Radio Ohm, 12 novembre 2014 Intervista a Luca Gricinella
È ora disponibile l’intervista completa che Luca Gricinella, autore del libro Cinema in rima. La messa in scena del rap, pubblicato da Agenzia X, ha rilasciato a Cattive Abitudini. La sua voce accompagnata dalla musica dei suoi tre album preferiti. Tutto dedicato alla musica rap. Ascolta l’intervista
di Cattive AbitudiniRete Tre di RSI, 27 ottobre 2014 Il rap ce lo racconta Luca Gricinella
Assieme a Esa compone il tandem di giurati di BeatZ On Air, il contest di freestyle rap di Rete Tre!
È Luca Gricinella, giornalista e scrittore italiano, autore di due libri sul rap.
A Baobab Sottotiro Andrea Rigazzi discute con lui le origini, i codici e i linguaggi di questa musica, che partita dal sottosuolo oggi domina anche nel pop commerciale. Ascolta l’intervista
di Andrea RigazziÈ Luca Gricinella, giornalista e scrittore italiano, autore di due libri sul rap.
A Baobab Sottotiro Andrea Rigazzi discute con lui le origini, i codici e i linguaggi di questa musica, che partita dal sottosuolo oggi domina anche nel pop commerciale. Ascolta l’intervista
Corriere della Sera, 22 aprile 2014 Ciack si gira. E il rapper diventa protagonista
In Fa la cosa giusta di Spike Lee, Radio Raheem gira per il quartiere con megaregistratori Ghettoblaster sulle spalle, ascoltando Fight the Power dei Public Enemy. Per Luca Gricinella questa immagine sintetizza la relazione tra hip hop e cinema, raccontata nel suo libro Cinema in rima. la messa in scena del rap. Edito da Agenzia X, sarà presentato stasera alle 20 al circolo Maite per la rassegna «A cena con l'autore», alla presenza anche del dj e produttore Bonnot e del rapper Signor K.
Attraverso la proiezione di alcuni spezzoni di film, l'autore illustrerà il legame tra cinema e cultura hip bop, accomunate da stile narrativo costruito per immagini ed evasione dalla realtà, di cui si nutrono. «Come diceva il rapper KRS-One, la cultura hip hop è edutainment, insieme di educazione e intrattenimento, quale via di fuga da ambienti poveri», dice Gricinella. E aggiunge: «Diversi rapper citano film e dj del giro hip hop campionano dialogo tratti da pellicole come L'odio di Mathieu Kassovitz, Scarface o Carlito's Way, perché identificano la storia dell'immigrato che fa soldi con il percorso in ascesa del rapper, svincolatesi dal ghetto dove molti amici prendono la strada del crimine», spiega l'autore, citando i alcuni rapper diventati attori, come Ice-T, Ice Cube o Joey Starr, e altri registi.
Tracciando una linea storica, cinema e hip hop si intrecciano negli anni Ottanta in America, per espandersi negli anni Novanta in Europa e poi in Italia, «anche se timidamente – chiarisce Gricinella. Il film Wild style del 1983 è il capo stipite del filone che mette in scena in modo didascalico la cultura hip hop e i suoi valori di comunità, pace e unità, come riportavano gli Afrika Bambaataa, nati nel mondo delle gang metropolitane rappresentate in I guerrieri della notte». Tra pellicole underground e commerciali si è passati alle generazione di Spike Lee con Fa la cosa giusta del 1989, John Singleton, Mario Van Peebles, i fratelli Hughes, che rappresentano storie ambientate in periferie metropolitane americane zeppe di cultura hip hop, radicata con i crimini dei sobborghi in pellicole quali L'odio, dove i ragazzi delle banlieue si cibano di rap. Oppure a Pensieri pericolosi, con la colonna sonora di Gangsta's Paradise (1993) di Coolio, hit di enorme successo. «Negli anni Duemila nei film si rappresentano le vite dei rapper, da Eminem a 50 Cent, da Notorious B.I.G. a Tupac. Se prima i prototipi narrativi erano i gangster ora lo sono i rapper - conclude Gricinella. Le loro storie, nate per strada, hanno elementi di finzione scenica perfetti per una sceneggiatura: ambienti degradati da cui fuggire, ascesa economica, morte violenta, gestì e parlata enfatica simile a quella di un attore».
di Daniela MorandiAttraverso la proiezione di alcuni spezzoni di film, l'autore illustrerà il legame tra cinema e cultura hip bop, accomunate da stile narrativo costruito per immagini ed evasione dalla realtà, di cui si nutrono. «Come diceva il rapper KRS-One, la cultura hip hop è edutainment, insieme di educazione e intrattenimento, quale via di fuga da ambienti poveri», dice Gricinella. E aggiunge: «Diversi rapper citano film e dj del giro hip hop campionano dialogo tratti da pellicole come L'odio di Mathieu Kassovitz, Scarface o Carlito's Way, perché identificano la storia dell'immigrato che fa soldi con il percorso in ascesa del rapper, svincolatesi dal ghetto dove molti amici prendono la strada del crimine», spiega l'autore, citando i alcuni rapper diventati attori, come Ice-T, Ice Cube o Joey Starr, e altri registi.
Tracciando una linea storica, cinema e hip hop si intrecciano negli anni Ottanta in America, per espandersi negli anni Novanta in Europa e poi in Italia, «anche se timidamente – chiarisce Gricinella. Il film Wild style del 1983 è il capo stipite del filone che mette in scena in modo didascalico la cultura hip hop e i suoi valori di comunità, pace e unità, come riportavano gli Afrika Bambaataa, nati nel mondo delle gang metropolitane rappresentate in I guerrieri della notte». Tra pellicole underground e commerciali si è passati alle generazione di Spike Lee con Fa la cosa giusta del 1989, John Singleton, Mario Van Peebles, i fratelli Hughes, che rappresentano storie ambientate in periferie metropolitane americane zeppe di cultura hip hop, radicata con i crimini dei sobborghi in pellicole quali L'odio, dove i ragazzi delle banlieue si cibano di rap. Oppure a Pensieri pericolosi, con la colonna sonora di Gangsta's Paradise (1993) di Coolio, hit di enorme successo. «Negli anni Duemila nei film si rappresentano le vite dei rapper, da Eminem a 50 Cent, da Notorious B.I.G. a Tupac. Se prima i prototipi narrativi erano i gangster ora lo sono i rapper - conclude Gricinella. Le loro storie, nate per strada, hanno elementi di finzione scenica perfetti per una sceneggiatura: ambienti degradati da cui fuggire, ascesa economica, morte violenta, gestì e parlata enfatica simile a quella di un attore».
