip hop, grunge, hacker e rave, il punk sapeva di muffa, come disse un’amica che mi vedeva ogni giorno concentrato nel progetto di stesura […]
Costretti a sanguinare non era un racconto orale e la parola romanzo, riportata in copertina in tutte le varie edizioni, non andava affatto bene. Quando pochi mesi fa ho deciso di ripubblicarlo con qualche aggiunta e revisione, ho pensato subito di cambiare quel sottotitolo che avevo sempre odiato. Trovarne uno nuovo non è stato facile, ma la vera impresa è iniziata quando mi sono messo a lavorare sul testo tentando di mantenere integra una scrittura così indisciplinata. La nuova edizione è stata completamente rivista, parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo con minuziosa attenzione, grazie alla redazione di Agenzia X e all’impegno amanuense, al limite della follia lessicale, dell’amico Massimo “Bunny” Berni. Abbiamo eliminato le ingenuità della prosa, le scorie della sintassi, le ripetizioni, i luoghi comuni e sistemato la rigidità di alcuni dialoghi. Abbiamo ricostruito il puzzle psicotico al microscopio, aggiunto piccoli aneddoti nei cali del ritmo, premendo l’acceleratore dove si poteva. Se si cambiava una piccola parte si doveva agire per forza su mille altre…»
Un’altra vecchia conoscenza, Marc Tibaldi, ha intervistato Philopat appositamente per Giap. L’intervista si intitola Asor Rosa non ascoltava i Sex Pistols. Eccola
Non mi piace la retromania, l’egemonia del vintage che ha caratterizzato gli ultimi anni, ma oggi ho messo la maglietta dei Wretched – acquistata a SlamX – con la scritta «In nome del loro potere tutto è stato fatto… per distruggere il mondo dove tu vivi», è la copertina del loro secondo EP, anno 1983, lo stesso in cui suonarono in Friuli, a Torviscosa, con Warfare, Quinto Braccio, Impact e altri, concerto che organizzammo con Punkrazio, per gli spazi sociali e contro l’eroina. Ho un appuntamento con Philopat per l’intervista dedicata alla nuova edizione di Costretti a sanguinare. Racconto urlato sul punk (AgenziaX, 240 pagine, 15 euro). Sono in anticipo e mi fermo davanti a una bancarella di libri usati del mercato di via MacMahon, mi cade l’occhio su una copertina della storica collana del Nuovo Politecnico di Einaudi, quella con il quadrato rosso, disegnata da Bruno Munari. È Le due società. Ipotesi sulla crisi italiana di Alberto Asor Rosa. Conosco il testo di fama, ma non l’ho letto. Sfoglio, è del ’77. Bene, mi dico, uno degli anni-simbolo del punk. Due euro, lo acquisto e vado al bar. Leggo e si ravviva la memoria, è una raccolta di articoli scritti su «l’Unità» nei primi sei mesi del ’77. C’è da divertirsi! L’autore non ha bisogno di presentazioni, storico della letteratura, operaista negli anni Sessanta, poi pcista tutto d’un pezzo. Non la tiro per le lunghe, in pratica il testo – sotto le analisi sociologiche – è anche la legittimazione teorica dell’invio dei carrarmati (da parte dello Stato, della DC e del PCI) contro il movimento autonomo-creativo di Bologna. Philopat mi sta aspettando, chiudo il libro e penso che Asor Rosa forse avrebbe fatto bene ad ascoltare i Sex Pistols, in quegli anni, mentre la sua collega Maria Corti studiava e capiva i testi degli Skiantos. Di certo lui non l’ha fatto, non avrebbe usato quel linguaggio, già allora così stantio.
Strana coincidenza, nemmeno un anno fa intervistai Philopat per la riedizione di La banda Bellini e la iniziai proprio con una frase di Asor Rosa, tratta da Scrittori e massa dove – nel capitolo dedicato ai Wu Ming e al loro libro teorico New Italian Epic – sostiene che «la Storia è una risorsa formidabile […] ma impone rigide regole all’invenzione. Se si parla del passato, significa che è più importante del presente, ovvero che del presente non si può parlare come si vorrebbe. La New Italian Epic, per andare incontro al futuro, come dichiara di voler fare, dovrebbe chiarire meglio se la Storia è una scelta o un obbligo insuperabile, e in ambedue i casi perché». Con queste considerazioni e riflessioni sulla storia, i suoi usi e i suoi ritorni mi avvio all’incontro con l’autore del romanzo del “no future” italiano.
