www.carmillaonline.com, 8 maggio 2007Contro il '68
È uscito un saggio-pamphlet cruciale. Lo ha scritto Alessandro Bertante, lo ha pubblicato Agenzia X e si intitola, provocatoriamente nel senso letterale del termine, Contro il '68. Al centro, la messa sotto accusa della deriva umana che, da rivoluzionaria, si è fatta complice di uno slittamento nazionale nella palude neoliberista, costituendo un blocco di potere che ha cristallizzato più di 25 anni di possibili rotture sociali, fino alla termitizzazione attuale. L'anticipazione data su Lipperatura dell'incipit del saggio ha creato un prevedibile dibattito: acceso nei toni e che necessiterebbe sedi cartacee adeguate alla questione sollevata. Qui riproduco parti del capitolo Conformismo e partecipazione. Ringrazio l'autore per avere concesso la possibilità di mettere on line parte del suo testo, del quale tornerò a occuparmi.
Esauriti la spinta propulsiva e l’entusiasmo della fase iniziale, i giovani contestatori furono le prime vittime della nascita di un nuovo conformismo rivoluzionario che con esiti talvolta disastrosi andò a sovrapporsi al già ben radicato conformismo borghese, evidenziando in modo farsesco tutte le ambiguità politiche della nuova sinistra extraparlamentare. Inevitabilmente la retorica e l’ideologismo gruppettaro condizionarono la produzione artistica in letteratura come nel cinema e nel teatro, stroncando in modo repentino il grande fermento culturale sorto nel secondo dopoguerra. Non c’è dubbio che per l’Italia gli anni cinquanta e sessanta furono una stagione artistica aurorale, durante la quale si concretizzarono energie e motivazioni che erano state tenute a freno prima dalla dittatura e poi dalla guerra.
Contro ogni proclama e contro ogni buona intenzione, la rivolta politica del Sessantotto, pur non avendo responsabilità dirette in questa involuzione, accompagnò la nascita un nuovo modello di comunicazione e fruizione culturale: leggero, orizzontale, furbescamente accessibile e in apparenza democratico ma superficiale e pericolosamente subdolo, pensato e costruito in modo da potersi adattare alla straordinaria forza della televisione, megafono privilegiato della nuova società “spettacolare” di massa, proprio come previsto con lucida chiaroveggenza dai situazionisti alla fine degli anni cinquanta. Un modello che in apparenza aumenta l’importanza dell’opinione pubblica ma che di fatto riduce drasticamente l’influenza della società civile nella vita politica.
In questo contesto anche la figura dell’intellettuale si deteriorò irreversibilmente, finendo con l’essere quasi vituperato in quanto portatore di un ruolo etico e culturale, mentre andava costituendosi un mito democratico dell’opinione pubblica, voce univoca degli umori di una massa pressoché inerte veicolata da messaggi mediatici sempre più semplici, sebbene fuorvianti. “Il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell’opinione pubblica” scriveva lapidario Guy Debord, e francamente non riusciamo a dargli torto. Sebbene fosse già avviata da tempo, fu proprio durante gli anni settanta che questa trasformazione divenne evidente, solo in parte mimetizzata dalla crescente conflittualità politica. Alla fine del decennio la società di massa, o sarebbe meglio dire per la massa, aveva già compiuto la sua definitiva affermazione. Si era allargata a tal punto da diventare eterea, inconsistente, un deserto cognitivo dove poter operare qualsiasi forma di manipolazione mediatica.
In questo vuoto pneumatico la società postindustriale fagocita se stessa e smarrisce ogni punto di riferimento etico. Ogni opinione ha valore, nessuna opinione ha valore. Ogni linguaggio ha una sua dignità perché non esistono dignità né linguaggio. Ogni mezzo di comunicazione è valido, la comunicazione diventa il principale veicolo letterario o artistico, svilendo l’arte nel genere, nella ripetizione del genere e poi ancora nella citazione del genere. E in questo sotterraneo mutare, la violenta contrapposizione politica – nella seconda metà del decennio già di fatto perdente e chiusa in un ottuso radicalismo militare, probabilmente incoraggiato da apparati dello stato – fa da specchietto per le allodole di trasformazioni ben più radicali e significative.[...]
Più tardi sarebbe stato invece chiaro che si era trattato di una evoluzione, non di una sconfitta del capitalismo, già in rinnovamento, già allora dialogante con il computer (a noi ignoto), e già fuori da una prospettiva di classe in nome di una società dei servizi e del ceto medio. Una società in cui la scolarizzazione di massa avrebbe prodotto, invece che frammentazione e oppressione, un’identità liberale sul terreno sociale, attentissima ai diritti individuali e cultrice del benessere. Senza più nemmeno un pensiero per la rivoluzione.
I frutti di questo cambiamento si iniziarono a raccogliere allo scoccare degli anni ottanta, quando – repentinamente e quasi senza che ce ne si accorgesse – venne a mancare ciò che Italo Calvino chiamava “la voce anonima dell’epoca”, ovvero una pulsione più forte e autentica rispetto alle riflessioni individuali del singolo intellettuale o artista, una voce autorevole in virtù della sua pregnanza rispetto alla contemporaneità. La generazione dei sessantottini è perfetta per accompagnare questo cambiamento. Nella sua spudorata inconcludenza conserva il torto e la ragione assieme. In quanto espressione di un’unica classe egemone, la borghesia urbana, rappresenta sia il governo sia l’opposizione. La vittoria e la sconfitta. La lotta coraggiosa e la ritirata più miserabile. Simulando la battaglia sociale come fosse un teatro dei pupi, l’Italia postfordista dice per sempre addio alla conflittualità fra classi.
Negli ultimi trent’anni la crisi, o meglio la percezione della decadenza di letteratura, cinema e arte in generale, si specchia nella mancanza di prospettive e nell’affanno esistenziale di una società formata da uomini e donne confusi e irrisolti, fatalmente poveri di esperienza o, meglio, del senso della loro esperienza. L’assenza di un reale conflitto, principale motore del progresso umano, ha ridotto drasticamente lo spazio per la ricerca di un contenuto che dia legittimità all’inventare.
Stiamo vivendo la fase crepuscolare di quel modello culturale, abbiamo di fronte un baratro ancora tutto da esplorare.
Ma è importante sottolineare che mentre nell’Occidente industrializzato si profilava questo epocale cambiamento, i sessantottini si baloccavano con la chimera liberale di un’informazione orizzontale e indipendente, dimostrando ancora una volta di non comprendere gli autentici cambiamenti strutturali in atto.
[...] Cosa resta quindi oggi del Sessantotto? Non molto, in realtà. Il trasformarsi del ruolo della donna, l’affermazione del diritto al divorzio e all’aborto, il progressivo laicismo sociale e il mutare dei costumi fanno parte di quel trascinante processo di modernizzazione già in atto nelle democrazie occidentali dalla fine degli anni cinquanta, del quale il Sessantotto fu un sintomo importante ma non certo la causa scatenante. Processo di modernizzazione inevitabile perché legato ai cambiamenti strutturali del sistema capitalistico, diversificato e inafferrabile, non più fordista e non più dipendente dalla produzione delle industrie nazionali. Per creare nuovi mercati servivano nuovi bisogni e un immaginario che li veicolasse, quindi una società più aperta e dinamica che comprendesse uomini e donne, bianchi e neri, omosessuali e omofobi, destri e sinistri, impiegati e disoccupati, risparmiatori e gaudenti, benpensanti e tossicodipendenti. Tutti consumatori, tutti contenti di poterlo essere. Che poi l’esaltazione delle differenze e dell’individualità borghese vada sempre a scapito dell’uguaglianza è storia assai nota.
In realtà sono proprio le conquiste più immediatamente politiche maturate in quegli anni a essere state “superate” e rimosse dall’aggressivo neoliberismo dei decenni successivi.
Anche con uno sguardo frettoloso alle condizioni dell’attuale mondo del lavoro italiano ci si rende conto di quanto lo Statuto dei lavoratori, rivendicato come una delle principali eredità del Sessantotto, sia stato di fatto circoscritto e aggirato da altre normative; rimane valido per tutelare alcune categorie di salariati e stipendiati riemerse alla ribalta politica durante l’ultimo governo Berlusconi, in occasione del fallito tentativo di revisione dell’articolo 18. Ma per poco altro.
Oggi la stragrande maggioranza dei giovani tra i venti e i quarant’anni vedono gli operai e gli impiegati assunti nei decenni precedenti come privilegiati, e questo aumenta in modo sensibile la mancanza di comunicazione e di mutua solidarietà fra le diverse categorie di lavoratori.
Dell’arretramento politico a modelli rivoluzionari datati e autoritari verificatosi nella seconda metà degli anni settanta abbiamo già detto; bisogna aggiungere che quei modelli hanno continuato per molto tempo a condizionare la vita politica italiana. Ricordo che durante le occupazioni del 1990 – il movimento universitario della Pantera – noi giovani contestatori guardavamo con un misto di sgomento e rassegnazione all’eterno riproporsi delle divisioni politiche degli anni settanta, con gli eredi dell’Autonomia Operaia e degli stalinisti impegnati a fronteggiarsi astiosamente, ancora chiusi in ruoli preconfezionati. Con quel disordinato movimento tentammo di fermare la ristrutturazione conservatrice già in atto da alcuni anni: le riforme universitarie nate sull’onda della contestazione – la liberalizzazione dei piani di studio, gli appelli mensili e l’incremento dell’interattività fra le diverse discipline – già da tempo erano state oggetto di limitazioni e di fatto disinnescate nella loro carica rinnovatrice, prima della recente cancellazione operata dalla riforma Moratti.
Affrontando il tema dell’eredità politica non si può non ripensare agli anni ottanta, ed è un compito difficile, quasi doloroso. Deve forse trascorrere ancora un po’ di tempo per essere sufficiente lucidi, ma certo non è avventuroso affermare che anche in Italia si è imposto il modello neoliberista, magari con un’attitudine meno drastica che in altri paesi (penso all’Inghilterra, al durissimo ed estenuante conflitto sindacale dei minatori) e con un costo sociale decisamente più basso. Complici di questo trapasso quasi indolore sono stati la collaudata attitudine italiana al compromesso e il ruolo della sinistra borghese intellettuale, freno motore delle lotte politiche degli ultimi due decenni.
La crisi culturale della borghesia italiana come ceto trainante delle trasformazioni sociali è l’autentica eredità del Sessantotto studentesco.
Non poteva essere altrimenti. Contestando la propria classe di appartenenza senza la determinazione e la tenacia di una lotta veramente antagonista, i sessantottini hanno dato vita a un’estetica rivoluzionaria ingannevole, un insieme di comportamenti anticonformisti, pose e stereotipi politici ancora oggi piuttosto diffusi e riproposti con orgoglio. Sul medio periodo il risultato è stata una rinnovata diffidenza popolare nei confronti della sinistra borghese intellettuale, vista come l’irritante espressione di una classe sociale annoiata e parolaia, capricciosamente affezionata a obiettivi politici che non le appartengono. La crisi identitaria della borghesia si è fatta lampante con lo spensierato edonismo degli anni ottanta, quando gli ex contestatori perfezionarono il loro percorso professionale.
La corruzione diffusa, il malcostume sociale, la perdita del senso etico dello stato e il definitivo affermarsi della televisione commerciale monopolistica hanno aperto la strada al quel degrado civile e culturale che sta all’origine dell’anomalia Berlusconi. A sua volta, l’imprenditore di Arcore è stato uno dei primi a capire quanto sarebbero potuti diventare utili gli ex sessantottini in questa fase di riflusso politico ed esistenziale, sempre che fossero riusciti a emanciparsi dalle ingenue rivendicazioni politiche della giovinezza.
Ma questa è storia attuale.
di ggEsauriti la spinta propulsiva e l’entusiasmo della fase iniziale, i giovani contestatori furono le prime vittime della nascita di un nuovo conformismo rivoluzionario che con esiti talvolta disastrosi andò a sovrapporsi al già ben radicato conformismo borghese, evidenziando in modo farsesco tutte le ambiguità politiche della nuova sinistra extraparlamentare. Inevitabilmente la retorica e l’ideologismo gruppettaro condizionarono la produzione artistica in letteratura come nel cinema e nel teatro, stroncando in modo repentino il grande fermento culturale sorto nel secondo dopoguerra. Non c’è dubbio che per l’Italia gli anni cinquanta e sessanta furono una stagione artistica aurorale, durante la quale si concretizzarono energie e motivazioni che erano state tenute a freno prima dalla dittatura e poi dalla guerra.
Contro ogni proclama e contro ogni buona intenzione, la rivolta politica del Sessantotto, pur non avendo responsabilità dirette in questa involuzione, accompagnò la nascita un nuovo modello di comunicazione e fruizione culturale: leggero, orizzontale, furbescamente accessibile e in apparenza democratico ma superficiale e pericolosamente subdolo, pensato e costruito in modo da potersi adattare alla straordinaria forza della televisione, megafono privilegiato della nuova società “spettacolare” di massa, proprio come previsto con lucida chiaroveggenza dai situazionisti alla fine degli anni cinquanta. Un modello che in apparenza aumenta l’importanza dell’opinione pubblica ma che di fatto riduce drasticamente l’influenza della società civile nella vita politica.