Blow Up, marzo 2014 Luca Gricinella. Cinema in rima
Un rapporto al quale non è così ovvio pensare, quello fra cinema e rap, ma che a conti fatti ha un’importanza affatto trascurabile. Rapporto che Luca Gricinella sviscera con ammirabile accuratezza in questo volumetto snello ma esaustivo, che spazia dall’analisi di pellicole di cassetta come di misconosciuti film underground. Collocando logicamente l’età dell’oro negli anni ’90, dopo un illustre punto di partenza come Do The Right Thing, l’autore studia l’evoluzione del fenomeno nel nuovo millennio, motivandone il calo di incisività, e la sua diffusione dagli USA in altri paesi, come la Francia e l’Italia. Un ottimo lavoro.
di Bizarrehttp://rapmaniacz.blogspot.it/, 30 gennaio 2014 Letture Hip Hop: Cinema in rima
L’intreccio tra la cultura Hip Hop e il cinema è indissolubile e duraturo, sono due aspetti della stessa medaglia che continuano a guardarsi in faccia, ad interagire, a raccontare storie e verità scomode, a dare voce alle comunità disagiate e represse, abbandonate a loro stesse.
Cinema in rima, recente pubblicazione della casa editrice milanese Agenzia X scritto da Luca Gricinella, già autore di Rapropos: il rap racconta la Francia, è un resoconto storico che fissa cronologicamente i momenti chiave dell’incontro tra Hip Hop e grande schermo, sottolineando come le due cose siano nate come prodotti di nicchia di scarsa fruizione e si siano quindi sviluppate quali realtà più grandi, a volte confuse o non del tutto comprese, eseguendo questo particolare processo evolutivo in completa simbiosi.
Il libro tratta con efficacia questa reciproca ispirazione e ne traccia i legami con intelligenza. Il cinema Hip Hop ha gli stessi progenitori della sua trasposizione sonora, rappresentati dalla cultura nera, dalla blaxploitation, dai racconti imperniati sulla figura del pimp, dalle arti marziali, dalla raffigurazione cruda e reale del ghetto e dei projects, ma soprattutto dall’esigenza di permettere di esprimere un’opinione a tutte quelle minoranze che per anni hanno vissuto in ambienti mortificati, dimenticati da tutti, in preda alle loro paure ed ogni giorno messe alla prova dalla necessità di sopravvivere all’ambiente degradato e violento, senza trovare quasi mai la corretta via d’uscita.
Ed ecco che pellicole storiche come I guerrieri della notte trovano una relazione concettuale del tutto logica con i motivi della fondazione della Zulu Nation di Afrika Bambaataa, Scarface è ancora oggi musa ispiratrice non solo di testi, ma di interi dischi scritti da rappers che collegano costantemente le vicende del film alla dura realtà di tutti i giorni, nella quale chi non ha nulla da perdere prova l’ascesa al potere criminale a tutti i costi e diventa in maniera del tutto naturale una figura imprescindibile delle liriche che hanno forgiato intere carriere di grandi mc’s.
La cultura Hip Hop viene finalmente mostrata alla stessa nazione che le ha dato le origini ed il ruolo recitato dai dischi diventa anche visivo. Pellicole come Breakin’, Beat Street e l’indimenticabile Wild Style sono quanto di più vicino ci sia a un documentario che narra della vita nel Bronx e nei quartieri più difficili dell’area di New York, hanno il ruolo di far conoscere la versatilità di un’arte che non si esprime solo con microfono e giradischi, ma anche con autentiche opere firmate dai writers sui muri, sui vagoni della metropolitana, nonché con l’espressione fisica del movimento, la breakdance, che viene immortalata per le prime volte anche in lungometraggi ben più famosi e poco inerenti al tema, uno su tutti Flashdance, segno che il mondo sta cominciando ad accorgersi del fenomeno Hip Hop.
Si passa poi ad analizzare la figura del regista nero e del messaggio che lo stesso vuole comunicare all’esterno, un messaggio che vuole ratificare una realtà distorta ed affermare un punto di vista spesso ignorato. Corrono gli anni novanta e non solo l’Hip Hop sfonda come genere musicale, Spike Lee è già un regista affermato che di tanto in tanto polemizza con colleghi del livello di Tarantino; si mettono in luce John Singleton, i fratelli Hughes, Ernest Dickerson e Hype Williams, quest’ultimo capace di eseguire il salto partendo dal mondo dei videoclip, tutti autori di pellicole importanti e crude come Boyz In The Hood, Menace II Society, Juice, le quali mostrano attraverso gli occhi del ghetto situazioni sconosciute alla moltitudine ma dannatamente reali, che film ben conosciuti come Fa’ la cosa giusta, trainata dalla musica dei Public Enemy, o Jungle Fever, il quale tratta un tema scottante come il rapporto sentimentale tra etnie diverse, avevano già posto in primo piano. E, proprio come accadde nella musica, anche il cinema Hip Hop diventa un mezzo di unione tra comunità diverse spingendo registi bianchi come Dennis Hopper a documentare i durissimi spaccati quotidiani della West Coast attraverso occhi diversi, quelli dei tutori della legge, concetto che sta alla base di Colors - Colori di guerra.
È il momento in cui i rappers diventano superstar cinematografiche, in quanto individuati quale figure ideali per rappresentare il loro stesso mondo di origine: Ice-T, Ice Cube, Tupac e di seguito tutti gli altri non sono solo in classifica su Billboard, cominciano pure a sbancare i botteghini.
Il focus si sposta poi su Italia e Francia, mantenendo comunque saldo il legame con gli Stati Uniti e con l’universalità della cultura: vengono citate pellicole come La mossa del giaguaro o Zora la vampira, che contengono numerosi riferimenti agli anni settanta, tirando in ballo personaggi come Adriano Celentano o Thomas Milian, fruendo di interventi diretti di uno dei principali interessati, Piotta, peraltro autore della prefazione del libro. Il fenomeno del cinema Hip Hop italiano è molto simile allo sviluppo del suo ramo musicale, film come Sud di Salvatores coincidono con l’incremento di centri sociali, altri come Torino Boys raccontano storie dal punto di vista dell’immigrato in Italia, dando visione a una dimensione sconosciuta, o volutamente ignorata, di una cultura che abbraccia ciò che altri rifiutano e che si muove per conto proprio al passo del rap di Sangue Misto, Assalti Frontali e Dj Gruff.
Il libro chiude con l’ennesimo, azzeccato, paragone tra musica e cinema menzionando la disinformazione che circonda la cultura, la cui enorme esposizione raggiunta ne ha provocato confusione riguardo ai significati reali. Pellicole contemporanee come Save The Last Dance rappresentano in qualche modo un mainstream poco veritiero e molto manovrato dall’industria, spesso danza moderna e breakdance vengono identificate dai giovani come qualcosa di analogo e proprio come accade a livello discografico si finisce per cadere nella trappola di liquidare come Hip Hop tutto ciò che si muove sopra alla hit R’n’B di turno. Interessante pure l’ultimo spunto, attraverso il quale si sottolinea come il cinema contemporaneo sia diventato anche un mezzo autobiografico, come insegnano Notorius B.I.G e 50 Cent.