Philopat, alcuni tuoi romanzi, penso soprattutto a La banda Bellini e I viaggi di Mel, sono ambientati nel passato (anche se forse non nella Storia con la “s” maiuscola), e anche Costretti a sanguinare lo è. È stata una scelta o un caso?
Parto dal desiderio di raccontare dei momenti reali, veri o verosimili, vissuti dal personaggio principale e nello stesso tempo cerco di trovare l’eco di un moto collettivo. Per farlo è necessario elaborare i fatti sui materiali d’archivio, raccogliere testimonianze e lasciare sedimentare i ricordi. Il mio non è un lavoro di invenzione della storia, ma di ricerca, una specie di intreccio tra memoria e scrittura. Sulla revisione di Costretti a sanguinare ho riflettuto molto in tal senso.
Ci racconti i motivi di questa nuova edizione work in progress o opera aperta?
Riscrivere il libro, con la tecnica che ho acquisito negli anni, rispettando però la genuinità e la freschezza di una volta, non è stato facile. Il testo ha una sua ingenuità particolare che è anche freschezza e velocità. Queste caratteristiche credo di averle rispettate, in fondo sono le stesse del movimento punk di allora, che fu fragile ma grintoso. Il libro ho iniziato a scriverlo nel 1991 ed è uscito in prima edizione nel 1997. In quel periodo leggevo molto Burroughs ed ero attratto dalla scrittura automatica, dalle avanguardie storiche, dal flusso di coscienza narrativo, dal senso del ritmo della scrittura beat e dalla sperimentazione di alcuni scrittori italiani degli anni settanta. Suggestioni che venivano filtrate attraverso la mia esperienza, dall’estetica punk, dalle fanzine e soprattutto attraverso il rumore e la concitazione della musica punk. Il risultato era una scrittura selvatica, punk, appunto! L’uso dei trattini di separazione-congiunzione alternativi alla punteggiatura tradizionale contribuiscono a dare ritmo e velocità al testo, creano la scansione temporale ma anche una specifica complicità con il lettore. Allora io ero pieno di dubbi, a darmi fiducia furono Nanni Balestrini e Cesare Bermani, che sono i due poli di riferimento per quanto riguarda i miei libri: la sperimentazione sulla scrittura da una parte e il lavoro sulla memoria collettiva dall’altro. Durante la prima stesura non avevo la capacità che ho oggi, dopo oltre trent’anni di esperienza editoriale, quindi il testo era molto acerbo, ogni tanto la narrazione si inceppava, abbiamo tagliato le ripetizioni, le risonanze e corretto gli errori, mentre alcuni momenti d’azione che meritavano uno sviluppo sono stati totalmente riscritti.
Costretti a sanguinare è più un romanzo o più racconto orale di documentazione storica?
Entrambe le cose. Di inventato non c’è nulla, anche se certi passaggi sembrano assurdi e alle volte, nel rileggerli, devo fare uno sforzo anch’io per capire se li ho davvero vissuti… Poi è vero che tutte le vicissitudini del protagonista, crisi, euforie, amori, gli episodi esilaranti e le situazioni al limite dell’umano, lo rendano una sorta di romanzo. Devo dire però che non mi sono mai riconosciuto nel sottotitolo delle precedenti edizioni che era “romanzo sul punk”, infatti l’ho cambiato in “racconto urlato sul punk”.
Gli anni della prima edizione di Costretti a sanguinaresono più o meno gli stessi anni in cui gli scrittori che verranno inclusi nell’antologia Gioventù cannibale iniziano a farsi conoscere. Ti senti parte o ti sei sentito parte di quello o di altri movimenti letterari?