In questo contesto anche la figura dell’intellettuale si deteriorò irreversibilmente, finendo con l’essere quasi vituperato in quanto portatore di un ruolo etico e culturale, mentre andava costituendosi un mito democratico dell’opinione pubblica, voce univoca degli umori di una massa pressoché inerte veicolata da messaggi mediatici sempre più semplici, sebbene fuorvianti. “Il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell’opinione pubblica” scriveva lapidario Guy Debord, e francamente non riusciamo a dargli torto. Sebbene fosse già avviata da tempo, fu proprio durante gli anni settanta che questa trasformazione divenne evidente, solo in parte mimetizzata dalla crescente conflittualità politica. Alla fine del decennio la società di massa, o sarebbe meglio dire per la massa, aveva già compiuto la sua definitiva affermazione. Si era allargata a tal punto da diventare eterea, inconsistente, un deserto cognitivo dove poter operare qualsiasi forma di manipolazione mediatica.
In questo vuoto pneumatico la società postindustriale fagocita se stessa e smarrisce ogni punto di riferimento etico. Ogni opinione ha valore, nessuna opinione ha valore. Ogni linguaggio ha una sua dignità perché non esistono dignità né linguaggio. Ogni mezzo di comunicazione è valido, la comunicazione diventa il principale veicolo letterario o artistico, svilendo l’arte nel genere, nella ripetizione del genere e poi ancora nella citazione del genere. E in questo sotterraneo mutare, la violenta contrapposizione politica – nella seconda metà del decennio già di fatto perdente e chiusa in un ottuso radicalismo militare, probabilmente incoraggiato da apparati dello stato – fa da specchietto per le allodole di trasformazioni ben più radicali e significative.[...]
Più tardi sarebbe stato invece chiaro che si era trattato di una evoluzione, non di una sconfitta del capitalismo, già in rinnovamento, già allora dialogante con il computer (a noi ignoto), e già fuori da una prospettiva di classe in nome di una società dei servizi e del ceto medio. Una società in cui la scolarizzazione di massa avrebbe prodotto, invece che frammentazione e oppressione, un’identità liberale sul terreno sociale, attentissima ai diritti individuali e cultrice del benessere. Senza più nemmeno un pensiero per la rivoluzione.
I frutti di questo cambiamento si iniziarono a raccogliere allo scoccare degli anni ottanta, quando – repentinamente e quasi senza che ce ne si accorgesse – venne a mancare ciò che Italo Calvino chiamava “la voce anonima dell’epoca”, ovvero una pulsione più forte e autentica rispetto alle riflessioni individuali del singolo intellettuale o artista, una voce autorevole in virtù della sua pregnanza rispetto alla contemporaneità. La generazione dei sessantottini è perfetta per accompagnare questo cambiamento. Nella sua spudorata inconcludenza conserva il torto e la ragione assieme. In quanto espressione di un’unica classe egemone, la borghesia urbana, rappresenta sia il governo sia l’opposizione. La vittoria e la sconfitta. La lotta coraggiosa e la ritirata più miserabile. Simulando la battaglia sociale come fosse un teatro dei pupi, l’Italia postfordista dice per sempre addio alla conflittualità fra classi.
Negli ultimi trent’anni la crisi, o meglio la percezione della decadenza di letteratura, cinema e arte in generale, si specchia nella mancanza di prospettive e nell’affanno esistenziale di una società formata da uomini e donne confusi e irrisolti, fatalmente poveri di esperienza o, meglio, del senso della loro esperienza. L’assenza di un reale conflitto, principale motore del progresso umano, ha ridotto drasticamente lo spazio per la ricerca di un contenuto che dia legittimità all’inventare.
Stiamo vivendo la fase crepuscolare di quel modello culturale, abbiamo di fronte un baratro ancora tutto da esplorare.
Ma è importante sottolineare che mentre nell’Occidente industrializzato si profilava questo epocale cambiamento, i sessantottini si baloccavano con la chimera liberale di un’informazione orizzontale e indipendente, dimostrando ancora una volta di non comprendere gli autentici cambiamenti strutturali in atto.
[...] Cosa resta quindi oggi del Sessantotto? Non molto, in realtà. Il trasformarsi del ruolo della donna, l’affermazione del diritto al divorzio e all’aborto, il progressivo laicismo sociale e il mutare dei costumi fanno parte di quel trascinante processo di modernizzazione già in atto nelle democrazie occidentali dalla fine degli anni cinquanta, del quale il Sessantotto fu un sintomo importante ma non certo la causa scatenante. Processo di modernizzazione inevitabile perché legato ai cambiamenti strutturali del sistema capitalistico, diversificato e inafferrabile, non più fordista e non più dipendente dalla produzione delle industrie nazionali. Per creare nuovi mercati servivano nuovi bisogni e un immaginario che li veicolasse, quindi una società più aperta e dinamica che comprendesse uomini e donne, bianchi e neri, omosessuali e omofobi, destri e sinistri, impiegati e disoccupati, risparmiatori e gaudenti, benpensanti e tossicodipendenti. Tutti consumatori, tutti contenti di poterlo essere. Che poi l’esaltazione delle differenze e dell’individualità borghese vada sempre a scapito dell’uguaglianza è storia assai nota.
In realtà sono proprio le conquiste più immediatamente politiche maturate in quegli anni a essere state “superate” e rimosse dall’aggressivo neoliberismo dei decenni successivi.
Anche con uno sguardo frettoloso alle condizioni dell’attuale mondo del lavoro italiano ci si rende conto di quanto lo Statuto dei lavoratori, rivendicato come una delle principali eredità del Sessantotto, sia stato di fatto circoscritto e aggirato da altre normative; rimane valido per tutelare alcune categorie di salariati e stipendiati riemerse alla ribalta politica durante l’ultimo governo Berlusconi, in occasione del fallito tentativo di revisione dell’articolo 18. Ma per poco altro.
Oggi la stragrande maggioranza dei giovani tra i venti e i quarant’anni vedono gli operai e gli impiegati assunti nei decenni precedenti come privilegiati, e questo aumenta in modo sensibile la mancanza di comunicazione e di mutua solidarietà fra le diverse categorie di lavoratori.
Dell’arretramento politico a modelli rivoluzionari datati e autoritari verificatosi nella seconda metà degli anni settanta abbiamo già detto; bisogna aggiungere che quei modelli hanno continuato per molto tempo a condizionare la vita politica italiana. Ricordo che durante le occupazioni del 1990 – il movimento universitario della Pantera – noi giovani contestatori guardavamo con un misto di sgomento e rassegnazione all’eterno riproporsi delle divisioni politiche degli anni settanta, con gli eredi dell’Autonomia Operaia e degli stalinisti impegnati a fronteggiarsi astiosamente, ancora chiusi in ruoli preconfezionati. Con quel disordinato movimento tentammo di fermare la ristrutturazione conservatrice già in atto da alcuni anni: le riforme universitarie nate sull’onda della contestazione – la liberalizzazione dei piani di studio, gli appelli mensili e l’incremento dell’interattività fra le diverse discipline – già da tempo erano state oggetto di limitazioni e di fatto disinnescate nella loro carica rinnovatrice, prima della recente cancellazione operata dalla riforma Moratti.
Affrontando il tema dell’eredità politica non si può non ripensare agli anni ottanta, ed è un compito difficile, quasi doloroso. Deve forse trascorrere ancora un po’ di tempo per essere sufficiente lucidi, ma certo non è avventuroso affermare che anche in Italia si è imposto il modello neoliberista, magari con un’attitudine meno drastica che in altri paesi (penso all’Inghilterra, al durissimo ed estenuante conflitto sindacale dei minatori) e con un costo sociale decisamente più basso. Complici di questo trapasso quasi indolore sono stati la collaudata attitudine italiana al compromesso e il ruolo della sinistra borghese intellettuale, freno motore delle lotte politiche degli ultimi due decenni.
La crisi culturale della borghesia italiana come ceto trainante delle trasformazioni sociali è l’autentica eredità del Sessantotto studentesco.
Non poteva essere altrimenti. Contestando la propria classe di appartenenza senza la determinazione e la tenacia di una lotta veramente antagonista, i sessantottini hanno dato vita a un’estetica rivoluzionaria ingannevole, un insieme di comportamenti anticonformisti, pose e stereotipi politici ancora oggi piuttosto diffusi e riproposti con orgoglio. Sul medio periodo il risultato è stata una rinnovata diffidenza popolare nei confronti della sinistra borghese intellettuale, vista come l’irritante espressione di una classe sociale annoiata e parolaia, capricciosamente affezionata a obiettivi politici che non le appartengono. La crisi identitaria della borghesia si è fatta lampante con lo spensierato edonismo degli anni ottanta, quando gli ex contestatori perfezionarono il loro percorso professionale.
La corruzione diffusa, il malcostume sociale, la perdita del senso etico dello stato e il definitivo affermarsi della televisione commerciale monopolistica hanno aperto la strada al quel degrado civile e culturale che sta all’origine dell’anomalia Berlusconi. A sua volta, l’imprenditore di Arcore è stato uno dei primi a capire quanto sarebbero potuti diventare utili gli ex sessantottini in questa fase di riflusso politico ed esistenziale, sempre che fossero riusciti a emanciparsi dalle ingenue rivendicazioni politiche della giovinezza.
Ma questa è storia attuale.
www.infoaut.org, maggio 2007Contro il '68
È di questi giorni una sorta di dibattito a proposito del provocatorio pamphlet di Alessandro Bertante “Contro il ‘68” appena pubblicato dalla casa editrice milanese Agenzia X. In sintesi, la tesi del libro è questa: il Sessantotto è stata una rivolta di figli di papà, che è servito da palestra politico-esistenziale-culturale a coloro i quali, una volta spenti gli ardori giovanili, in futuro sarebbero diventati classe dirigente del paese, in politica e soprattutto nelle comunicazioni; per contro, l’eredità lasciata ai figli (coloro che oggi hanno fra i 30 e i 40 anni, tra cui anche chi scrive) è quella che conosciamo tutti: neoliberismo, televisione e, aggiungo, concertazione.
Bertante fa anche i nomi di molti dei protagonisti del Sessantotto che oggi sono passati a destra, o semplicemente lavorano con tenacia al mantenimento dei propri privilegi. Non nutriamo alcuna simpatia per i vari Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Mario Capanna, Pancho Pardi ecc. citati nel libro, e tuttavia riteniamo, alla fine dei conti, che la provocazione manchi il bersaglio. Senza tenere conto di diverse valutazioni assai discutibili su dieci anni di storia italiana, di alcuni errori, di approssimazioni e semplificazioni (una su tutte: si parla praticamente solo di studenti universitari), resta la sensazione che questo libro sia a sua volta nostalgico e irritante quanto il mito che l’autore vorrebbe sfatare.
Nostalgico perché si accusano i sessantottini di avere fatto carriera (da che mondo è mondo...) e in più di non avere permesso ai figli (così ci sembra) - causa l’eredità lasciata e l'ingombrante precedente - di fare il loro, di Sessantotto. Irritante perché se è vero che i tempi sono cambiati e non torneranno più, è vero anche che le lotte non si sono fermate. E allora viene il sospetto che questo libro sia stato scritto forse più per il rimpianto di non avere avuto le stesse chances dei genitori per un posto al sole piuttosto che per aprire una reale discussione politica. Su questo piano è dunque più interessante e valida la bella introduzione al libro scritta da Marco Philopat, il quale analizza il periodo storico e il senso del libro prendendo posizioni nette.
C’è una pagina, tuttavia, nella quale Bertante espone una serie di temi che andrebbero invece, questi sì, finalmente presi in considerazione. La pagina è la numero 20, e l’autore parla prima della sua infanzia e poi della sua adolescenza, gli anni ottanta: videogames, hamburgers, film porno, e tanta eroina. Ecco, raccontare finalmente queste cose ci pare potrebbe essere un modo per cominciare ad attaccare sul serio, senza rimpianti, quei genitori che tutto sommato nel libro risultano meno odiati che invidiati.
di Kinoglaz cineforumBertante fa anche i nomi di molti dei protagonisti del Sessantotto che oggi sono passati a destra, o semplicemente lavorano con tenacia al mantenimento dei propri privilegi. Non nutriamo alcuna simpatia per i vari Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Mario Capanna, Pancho Pardi ecc. citati nel libro, e tuttavia riteniamo, alla fine dei conti, che la provocazione manchi il bersaglio. Senza tenere conto di diverse valutazioni assai discutibili su dieci anni di storia italiana, di alcuni errori, di approssimazioni e semplificazioni (una su tutte: si parla praticamente solo di studenti universitari), resta la sensazione che questo libro sia a sua volta nostalgico e irritante quanto il mito che l’autore vorrebbe sfatare.
Nostalgico perché si accusano i sessantottini di avere fatto carriera (da che mondo è mondo...) e in più di non avere permesso ai figli (così ci sembra) - causa l’eredità lasciata e l'ingombrante precedente - di fare il loro, di Sessantotto. Irritante perché se è vero che i tempi sono cambiati e non torneranno più, è vero anche che le lotte non si sono fermate. E allora viene il sospetto che questo libro sia stato scritto forse più per il rimpianto di non avere avuto le stesse chances dei genitori per un posto al sole piuttosto che per aprire una reale discussione politica. Su questo piano è dunque più interessante e valida la bella introduzione al libro scritta da Marco Philopat, il quale analizza il periodo storico e il senso del libro prendendo posizioni nette.