Come già riscontrato su altre pubblicazioni di Agenzia X, Cinema in rima centra pienamente l’obiettivo di parlare ancora una volta della cultura Hip Hop rappresentandola al meglio, denotandone la natura, l’ambientazione, la provenienza sociale, i connotati politici, percorrendo un binario parallelo che trova costantemente punti d’incontro, qualsiasi sia il momento storico preso in considerazione.
Una pubblicazione sicuramente da raccomandare, la quale farà piacere a chi ha vissuto quegli anni per i numerosi approfondimenti proposti e per le curiosità che soddisfa, e che si rivela di fondamentale importanza nei confronti dell’utenza che per la prima volta si affaccia alla conoscenza di questo mondo, il cui significato è qui spiegato in maniera del tutto esemplare.
di MistadaveCinema in rima, recente pubblicazione della casa editrice milanese Agenzia X scritto da Luca Gricinella, già autore di Rapropos: il rap racconta la Francia, è un resoconto storico che fissa cronologicamente i momenti chiave dell’incontro tra Hip Hop e grande schermo, sottolineando come le due cose siano nate come prodotti di nicchia di scarsa fruizione e si siano quindi sviluppate quali realtà più grandi, a volte confuse o non del tutto comprese, eseguendo questo particolare processo evolutivo in completa simbiosi.
Il libro tratta con efficacia questa reciproca ispirazione e ne traccia i legami con intelligenza. Il cinema Hip Hop ha gli stessi progenitori della sua trasposizione sonora, rappresentati dalla cultura nera, dalla blaxploitation, dai racconti imperniati sulla figura del pimp, dalle arti marziali, dalla raffigurazione cruda e reale del ghetto e dei projects, ma soprattutto dall’esigenza di permettere di esprimere un’opinione a tutte quelle minoranze che per anni hanno vissuto in ambienti mortificati, dimenticati da tutti, in preda alle loro paure ed ogni giorno messe alla prova dalla necessità di sopravvivere all’ambiente degradato e violento, senza trovare quasi mai la corretta via d’uscita.
Ed ecco che pellicole storiche come I guerrieri della notte trovano una relazione concettuale del tutto logica con i motivi della fondazione della Zulu Nation di Afrika Bambaataa, Scarface è ancora oggi musa ispiratrice non solo di testi, ma di interi dischi scritti da rappers che collegano costantemente le vicende del film alla dura realtà di tutti i giorni, nella quale chi non ha nulla da perdere prova l’ascesa al potere criminale a tutti i costi e diventa in maniera del tutto naturale una figura imprescindibile delle liriche che hanno forgiato intere carriere di grandi mc’s.
La cultura Hip Hop viene finalmente mostrata alla stessa nazione che le ha dato le origini ed il ruolo recitato dai dischi diventa anche visivo. Pellicole come Breakin’, Beat Street e l’indimenticabile Wild Style sono quanto di più vicino ci sia a un documentario che narra della vita nel Bronx e nei quartieri più difficili dell’area di New York, hanno il ruolo di far conoscere la versatilità di un’arte che non si esprime solo con microfono e giradischi, ma anche con autentiche opere firmate dai writers sui muri, sui vagoni della metropolitana, nonché con l’espressione fisica del movimento, la breakdance, che viene immortalata per le prime volte anche in lungometraggi ben più famosi e poco inerenti al tema, uno su tutti Flashdance, segno che il mondo sta cominciando ad accorgersi del fenomeno Hip Hop.
Si passa poi ad analizzare la figura del regista nero e del messaggio che lo stesso vuole comunicare all’esterno, un messaggio che vuole ratificare una realtà distorta ed affermare un punto di vista spesso ignorato. Corrono gli anni novanta e non solo l’Hip Hop sfonda come genere musicale, Spike Lee è già un regista affermato che di tanto in tanto polemizza con colleghi del livello di Tarantino; si mettono in luce John Singleton, i fratelli Hughes, Ernest Dickerson e Hype Williams, quest’ultimo capace di eseguire il salto partendo dal mondo dei videoclip, tutti autori di pellicole importanti e crude come Boyz In The Hood, Menace II Society, Juice, le quali mostrano attraverso gli occhi del ghetto situazioni sconosciute alla moltitudine ma dannatamente reali, che film ben conosciuti come Fa’ la cosa giusta, trainata dalla musica dei Public Enemy, o Jungle Fever, il quale tratta un tema scottante come il rapporto sentimentale tra etnie diverse, avevano già posto in primo piano. E, proprio come accadde nella musica, anche il cinema Hip Hop diventa un mezzo di unione tra comunità diverse spingendo registi bianchi come Dennis Hopper a documentare i durissimi spaccati quotidiani della West Coast attraverso occhi diversi, quelli dei tutori della legge, concetto che sta alla base di Colors - Colori di guerra.
È il momento in cui i rappers diventano superstar cinematografiche, in quanto individuati quale figure ideali per rappresentare il loro stesso mondo di origine: Ice-T, Ice Cube, Tupac e di seguito tutti gli altri non sono solo in classifica su Billboard, cominciano pure a sbancare i botteghini.
Il focus si sposta poi su Italia e Francia, mantenendo comunque saldo il legame con gli Stati Uniti e con l’universalità della cultura: vengono citate pellicole come La mossa del giaguaro o Zora la vampira, che contengono numerosi riferimenti agli anni settanta, tirando in ballo personaggi come Adriano Celentano o Thomas Milian, fruendo di interventi diretti di uno dei principali interessati, Piotta, peraltro autore della prefazione del libro. Il fenomeno del cinema Hip Hop italiano è molto simile allo sviluppo del suo ramo musicale, film come Sud di Salvatores coincidono con l’incremento di centri sociali, altri come Torino Boys raccontano storie dal punto di vista dell’immigrato in Italia, dando visione a una dimensione sconosciuta, o volutamente ignorata, di una cultura che abbraccia ciò che altri rifiutano e che si muove per conto proprio al passo del rap di Sangue Misto, Assalti Frontali e Dj Gruff.
Il libro chiude con l’ennesimo, azzeccato, paragone tra musica e cinema menzionando la disinformazione che circonda la cultura, la cui enorme esposizione raggiunta ne ha provocato confusione riguardo ai significati reali. Pellicole contemporanee come Save The Last Dance rappresentano in qualche modo un mainstream poco veritiero e molto manovrato dall’industria, spesso danza moderna e breakdance vengono identificate dai giovani come qualcosa di analogo e proprio come accade a livello discografico si finisce per cadere nella trappola di liquidare come Hip Hop tutto ciò che si muove sopra alla hit R’n’B di turno. Interessante pure l’ultimo spunto, attraverso il quale si sottolinea come il cinema contemporaneo sia diventato anche un mezzo autobiografico, come insegnano Notorius B.I.G e 50 Cent.
Come già riscontrato su altre pubblicazioni di Agenzia X, Cinema in rima centra pienamente l’obiettivo di parlare ancora una volta della cultura Hip Hop rappresentandola al meglio, denotandone la natura, l’ambientazione, la provenienza sociale, i connotati politici, percorrendo un binario parallelo che trova costantemente punti d’incontro, qualsiasi sia il momento storico preso in considerazione.