Alcuni sono scrittori che tuttora seguo, ma – ammesso e non concesso che per quegli autori si possa parlare di movimento – credo che Costretti a sanguinare non abbia molto a vedere con quel realismo mass-mediologico e la cultura di massa. Mi piace la velocità di Ammaniti e i momenti poetici che Aldo Nove sa inserire nel racconto. Ricordo che all’epoca quando feci leggere le prime bozze a Tiziano Scarpa lui si entusiasmò, mi incoraggiò e fece anche un po’ di editing sul testo, invitandomi a togliere le troppe allucinazioni del protagonista presenti nella prima stesura, cosa che ho fatto. Se non ricordo male una delle peculiarità dei Cannibali fu – soprattutto per volontà del mio amico Daniele Brolli, che curò l’antologia di Einaudi – la rottura con il passato, con gli scrittori delle generazioni precedenti. Io non avvertivo questa necessità proprio perché la mia formazione l’avevo costruita all’interno della Calusca, la libreria di Primo Moroni, che è stato un luogo di trasmissione e di collegamento con i decenni precedenti, soprattutto con le esperienze delle culture rivoluzionarie. I nomi che ho citato hanno avuto successo, una grande carriera. Io ero un punk e da una parte ero contrario all’idea di far carriera e dall’altra sapevo di non aver studiato abbastanza per intraprenderla. Però dentro di me è cresciuta la passione per la scrittura che ho sviluppato negli anni sia come editore – prima in ShaKe e poi in Agenzia X – sia come autore.
Costretti a sanguinare uscì cinque anni prima di La banda Bellini, ma ne è un’ideale continuazione, la storia inizia negli stessi anni in cui l’altro termina. Qual è la continuità del punk con i movimenti degli anni Settanta? Bifo ci vede molte analogie con l’autonomia creativa bolognese, ma è evidente anche una rottura…
Il movimento punk fu un fragile anello di congiunzione tra gli anni settanta e quello che poi si dispiegherà come movimento dei centri sociali. La sua attitudine si presenta sulla scena in un momento di trasformazione economico-sociale, noi punk eravamo i primi figli di operai espulsi dalla fabbrica. La ristrutturazione del capitalismo, il passaggio dal fordismo al post-fordismo in Europa avviene proprio in quegli anni, mentre negli Stati Uniti era iniziato qualche tempo prima, proprio per questo penso che una delle date di nascita punk sia il 1969, quando gli Stooges registrarono I Wanna Be Your Dog. La canzone che tutte le punk band dell’epoca suonavano durante le loro prime sgangherate sessioni in sala prova. Quattro accordi facili facili, la batteria elementare, testi di pura provocazione gridati dal profondo dell’anima. Gli Stooges venivano da Detroit, capitale del fordismo negli Usa, dove già iniziavano a risistemare le fabbriche di automobili, quella loro canzone rappresenta l’essenza del punk.
Quanto è importante la musica nel punk?
Nell’adolescenza la musica colpisce le nostre corde emotive più sensibili, nessun’altra forma artistica ha questa forza. Ammetto che se non ci fossero stati gli ascolti dei dischi di Ramones e Sex Pistols non so cosa mi sarebbe successo… Nel 1977 la mia scuola, un istituto tecnico per chimici nella periferia di Milano, era una specie di paese dei balocchi: il sei politico, l’autogestione, l’occupazione di tipo universitario, gli scontri di piazza. Tutte le mie prime esperienze le ho fatte lì. Un momento di grande libertà e di gioia. Poi nel 1978, quando Moro venne rapito, iniziò un ciclo di repressione e quel mondo si sgretolò in pochi mesi davanti a miei occhi, fu lì che arrivò l’eroina. La musica punk ha salvato la vita a molti miei coetanei. Tuttavia la questione è un’altra, una volta acquisita l’idea che potevi salire su un palco senza sapere suonare, ti rendevi conto che potevi farlo con tutto il resto, per esempio sulle punkzine con la scrittura, i collage, i fumetti e le illustrazioni… Credo che fu il concetto del do it yourself l’elemento principale del punk, una formula che si utilizzò anche per la conquista e l’autogestione degli spazi sociali. In tal senso la vicenda del Virus è emblematica.
Perché in Italia il punk arriva così tardi?