C’è una pagina, tuttavia, nella quale Bertante espone una serie di temi che andrebbero invece, questi sì, finalmente presi in considerazione. La pagina è la numero 20, e l’autore parla prima della sua infanzia e poi della sua adolescenza, gli anni ottanta: videogames, hamburgers, film porno, e tanta eroina. Ecco, raccontare finalmente queste cose ci pare potrebbe essere un modo per cominciare ad attaccare sul serio, senza rimpianti, quei genitori che tutto sommato nel libro risultano meno odiati che invidiati.
http://harz.it, 8 maggio 2007Contro gli ex-sessantottini
Ho appena letto in un blog paraletterario un estratto dal pamphlet Contro il '68 di Alessandro Bertante. Il titolo attira, l'argomento scotta: è ormai diffusa tra i trentenni la coscienza delle contraddizioni seguite alle conquiste di quegli anni, manifeste e dolorose sono ormai le ragioni di uno scontro generazionale che per qualche motivo non è scoppiato a tempo debito, e in ambito romanzesco Houellebecq ha saputo illustrare meglio di chiunque altro la fratellanza epistemologica e materiale tra il liberismo sessuale e dei costumi attuato da quel movimento e il liberismo economico che ha infestato il globo a partire dagli stessi anni. Peccato che l'autore nostrano, almeno nel brano riportato, prenda un granchio. Ecco l'inizio:
Le donne e gli uomini [capito? prima le donne e poi gli uomini: con un inizio così politicamente corretto la certezza di trovarsi di fronte a un testo innocuo è garantita fin da subito...] protagonisti della lunga stagione contestataria (in Italia sebbene in forma assai mutevole e crepuscolare dura fino alla metà degli anni Settanta), superata la soglia della maturità hanno più o meno consapevolmente castrato i propri figli, tenendo sotto tutela le loro aspirazioni e impedendogli anche a livello economico una reale emancipazione. Dal loro punto di vista noi saremo per sempre giovani. Nostro malgrado, invecchiando naturalmente come tutti gli altri uomini e donne prima di noi, ci mancherà il privilegio della maturità.
A quanto pare l'autore, pago di una scrittura giornalistica all'acqua di rose e senza pretese di approfondimento (ma il libro non l'ho letto, potrebbe trattarsi benissimo di un estratto dalla prefazione), associa la “maturità” a una condizione di autonomia innanzitutto materiale ed economica – il che, com'è noto, tra noi trentenni non si dà ancora se non in pochi casi. Ma è maturità questa? No, questa non è che “vita adulta”, mentre la maturità è una condizione dell'animo, o se si preferisce della mente, conseguibile e consigliabile a prescindere dall'indipendenza economica. Tanto che a me i veri immaturi non sembriamo affatto noi trentenni, ma precisamente loro, gli ex-sessantottini. O no? Ma come, non li vedete in giro, questi idolatri della (propria) giovinezza (“La generazione lirica” l'ha chiamata qualche anno fa un grande saggista franco-canadese, François Ricard), conciati come ventenni, entusiasti e isterici come adolescenti innamorati, aggrappati con tutte le loro forze residue a un'età esistenziale che nel corpo e nella mente li ha abbandonati già da un pezzo? Altro brano:
In quanto ultima generazione virtuosa dell’umanità, i sessantottini non si sono preoccupati di chi sarebbe venuto dopo di loro [Perché questa affermazione mi sembra eccessiva? Boh]. Hanno vissuto nel presente, hanno lottato per il presente, creduto nel presente, bruciato il presente, senza mai provare a indirizzare lo sguardo in avanti. Per la loro immediatezza di vita “volevano tutto” e tutto hanno avuto. Anche meritoriamente, va detto perché il puro sentimento di appartenenza come la innata capacità di condivisione e di mobilitazione, furono risorse straordinarie, una forza d’urto rara e invidiabile. Ma purtroppo breve e non sempre onesta, perché proprio mentre ridicolizzavano aspramente l’aspirazione piccolo borghese del posto fisso e della tranquillità economica, si sono presi cura dei propri interessi.
Vero! Verissimo! Ma non tanto per la schiera di pre-pensionati di cui parla in seguito l'autore, perché almeno quelli, anche se un po' prestino, si sono levati dai coglioni a favore del naturale avvicendarsi delle generazioni, bensì – molto peggio – per le poltrone politiche, aziendali e accademiche che stanno marcendo sotto i culoni rugosi di tutta una classe dirigente uscita da quegli anni e aggrappata ai propri seggi come un bambino al proprio giocattolo. Sono loro il vero male d'Italia, gli apostoli della gerontocrazia, i mandarini del dilettantismo al potere! Ma allora perché il libro si intitola Contro il '68 e non Contro gli ex-sessantottini? Perché prendersela con quello che è accaduto quarant'anni fa, se è vero che ha procurato ai giovani di allora e alla generazione successiva una libertà prima impensabile? Anzi, se c'è qualcosa che dobbiamo a questi vecchi regrediti è proprio il '68, e tutte le conquiste civili che l'hanno seguito! Mentre è con gli ex-sessantottini che dobbiamo prendercela, ossia con ciò che i ribelli di un tempo sono diventati: sono loro i nostri nemici, è la loro vanità a bloccare l'evoluzione delle nostre esistenze e delle nostre carriere, è di loro che dobbiamo anelare la destituzione, sono loro che andrebbero defenestrati se solo fossimo capaci di essere un po' più uniti e più violenti, è insomma la loro scomparsa dalla scena della vita attiva quella che dobbiamo fingere di non aver nemmeno osato pensare in nome del politicamente corretto.
di stefano-sanLe donne e gli uomini [capito? prima le donne e poi gli uomini: con un inizio così politicamente corretto la certezza di trovarsi di fronte a un testo innocuo è garantita fin da subito...] protagonisti della lunga stagione contestataria (in Italia sebbene in forma assai mutevole e crepuscolare dura fino alla metà degli anni Settanta), superata la soglia della maturità hanno più o meno consapevolmente castrato i propri figli, tenendo sotto tutela le loro aspirazioni e impedendogli anche a livello economico una reale emancipazione. Dal loro punto di vista noi saremo per sempre giovani. Nostro malgrado, invecchiando naturalmente come tutti gli altri uomini e donne prima di noi, ci mancherà il privilegio della maturità.
A quanto pare l'autore, pago di una scrittura giornalistica all'acqua di rose e senza pretese di approfondimento (ma il libro non l'ho letto, potrebbe trattarsi benissimo di un estratto dalla prefazione), associa la “maturità” a una condizione di autonomia innanzitutto materiale ed economica – il che, com'è noto, tra noi trentenni non si dà ancora se non in pochi casi. Ma è maturità questa? No, questa non è che “vita adulta”, mentre la maturità è una condizione dell'animo, o se si preferisce della mente, conseguibile e consigliabile a prescindere dall'indipendenza economica. Tanto che a me i veri immaturi non sembriamo affatto noi trentenni, ma precisamente loro, gli ex-sessantottini. O no? Ma come, non li vedete in giro, questi idolatri della (propria) giovinezza (“La generazione lirica” l'ha chiamata qualche anno fa un grande saggista franco-canadese, François Ricard), conciati come ventenni, entusiasti e isterici come adolescenti innamorati, aggrappati con tutte le loro forze residue a un'età esistenziale che nel corpo e nella mente li ha abbandonati già da un pezzo? Altro brano:
In quanto ultima generazione virtuosa dell’umanità, i sessantottini non si sono preoccupati di chi sarebbe venuto dopo di loro [Perché questa affermazione mi sembra eccessiva? Boh]. Hanno vissuto nel presente, hanno lottato per il presente, creduto nel presente, bruciato il presente, senza mai provare a indirizzare lo sguardo in avanti. Per la loro immediatezza di vita “volevano tutto” e tutto hanno avuto. Anche meritoriamente, va detto perché il puro sentimento di appartenenza come la innata capacità di condivisione e di mobilitazione, furono risorse straordinarie, una forza d’urto rara e invidiabile. Ma purtroppo breve e non sempre onesta, perché proprio mentre ridicolizzavano aspramente l’aspirazione piccolo borghese del posto fisso e della tranquillità economica, si sono presi cura dei propri interessi.
Vero! Verissimo! Ma non tanto per la schiera di pre-pensionati di cui parla in seguito l'autore, perché almeno quelli, anche se un po' prestino, si sono levati dai coglioni a favore del naturale avvicendarsi delle generazioni, bensì – molto peggio – per le poltrone politiche, aziendali e accademiche che stanno marcendo sotto i culoni rugosi di tutta una classe dirigente uscita da quegli anni e aggrappata ai propri seggi come un bambino al proprio giocattolo. Sono loro il vero male d'Italia, gli apostoli della gerontocrazia, i mandarini del dilettantismo al potere! Ma allora perché il libro si intitola Contro il '68 e non Contro gli ex-sessantottini? Perché prendersela con quello che è accaduto quarant'anni fa, se è vero che ha procurato ai giovani di allora e alla generazione successiva una libertà prima impensabile? Anzi, se c'è qualcosa che dobbiamo a questi vecchi regrediti è proprio il '68, e tutte le conquiste civili che l'hanno seguito! Mentre è con gli ex-sessantottini che dobbiamo prendercela, ossia con ciò che i ribelli di un tempo sono diventati: sono loro i nostri nemici, è la loro vanità a bloccare l'evoluzione delle nostre esistenze e delle nostre carriere, è di loro che dobbiamo anelare la destituzione, sono loro che andrebbero defenestrati se solo fossimo capaci di essere un po' più uniti e più violenti, è insomma la loro scomparsa dalla scena della vita attiva quella che dobbiamo fingere di non aver nemmeno osato pensare in nome del politicamente corretto.
la Repubblica, 30 maggio 2007Processo al '68
Cari reduci è ora di farvi da parte
Polemico, provocatorio, determinato a sfatare un mito da molti considerato intoccabile. Con Contro il '68. La generazione infinita, Alessandro Bertante, 37 anni, giornalista, critico letterario e scrittore (tra gli altri collabora con "Repubblica" e "Pulp"), sferra un attacco da sinistra ma senza mediazioni. I capi d'accusa? L'autocelebrazione compiaciuta di chi un tempo contestava e oggi rappresenta il massimo del conformismo, l'occupazione massiccia e capillare dei ruoli di potere, la colonizzazione dell'immaginario collettivo. Perché, secondo Bertante, in realtà “il '68 è stato la scuola quadri di una borghesia urbana che si preparava a conquistare il paese”. C'è da scommettere che in molti non saranno d'accordo. Bertante presenta il suo pamphlet insieme a Marco Philopat, editore e autore della prefazione, giovedì 31 alle 18.30 alla Feltrinelli di piazza Piemonte, mentre venerdì sera sarà a “Otto e mezzo” su La7 con Michele Serra e Francesco Merlo.
Giù le mani dalla mia rivoluzione
Intervista a Mannheimer
Renato Mannheimer, oggi guru dei sondaggi italiani, nel '68 studiava alla Bocconi e militava, al fianco di Aldo Brandirali, nel movimento maoista Servire il Popolo.
Mannheimer, che cosa pensa di quel periodo e dei suoi protagonisti?
Penso che sia stata una grande rivoluzione culturale. Dopo il '68 l'Italia non è stata più quella di prima.
Da che punto di vista?
Penso alla vittoria del pensiero laico, al cambiamento radicale nella concezione delle relazioni tra le persone, alla capacità di analisi e di rottura rispetto al passato.
Ripensamenti critici?
Certo, ci mancherebbe. Sono pieno di ripensamenti. Il '68 è stata una stagione complessa, con limiti fortissimi e contraddizioni laceranti.
Quali, per esempio?
Gli eccessi e gli estremismi, la mancata comprensione della necessaria ragionevolezza che bisogna avere nella pratica politica, il rifiuto del dialettico. Ma questo non toglie che sia stata la più importante modernizzazione della società italiana. Senza il '68 oggi non saremmo dove siamo.
Alessandro Bertante nel suo libro sostiene che lei e molti suoi coetanei vi siete costruiti una mitologia autocelebrativa che ha tarpato le ali alle generazioni successive. Come risponde?
Non ho letto il libro. Se capisco bene posso solo rispondere che una lettura unilaterale, positiva o negativa che sia, non coglie la complessità di un fenomeno che merita di essere interpretato tenendo conto di tutti gli elementi. Contraddizioni comprese. Diffido sempre delle posizioni che considerano un unico punto di vista.
Ma è vero che lei, come altri protagonisti del '68, vi siete impadroniti dei ruoli di potere, sfruttando proprio l'onda lunga di quella rivoluzione culturale?
Non la vedo così. Credo che, essendo stato il '68 un formidabile momento di rottura, sia storicamente inevitabile che chi quella rivoluzione l'ha fatta sia stato poi protagonista del cambiamento che ne è seguito.
Per noi figli è come la preistoria
Intervista a Pao
Per molti è l'artista che ha trasformato i grigi panettoni spartitraffico di Milano in coloratissimi pinguini. Pao, pittore e writer, protagonista della vivace stagione della Street art e della sua spinta antagonista, nel '68 non era ancora nato.