Una pubblicazione sicuramente da raccomandare, la quale farà piacere a chi ha vissuto quegli anni per i numerosi approfondimenti proposti e per le curiosità che soddisfa, e che si rivela di fondamentale importanza nei confronti dell’utenza che per la prima volta si affaccia alla conoscenza di questo mondo, il cui significato è qui spiegato in maniera del tutto esemplare.
www.ilfattoquotidiano.it, 23 gennaio 2014 Libri: la messa in scena del rap al cinema
“I dialoghi dei miei film non sono rap, ma ci si avvicinano molto”, parola di Quentin Tarantino. Il rap ha ispirato non solo sceneggiature e ambientazioni, ma ha prestato ad Hollywood attori e registi, come spiega il giornalista e critico musicale Luca Gricinella in Cinema in rima, da poco in libreria con la prefazione di Piotta. Luca Gricinella, tra i maggiori esperti in Italia di hip hop, in questo lavoro fonde i suoi due amori il cinema e il rap, realizzando una guida e allo stesso tempo una riflessione diacronica sul rapporto tra il cinema e la cultura hip hop, per capire come e quando il rap è entrato nella pellicola.
Un connubio solido che a partire da Wild style (1983), rappresenta storie di strada, violenza e droga, sino ad arrivare a film cult come Fa’ la cosa giusta di Spike Lee e L’odio film bellissimo di Mathieu Kassovitz. Altro film fondamentale per la diffusione della cultura hip hop in Europa è stato Flashdance. In Italia invece si possono citare Sud di Gabriele Salvatores, un omaggio a quel movimento politico e musicale nato nei centri sociali nei primi anni novanta, e Fame chimica di Paolo Vari e Antonio Bocola per certi versi accostabile a L’odio. Un libro imperdibile per chi ama tutto il mondo Street. Il libro sarà presentato il 14 marzo alle 20,30 alla biblioteca del museo nazionale del cinema di Torino con il giornalista di Rumore, Paolo Ferrari e il direttore del museo, Stefano Boni.
Luca, cosa ti ha spinto ad affrontare il rapporto tra cinema e rap?
Ho studiato sceneggiatura alla Civica di Milano, fin da ragazzino sono appassionato di cinema e musica e in quest’ultimo caso un genere musicale, il rap appunto, mi ha coinvolto tanto da diventare parte integrante del mio lavoro sia di critico sia – da qualche anno soprattutto – di ufficio stampa. Insomma, ho coniugato le mie principali competenze.
Spesso l’hip hop per chi lo ascolta e lo fa, risulta una via di fuga per sfuggire alla realtà e vivere il proprio film. In questo senso l’hip hop come il blues nasce dai sogni-film delle periferie dell’anima. Possiamo dire che l’hip hop è il genere musicale più cinematografico?
È uno degli assunti di partenza del saggio. La fuga dalla realtà che i film di finzione ti permettono di fare si ritrova in tantissime rime di rapper e nei campionamenti fatti dai loro dj. Questi artisti spesso diventano attori, addirittura registi. Non è un caso. Vedi anche le pose che assumono e il linguaggio che usano molti rapper: a volte non è fuorviante dire che pare una messa in scena. E l’origine nelle periferie spiega molto di queste fughe dalla realtà…
Come sta l’hip hop in Italia?
Nel rap c’è ancora un conflitto tra underground e mainstream più forte rispetto ad altre scene nazionali. Non è colpa di nessuno in particolare, ma se ci fosse più rispetto reciproco tra chi è in classifica e chi invece no (perché magari non gli interessa o perché propone musica che difficilmente potrebbe arrivarci), tutto il movimento ne guadagnerebbe. Mi sembra ancora un momento di impasse.
Oggi più che mai l’hip hop è diventato di massa, anche se il successo dei rapper sembra durare davvero troppo poco. Credi dipenda dalla mancanza di contenuti o dal fatto che il rap è ancora percepito come una cultura estranea?
Dipende un po’ dalla poca cultura e comprensione dell’hip hop che si ha in Italia, un po’ dalla cattiva gestione degli artisti. Una parte delle strutture del mercato musicale ha dei piani poco lungimiranti e molto ansiosi di spingere sui trend del momento. Professionisti competenti e concreti che, credo, potrebbero fare più concessioni all’aspetto culturale del rap.
Nel libro affermi che spesso i media nel parlare di hip hop si fermano all’apparenza, dimenticando l’essenza di questa cultura. Cosa intendi?
Se si punta il dito contro chi è sboccato o politicamente scorretto senza mai chiedersi da dove derivi e dunque senza descrivere questo linguaggio, non si rende servizio al lettore. Non credo serva giudicare, men che meno senza (far) conoscere.
Cosa manca alla scena rap italiana per essere matura e diventare una realtà consolidata come è successo in Francia?
A parte una società più cosmopolita, che dunque dia più spazio a chi ha origini altre, un dibattito culturale più complesso e più serietà professionale negli addetti ai lavori della musica. Magari una riforma dell’istruzione, ma forse esagero.
Per molti decani del rap nostrano, l’arrivo dell’hip hop in Italia si deve al film Flashdance. Qual è invece il film italiano che ha contribuito di più alla diffusione del genere in Italia?
Non credo ci sia. Qui hanno contribuito maggiormente programmi tv come Yo!, Mtv Raps o Avanzi, che nei primi anni ’90 invitava spesso rapper, o altri in cui ci vedevi anche gente come Dj Gruff.
Se dovessi consigliare la top five dei film legati al rap da non può perdere?
Senza alcun ordine: Fa’ la cosa giusta, L’odio, Wild Style, Fa’ la cosa sbagliata (The Wackness) e Notorious B.I.G.
di A67Un connubio solido che a partire da Wild style (1983), rappresenta storie di strada, violenza e droga, sino ad arrivare a film cult come Fa’ la cosa giusta di Spike Lee e L’odio film bellissimo di Mathieu Kassovitz. Altro film fondamentale per la diffusione della cultura hip hop in Europa è stato Flashdance. In Italia invece si possono citare Sud di Gabriele Salvatores, un omaggio a quel movimento politico e musicale nato nei centri sociali nei primi anni novanta, e Fame chimica di Paolo Vari e Antonio Bocola per certi versi accostabile a L’odio. Un libro imperdibile per chi ama tutto il mondo Street. Il libro sarà presentato il 14 marzo alle 20,30 alla biblioteca del museo nazionale del cinema di Torino con il giornalista di Rumore, Paolo Ferrari e il direttore del museo, Stefano Boni.
Luca, cosa ti ha spinto ad affrontare il rapporto tra cinema e rap?
Ho studiato sceneggiatura alla Civica di Milano, fin da ragazzino sono appassionato di cinema e musica e in quest’ultimo caso un genere musicale, il rap appunto, mi ha coinvolto tanto da diventare parte integrante del mio lavoro sia di critico sia – da qualche anno soprattutto – di ufficio stampa. Insomma, ho coniugato le mie principali competenze.