Nelle altre nazioni occidentali il ’68 si concluse nel giro di un paio d’anni, noi venivamo invece da un conflitto sociale durato quasi un decennio. Ma la messa in discussione della militanza e delle ideologie ottocentesche, il rifiuto del lavoro, il “vivere qui e ora” sono caratteristiche che il punk aveva in comune con il movimento del ’77. In più il punk – pur nella sua esiguità – dimostrò una certa disinvoltura nell’attraversare i confini e perciò riuscì a sprovincializzare l’asfittico ambiente culturale italiano. I viaggi in autostop o con i biglietti falsi del treno furono importanti perché a Londra incontrammo il punk anarchico dei Crass, a Zurigo e Amsterdam gli squatter, a Berlino le case e le fabbriche occupate di Kreuzberg, così anche il nostro piccolo movimento prese forza e coscienza. Anche dagli Stati Uniti ci arrivarono messaggi simili con i Dead Kenneys e i Minor Threat, messaggi di carattere politico che ci misero in sintonia con il clima che avevamo respirato in Italia fino a quel momento.
Tra le date simboliche del punk c’è anche il 1984, l’anno orwelliano, in cui anche il romanzo ha termine. Nel 1984 ci fu una manifestazione molto importante e non solo per la coscienza politica del movimento punk (che rende evidente anche una filiazione con la critica radicale del situazionismo), mi riferisco alla contestazione del convegno dei sociologi che avevano condotto la ricerca sulle mode giovanili, sulle “bande spettacolari”, sulle “sottoculture” (così venivano chiamate), inserendoci anche il punk…
Non poteva essere altrimenti, la distopia di Orwell ha qualcosa in comune con il “no future” del punk. Per esempio i Crass pianificarono la fine del loro progetto proprio nel 1984. In quello stesso anno ci fu la contestazione del convegno dei sociologi che sprigionò la critica radicale alla loro “vivisezione culturale” ed ebbe un risalto mediatico enorme. Con quella contestazione riuscimmo anche a creare dei collegamenti con gli studenti universitari e degli scambi stabili con quello che rimaneva della sinistra radicale, la quale comprese che – al di là della rottura con alcune loro componenti – rappresentavamo una continuità ideale.
Il punk per te è morto nel 1984?
Sì, nella sua fase più incisiva sicuramente, però è ancora terribilmente attuale, da una parte perché non ci sono state altre rotture culturali importanti, dall’altra perché anche oggi ci sono dei giovani che trovano nel punk e nelle sue semplici linee di fuga dal mainstream, la forza per uscire dalla propria condizione sociale difficile.
Il punk è innanzitutto “no future”, rifiuto dei compromessi, e “do it yourself”, autogestione ed espressione rabbiosa della propria creatività, senza timore di “andare fuori tempo”. L’unione di questi elementi, interpretati, articolati, vissuti, teorizzati in molte maniere, forse sono il nocciolo duro del punk. Secondo te, cosa rimarrà del punk nel futuro?
Vivrà finché ci sarà qualcuno che lo vorrà raccontare. Il punk è solo l’ultimo fronte di quei disperati nemici della società borghese, un piccolo popolo consapevole di appartenere a una comunità sognante, solidale, senza patria e senza tempo. Mi vengono in mente alcuni personaggi della Commedia umana di Balzac, I refrattari di Jules Vallés nella Parigi della prima rivoluzione industriale, oppure Gli scamiciati di Paolino Valera a fine Ottocento. Un sussulto per ogni epoca riportato su carta per proiettarlo nella testa di nuovi lettori.
E per il futuro, cos’hai nel cassetto, Philopat? E non puoi cavartela con un “no future”!
A partire dai tempi del Virus mi sono occupato soprattutto di far uscire punkzine, riviste e da almeno 30 anni un libro al mese, quando non ci riesco sto male, il mio futuro è tra le pagine di un nuovo volume. Dal 2011 non pubblico un libro a nome mio, mi sembrava più utile impegnarmi nell’attività di editore per Agenzia X, ma dopo questa faticosa riscrittura mi auguro di aver trovato lo slancio giusto per concludere la storia successiva a Costretti a sanguinare, un progetto sul quale lavoro da tanto tempo.