Pao, che cosa rappresenta per lei quella stagione?
Sicuramente un mito, un modello di riferimento. Ma anche qualcosa di molto vecchio, arrivato a noi attraverso i racconti nostalgici di chi c'era e chi l'ha fatto. Per noi che non c'eravamo, oggi ha un sapore quasi preistorico.
Considera il '68 un'eredità importante?
È stato un momento di passaggio fondamentale. Prima di tutto la ribellione verso l'autorità costituita. Ma eviterei mitizzazioni. In fondo ce l'hanno insegnato proprio loro.
Cioè?
Il '68 ha messo il re a nudo, ha imparato a ridere del potere. È paradossale che chi quelle cose le teorizzava oggi si prenda tanto sul serio.
Non si sente figlio di quella generazione?
Per niente. Semmai, mia madre, che nel '68 aveva 18 anni. Io no.
Di chi si sente figlio allora?
Del ‘77, ma per pura contingenza anagrafica, visto che sono nato in quell'anno. Ma a parte questo, l'immaginario del '77 ha nutrito il mio molto più delle ideologie e delle battaglie sessantottine. Penso all'estetica punk, al grido "No future", alla rivolta dura ma senza l'ottimismo del '68, quando ancora pensavano di poter cambiare il mondo.
Crede che la sua generazione abbia risentito del modello culturale unico imposto dal '68?
In parte, ma ormai hanno fatto il loro tempo. Certo, molti di loro occupano posizioni chiave, ma niente e nessuno è eterno. Per quanto riguarda me e i miei coetanei, sono più il simbolo di un passato che un ostacolo nel presente.
Nessun conto in sospeso con i sessantottini?
Direi di no. Hanno fatto la loro rivoluzione e, come sempre accade nella storia, quando conquisti il potere poi te lo tieni stretto. È nell'ordine delle cose.
di Sara ChiapporiPolemico, provocatorio, determinato a sfatare un mito da molti considerato intoccabile. Con Contro il '68. La generazione infinita, Alessandro Bertante, 37 anni, giornalista, critico letterario e scrittore (tra gli altri collabora con "Repubblica" e "Pulp"), sferra un attacco da sinistra ma senza mediazioni. I capi d'accusa? L'autocelebrazione compiaciuta di chi un tempo contestava e oggi rappresenta il massimo del conformismo, l'occupazione massiccia e capillare dei ruoli di potere, la colonizzazione dell'immaginario collettivo. Perché, secondo Bertante, in realtà “il '68 è stato la scuola quadri di una borghesia urbana che si preparava a conquistare il paese”. C'è da scommettere che in molti non saranno d'accordo. Bertante presenta il suo pamphlet insieme a Marco Philopat, editore e autore della prefazione, giovedì 31 alle 18.30 alla Feltrinelli di piazza Piemonte, mentre venerdì sera sarà a “Otto e mezzo” su La7 con Michele Serra e Francesco Merlo.
Giù le mani dalla mia rivoluzione
Intervista a Mannheimer
Renato Mannheimer, oggi guru dei sondaggi italiani, nel '68 studiava alla Bocconi e militava, al fianco di Aldo Brandirali, nel movimento maoista Servire il Popolo.
Mannheimer, che cosa pensa di quel periodo e dei suoi protagonisti?
Penso che sia stata una grande rivoluzione culturale. Dopo il '68 l'Italia non è stata più quella di prima.
Da che punto di vista?
Penso alla vittoria del pensiero laico, al cambiamento radicale nella concezione delle relazioni tra le persone, alla capacità di analisi e di rottura rispetto al passato.
Ripensamenti critici?
Certo, ci mancherebbe. Sono pieno di ripensamenti. Il '68 è stata una stagione complessa, con limiti fortissimi e contraddizioni laceranti.
Quali, per esempio?
Gli eccessi e gli estremismi, la mancata comprensione della necessaria ragionevolezza che bisogna avere nella pratica politica, il rifiuto del dialettico. Ma questo non toglie che sia stata la più importante modernizzazione della società italiana. Senza il '68 oggi non saremmo dove siamo.
Alessandro Bertante nel suo libro sostiene che lei e molti suoi coetanei vi siete costruiti una mitologia autocelebrativa che ha tarpato le ali alle generazioni successive. Come risponde?
Non ho letto il libro. Se capisco bene posso solo rispondere che una lettura unilaterale, positiva o negativa che sia, non coglie la complessità di un fenomeno che merita di essere interpretato tenendo conto di tutti gli elementi. Contraddizioni comprese. Diffido sempre delle posizioni che considerano un unico punto di vista.
Ma è vero che lei, come altri protagonisti del '68, vi siete impadroniti dei ruoli di potere, sfruttando proprio l'onda lunga di quella rivoluzione culturale?
Non la vedo così. Credo che, essendo stato il '68 un formidabile momento di rottura, sia storicamente inevitabile che chi quella rivoluzione l'ha fatta sia stato poi protagonista del cambiamento che ne è seguito.
Per noi figli è come la preistoria
Intervista a Pao
Per molti è l'artista che ha trasformato i grigi panettoni spartitraffico di Milano in coloratissimi pinguini. Pao, pittore e writer, protagonista della vivace stagione della Street art e della sua spinta antagonista, nel '68 non era ancora nato.
Pao, che cosa rappresenta per lei quella stagione?
Sicuramente un mito, un modello di riferimento. Ma anche qualcosa di molto vecchio, arrivato a noi attraverso i racconti nostalgici di chi c'era e chi l'ha fatto. Per noi che non c'eravamo, oggi ha un sapore quasi preistorico.
Considera il '68 un'eredità importante?
È stato un momento di passaggio fondamentale. Prima di tutto la ribellione verso l'autorità costituita. Ma eviterei mitizzazioni. In fondo ce l'hanno insegnato proprio loro.
Cioè?
Il '68 ha messo il re a nudo, ha imparato a ridere del potere. È paradossale che chi quelle cose le teorizzava oggi si prenda tanto sul serio.
Non si sente figlio di quella generazione?
Per niente. Semmai, mia madre, che nel '68 aveva 18 anni. Io no.
Di chi si sente figlio allora?
Del ‘77, ma per pura contingenza anagrafica, visto che sono nato in quell'anno. Ma a parte questo, l'immaginario del '77 ha nutrito il mio molto più delle ideologie e delle battaglie sessantottine. Penso all'estetica punk, al grido "No future", alla rivolta dura ma senza l'ottimismo del '68, quando ancora pensavano di poter cambiare il mondo.
Crede che la sua generazione abbia risentito del modello culturale unico imposto dal '68?
In parte, ma ormai hanno fatto il loro tempo. Certo, molti di loro occupano posizioni chiave, ma niente e nessuno è eterno. Per quanto riguarda me e i miei coetanei, sono più il simbolo di un passato che un ostacolo nel presente.
Nessun conto in sospeso con i sessantottini?
Direi di no. Hanno fatto la loro rivoluzione e, come sempre accade nella storia, quando conquisti il potere poi te lo tieni stretto. È nell'ordine delle cose.
Corriere della Sera, giovedì 31 maggio 2007Il '68? Basta celebrazioni, apriamo il dialogo...
Al centro di accese polemiche tra i siti letterari, il libro Contro il '68 di Alessandro Bertante, giornalista, scrittore e animatore, insieme ad Antonio Scurati, del recente Festival “Officina Italia”, viene presentato oggi alle 18.30 alla Feltrinelli (p.zza Piemonte 2), dall'autore insieme a Marco Philopat. Il saggio narra in tono polemico il peso dello “sproporzionato ego generazionale” sessantottino sulla cultura italiana.
Come mai questa posizione contraria?
“Perché come ogni cesura storica è stata sacralizzata, mentre andrebbe compresa non mitizzata: il mio è un pamphlet – racconta Bertante – e spero apra un dibattito che non si è mai aperto, un dialogo diverso dalla solita rievocazione”.
Non c'e dunque niente da salvare?
“Certo, il lato positivo e stato all'inizio del Sessantotto, nella spinta verso lo spontaneismo e l'antiautoritarismo che è andata poi perduta negli anni '70”.
Un'epoca in cui è cresciuto l'autore, classe 1969: quanto ha pesato, per dirla con le sue parole, quella “data feticcio”?
“Ci cominciamo a liberare dalla cappa dell'immaginario del '68 e ad alzare la testa, adesso che siamo quasi quarantenni.”
di Alessandro BerettaCome mai questa posizione contraria?
“Perché come ogni cesura storica è stata sacralizzata, mentre andrebbe compresa non mitizzata: il mio è un pamphlet – racconta Bertante – e spero apra un dibattito che non si è mai aperto, un dialogo diverso dalla solita rievocazione”.
Non c'e dunque niente da salvare?
“Certo, il lato positivo e stato all'inizio del Sessantotto, nella spinta verso lo spontaneismo e l'antiautoritarismo che è andata poi perduta negli anni '70”.
Un'epoca in cui è cresciuto l'autore, classe 1969: quanto ha pesato, per dirla con le sue parole, quella “data feticcio”?
“Ci cominciamo a liberare dalla cappa dell'immaginario del '68 e ad alzare la testa, adesso che siamo quasi quarantenni.”
Corriere della Sera, 12 giugno 2007Scontri, colettivi, ironia. Com’eravamo nel 1977...
Quest'anno il '77 compie trent'anni. Se ne parlerà stasera e giovedì in due appuntamenti dedicati ai movimenti del '68 e del '77, con protagonisti e toni differenti: c'è chi di quegli anni ricorderà l'esperienza collettiva della contestazione, l'aggregazione, l'impegno insieme, e chi invece rievocherà drammaticamente le lotte e gli scontri. E la disillusione, dei giovani di allora e di oggi.
Sul fronte della testimonianza si muove il libro Avevo vent'anni (Feltrinelli) di Enrico Franceschini, inviato di Repubblica, che lo presenta oggi in Feltrinelli con Beppe Severgnini. Il saggio racconta la storia del collettivo degli studenti di giurisprudenza a Bologna nel '77, l'anno di Radio Alice. Spiega Franceschini: “È la storia di 40 persone che formarono quel collettivo, me compreso: come eravamo, come siamo diventati. Il '77 viene ricordato spesso soltanto "in un certo modo", per gli espropri, le autogestioni, gli scontri, dimenticando che c'era anche una grande carica irriverente, di divertimento, con le case trasformate in luoghi psichedelici, la vita collettiva, un'esperienza che si ricorda con grande amore”. Ma c'è anche quel “certo modo”, nell'analisi drammatica di testimoni e protagonisti: “Il 14 maggio 1977 è il giorno in cui il '68 muore. È il giorno della manifestazione in cui a Milano viene ucciso Custra”, racconta lo scrittore Marco Philopat, tra i protagonisti dell'altro appuntamento dedicato a quel periodo, giovedì 14, al Surfer's Den di via Mantova. Alessandro Bertante Contro il '68 (Agenzia X), e Philopat leggerà un inedito sul '77 a Milano e su Andrea Bellini, il leader del collettivo Casoretto cui lo scrittore milanese ha dedicato il suo libro La banda Bellini, e che sarà presente all'incontro.
Spiega Philopat: “Era il periodo in cui il ciclo produttivo della grande fabbrica si concludeva, e la risposta dei figli di quegli operai fu disperata. Ma erano anche gli anni in cui nasceva una lotta sull'immaginario e contro certi modelli, come la televisione. All'estero poi c'era il punk, che da noi arriverà più tardi... Insomma, il '77 è stato un anno ricco di nuovi segnali che confluiranno nella società italiana ed europea degli anni successivi”. E ci resteranno fino ai giorni nostri, mentre il messaggio della rivoluzione del '68 non sembra “arrivare” ai giovani di oggi, almeno secondo Philopat, che è anche l'editore del libro di Bertante: “I protagonisti dell'immaginario di allora, per esempio nella musica i Sex Pistola e i Clash, lo sono anche oggi. Mentre sui leader studenteschi del 68 - non tutti i sessantottini, ma i leader studenteschi - scrissi già una critica nella prefazione a La banda Bellini, definendoli borghesi e non veri proletari. E i più giovani li percepiscono come coloro che dirigono la macchina culturale italiana, come una cosa preistorica”.
di Ida BozziSul fronte della testimonianza si muove il libro Avevo vent'anni (Feltrinelli) di Enrico Franceschini, inviato di Repubblica, che lo presenta oggi in Feltrinelli con Beppe Severgnini. Il saggio racconta la storia del collettivo degli studenti di giurisprudenza a Bologna nel '77, l'anno di Radio Alice. Spiega Franceschini: “È la storia di 40 persone che formarono quel collettivo, me compreso: come eravamo, come siamo diventati. Il '77 viene ricordato spesso soltanto "in un certo modo", per gli espropri, le autogestioni, gli scontri, dimenticando che c'era anche una grande carica irriverente, di divertimento, con le case trasformate in luoghi psichedelici, la vita collettiva, un'esperienza che si ricorda con grande amore”. Ma c'è anche quel “certo modo”, nell'analisi drammatica di testimoni e protagonisti: “Il 14 maggio 1977 è il giorno in cui il '68 muore. È il giorno della manifestazione in cui a Milano viene ucciso Custra”, racconta lo scrittore Marco Philopat, tra i protagonisti dell'altro appuntamento dedicato a quel periodo, giovedì 14, al Surfer's Den di via Mantova. Alessandro Bertante Contro il '68 (Agenzia X), e Philopat leggerà un inedito sul '77 a Milano e su Andrea Bellini, il leader del collettivo Casoretto cui lo scrittore milanese ha dedicato il suo libro La banda Bellini, e che sarà presente all'incontro.