Spesso l’hip hop per chi lo ascolta e lo fa, risulta una via di fuga per sfuggire alla realtà e vivere il proprio film. In questo senso l’hip hop come il blues nasce dai sogni-film delle periferie dell’anima. Possiamo dire che l’hip hop è il genere musicale più cinematografico?
È uno degli assunti di partenza del saggio. La fuga dalla realtà che i film di finzione ti permettono di fare si ritrova in tantissime rime di rapper e nei campionamenti fatti dai loro dj. Questi artisti spesso diventano attori, addirittura registi. Non è un caso. Vedi anche le pose che assumono e il linguaggio che usano molti rapper: a volte non è fuorviante dire che pare una messa in scena. E l’origine nelle periferie spiega molto di queste fughe dalla realtà…
Come sta l’hip hop in Italia?
Nel rap c’è ancora un conflitto tra underground e mainstream più forte rispetto ad altre scene nazionali. Non è colpa di nessuno in particolare, ma se ci fosse più rispetto reciproco tra chi è in classifica e chi invece no (perché magari non gli interessa o perché propone musica che difficilmente potrebbe arrivarci), tutto il movimento ne guadagnerebbe. Mi sembra ancora un momento di impasse.
Oggi più che mai l’hip hop è diventato di massa, anche se il successo dei rapper sembra durare davvero troppo poco. Credi dipenda dalla mancanza di contenuti o dal fatto che il rap è ancora percepito come una cultura estranea?
Dipende un po’ dalla poca cultura e comprensione dell’hip hop che si ha in Italia, un po’ dalla cattiva gestione degli artisti. Una parte delle strutture del mercato musicale ha dei piani poco lungimiranti e molto ansiosi di spingere sui trend del momento. Professionisti competenti e concreti che, credo, potrebbero fare più concessioni all’aspetto culturale del rap.
Nel libro affermi che spesso i media nel parlare di hip hop si fermano all’apparenza, dimenticando l’essenza di questa cultura. Cosa intendi?
Se si punta il dito contro chi è sboccato o politicamente scorretto senza mai chiedersi da dove derivi e dunque senza descrivere questo linguaggio, non si rende servizio al lettore. Non credo serva giudicare, men che meno senza (far) conoscere.
Cosa manca alla scena rap italiana per essere matura e diventare una realtà consolidata come è successo in Francia?
A parte una società più cosmopolita, che dunque dia più spazio a chi ha origini altre, un dibattito culturale più complesso e più serietà professionale negli addetti ai lavori della musica. Magari una riforma dell’istruzione, ma forse esagero.
Per molti decani del rap nostrano, l’arrivo dell’hip hop in Italia si deve al film Flashdance. Qual è invece il film italiano che ha contribuito di più alla diffusione del genere in Italia?
Non credo ci sia. Qui hanno contribuito maggiormente programmi tv come Yo!, Mtv Raps o Avanzi, che nei primi anni ’90 invitava spesso rapper, o altri in cui ci vedevi anche gente come Dj Gruff.
Se dovessi consigliare la top five dei film legati al rap da non può perdere?
Senza alcun ordine: Fa’ la cosa giusta, L’odio, Wild Style, Fa’ la cosa sbagliata (The Wackness) e Notorious B.I.G.
Radio Onda d’urto, 13 gennaio 2014 Luca Gricinella: Cinema in rima
Elisa intervista Luca Gricinella, autore di Cinema in rima. La messa in scena del rap, uscito per Agenzia X. Luca è diplomato alla Civica Scuola di Cinema di Milano e si occupa di hip hop da molti anni. Era inevitabile che mettesse insieme in un libro i suoi due interessi.
Qui trovi l’intervista.
Qui trovi l’intervista.
cinema.tesionline.it, 11 dicembre 2013 Cinema e rap. Le infinite storie che legano i film alla cultura hip hop
Chi fa rap, nel bene o nel male, sogna ventiquattro ore su ventiquattro e scrive sceneggiature in ogni momento, senza nemmeno accorgersene. (...) Chi vive l’hip hop ha continue “allucinazioni” nella testa che traduce in parole su un foglio, disegni su un muro e così via.
(Dalla prefazione di Tommaso Zanello, noto ai più come Piotta)Le parole del rapper romano non potrebbero introdurre meglio il libro di Luca Gricinella, perché spiegano, in metafora, quale denominatore comune ci sia alla base dell’esperienza cinematografica e di quella hip hop.
Chi vive, o ha vissuto, con trasporto la cultura hip hop non può aver certo trascurato la fitta serie di corrispondenze, ora evidenti ora appena accennate, con il “pianeta Cinema”. Non fosse altro che per la narrazione per immagini che caratterizza gran parte delle liriche, valore aggiunto che gli altri generi non possono nemmeno avvicinare.
Se poi tale narrazione si materializza con la produzione frenetica di videoclip (teaser e trailer compresi) tipica degli ultimissimi anni, la compresenza di cinema e rap diventa quasi un’evocazione.
Cinema in rima non dà per scontato niente, bensì snocciola in maniera esaustiva ogni tipo di approccio possibile all’argomento, smontando in partenza le eventuali reazioni del lettore inesperto (e malaccorto), tentato di riunire gli stilemi della cultura hip hop nei soli generi della commedia e del gangster movie, pur giustamente ricordati - a riguardo, si pensi a pellicole esemplari come Paid in Full e How High - Due sballati al college.
E ancora, esiste un rapper che non sia appassionato di cinema? Quanti di loro devono il nome d’arte a un personaggio di un film? Quale genere musicale presta di più i suoi rappresentanti ai set cinematografici?... Domande retoriche, alle quali è giunto il momento di elaborare risposte complete ed elaborate, esplorando le radici di una cultura contagiante e contagiata dal grande schermo.
Il tutto seguendo la linea di sviluppo del rap italiano, da SxM alle derive odierne, ora che il fenomeno è esploso e si misura a pieno titolo con la cultura pop (con i pro e i contro di sorta).
Film come Paid in Full, New Jack City, Colori di guerra (Colors) , Boyz N the hood, Juice, L’odio, pietre miliari, come si dice, vengono analizzati da svariati punti di vista, con un’attenzione particolare alla reazione della critica ai tempi dell’uscita nelle sale, lasciando spazio così a un’importante analisi sociale del fenomeno.
Risuonano i nomi imprescindibili di Spike Lee (e l’annosa polemica con Tarantino), John Singleton, Tupac Shakur, RZA, Manetti Bros, Eminem... Già, ci sarebbe anche Eminem, che con 8 Mile ha portato a casa una statuetta grazie alla celebratissima Lose yourself.
Non si parla solo di film sul rap e sull’hip hop, c’è molto di più.