di Marc TibaldiSì, perché è tornato in libreria, ripubblicato da Agenzia X, il libro d’esordio di Philopat Costretti a sanguinare, in una versione riveduta e corretta dall’autore. Nella prefazione, Philopat ripercorre la storia del libro, uscito per la prima volta nel 1997, e scrive: «Sono passati venticinque anni da quando iniziai a registrare e sbobinare a matita i miei ricordi su fogli volanti, poi su quaderni e quaderni che con il trascorrere dei mesi andavano a riempirsi di segni, cancellature, correzioni e altri foglietti incollati o pinzati qua e là. Dopo avere riportato il testo su un computer preistorico che ancora non andava in rete, stampato e letto tutto d’un fiato, mi resi conto con sorpresa di aver scritto una specie di romanzo, purtroppo mi sembrava talmente sperimentale da avere il timore che fosse quasi impossibile da leggere. Non si trattava nemmeno di un racconto orale come originariamente si voleva fare, un progetto editoriale sulle orme degli insegnamenti di Cesare Bermani per narrare le vicende legate alla storia del punk italiano, un modo per incidere su carta un’esperienza che rischiava di finire in soffitta, in un periodo in cui, spintonato in disparte dalla scena hip hop, grunge, hacker e rave, il punk sapeva di muffa, come disse un’amica che mi vedeva ogni giorno concentrato nel progetto di stesura […]
Costretti a sanguinare non era un racconto orale e la parola romanzo, riportata in copertina in tutte le varie edizioni, non andava affatto bene. Quando pochi mesi fa ho deciso di ripubblicarlo con qualche aggiunta e revisione, ho pensato subito di cambiare quel sottotitolo che avevo sempre odiato. Trovarne uno nuovo non è stato facile, ma la vera impresa è iniziata quando mi sono messo a lavorare sul testo tentando di mantenere integra una scrittura così indisciplinata. La nuova edizione è stata completamente rivista, parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo con minuziosa attenzione, grazie alla redazione di Agenzia X e all’impegno amanuense, al limite della follia lessicale, dell’amico Massimo “Bunny” Berni. Abbiamo eliminato le ingenuità della prosa, le scorie della sintassi, le ripetizioni, i luoghi comuni e sistemato la rigidità di alcuni dialoghi. Abbiamo ricostruito il puzzle psicotico al microscopio, aggiunto piccoli aneddoti nei cali del ritmo, premendo l’acceleratore dove si poteva. Se si cambiava una piccola parte si doveva agire per forza su mille altre…»
Un’altra vecchia conoscenza, Marc Tibaldi, ha intervistato Philopat appositamente per Giap. L’intervista si intitola Asor Rosa non ascoltava i Sex Pistols. Eccola
Non mi piace la retromania, l’egemonia del vintage che ha caratterizzato gli ultimi anni, ma oggi ho messo la maglietta dei Wretched – acquistata a SlamX – con la scritta «In nome del loro potere tutto è stato fatto… per distruggere il mondo dove tu vivi», è la copertina del loro secondo EP, anno 1983, lo stesso in cui suonarono in Friuli, a Torviscosa, con Warfare, Quinto Braccio, Impact e altri, concerto che organizzammo con Punkrazio, per gli spazi sociali e contro l’eroina. Ho un appuntamento con Philopat per l’intervista dedicata alla nuova edizione di Costretti a sanguinare. Racconto urlato sul punk (AgenziaX, 240 pagine, 15 euro). Sono in anticipo e mi fermo davanti a una bancarella di libri usati del mercato di via MacMahon, mi cade l’occhio su una copertina della storica collana del Nuovo Politecnico di Einaudi, quella con il quadrato rosso, disegnata da Bruno Munari. È Le due società. Ipotesi sulla crisi italiana di Alberto Asor Rosa. Conosco il testo di fama, ma non l’ho letto. Sfoglio, è del ’77. Bene, mi dico, uno degli anni-simbolo del punk. Due euro, lo acquisto e vado al bar. Leggo e si ravviva la memoria, è una raccolta di articoli scritti su «l’Unità» nei primi sei mesi del ’77. C’è da divertirsi! L’autore non ha bisogno di presentazioni, storico della letteratura, operaista negli anni Sessanta, poi pcista tutto d’un pezzo. Non la tiro per le lunghe, in pratica il testo – sotto le analisi sociologiche – è anche la legittimazione teorica dell’invio dei carrarmati (da parte dello Stato, della DC e del PCI) contro il movimento autonomo-creativo di Bologna. Philopat mi sta aspettando, chiudo il libro e penso che Asor Rosa forse avrebbe fatto bene ad ascoltare i Sex Pistols, in quegli anni, mentre la sua collega Maria Corti studiava e capiva i testi degli Skiantos. Di certo lui non l’ha fatto, non avrebbe usato quel linguaggio, già allora così stantio.