Spiega Philopat: “Era il periodo in cui il ciclo produttivo della grande fabbrica si concludeva, e la risposta dei figli di quegli operai fu disperata. Ma erano anche gli anni in cui nasceva una lotta sull'immaginario e contro certi modelli, come la televisione. All'estero poi c'era il punk, che da noi arriverà più tardi... Insomma, il '77 è stato un anno ricco di nuovi segnali che confluiranno nella società italiana ed europea degli anni successivi”. E ci resteranno fino ai giorni nostri, mentre il messaggio della rivoluzione del '68 non sembra “arrivare” ai giovani di oggi, almeno secondo Philopat, che è anche l'editore del libro di Bertante: “I protagonisti dell'immaginario di allora, per esempio nella musica i Sex Pistola e i Clash, lo sono anche oggi. Mentre sui leader studenteschi del 68 - non tutti i sessantottini, ma i leader studenteschi - scrissi già una critica nella prefazione a La banda Bellini, definendoli borghesi e non veri proletari. E i più giovani li percepiscono come coloro che dirigono la macchina culturale italiana, come una cosa preistorica”.
Il Foglio, sabato 28 luglio 2007La generazione infinita
Sarkozy non c'entra, e neanche Ratzinger. Contro il '68 di Alessandro Bertante colpisce l'anno feticcio (o, meglio: il feticismo dell'anno) da sinistra. E colpisce duro, nella miglior tradizione del pamphlet. Nella parte centrale del volumetto c'è sì una sorta di storia dell'anno fatale, ma quel che più conta è lo sfogo autobiografico di un figlio di quel milieu (l'autore è nato nel 1969). È lo sfogo contro il reducismo, sempre tutto punti esclamativi, dei protagonisti di quel torno di tempo, uomini e donne che – lamenta Bertante – si sono presto attovagliati al banchetto dell'establishment e hanno contribuito a creare un mondo che dei principi sessantottardi conserva poco o nulla. Al centro del mirino, però, non c'è la solita ribollita della cosiddetta lobby di Lotta Continua e dintorni, quanto la frustrazione delle generazioni venute dopo, le cui lotte sono state troppo spesso rubricate da genitori reduci nel settore "noi l'avevamo gih fatto e lo avevamo fatto meglio". Be’, dai risultati non si direbbe, contesta Bertante.
Il problema centrale è quello di una generazione, quella sessantottina, che ha ucciso i padri con uno zelo genocida e, di conseguenza, si trasformata in schiera catafratta, abilissima a non farsi a sua volta uccidere dai propri figli. Di qui, una sorda frustrazione dei trenta(e passa)enni che si vedono essere generazione sotto tutela, dopo aver sprecato gli anni della freudiana ribellione in un'inane lotta contro adulti che utilizzavano una paternalistica accondiscendenza verso i loro epigoni minori per smussare l'assalto di cui erano bersaglio. Com'è potuto succedere che la favola del Sessantotto sia diventata vulgata inattaccabile, che ai suoi protagonisti si continuino ad attribuire conquiste politiche e sociali in gran parte smentite negli anni successivi, con il volenteroso contributo degli stessi ex contestatori? La risposta risiede, forse, nella capacità mostrata da questi supposti eroi di narrare la favola infinite volte.
Di rievocazione in rievocazione si è arrivati a un passo dal quarantennale dell'"anno indimenticabile", che cade nel 2008 e che, con ogni probabilità offrirà l'occasione non per una pur tardiva storicizzazione a ragion veduta, quanto per la solita fanfara acritica. Bertante non ci sta: "Rimpianti, orgogliose rivendicazioni, distinguo, dissociazioni, condanne, abiure, infamie, ripensamenti. Ci hanno detto tutto e il contrario di tutto, sempre utilizzando una chiave di interpretazione emozionale, antistorica e fuorviante. Personalmente sono stufo".
Il problema centrale è quello di una generazione, quella sessantottina, che ha ucciso i padri con uno zelo genocida e, di conseguenza, si trasformata in schiera catafratta, abilissima a non farsi a sua volta uccidere dai propri figli. Di qui, una sorda frustrazione dei trenta(e passa)enni che si vedono essere generazione sotto tutela, dopo aver sprecato gli anni della freudiana ribellione in un'inane lotta contro adulti che utilizzavano una paternalistica accondiscendenza verso i loro epigoni minori per smussare l'assalto di cui erano bersaglio. Com'è potuto succedere che la favola del Sessantotto sia diventata vulgata inattaccabile, che ai suoi protagonisti si continuino ad attribuire conquiste politiche e sociali in gran parte smentite negli anni successivi, con il volenteroso contributo degli stessi ex contestatori? La risposta risiede, forse, nella capacità mostrata da questi supposti eroi di narrare la favola infinite volte.
Di rievocazione in rievocazione si è arrivati a un passo dal quarantennale dell'"anno indimenticabile", che cade nel 2008 e che, con ogni probabilità offrirà l'occasione non per una pur tardiva storicizzazione a ragion veduta, quanto per la solita fanfara acritica. Bertante non ci sta: "Rimpianti, orgogliose rivendicazioni, distinguo, dissociazioni, condanne, abiure, infamie, ripensamenti. Ci hanno detto tutto e il contrario di tutto, sempre utilizzando una chiave di interpretazione emozionale, antistorica e fuorviante. Personalmente sono stufo".
l’Unità, 7 luglio 2007La rivolta degli under quaranta contro i padri, ex sessantottini che tolgono la parola
La mia generazione è stata maledettamente segnata da una sorta di complesso d'impotenza. Siamo nati culturalmente nell'epoca del riflusso e del rampantismo degli anni ottanta. Abbiamo vissuto schiacciati, presi in mezzo tra una stagione rivoluzionaria, terminata nella mattanza cieca e crudele del brigatismo e della lotta armata, e l’onda lunga del affarismo, del cinismo e dell'edonismo reaganiano. Ricordo ancora: una volta, durante un afosa mattinata quasi estiva, in Sicilia, mentre guardavo, stupito e afflitto, la copertina di una rivista tipo “Capital” o “Class”, dove campeggiava un titolo provocatorio e destabilizzante: “Il ritorno della borghesia”. Per chi si affacciava alla vita e non era d'accordo con gli entusiasmi del riflusso, non restava che starsene muto e in disparte. A sperare che prima o poi il Sessantotto, da qualche parte, sarebbe ricominciato.
La cosa di cui però nessuno si era accorto è che non si trattava di una restaurazione. Non eravamo in presenza del necessario contraccolpo dialettico che segue agli eccessi di un periodo rivoluzionario. Non era così. Quella stagione non sarebbe stata solo una parentesi. Ma un cambiamento epocale. La rivoluzione sarebbe diventata un mito sotterrato e messo sotto accusa in quanto tale, mentre l'era della Guerra Fredda stava, vivendo la sua fine attesa e scontata. Qualcosa stava precipitando. Una lacerazione profonda si apriva nel tessuto della Storia.
A cavalcare, però, con maggior enfasi e con maggior successo personale il nuovo corso furono appunto i militanti sessantottini. La loro attitudine al potere e allo scontro, l'innegabile successo nella micidiale lotta con i Padri (selvaggiamente assassinati e liquidati), l'assenza di spirito autocritico e la presunzione innata, la disinvoltura nei confronti delle tradizioni e la loro proverbiale mancanza di pietas furono doti utili e largamente impiegate per farsi spazio tra le gerarchie del mondo neoliberista che sorgeva tra le macerie e il sangue degli anni settanta. Naturalmente questo ritratto è polemico e semplificatorio. Ma mettere il Sessantotto sotto processo mi pare un’operazione che deve essere ancora condotta nei giusti criteri. Proprio per evitare che lo straordinario contenuto emancipatorio che quella fase storica riuscì a produrre non si trasformi in un gigantesco e paralizzante ostacolo per la coscienza critica delle generazioni che si trovano a fare i conti con la nostra problematica attualità.
Il testo di Alessandro Bertante Contro il '68 (pubblicato per le edizioni di Agenzia X) è il primo libro, scritto con coraggio e con lucido livore, che fa luce sul destino della generazione under 40 e dei suoi sotterranei e difficili rapporti con i Padri. Bertante grida e inveisce in alcune sue pagine contro il Sessantotto, accusandolo di aver pesato in maniera decisiva e, perlopiù, negativa, sulle nuove leve. La meglio gioventù, insomma, non è affatto innocente. Anzi viene qui messa sul banco degli imputati. Nelle descrizioni autobiografiche, le pagine più interessanti e più vive del libro, Bertante ci racconta del modo in cui ha vissuto gli anni ottanta nella Milano da bere. Ci spiega come il suo disagio e la sua coscienza critica fossero costantemente mortificate. Sempre la solita solfa: toglierti la parola, poiché tutto era stato già detto e scritto nel Sessantotto. I nostri mugugni erano solo balbuzie, vagiti che non si sarebbero mai fatti discorso. Intanto i sessantottini più abili davano la scalata alle posizioni che contano. Diventavano l'establishment (termine tanto usato proprio da loro per stigmatizzare e condannare al patibolo la vecchia borghesia) della società postmoderna e secolarizzata.
In effetti, si potrebbe aggiungere, furono proprio loro, i sessantottini, a demolire gerarchie e valori che appartenevano a una cultura umanistica che, con arroganza, fu identificata come un retaggio di classe e un fatto in sé autoritario. Ed eccoci così passare, senza soluzione di continuità, dalla spazzatura ideologica della cultura sedicente proletaria, fenomeni ben descritti e criticati da Bertante, alle insipienze e alle volgarità della neocultura televisiva postrnoderna. Sono proprio i sessantottini, come ci ricorda a ogni piè sospinto questo pamphlet, a tenere saldamente in mano le leve della comunicazione di massa in Italia.
Questo volume è dunque una testimonianza dolorosa e necessaria che apre senz'altro un dibattito difficile, ma che coinvolge per forza le nuove generazioni intellettuali. Coloro che sono nati intorno o dopo il Sessantotto, infatti, devono prendere coscienza della faglia degli anni ottanta e del fatto che sono i testimoni originali di una condizione storica, al contempo, tragico e problematica dove i miti rivoluzionari del Sessantotto non hanno più senso né posto. I critici dell'esistente di oggi non hanno nulla da spartire con i sessantottini. Talvolta, anzi, non esitano a indicarli come i loro nemici.
Bertante lo ha fatto con chiarezza, da sinistra e sollevando molte polemiche e attacchi. Il suo, però, è un atto di coraggio in un'epoca segnata ancora da troppi inetti confonnisrni. Diamogliene atto.
di Igino DomaninLa cosa di cui però nessuno si era accorto è che non si trattava di una restaurazione. Non eravamo in presenza del necessario contraccolpo dialettico che segue agli eccessi di un periodo rivoluzionario. Non era così. Quella stagione non sarebbe stata solo una parentesi. Ma un cambiamento epocale. La rivoluzione sarebbe diventata un mito sotterrato e messo sotto accusa in quanto tale, mentre l'era della Guerra Fredda stava, vivendo la sua fine attesa e scontata. Qualcosa stava precipitando. Una lacerazione profonda si apriva nel tessuto della Storia.
A cavalcare, però, con maggior enfasi e con maggior successo personale il nuovo corso furono appunto i militanti sessantottini. La loro attitudine al potere e allo scontro, l'innegabile successo nella micidiale lotta con i Padri (selvaggiamente assassinati e liquidati), l'assenza di spirito autocritico e la presunzione innata, la disinvoltura nei confronti delle tradizioni e la loro proverbiale mancanza di pietas furono doti utili e largamente impiegate per farsi spazio tra le gerarchie del mondo neoliberista che sorgeva tra le macerie e il sangue degli anni settanta. Naturalmente questo ritratto è polemico e semplificatorio. Ma mettere il Sessantotto sotto processo mi pare un’operazione che deve essere ancora condotta nei giusti criteri. Proprio per evitare che lo straordinario contenuto emancipatorio che quella fase storica riuscì a produrre non si trasformi in un gigantesco e paralizzante ostacolo per la coscienza critica delle generazioni che si trovano a fare i conti con la nostra problematica attualità.
Il testo di Alessandro Bertante Contro il '68 (pubblicato per le edizioni di Agenzia X) è il primo libro, scritto con coraggio e con lucido livore, che fa luce sul destino della generazione under 40 e dei suoi sotterranei e difficili rapporti con i Padri. Bertante grida e inveisce in alcune sue pagine contro il Sessantotto, accusandolo di aver pesato in maniera decisiva e, perlopiù, negativa, sulle nuove leve. La meglio gioventù, insomma, non è affatto innocente. Anzi viene qui messa sul banco degli imputati. Nelle descrizioni autobiografiche, le pagine più interessanti e più vive del libro, Bertante ci racconta del modo in cui ha vissuto gli anni ottanta nella Milano da bere. Ci spiega come il suo disagio e la sua coscienza critica fossero costantemente mortificate. Sempre la solita solfa: toglierti la parola, poiché tutto era stato già detto e scritto nel Sessantotto. I nostri mugugni erano solo balbuzie, vagiti che non si sarebbero mai fatti discorso. Intanto i sessantottini più abili davano la scalata alle posizioni che contano. Diventavano l'establishment (termine tanto usato proprio da loro per stigmatizzare e condannare al patibolo la vecchia borghesia) della società postmoderna e secolarizzata.