Davvero difficile riassumere tutto, perché si parla di molte cose in questo libro. Ma ciò che conta è coglierne l’iter, lasciandosi guidare in un immaginario che può affascinare anche i meno esperti, proprio per il suo carattere legato alla fantasticheria e all’immaginazione, che è la via di fuga dell’adolescente che vuole essere un rapper, ma è anche la via di fuga per tutti noi.
In fondo, è questione di attitude, come chiarisce giustamente l’autore in un concetto imprescindibile: “Esiste il rocker, che può anche restare chiuso nel garage o nella cantinetta a strimpellare e bere birra, ed esiste la rockstar, rincorsa da fan e groupie nei backstage dei grandi palchi. Il rapper invece è sempre e comunque il rapper. Il suo modo di esprimersi e vivere questa passione o forma artistica prescinde da fama e successo, è scenico anche al di fuori del palco. La parlata enfatica con gesticolio annesso non prevede l’autocensura in circostanze di vita quotidiana.”
di Marco Rovaris(Dalla prefazione di Tommaso Zanello, noto ai più come Piotta)Le parole del rapper romano non potrebbero introdurre meglio il libro di Luca Gricinella, perché spiegano, in metafora, quale denominatore comune ci sia alla base dell’esperienza cinematografica e di quella hip hop.
Chi vive, o ha vissuto, con trasporto la cultura hip hop non può aver certo trascurato la fitta serie di corrispondenze, ora evidenti ora appena accennate, con il “pianeta Cinema”. Non fosse altro che per la narrazione per immagini che caratterizza gran parte delle liriche, valore aggiunto che gli altri generi non possono nemmeno avvicinare.
Se poi tale narrazione si materializza con la produzione frenetica di videoclip (teaser e trailer compresi) tipica degli ultimissimi anni, la compresenza di cinema e rap diventa quasi un’evocazione.
Cinema in rima non dà per scontato niente, bensì snocciola in maniera esaustiva ogni tipo di approccio possibile all’argomento, smontando in partenza le eventuali reazioni del lettore inesperto (e malaccorto), tentato di riunire gli stilemi della cultura hip hop nei soli generi della commedia e del gangster movie, pur giustamente ricordati - a riguardo, si pensi a pellicole esemplari come Paid in Full e How High - Due sballati al college.
E ancora, esiste un rapper che non sia appassionato di cinema? Quanti di loro devono il nome d’arte a un personaggio di un film? Quale genere musicale presta di più i suoi rappresentanti ai set cinematografici?... Domande retoriche, alle quali è giunto il momento di elaborare risposte complete ed elaborate, esplorando le radici di una cultura contagiante e contagiata dal grande schermo.
Il tutto seguendo la linea di sviluppo del rap italiano, da SxM alle derive odierne, ora che il fenomeno è esploso e si misura a pieno titolo con la cultura pop (con i pro e i contro di sorta).
Film come Paid in Full, New Jack City, Colori di guerra (Colors) , Boyz N the hood, Juice, L’odio, pietre miliari, come si dice, vengono analizzati da svariati punti di vista, con un’attenzione particolare alla reazione della critica ai tempi dell’uscita nelle sale, lasciando spazio così a un’importante analisi sociale del fenomeno.
Risuonano i nomi imprescindibili di Spike Lee (e l’annosa polemica con Tarantino), John Singleton, Tupac Shakur, RZA, Manetti Bros, Eminem... Già, ci sarebbe anche Eminem, che con 8 Mile ha portato a casa una statuetta grazie alla celebratissima Lose yourself.
Non si parla solo di film sul rap e sull’hip hop, c’è molto di più.
Davvero difficile riassumere tutto, perché si parla di molte cose in questo libro. Ma ciò che conta è coglierne l’iter, lasciandosi guidare in un immaginario che può affascinare anche i meno esperti, proprio per il suo carattere legato alla fantasticheria e all’immaginazione, che è la via di fuga dell’adolescente che vuole essere un rapper, ma è anche la via di fuga per tutti noi.
In fondo, è questione di attitude, come chiarisce giustamente l’autore in un concetto imprescindibile: “Esiste il rocker, che può anche restare chiuso nel garage o nella cantinetta a strimpellare e bere birra, ed esiste la rockstar, rincorsa da fan e groupie nei backstage dei grandi palchi. Il rapper invece è sempre e comunque il rapper. Il suo modo di esprimersi e vivere questa passione o forma artistica prescinde da fama e successo, è scenico anche al di fuori del palco. La parlata enfatica con gesticolio annesso non prevede l’autocensura in circostanze di vita quotidiana.”
Vivilcinema, dicembre 2013 Cinema in Rima di Luca Gricinella
C’è Spike Lee e ci sono i Manetti, e in mezzo ci sono i tanti nomi e le storie del cinema in rima. Non solo e non tanto un viaggio nel cinema che ha incontrato, incrociato, raccontato l’hip hop, quanto piuttosto un erudito e divertente racconto rap di quella che è una vera e propria messa in scena del rap, in tutte le sue forme. Nella sua prefazione al libro, Tommaso Zanello (più noto come Er Piotta) scrive che “il rapper sin dall’adolescenza vive in una realtà parallela, a immagine e somiglianza dei suoi sogni. Visioni oniriche sempre poco morigerate, fatte come sono di ville hollywoodiane, donne appariscenti, piscine faraoniche, orologi tempestati di diamanti, macchine di lusso e montagne di denaro frusciante”. Visioni che trasforma prima ancora che in canzoni, nelle immagini dei videoclip di quelle canzoni, in sceneggiature ipotetiche di un film, in un immaginario visivo che è quello del gangster movie e della commedia, o dei due generi insieme, o delle loro irriverenti degenerazioni. Poi ci sono i film di riferimento del mondo hip hop e dei suoi autori, i film nati in ambito hip hop, i film e i documentari che raccontano (molti di essi magnificamente) l’hip hop, e i film pensati, scritti, girati come fossero hip hop, come fossero la messa in scena stessa del rap. Elemento comune tra cinema e rap è la finzione, spiega Gricinella, ma ce ne sono altri: entrambi sono rappresentazione pubblica, proiezione in un’altra vita, immaginazione con cui creare storie e, nel caso dei rapper americani, grazie a cui andarsene dal ghetto. Cinema in rima è il racconto preciso, divertente, autorevole di autori, interpreti, film, sequenze, storie sceneggiate e storie personali dell’hip hop, perché “l’hip hop nasce dal cinema e il cinema dall’hip hop”. E Luca Gricineila, in questo libro, ci racconta come e perché. Un bel repertorio di immagini e fotografie, una bibliografìa essenziale e un’accurata filmografia completano il volume.