Strana coincidenza, nemmeno un anno fa intervistai Philopat per la riedizione di La banda Bellini e la iniziai proprio con una frase di Asor Rosa, tratta da Scrittori e massa dove – nel capitolo dedicato ai Wu Ming e al loro libro teorico New Italian Epic – sostiene che «la Storia è una risorsa formidabile […] ma impone rigide regole all’invenzione. Se si parla del passato, significa che è più importante del presente, ovvero che del presente non si può parlare come si vorrebbe. La New Italian Epic, per andare incontro al futuro, come dichiara di voler fare, dovrebbe chiarire meglio se la Storia è una scelta o un obbligo insuperabile, e in ambedue i casi perché». Con queste considerazioni e riflessioni sulla storia, i suoi usi e i suoi ritorni mi avvio all’incontro con l’autore del romanzo del “no future” italiano.
Philopat, alcuni tuoi romanzi, penso soprattutto a La banda Bellini e I viaggi di Mel, sono ambientati nel passato (anche se forse non nella Storia con la “s” maiuscola), e anche Costretti a sanguinare lo è. È stata una scelta o un caso?
Parto dal desiderio di raccontare dei momenti reali, veri o verosimili, vissuti dal personaggio principale e nello stesso tempo cerco di trovare l’eco di un moto collettivo. Per farlo è necessario elaborare i fatti sui materiali d’archivio, raccogliere testimonianze e lasciare sedimentare i ricordi. Il mio non è un lavoro di invenzione della storia, ma di ricerca, una specie di intreccio tra memoria e scrittura. Sulla revisione di Costretti a sanguinare ho riflettuto molto in tal senso.
Ci racconti i motivi di questa nuova edizione work in progress o opera aperta?
Riscrivere il libro, con la tecnica che ho acquisito negli anni, rispettando però la genuinità e la freschezza di una volta, non è stato facile. Il testo ha una sua ingenuità particolare che è anche freschezza e velocità. Queste caratteristiche credo di averle rispettate, in fondo sono le stesse del movimento punk di allora, che fu fragile ma grintoso. Il libro ho iniziato a scriverlo nel 1991 ed è uscito in prima edizione nel 1997. In quel periodo leggevo molto Burroughs ed ero attratto dalla scrittura automatica, dalle avanguardie storiche, dal flusso di coscienza narrativo, dal senso del ritmo della scrittura beat e dalla sperimentazione di alcuni scrittori italiani degli anni settanta. Suggestioni che venivano filtrate attraverso la mia esperienza, dall’estetica punk, dalle fanzine e soprattutto attraverso il rumore e la concitazione della musica punk. Il risultato era una scrittura selvatica, punk, appunto! L’uso dei trattini di separazione-congiunzione alternativi alla punteggiatura tradizionale contribuiscono a dare ritmo e velocità al testo, creano la scansione temporale ma anche una specifica complicità con il lettore. Allora io ero pieno di dubbi, a darmi fiducia furono Nanni Balestrini e Cesare Bermani, che sono i due poli di riferimento per quanto riguarda i miei libri: la sperimentazione sulla scrittura da una parte e il lavoro sulla memoria collettiva dall’altro. Durante la prima stesura non avevo la capacità che ho oggi, dopo oltre trent’anni di esperienza editoriale, quindi il testo era molto acerbo, ogni tanto la narrazione si inceppava, abbiamo tagliato le ripetizioni, le risonanze e corretto gli errori, mentre alcuni momenti d’azione che meritavano uno sviluppo sono stati totalmente riscritti.
Costretti a sanguinare è più un romanzo o più racconto orale di documentazione storica?
Entrambe le cose. Di inventato non c’è nulla, anche se certi passaggi sembrano assurdi e alle volte, nel rileggerli, devo fare uno sforzo anch’io per capire se li ho davvero vissuti… Poi è vero che tutte le vicissitudini del protagonista, crisi, euforie, amori, gli episodi esilaranti e le situazioni al limite dell’umano, lo rendano una sorta di romanzo. Devo dire però che non mi sono mai riconosciuto nel sottotitolo delle precedenti edizioni che era “romanzo sul punk”, infatti l’ho cambiato in “racconto urlato sul punk”.
Gli anni della prima edizione di Costretti a sanguinaresono più o meno gli stessi anni in cui gli scrittori che verranno inclusi nell’antologia Gioventù cannibale iniziano a farsi conoscere. Ti senti parte o ti sei sentito parte di quello o di altri movimenti letterari?