In effetti, si potrebbe aggiungere, furono proprio loro, i sessantottini, a demolire gerarchie e valori che appartenevano a una cultura umanistica che, con arroganza, fu identificata come un retaggio di classe e un fatto in sé autoritario. Ed eccoci così passare, senza soluzione di continuità, dalla spazzatura ideologica della cultura sedicente proletaria, fenomeni ben descritti e criticati da Bertante, alle insipienze e alle volgarità della neocultura televisiva postrnoderna. Sono proprio i sessantottini, come ci ricorda a ogni piè sospinto questo pamphlet, a tenere saldamente in mano le leve della comunicazione di massa in Italia.
Questo volume è dunque una testimonianza dolorosa e necessaria che apre senz'altro un dibattito difficile, ma che coinvolge per forza le nuove generazioni intellettuali. Coloro che sono nati intorno o dopo il Sessantotto, infatti, devono prendere coscienza della faglia degli anni ottanta e del fatto che sono i testimoni originali di una condizione storica, al contempo, tragico e problematica dove i miti rivoluzionari del Sessantotto non hanno più senso né posto. I critici dell'esistente di oggi non hanno nulla da spartire con i sessantottini. Talvolta, anzi, non esitano a indicarli come i loro nemici.
Bertante lo ha fatto con chiarezza, da sinistra e sollevando molte polemiche e attacchi. Il suo, però, è un atto di coraggio in un'epoca segnata ancora da troppi inetti confonnisrni. Diamogliene atto.
L’avvenire, 25 agosto 2007Quarant'anni dopo, Bertante vuoi fare i conti col Sessantotto
Sono di un clamore assordante il silenzio e la valutazione mancata sulla crisi della militanza e l'eredità politica del '68, la riflessione sul patrimonio culturale consegnato alle nuove generazioni. Prova ora a ragionare in modo diverso Alessandro Bertante, che ha dato alle stampe un pamphlet in cui - senza utilizzare stereotipi in chiave populistica o reazionaria - ha il coraggio di una critica serrata. “Si può, ed è anzi consigliabile, parlare con piglio grave dei propri perduti ideali rivoluzionari, magari ostentando un atteggiamento saggio e consapevole; discutere aspramente sulla reale importanza delle tradizioni nazionali, mettere in questione il cattolicesimo, bestemmiare l'integralismo e il Dio di tutte le religioni. Tutto legittimo, ma fate bene attenzione a non toccare il Sessantotto. Guai a dubitare”. C'è un ego generazionale di mezzo, secondo Bertante, l'ego generazionale dei contestatori di allora, dominatori dell'establishment di oggi, che non accennano a lasciare la presa sui posti di potere che si sono conquistati (soprattutto nel mondo della comunicazione) e che in modi differenti ma con uguale accanimento continuano a riproporsi. I protagonisti della generazione infinita sottraggono alle nuove leve la possibilità d'arricchimento di un nuovo scontro con i padri. Perché il '68 si vuole sintesi di tutte le conquiste sociali del '900. Impossibile un grado maggiore di apertura intellettuale: lo insegna l'unica fonte autorizzata, la mitopoietica enfasi di ogni rievocazione di quegli anni. Eppure qualche conto non torna, più che mai alla vigilia dei quarant'anni dall'anno fatidico. A chi imputare la nascita di una classe politica allegramente post-edipica, felice di avere creato una sfera separata che non riconosce senso di responsabilità o debiti simbolici? A chi chiedere conto dell'erosione dei diritti dei lavoratori? A chi domandare spiegazioni su un contesto culturale - televisivo, editoriale, scolastico - banalmente impoverito? Il pamphlet di Bertante è uno sfogo lucido, soprattutto spinge a riflettere. Se la celebratissima sconfitta di ieri è ricaduta sulle generazioni di oggi, è urgente tornare a pensare un'ipotesi di liberazione, per non regalarsi ancora, come pure si continua a fare, allo “spirito del denaro”, alle applicazioni più nefaste del liberismo economico - di cui i fautori, oggi, sono molti dei contestatori di quarant'anni fa. La diagnosi del senso storico del capitalismo rimane un punto di riferimento ampiamente criticato, ma mai davvero ripensato e, tanto meno, dai ragazzi del '68. È il momento di un tentativo di collocare l'oggetto di quell'analisi in una cornice storica più ampia.
di Jacopo GuerrieroFreek, settembre 2007Contro il ’68
Un pamphlet che, non ancora uscito nelle librerie, aveva già fatto discutere. Alessandro Bertante, giornalista culturale e scrittore, ha deciso di scagliarsi contro “la generazione infinita”, quegli intellettuali passati dalla barricata alle barrique, capaci di contestare il mondo 30 anni fa e di assumere oggi le posizioni più privilegiate nel mondo della comunicazione. Come sottolinea Marco Philopat nella prefazione: “I sessantottini autosconfitti sono stati sistemati nell’industria culturale, da dove era più facile svolgere il ruolo che i vincitori gli avevano assegnato, cioè riscrivere la storia”. Ed è esattamente questa l’accusa, moderna molotov d’inchiostro, di Bertante: l’evidenziare come nessuno, sino a oggi, abbia mai osato nemmeno mettere in discussione i protagonisti di quell’epoca se non per evidenziarne, in modo molto superficiale, il cambio di casacche e posizioni politiche. Bertante va oltre la politica delle marionette, della democrazia farsa da schede elettorali, e si interroga, da figlio di quella generazione, a cosa abbia portato quel movimento tanto idealizzato. Più che luci – quelle della ribalta per i protagonisti – soltanto ombre che hanno gravato sulle generazioni successive. Incapaci di lottare, nella società dello spettacolo, contro quella spettacolarizzazione della vita che, paradossalmente, è nata proprio nel post ’68.
http://canali.libero.it/affaritaliani, 3 novembre 2007Contro il ’68. Lo scrittore Alessandro Bertante apre la critica storica: “Ma non è da buttare, aprì la società e portò lo Statuto dei lavoratori”
“I telegiornali sono infestati dai sessantottini”. Alessandro Bertante sorride pensando all’attuale collocazione della cosiddetta meglio gioventù: “Hanno monopolizzato il mondo della comunicazione”. Vero. L’autore di Contro il ‘68 (Agenzia X, 96 pagine, 10 euro) ricorda a tal proposito la sua esperienza a “Otto e mezzo”: una redazione, guarda caso, di sessantottini.
Giuliano Ferrara partecipò agli scontri di Valle Giulia, Lanfranco Pace faceva parte del vertice di Potere Operaio e Ritanna Armeni era vicina allo stesso gruppo. La lista è lunga, infinita: l’infedele Gad Lerner, l’ex direttore del Tg5 Carlo Rossella, il direttore di TgCom Paolo Liguori, il numero uno di via Solferino Paolo Mieli… Hanno tutti un passato nella sinistra extraparlamentare.
“Non hanno tradito – spiega Bertante – la loro è stata una condotta lineare”. Perché bisogna distinguere tra il ’68 degli studenti universitari e quello degli operai: “Questi personaggi provengono tutti dalla borghesia, in quel periodo gli atenei erano appannaggio di pochi”. Nulla di male, peccato che “erano ferocissimi verso la loro classe di appartenenza, in malafede”.
“Già intorno alla metà degli anni Settanta – prosegue Bertante – sono rientrati nei ranghi, diventando manager, politici e, appunto, esponenti della comunicazione”. Ecco spiegato perché molti sessantottini sono finiti nel Partito Socialista e in Forza Italia. Un esempio tra tanti: Aldo Brandirali, prima di entrare in Comunione e Liberazione, era leader del movimento maoista Servire il Popolo.
L’idea di “Contro il ‘68” nasce proprio negli anni di Craxi. Alessandro Bertante, classe 1969, è cresciuto nella Milano da bere: “Gli anni Ottanta del craxismo, del riflusso e dell’eroina… E gli ex sessantottini raccontavano il periodo rivoluzionario che avevano vissuto. Così mi sono chiesto ‘com’è possibile questo cambiamento?’”. Un paradosso: questa sarebbe la meglio gioventù?
“Voglio essere orfano” scrivevano sui muri: “Si ponevano in netta antitesi rispetto ai loro padri, è stata una rivolta generazionale di grande violenza”. Proprio quel che è mancato ai loro figli, Alessandro Bertante compreso: “Noi non siamo riusciti ad avere una sana ribellione. Loro che l’hanno fatta così bene, l’hanno saputa reprimere altrettanto meglio”.
Ma il ’68 ha lasciato in eredità qualcosa di buono? “Ha certamente un grosso merito: ha aperto la società, è stata una rivoluzione dei costumi cominciata alla fine degli anni Cinquanta ed esplosa in quel periodo”. Bertante parla di “grande calderone”. Perché gli ingredienti che hanno portato in tavola il ’68 sono il marxismo certo, ma anche la poesia della beat generation e il rock and roll…
“È una cesura storica mal interpretata, l’influenza culturale del ’68 ha pesato su tutte le generazioni successive. È una grande cappa che soffoca l’Italia”. Alessandro Bertante ha deciso di scrivere un pamphlet, ma nonostante quel titolo – Contro il ’68 – non demolisce il mito. Esprime le proprie delusioni, le frustrazioni dei figli della meglio gioventù.
Una grande conquista dei sessantottini è stata infatti lo Statuto dei lavoratori: “Una conquista importante che nel corso dei decenni successivi è stata persa per strada. Non c’è più rappresentanza, non esistono le certezze, il precariato è diffuso. Se sei assunto sei tutelato, ma ormai chi è assunto? Il problema non si pone più in questi termini”.
E la situazione non riguarda solo le fabbriche o la pubblica amministrazione, ma anche i quotidiani e i telegiornali – occupati proprio da loro, i sessantottini. Sessantottini che si preparano a festeggiare il quarantennale di quell’anno. “Il maggio francese è durato sei mesi – dice Beltrami – il ’68 italiano fino alla metà degli anni Settanta”.
Già, poi è arrivato il ’77: non abbiamo ancora finito di rievocarlo e voilà un altro anniversario. A discuterne – ancora una volta, sempre loro – i sessantottini, la meglio gioventù pronta a celebrare il mito, raccontare la solita favola. Una favola senza lieto fine, anzi: una favola senza fine e basta. Il sessantotto italiano non finirà mai, purtroppo.
di Michele BiscegliaGiuliano Ferrara partecipò agli scontri di Valle Giulia, Lanfranco Pace faceva parte del vertice di Potere Operaio e Ritanna Armeni era vicina allo stesso gruppo. La lista è lunga, infinita: l’infedele Gad Lerner, l’ex direttore del Tg5 Carlo Rossella, il direttore di TgCom Paolo Liguori, il numero uno di via Solferino Paolo Mieli… Hanno tutti un passato nella sinistra extraparlamentare.
“Non hanno tradito – spiega Bertante – la loro è stata una condotta lineare”. Perché bisogna distinguere tra il ’68 degli studenti universitari e quello degli operai: “Questi personaggi provengono tutti dalla borghesia, in quel periodo gli atenei erano appannaggio di pochi”. Nulla di male, peccato che “erano ferocissimi verso la loro classe di appartenenza, in malafede”.
“Già intorno alla metà degli anni Settanta – prosegue Bertante – sono rientrati nei ranghi, diventando manager, politici e, appunto, esponenti della comunicazione”. Ecco spiegato perché molti sessantottini sono finiti nel Partito Socialista e in Forza Italia. Un esempio tra tanti: Aldo Brandirali, prima di entrare in Comunione e Liberazione, era leader del movimento maoista Servire il Popolo.
L’idea di “Contro il ‘68” nasce proprio negli anni di Craxi. Alessandro Bertante, classe 1969, è cresciuto nella Milano da bere: “Gli anni Ottanta del craxismo, del riflusso e dell’eroina… E gli ex sessantottini raccontavano il periodo rivoluzionario che avevano vissuto. Così mi sono chiesto ‘com’è possibile questo cambiamento?’”. Un paradosso: questa sarebbe la meglio gioventù?
“Voglio essere orfano” scrivevano sui muri: “Si ponevano in netta antitesi rispetto ai loro padri, è stata una rivolta generazionale di grande violenza”. Proprio quel che è mancato ai loro figli, Alessandro Bertante compreso: “Noi non siamo riusciti ad avere una sana ribellione. Loro che l’hanno fatta così bene, l’hanno saputa reprimere altrettanto meglio”.
Ma il ’68 ha lasciato in eredità qualcosa di buono? “Ha certamente un grosso merito: ha aperto la società, è stata una rivoluzione dei costumi cominciata alla fine degli anni Cinquanta ed esplosa in quel periodo”. Bertante parla di “grande calderone”. Perché gli ingredienti che hanno portato in tavola il ’68 sono il marxismo certo, ma anche la poesia della beat generation e il rock and roll…
“È una cesura storica mal interpretata, l’influenza culturale del ’68 ha pesato su tutte le generazioni successive. È una grande cappa che soffoca l’Italia”. Alessandro Bertante ha deciso di scrivere un pamphlet, ma nonostante quel titolo – Contro il ’68 – non demolisce il mito. Esprime le proprie delusioni, le frustrazioni dei figli della meglio gioventù.