Rolling Stone, dicembre 2013 Luca Gricinella. Cinema in rima
Chi si ricordava che una delle prime scene di breakdance metropolitana, sui nostri schermi, si fosse vista nel grossolano Flashdance, anno 1983? Gricinella (già autore, sempre per agenzia x, di Rapropos, sulla scena francese) non elenca titoli, ma avvicina con godibile competenza il rapporto tra narrazione cinematografica e rap, e spiega – senza giudicarla – la naturale triangolazione con la criminalità, e con riferimenti anche alla scena italiana. Parla, storicizzando, di film belli e brutti: ovviamente, degli esodi di Spike Lee – compresa la significativa polemica sui nigga ingaggiata con Tarantino – di b movies, fascinazione per la blaxploitation. E si scopre da dove hanno preso i nomi Africa Baambaata, Grand Master Flash, Gué Pequeno, Sangue misto, Zoro. Come nel rap: c’è stile, e impegno.
di Raffaella GiancristofaroRadio Ciroma, 23 novembre 2013 Intervista: SocaBeat presenta Cinema in rima di Luca Gricinella
La cultura hip hop e le ambientazioni periferiche hanno caratterizzato l’esplosione del cinema afroamericano negli anni novanta. Nelle rime degli mc di mezzo mondo rivivono personaggi come Scarface e i guerrieri della notte. Cinema in rima. La messa in scena del rap descrive la storia di questo incontro analizzando film statunitensi, europei e asiatici. E questo connubio tra arti fornisce un punto di vista che ribalta la cattiva fama di cui gode il rap nell’immaginario collettivo.
Luca Gricinella, autore per Agenzia X del suo nuovo saggio, Cinema in Rima, è una di quelle penne che da anni si occupa di hip hop e del mondo che lo circonda. Dopo il suo ultimo saggio Rapropos. Il rap racconta la Francia, la penna dell’autore, si butta a capofitto in questo nuova avventura, dove la contaminazione di stili ed arti, giocano un ruolo assolutamente fondamentale.
L’intervista curata dai ragazzi di SocaBeat invece, è una vera e propria lezione di circa trenta minuti, che analizza il concept del saggio ed alcune scene fondamentali di film con il rap dentro.
Ps: Il libro, fuori in tutte le librerie alla modica cifra di 13 euro, contiene un’interessante e succosa prefazione di Tommaso Piotta Zanello, che in qualche maniera, cerca di fotografare la scena hip hop ed il cinema Made in Italy.Ascolta il Podcast con l’intervista a Luca Gricinella.
di Francesco a.k.a. ChinaLuca Gricinella, autore per Agenzia X del suo nuovo saggio, Cinema in Rima, è una di quelle penne che da anni si occupa di hip hop e del mondo che lo circonda. Dopo il suo ultimo saggio Rapropos. Il rap racconta la Francia, la penna dell’autore, si butta a capofitto in questo nuova avventura, dove la contaminazione di stili ed arti, giocano un ruolo assolutamente fondamentale.
L’intervista curata dai ragazzi di SocaBeat invece, è una vera e propria lezione di circa trenta minuti, che analizza il concept del saggio ed alcune scene fondamentali di film con il rap dentro.
Ps: Il libro, fuori in tutte le librerie alla modica cifra di 13 euro, contiene un’interessante e succosa prefazione di Tommaso Piotta Zanello, che in qualche maniera, cerca di fotografare la scena hip hop ed il cinema Made in Italy.Ascolta il Podcast con l’intervista a Luca Gricinella.
Radio Città Fujiko, 22 novembre 2013 Il cinema in rima a Blockparty103
In questa puntata intervistiamo Luca Gricinella, giornalista ed esperto di cultura hip hop, che pubblica in questi giorni con il suo secondo libro Il cinema in rima:la messa in scena del rap edito da Agenzia X.
Dopo il precedente Rapropos, dove ci portava nella banlieue parigine, e non solo, alle radici del fenomeno hip hop francese, questa volta la sua indagine si concentra sulle corrispondenze e le analogie tra la settima arte e la cultura hip hop.
Ne viene fuori un analisi appassionata del fenomeno , due mondi apparentemente autonomi che si sono incontrati e contaminatati piu volte (e a vari livelli) fondendosi e scambiandosi ispirazioni, personaggi, caratteri, dinamiche criminali, nomi fantasiosi ecc.. servendosi l’uno dell’altro per accrescere il proprio immaginario di riferimento e la propria potenza evocativa.
Ci sono tutti i film che hanno rappresentato alla perfezione questo connubio: da Ghost Dog a L’odio passando ovviamente per la filmografia di Spike Lee, fino ad arrivare alle produzioni italiane con Zora la vampira e Fame chimica, ma l’elenco dei film analizzati è davvero ricchissimo.Ascolta il Podcast con l’intervista a Luca Gricinella.
di Michele NeriDopo il precedente Rapropos, dove ci portava nella banlieue parigine, e non solo, alle radici del fenomeno hip hop francese, questa volta la sua indagine si concentra sulle corrispondenze e le analogie tra la settima arte e la cultura hip hop.
Ne viene fuori un analisi appassionata del fenomeno , due mondi apparentemente autonomi che si sono incontrati e contaminatati piu volte (e a vari livelli) fondendosi e scambiandosi ispirazioni, personaggi, caratteri, dinamiche criminali, nomi fantasiosi ecc.. servendosi l’uno dell’altro per accrescere il proprio immaginario di riferimento e la propria potenza evocativa.
Ci sono tutti i film che hanno rappresentato alla perfezione questo connubio: da Ghost Dog a L’odio passando ovviamente per la filmografia di Spike Lee, fino ad arrivare alle produzioni italiane con Zora la vampira e Fame chimica, ma l’elenco dei film analizzati è davvero ricchissimo.Ascolta il Podcast con l’intervista a Luca Gricinella.
www.myhiphop.it, 15 novembre 2013 Una cultura che buca lo schermo: Luca Gricinella ci racconta il Cinema in rima. La messa in scena del rap
Per Quentin Tarantino “non esiste un cinema alto e uno basso; ci sono solo buoni e cattivi film, dipende dalle reazione suscitate dallo spettatore”. Per questo non si deve essere scomposto più di tanto quando RZA, già attore con registi del calibro di Jim Jarmush e Ridley Scott, volò a Pechino durante la realizzazione di Kill Bill, sia per realizzarne la colonna sonora, sia per carpire i segreti di un maestro della regia, messi in pratica in The man with the iron fists, diretto appunto dal rapper di punta del Wu Tang Clan. Uno degli ultimi esempi della commistione tra due linguaggi diversi che si annusano da anni, confrontandosi, conoscendosi e unendosi per raccontarsi a vicenda. Il doppio filo che lega il cinema al mondo del rap e dell’hip hop più in generale, è stato ricostruito dalla penna di Luca Gricinella nel libro Cinema in rima. La messa in scena del rap, pubblicato da Agenzia X, che aveva già dato alle stampe il suo Rapropos, una lucida fotografia della scena francese, saldamente ancorata alle sue radici.
«I produttori musicali hip hop sin dagli inizi campionano il cinema, mentre i rapper citano nelle rime i personaggi dei loro film preferiti. Negli anni, i secondi sono passati anche dietro la macchina da presa», spiega Luca, precisando che: «D’altronde le vite dei rapper sono sceneggiature perfette contese dai produttori di Hollywood, come quella di Notorious B.I.G., da cui è stato realizzato un buon film».In America il rap è entrato nel cinema sia a livello di sceneggiature sia di attori, produttori e registi. Cosa significa?