Alcuni sono scrittori che tuttora seguo, ma – ammesso e non concesso che per quegli autori si possa parlare di movimento – credo che Costretti a sanguinare non abbia molto a vedere con quel realismo mass-mediologico e la cultura di massa. Mi piace la velocità di Ammaniti e i momenti poetici che Aldo Nove sa inserire nel racconto. Ricordo che all’epoca quando feci leggere le prime bozze a Tiziano Scarpa lui si entusiasmò, mi incoraggiò e fece anche un po’ di editing sul testo, invitandomi a togliere le troppe allucinazioni del protagonista presenti nella prima stesura, cosa che ho fatto. Se non ricordo male una delle peculiarità dei Cannibali fu – soprattutto per volontà del mio amico Daniele Brolli, che curò l’antologia di Einaudi – la rottura con il passato, con gli scrittori delle generazioni precedenti. Io non avvertivo questa necessità proprio perché la mia formazione l’avevo costruita all’interno della Calusca, la libreria di Primo Moroni, che è stato un luogo di trasmissione e di collegamento con i decenni precedenti, soprattutto con le esperienze delle culture rivoluzionarie. I nomi che ho citato hanno avuto successo, una grande carriera. Io ero un punk e da una parte ero contrario all’idea di far carriera e dall’altra sapevo di non aver studiato abbastanza per intraprenderla. Però dentro di me è cresciuta la passione per la scrittura che ho sviluppato negli anni sia come editore – prima in ShaKe e poi in Agenzia X – sia come autore.
Costretti a sanguinare uscì cinque anni prima di La banda Bellini, ma ne è un’ideale continuazione, la storia inizia negli stessi anni in cui l’altro termina. Qual è la continuità del punk con i movimenti degli anni Settanta? Bifo ci vede molte analogie con l’autonomia creativa bolognese, ma è evidente anche una rottura…
Il movimento punk fu un fragile anello di congiunzione tra gli anni settanta e quello che poi si dispiegherà come movimento dei centri sociali. La sua attitudine si presenta sulla scena in un momento di trasformazione economico-sociale, noi punk eravamo i primi figli di operai espulsi dalla fabbrica. La ristrutturazione del capitalismo, il passaggio dal fordismo al post-fordismo in Europa avviene proprio in quegli anni, mentre negli Stati Uniti era iniziato qualche tempo prima, proprio per questo penso che una delle date di nascita punk sia il 1969, quando gli Stooges registrarono I Wanna Be Your Dog. La canzone che tutte le punk band dell’epoca suonavano durante le loro prime sgangherate sessioni in sala prova. Quattro accordi facili facili, la batteria elementare, testi di pura provocazione gridati dal profondo dell’anima. Gli Stooges venivano da Detroit, capitale del fordismo negli Usa, dove già iniziavano a risistemare le fabbriche di automobili, quella loro canzone rappresenta l’essenza del punk.
Quanto è importante la musica nel punk?
Nell’adolescenza la musica colpisce le nostre corde emotive più sensibili, nessun’altra forma artistica ha questa forza. Ammetto che se non ci fossero stati gli ascolti dei dischi di Ramones e Sex Pistols non so cosa mi sarebbe successo… Nel 1977 la mia scuola, un istituto tecnico per chimici nella periferia di Milano, era una specie di paese dei balocchi: il sei politico, l’autogestione, l’occupazione di tipo universitario, gli scontri di piazza. Tutte le mie prime esperienze le ho fatte lì. Un momento di grande libertà e di gioia. Poi nel 1978, quando Moro venne rapito, iniziò un ciclo di repressione e quel mondo si sgretolò in pochi mesi davanti a miei occhi, fu lì che arrivò l’eroina. La musica punk ha salvato la vita a molti miei coetanei. Tuttavia la questione è un’altra, una volta acquisita l’idea che potevi salire su un palco senza sapere suonare, ti rendevi conto che potevi farlo con tutto il resto, per esempio sulle punkzine con la scrittura, i collage, i fumetti e le illustrazioni… Credo che fu il concetto del do it yourself l’elemento principale del punk, una formula che si utilizzò anche per la conquista e l’autogestione degli spazi sociali. In tal senso la vicenda del Virus è emblematica.