Una grande conquista dei sessantottini è stata infatti lo Statuto dei lavoratori: “Una conquista importante che nel corso dei decenni successivi è stata persa per strada. Non c’è più rappresentanza, non esistono le certezze, il precariato è diffuso. Se sei assunto sei tutelato, ma ormai chi è assunto? Il problema non si pone più in questi termini”.
E la situazione non riguarda solo le fabbriche o la pubblica amministrazione, ma anche i quotidiani e i telegiornali – occupati proprio da loro, i sessantottini. Sessantottini che si preparano a festeggiare il quarantennale di quell’anno. “Il maggio francese è durato sei mesi – dice Beltrami – il ’68 italiano fino alla metà degli anni Settanta”.
Già, poi è arrivato il ’77: non abbiamo ancora finito di rievocarlo e voilà un altro anniversario. A discuterne – ancora una volta, sempre loro – i sessantottini, la meglio gioventù pronta a celebrare il mito, raccontare la solita favola. Una favola senza lieto fine, anzi: una favola senza fine e basta. Il sessantotto italiano non finirà mai, purtroppo.
www.lastampa.it, 2 novembre 2007Generazione illusa: in Italia comincia il processo a un mito
Alessandro Bertante, Edmondo Berselli, Cristina Comencini ci offrono tre letture del ’68 diversissime fra loro, ma decisamente ragionevoli. Il libro di Bertante (Contro il ‘68. La generazione infinita, Agenzia X) è un risentito j’accuse contro la generazione del ’68, rimproverata di aver tradito i propri ideali rivoluzionari e di aver tarpato le ali alla generazione successiva, di cui Bertante stesso fa parte. Opportunisti, narcisisti, nostalgici, paternalisti e supponenti, i sessantottini formerebbero una vera e propria casta, perennemente ripiegata in un’indulgente rievocazione del proprio passato e costituzionalmente incapace di autocritica e lucidità. Diametralmente opposta la visione di Edmondo Berselli, per cui gli anni ’60 – gli spensierati Sixties – sono durati troppo poco, soffocati da quella cappa triste che fu il ’68, con tutto il suo seguito di politicizzazione, impegno, odio, lotta armata, terrorismo (Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ’68, Mondadori). Insomma per Bertante la generazione del ’68 (ma sarebbe forse più esatto dire: quella influente minoranza che «fece» il ’68) è colpevole perché si è imborghesita, è andata al potere, controlla i media, e ha finito per inibire tutte le spinte antagoniste delle generazioni successive. Per Berselli, tutto al contrario, è il ’68 a essere colpevole, ma del peccato opposto: quello di aver interrotto, con la politica e l’impegno, una stagione che poteva a lungo e senza traumi essere di emancipazione, benessere e libertà (una tesi, quest’ultima, non incompatibile con la storia delle economie occidentali dopo gli anni ’70: Italia, Germania e Francia, ossia i tre paesi con i conflitti più politicizzati e persistenti, sono anche quelli che sono cresciuti di meno).
Fra Berselli (1951) e Bertante (1969) corrono quasi vent’anni, il tempo di una generazione. In mezzo, non solo anagraficamente, il romanzo di Cristina Comencini L’illusione del bene (Feltrinelli), una riflessione drammatica e profonda sulle vere domande che la generazione del ‘68 si ostina a non porsi: perché tanti di noi hanno simpatizzato per il comunismo? Perché l’hanno fatto così a lungo? Perché non hanno voluto vedere l’orrore di quei regimi? Perché non hanno mosso un dito quando i custodi del «bene» uccidevano milioni di persone? Perché nelle nostre menti non scatta alcuna vera solidarietà, non si impone alcun «dovere della memoria», per le tante vittime innocenti dei regimi che nella nostra gioventù abbiamo esaltato? E soprattutto la domanda delle domande: perché, anche dopo la caduta del muro di Berlino, quei lunghi anni di cecità e di astensione non sono sentiti con vergogna?
Il romanzo, essendo un romanzo, non dà né vuole dare una risposta esaustiva a queste domande, che diventano invece il motore della vicenda del protagonista, il quasi sessantenne Mario, un uomo che ha vissuto la stagione dell’impegno ma non si è sbrigativamente autoassolto quando gli errori e le cecità di quegli anni sono divenute evidenti a tutti. Ci sono, però, altri due libri recenti, uno di Paul Berman sulla generazione del ’68, l’altro di Mirella Serri sugli intellettuali che passarono dal fascismo all’antifascismo, che letti insieme forse ci forniscono qualche elemento in più per capire la curiosa traiettoria della generazione che «ha fatto il ’68».
Scrive Paul Berman, in un libro tradotto in italiano l’anno scorso ma scritto in realtà a metà degli anni ’90 (Sessantotto. La generazione delle due utopie): «La generazione del 1968 ha finito per passare attraverso due diverse esperienze utopiche. La prima è stata l’esperienza di sinistra della gioventù, la seconda quella liberale della maturità negli anni successivi al 1989». Secondo questa (generosa) visione non vi sarebbe alcuna vera rottura fra gli ideali libertari di gioventù, che quarant’anni fa inducevano ad opporsi al capitalismo e alla guerra in Vietnam, e le idee liberali della maturità, che oggi inducono a lodare il mercato e persino – ironia della storia – a fornire un sostegno etico alle «guerre umanitarie» dell’ex nemico americano. Nell’un caso e nell’altro, si tratterebbe dell’eterna lotta contro l’autoritarismo e il fascismo, ieri quello storico o le sue sopravvivenze, oggi quello impersonato dalle dittature e dal radicalismo islamico. La generazione del Sessantotto, insomma, cambierebbe i suoi bersagli ma non la sua vocazione utopica. Ieri odiava l’imperialismo e si infervorava per il socialismo, oggi si indigna per la violazione dei diritti umani e sogna di esportare la libertà. Scrive Berman, parlando della propria generazione, che «noi siamo stati rivoluzionari due volte». Già, dice proprio così, proprio come Mirella Serri nel suo bellissimo libro sugli intellettuali che vissero due volte, la prima cantando le lodi del regime fascista, la seconda divenendone i più severi critici, il tutto – e qui sta il punto – senza mai fare davvero i conti con il proprio passato (I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Corbaccio).
Ma allora, forse, il passaggio dall’impegno del 1968 a quello del 1989, dall’anticapitalismo al fondamentalismo dei diritti umani, è anche – almeno in Italia – una stanca replica, trent’anni dopo, della conversione di massa degli intellettuali italiani dal fascismo all’antifascismo, avvenuta fra il 1938 e il 1948. E se questo nuovo passaggio si è consumato – e ancora si sta consumando – con tanta spensierata leggerezza, non è solo perché il trasformismo è da sempre un tratto distintivo del carattere nazionale, ma perché tutti, in Italia come altrove, stentiamo a far nostra la lezione di Isaiah Berlin, mirabilmente resa nel romanzo di Cristina Comencini: è dalla pretesa di mettere in atto un’utopia, di imporre alle persone concrete di vivere secondo un’idea astratta, che si originano le maggiori tragedie della storia.
In questo senso, L'illusione del bene è anche una chiave per leggere la generazione del ’68 e la sua singolare parabola. Quell’illusione ci ha impedito di vedere per tempo il male che in nome del bene veniva inesorabilmente compiuto, quell’illusione ci ha fatti sentire troppe volte «i migliori», quell’illusione ci espone oggi al rischio di non scorgere il male che potremmo ancora fare. Quell’illusione, soprattutto, esonera noi e solo noi dal dovere della memoria.
di Luca RicolfiFra Berselli (1951) e Bertante (1969) corrono quasi vent’anni, il tempo di una generazione. In mezzo, non solo anagraficamente, il romanzo di Cristina Comencini L’illusione del bene (Feltrinelli), una riflessione drammatica e profonda sulle vere domande che la generazione del ‘68 si ostina a non porsi: perché tanti di noi hanno simpatizzato per il comunismo? Perché l’hanno fatto così a lungo? Perché non hanno voluto vedere l’orrore di quei regimi? Perché non hanno mosso un dito quando i custodi del «bene» uccidevano milioni di persone? Perché nelle nostre menti non scatta alcuna vera solidarietà, non si impone alcun «dovere della memoria», per le tante vittime innocenti dei regimi che nella nostra gioventù abbiamo esaltato? E soprattutto la domanda delle domande: perché, anche dopo la caduta del muro di Berlino, quei lunghi anni di cecità e di astensione non sono sentiti con vergogna?
Il romanzo, essendo un romanzo, non dà né vuole dare una risposta esaustiva a queste domande, che diventano invece il motore della vicenda del protagonista, il quasi sessantenne Mario, un uomo che ha vissuto la stagione dell’impegno ma non si è sbrigativamente autoassolto quando gli errori e le cecità di quegli anni sono divenute evidenti a tutti. Ci sono, però, altri due libri recenti, uno di Paul Berman sulla generazione del ’68, l’altro di Mirella Serri sugli intellettuali che passarono dal fascismo all’antifascismo, che letti insieme forse ci forniscono qualche elemento in più per capire la curiosa traiettoria della generazione che «ha fatto il ’68».
Scrive Paul Berman, in un libro tradotto in italiano l’anno scorso ma scritto in realtà a metà degli anni ’90 (Sessantotto. La generazione delle due utopie): «La generazione del 1968 ha finito per passare attraverso due diverse esperienze utopiche. La prima è stata l’esperienza di sinistra della gioventù, la seconda quella liberale della maturità negli anni successivi al 1989». Secondo questa (generosa) visione non vi sarebbe alcuna vera rottura fra gli ideali libertari di gioventù, che quarant’anni fa inducevano ad opporsi al capitalismo e alla guerra in Vietnam, e le idee liberali della maturità, che oggi inducono a lodare il mercato e persino – ironia della storia – a fornire un sostegno etico alle «guerre umanitarie» dell’ex nemico americano. Nell’un caso e nell’altro, si tratterebbe dell’eterna lotta contro l’autoritarismo e il fascismo, ieri quello storico o le sue sopravvivenze, oggi quello impersonato dalle dittature e dal radicalismo islamico. La generazione del Sessantotto, insomma, cambierebbe i suoi bersagli ma non la sua vocazione utopica. Ieri odiava l’imperialismo e si infervorava per il socialismo, oggi si indigna per la violazione dei diritti umani e sogna di esportare la libertà. Scrive Berman, parlando della propria generazione, che «noi siamo stati rivoluzionari due volte». Già, dice proprio così, proprio come Mirella Serri nel suo bellissimo libro sugli intellettuali che vissero due volte, la prima cantando le lodi del regime fascista, la seconda divenendone i più severi critici, il tutto – e qui sta il punto – senza mai fare davvero i conti con il proprio passato (I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Corbaccio).
Ma allora, forse, il passaggio dall’impegno del 1968 a quello del 1989, dall’anticapitalismo al fondamentalismo dei diritti umani, è anche – almeno in Italia – una stanca replica, trent’anni dopo, della conversione di massa degli intellettuali italiani dal fascismo all’antifascismo, avvenuta fra il 1938 e il 1948. E se questo nuovo passaggio si è consumato – e ancora si sta consumando – con tanta spensierata leggerezza, non è solo perché il trasformismo è da sempre un tratto distintivo del carattere nazionale, ma perché tutti, in Italia come altrove, stentiamo a far nostra la lezione di Isaiah Berlin, mirabilmente resa nel romanzo di Cristina Comencini: è dalla pretesa di mettere in atto un’utopia, di imporre alle persone concrete di vivere secondo un’idea astratta, che si originano le maggiori tragedie della storia.
In questo senso, L'illusione del bene è anche una chiave per leggere la generazione del ’68 e la sua singolare parabola. Quell’illusione ci ha impedito di vedere per tempo il male che in nome del bene veniva inesorabilmente compiuto, quell’illusione ci ha fatti sentire troppe volte «i migliori», quell’illusione ci espone oggi al rischio di non scorgere il male che potremmo ancora fare. Quell’illusione, soprattutto, esonera noi e solo noi dal dovere della memoria.
L’indipendente, 3 giugno 2007Che delusione i barbudos del ’68
Contro il ’68 di Alessandro Bertante – autore nato all’inizio degli anni Settanta – è uno schiaffo al conformismo e al sussiego di chi trent’anni fa giocò alla rivoluzione. E oggi insegna reducismo alle nuove generazioni.