Perché in Italia il punk arriva così tardi?
Nelle altre nazioni occidentali il ’68 si concluse nel giro di un paio d’anni, noi venivamo invece da un conflitto sociale durato quasi un decennio. Ma la messa in discussione della militanza e delle ideologie ottocentesche, il rifiuto del lavoro, il “vivere qui e ora” sono caratteristiche che il punk aveva in comune con il movimento del ’77. In più il punk – pur nella sua esiguità – dimostrò una certa disinvoltura nell’attraversare i confini e perciò riuscì a sprovincializzare l’asfittico ambiente culturale italiano. I viaggi in autostop o con i biglietti falsi del treno furono importanti perché a Londra incontrammo il punk anarchico dei Crass, a Zurigo e Amsterdam gli squatter, a Berlino le case e le fabbriche occupate di Kreuzberg, così anche il nostro piccolo movimento prese forza e coscienza. Anche dagli Stati Uniti ci arrivarono messaggi simili con i Dead Kenneys e i Minor Threat, messaggi di carattere politico che ci misero in sintonia con il clima che avevamo respirato in Italia fino a quel momento.
Tra le date simboliche del punk c’è anche il 1984, l’anno orwelliano, in cui anche il romanzo ha termine. Nel 1984 ci fu una manifestazione molto importante e non solo per la coscienza politica del movimento punk (che rende evidente anche una filiazione con la critica radicale del situazionismo), mi riferisco alla contestazione del convegno dei sociologi che avevano condotto la ricerca sulle mode giovanili, sulle “bande spettacolari”, sulle “sottoculture” (così venivano chiamate), inserendoci anche il punk…
Non poteva essere altrimenti, la distopia di Orwell ha qualcosa in comune con il “no future” del punk. Per esempio i Crass pianificarono la fine del loro progetto proprio nel 1984. In quello stesso anno ci fu la contestazione del convegno dei sociologi che sprigionò la critica radicale alla loro “vivisezione culturale” ed ebbe un risalto mediatico enorme. Con quella contestazione riuscimmo anche a creare dei collegamenti con gli studenti universitari e degli scambi stabili con quello che rimaneva della sinistra radicale, la quale comprese che – al di là della rottura con alcune loro componenti – rappresentavamo una continuità ideale.
Il punk per te è morto nel 1984?
Sì, nella sua fase più incisiva sicuramente, però è ancora terribilmente attuale, da una parte perché non ci sono state altre rotture culturali importanti, dall’altra perché anche oggi ci sono dei giovani che trovano nel punk e nelle sue semplici linee di fuga dal mainstream, la forza per uscire dalla propria condizione sociale difficile.
Il punk è innanzitutto “no future”, rifiuto dei compromessi, e “do it yourself”, autogestione ed espressione rabbiosa della propria creatività, senza timore di “andare fuori tempo”. L’unione di questi elementi, interpretati, articolati, vissuti, teorizzati in molte maniere, forse sono il nocciolo duro del punk. Secondo te, cosa rimarrà del punk nel futuro?
Vivrà finché ci sarà qualcuno che lo vorrà raccontare. Il punk è solo l’ultimo fronte di quei disperati nemici della società borghese, un piccolo popolo consapevole di appartenere a una comunità sognante, solidale, senza patria e senza tempo. Mi vengono in mente alcuni personaggi della Commedia umana di Balzac, I refrattari di Jules Vallés nella Parigi della prima rivoluzione industriale, oppure Gli scamiciati di Paolino Valera a fine Ottocento. Un sussulto per ogni epoca riportato su carta per proiettarlo nella testa di nuovi lettori.
E per il futuro, cos’hai nel cassetto, Philopat? E non puoi cavartela con un “no future”!
A partire dai tempi del Virus mi sono occupato soprattutto di far uscire punkzine, riviste e da almeno 30 anni un libro al mese, quando non ci riesco sto male, il mio futuro è tra le pagine di un nuovo volume. Dal 2011 non pubblico un libro a nome mio, mi sembrava più utile impegnarmi nell’attività di editore per Agenzia X, ma dopo questa faticosa riscrittura mi auguro di aver trovato lo slancio giusto per concludere la storia successiva a Costretti a sanguinare, un progetto sul quale lavoro da tanto tempo.