L’ultimo “schiaffo di Svevo” arriva da quel di Vittuone, provincia di Milano. Dalla mano di Alessandro Bertante, giornalista e scrittore, nato nel 1969, figlio di sessantottini e contestatore a sua volta del Sessantotto stesso. Lo “schiaffo di Svevo” è il celeberrimo sberlone che il padre dà a Zeno Cosini in punto di morte. Quello schiaffo paterno ha una duplice valenza: da una parte incarna il senso di colpa edipico che ha segnato il secolo scorso; dall’altra, secondo una linea critica novecentista, ha capovolto la questione, poiché ha instillato nei figli la spinta ad un’aspra ribellione. E Contro il ’68, il pamphlet di Bertante edito da Agenzia X, non è tanto una rivolta da figlio a padre, quanto piuttosto una critica severa e articolata alla “mitologia dei padri”. Ancora una volta, ancor prima del quarantesimo compleanno, la rivolta degli studenti e degli operai finisce sotto processo. Succede che Bertante se la prende con quel misto di rimpianto e nostalgia, indulgenza e indiscutibile venerazione che accompagna ogni rievocazione del Sessantotto. «È come se tutto fosse nato e morto lì e niente di quel periodo potesse essere messo in discussione», dice Bertante, «come se tutto fosse stato deciso allora e poco importa se quelle stesse persone che una volta volevano fare la rivoluzione oggi sono la classe dirigente». La critica è precisa: vissero nel presente e per il presente, volevano tutto e hanno avuto tutto. «La generazione dei nostri padri è esplosa e poi si è chiusa in un’intransigenza che ha danneggiato noi figli – continua – tanto che oggi non si può contestare niente e ogni nostro tentativo di rivoluzione viene soffocato da quell’insopportabile atteggiamento di sufficienza». Schaft (schiaffo).
Dalle parole di Bertante affiora allora un’immaginaria schiera di soloni arroccati su una muraglia di testi, parole, trovate lessicali, tic e intransigenze che ogni figlio del Sessantotto conosce bene. Il rigore ideologico che diventa settarismo, il disprezzo per l’alterità intesa come portatrice di significati diversi, silenzi che vorrebbero essere alteri ma che suonano sprezzanti. C’è la questione dei genitori che si rifiutano di invecchiare e di “perdere il primato intellettuale”. E la desolante deriva del riciclo, i padri traditori, scivolati senza colpo ferire dalle barricate alle poltrone e che i figli, si sa, non perdonano facilmente, con quella capacità così ben raccontata da Balzac di non riuscire mai a vedere il grigio, ma solo il bianco e il nero. Bertante parla di “ragazzi barbuti e precocemente invecchiati” che fecero di tutto per trasformare un’orda creativa e libera in un teatro machiavellico per la lotta al potere. Tra divisioni gruppettare e spaccature politiche, si arrivò a «modelli autoritari datati di alcuni decenni, che soffocano la spinta creativa». Il mondo colorato dei maglioni, degli striscioni, delle copertine dei libri che si ingrigisce nel manicheismo ideologico. Una distanza scavata tenacemente nel tempo e che oggi pesa sui figli come quella colpa che pungeva nell’animo di Zeno e risvegliata dallo schiaffo paterno. E ai figli non resta che precariato, smarrimento e conflitti irrisolti. Bertante analizza la parabola dei sessantottini dopo il 1975, quando il compromesso storico segnò una cesura nel movimento: «Fu allora che molti leader si rifugiarono nel disimpegno», dice, «e che molti presero le distanze dall’ondata di violenza che venne subito dopo, negli anni Settanta». Un isolamento (privilegiato per alcuni, disilluso e scostante per altri) che ha significato, per l’autore, il primo passo verso quella distanza che si avverte oggi. In seguito, ci furono quelli che continuarono a lottare in metropoli soffocate e anime perse nell’eroina e gli altri che invece preferirono cambiare casacca e scegliere strade più comode, adeguandosi. Allora il problema diventa: come conciliare le indubbie conquiste per i diritti civili fatte dal movimento (femminismo, legge 180, accesso libero agli studi, leggi su aborto e divorzio) con questa sensazione di delusione che hanno oggi i figli del movimento? Forse il problema sta nella naturale evoluzione delle cose. Fatto sta che il processo è cominciato. Due anni fa, in un’intervista al “Corriere della Sera”, Giovanna Marini si scagliò contro l’inflessibilità del Sessantotto, l’ostilità verso la cultura libera e quella politica che insegnava già allora ai leader come diventare capi. Aggiungendo che «ai ragazzi che avevano fatto politica, furono offerte negli anni Settanta, alternative allettanti». Su Panorama, Roberto Cotroneo ha ribaltato la tesi secondo la quale il Sessantotto fu foriero di genio creativo, anzi: le opere migliori nell’arte, nel cinema e nella letteratura vennero o prima o dopo, nate da una contestazione al ’68 (Pasolini) o da una primitiva “purezza” (Le mani sulla città di Francesco Rosi, per esempio). Discutibile, forse, l’accostamento tra il movimento degli studenti e degli operai e l’ondata di violenza degli anni Settanta. Mario Capanna, tra i leader del Sessantotto, puntualizza: «Una tesi fasulla, usata per annichilire, soprattutto durante il rampantismo degli anni Ottanta e la melassa dei Novanta, ogni ripresa della lotta armata». Capanna precisa che lo stesso Renato Curcio, più volte, si è distanziato dal ’68 come a mettere un confine tra gli anni creativi e gli esiti violenti. L’eredità sessantottina è stata cruciale anche nell’esito delle recenti elezioni presidenziali francesi. Ségolène Royal ha evocato lo spettro delle banlieues e Nicholas Sarkozy ha annunciato di voler seppellire il Sessantotto, spiegandosi così: «Ci ha imposto il relativismo morale e intellettuale. Gli eredi del ’68 ci hanno imposto che non c’è alcuna differenza tra bene e male, tra bello e laido, tra vero e falso, che l’allievo e il maestro si equivalgono, che non bisogna dare voti, che si può vivere senza una gerarchia dei valori». Il recente progetto di reintrodurre l’obbligo del “voi” a scuola, rivolgendosi ai docenti, suona come un ennesimo atto di becchinaggio contro il movimento di 40 anni fa. Agitare lo spettro del Sessantotto significa anche dar vita a quella tesi, di recente ribadita da Lucia Annunziata, secondo la quale un’eccessiva democratizzazione culturale non ha portato ad un imporsi della cultura quale motore sociale di gramsciana memoria, ma piuttosto ad un allargamento orizzontale delle personalità artistiche individuali, «intercettando le esigenze del capitalismo». E nel frattempo, puntualizza Bertante «la corsa all’industria privata dell’informazione era già avviata». Pietrangelo Buttafuoco, che al tema ha dedicato una puntata di “Otto e mezzo estate”, chiosa: «L’attuale establishment viene da quella stagione. Si pensi che anche il neo governo francese non ha esitato ad assoldare un ministro socialista».
di Roberta ScorraneseL’ultimo “schiaffo di Svevo” arriva da quel di Vittuone, provincia di Milano. Dalla mano di Alessandro Bertante, giornalista e scrittore, nato nel 1969, figlio di sessantottini e contestatore a sua volta del Sessantotto stesso. Lo “schiaffo di Svevo” è il celeberrimo sberlone che il padre dà a Zeno Cosini in punto di morte. Quello schiaffo paterno ha una duplice valenza: da una parte incarna il senso di colpa edipico che ha segnato il secolo scorso; dall’altra, secondo una linea critica novecentista, ha capovolto la questione, poiché ha instillato nei figli la spinta ad un’aspra ribellione. E Contro il ’68, il pamphlet di Bertante edito da Agenzia X, non è tanto una rivolta da figlio a padre, quanto piuttosto una critica severa e articolata alla “mitologia dei padri”. Ancora una volta, ancor prima del quarantesimo compleanno, la rivolta degli studenti e degli operai finisce sotto processo. Succede che Bertante se la prende con quel misto di rimpianto e nostalgia, indulgenza e indiscutibile venerazione che accompagna ogni rievocazione del Sessantotto. «È come se tutto fosse nato e morto lì e niente di quel periodo potesse essere messo in discussione», dice Bertante, «come se tutto fosse stato deciso allora e poco importa se quelle stesse persone che una volta volevano fare la rivoluzione oggi sono la classe dirigente». La critica è precisa: vissero nel presente e per il presente, volevano tutto e hanno avuto tutto. «La generazione dei nostri padri è esplosa e poi si è chiusa in un’intransigenza che ha danneggiato noi figli – continua – tanto che oggi non si può contestare niente e ogni nostro tentativo di rivoluzione viene soffocato da quell’insopportabile atteggiamento di sufficienza». Schaft (schiaffo).
Dalle parole di Bertante affiora allora un’immaginaria schiera di soloni arroccati su una muraglia di testi, parole, trovate lessicali, tic e intransigenze che ogni figlio del Sessantotto conosce bene. Il rigore ideologico che diventa settarismo, il disprezzo per l’alterità intesa come portatrice di significati diversi, silenzi che vorrebbero essere alteri ma che suonano sprezzanti. C’è la questione dei genitori che si rifiutano di invecchiare e di “perdere il primato intellettuale”. E la desolante deriva del riciclo, i padri traditori, scivolati senza colpo ferire dalle barricate alle poltrone e che i figli, si sa, non perdonano facilmente, con quella capacità così ben raccontata da Balzac di non riuscire mai a vedere il grigio, ma solo il bianco e il nero. Bertante parla di “ragazzi barbuti e precocemente invecchiati” che fecero di tutto per trasformare un’orda creativa e libera in un teatro machiavellico per la lotta al potere. Tra divisioni gruppettare e spaccature politiche, si arrivò a «modelli autoritari datati di alcuni decenni, che soffocano la spinta creativa». Il mondo colorato dei maglioni, degli striscioni, delle copertine dei libri che si ingrigisce nel manicheismo ideologico. Una distanza scavata tenacemente nel tempo e che oggi pesa sui figli come quella colpa che pungeva nell’animo di Zeno e risvegliata dallo schiaffo paterno. E ai figli non resta che precariato, smarrimento e conflitti irrisolti. Bertante analizza la parabola dei sessantottini dopo il 1975, quando il compromesso storico segnò una cesura nel movimento: «Fu allora che molti leader si rifugiarono nel disimpegno», dice, «e che molti presero le distanze dall’ondata di violenza che venne subito dopo, negli anni Settanta». Un isolamento (privilegiato per alcuni, disilluso e scostante per altri) che ha significato, per l’autore, il primo passo verso quella distanza che si avverte oggi. In seguito, ci furono quelli che continuarono a lottare in metropoli soffocate e anime perse nell’eroina e gli altri che invece preferirono cambiare casacca e scegliere strade più comode, adeguandosi. Allora il problema diventa: come conciliare le indubbie conquiste per i diritti civili fatte dal movimento (femminismo, legge 180, accesso libero agli studi, leggi su aborto e divorzio) con questa sensazione di delusione che hanno oggi i figli del movimento? Forse il problema sta nella naturale evoluzione delle cose. Fatto sta che il processo è cominciato. Due anni fa, in un’intervista al “Corriere della Sera”, Giovanna Marini si scagliò contro l’inflessibilità del Sessantotto, l’ostilità verso la cultura libera e quella politica che insegnava già allora ai leader come diventare capi. Aggiungendo che «ai ragazzi che avevano fatto politica, furono offerte negli anni Settanta, alternative allettanti». Su Panorama, Roberto Cotroneo ha ribaltato la tesi secondo la quale il Sessantotto fu foriero di genio creativo, anzi: le opere migliori nell’arte, nel cinema e nella letteratura vennero o prima o dopo, nate da una contestazione al ’68 (Pasolini) o da una primitiva “purezza” (Le mani sulla città di Francesco Rosi, per esempio). Discutibile, forse, l’accostamento tra il movimento degli studenti e degli operai e l’ondata di violenza degli anni Settanta. Mario Capanna, tra i leader del Sessantotto, puntualizza: «Una tesi fasulla, usata per annichilire, soprattutto durante il rampantismo degli anni Ottanta e la melassa dei Novanta, ogni ripresa della lotta armata». Capanna precisa che lo stesso Renato Curcio, più volte, si è distanziato dal ’68 come a mettere un confine tra gli anni creativi e gli esiti violenti. L’eredità sessantottina è stata cruciale anche nell’esito delle recenti elezioni presidenziali francesi. Ségolène Royal ha evocato lo spettro delle banlieues e Nicholas Sarkozy ha annunciato di voler seppellire il Sessantotto, spiegandosi così: «Ci ha imposto il relativismo morale e intellettuale. Gli eredi del ’68 ci hanno imposto che non c’è alcuna differenza tra bene e male, tra bello e laido, tra vero e falso, che l’allievo e il maestro si equivalgono, che non bisogna dare voti, che si può vivere senza una gerarchia dei valori». Il recente progetto di reintrodurre l’obbligo del “voi” a scuola, rivolgendosi ai docenti, suona come un ennesimo atto di becchinaggio contro il movimento di 40 anni fa. Agitare lo spettro del Sessantotto significa anche dar vita a quella tesi, di recente ribadita da Lucia Annunziata, secondo la quale un’eccessiva democratizzazione culturale non ha portato ad un imporsi della cultura quale motore sociale di gramsciana memoria, ma piuttosto ad un allargamento orizzontale delle personalità artistiche individuali, «intercettando le esigenze del capitalismo». E nel frattempo, puntualizza Bertante «la corsa all’industria privata dell’informazione era già avviata». Pietrangelo Buttafuoco, che al tema ha dedicato una puntata di “Otto e mezzo estate”, chiosa: «L’attuale establishment viene da quella stagione. Si pensi che anche il neo governo francese non ha esitato ad assoldare un ministro socialista».