È accaduto anche nel secondo mercato hip hop al mondo, la Francia. Oltralpe c’è JoeyStarr, voce degli NTM, che per esempio ormai è più noto come attore che come rapper, e i membri de La Rumeur, oltre a scrivere rime taglienti, sono anche sceneggiatori e registi di film. In Italia c’è stato qualche tentativo ma niente di più. A prescindere dalla nazione, la ragione prima del consolidamento di questo rapporto è il legame naturale che sia il cinema sia il rap hanno con la finzione. Nel mio saggio analizzo i rapporti tra Rap (in qualche caso, più in generale, hip hop) e cinema di finzione. L’hip hop nasce in un quartiere disagiato, il Bronx degli anni ‘70, e se c’è una dinamica classica in ogni periferia è quella di evadere dalla realtà vissuta. C’è chi riesce a evadere davvero, magari facendo carriera in uno sport, ma anche chi non ce la fa o non può proprio staccarsi da quegli ambienti e allora evade con le dipendenze (droga, alcol ecc…). Spesso però si evade anche calandosi in un personaggio.
In che senso?
Quegli appartamenti stretti e magari inospitali – proprio quelli che si vedono nei film – ti portano a stare in giro, per strada. Lì, oltre ad arrangiarti per mantenerti, ammazzi il tempo con i tuoi compagni di quartiere e per emergere, per convincerti di non essere come chi ha già il destino segnato, devi atteggiarti. Magari facendo il verso all’eroe di turno che, sul piccolo o, ancora meglio, sul grande schermo, hai visto prendersi la sua rivincita con la società, fare i soldi, conquistare potere ecc… Non importa come. Se quello per il borghese medio è il cattivo, dunque l’antieroe che alla fine del film difficilmente se la cava, per te che non te la passi bene resta un mito, un eroe, che almeno per un po’ se l’è goduta. Allora perché non immaginare di essere lui? Non costa niente e magari su qualcuno puoi pure esercitare una buona dose di fascino. Il cinema conserverà sempre questa dote di arrivare a tutti, di raccontare storie al popolo e suggestionarlo come nessuna altra forma artistica riesce a fare. O almeno non con lo stesso grado di fruibilità.
Per quello che riguarda l’Italia, invece, molti dicono che l’hip hop sia stato introdotto dal film Flashdance. Come al solito siamo un Paese che funziona al contrario?
Beh, a suo modo lo dice anche Gruff nel suo pezzo Dj Gruff hip hop Storia: “flashati per via di Flashdance”. E la sua è una voce quanto mai autorevole…
Sinceramente non la vedo come una cosa negativa. Flashdance è un film con una sceneggiatura sfilacciata, ok, ma non si può ignorare che è stato concepito come film di intrattenimento, dunque si rivolge a tutti. Non a caso è stato campione d’incassi in vari paesi. Credo di aver avuto nove anni quando anch’io sono andato a vederlo al cinema. Se quella banale scena di raccordo con i breaker della Rock Steady Crew in azione, ai più non ha detto nulla ma ha incuriosito una minoranza, direi che va dato atto a chi ha deciso di inserirla che è stato anche coraggioso. All’epoca non c’era internet e le riviste (magari con le foto, ok) o i racconti di chi era stato a NY, non bastavano a far capire cos’era quel fenomeno in ascesa (mi riferisco sempre all’hip hop, chiaramente). Le immagini in movimento che raccontavano storie hanno assolto dunque una funzione informativa importante.
Qual è la situazione nel resto dell’Europa?
Tra i paesi che non abbiamo citato credo che il più importante sia l’Inghilterra, dove si producono anche film come StreetDance, che io nel saggio includo in questo filone che chiamo “urban teen movie”. Lo cito perché si riallaccia bene al discorso su Flashdance. Gli elementi cardine sono danza, storia d’amore e spirito di competizione (che da quando spopolano i talent show ha ancora più presa sul grande pubblico). Anche qui si tratta di puro intrattenimento. Preso atto di ciò, se il ragazzino o la ragazzina di turno in quelle coreografie, in certi brani della colonna sonora (dove figura anche Wiley, per esempio) o ancora nel look ci vede qualcosa che lo incuriosisce e lo porta a fare una ricerca sul web e scoprire altro, è solo positivo. Poi in Inghilterra c’è anche una forte tradizione d’autore che per esempio porta a caratterizzare la protagonista di Fish Tank come un’adolescente di periferia che si rifugia nella cosiddetta “danza hip hop” per riflettere, sfogarsi e rilassarsi. Tutt’altra storia, tutt’altro punto di vista.
E riguardo ad Ali G?
Credo non vada dimenticato perché è un film che ironizza in maniera talmente sbracata sull’ambiente, che, per quanto si prendano sul serio certi adepti di questa cultura, potrebbe quasi essere terapeutico. È demenziale quanto Sballati al college ma scopre dei punti nevralgici per chi sente di appartenere all’hip hop. Per esempio mette in risalto uno degli aspetti da cui parte la mia tesi: il rapper non è solo incazzato o impegnato ma è anche un attore, spesso e volentieri cazzone. O magari è tutto insieme, perché di rapper conscious che poi dal vivo ti mettono in piedi uno show teatrale o che in pubblico hanno movenze e pose non proprio naturali, ce ne sono eccome.
Quest’anno Wild Style compie trent’anni. Che significato ha quel film oggi e cosa è cambiato rispetto alla filmografia odierna?
I film di quella prima ondata, tra cui appunto il capostipite Wild Style, sono molto didascalici riguardo alla messa in scena dell’hip hop. Come se la paura di non venir capiti o di venir travisati, abbia inciso molto sulle scelte di sceneggiatori e registi. Il loro valore storico è innegabile: certi ambienti vengono mostrati con un piglio documentaristico. Insomma, per chi non le ha vissute – ma a quanto pare anche per chi le ha vissute – le atmosfere dell’epoca sono ben restituite. Wild Style per quanto mi riguarda è il più riuscito di quelle prime rappresentazioni. Rispetto a Beat Street, Breakdance, Krush Groove o Rappin’, lo trovo più genuino; inoltre ha un’estetica da film indipendente/sperimentale che lo salva da quella fotografia anni ’80 che sì, dice molto di quel decennio, ma è anche un po’ stucchevole. Il difetto più evidente di questi film comunque è la recitazione. In questo senso Krush Groove vince perché il regista, Michael Schultz, non era e non è proprio un signor nessuno.
A cosa si potrebbe paragonare oggi un lavoro del genere?
Oggi, se vogliamo trovare degli equivalenti, potremmo fare un paragone con i biopic, dunque 8 Mile, Get Rich or Die Tryin’ o Notorious. Equivalenti perché il fulcro del racconto ha a che vedere in continuazione con l’hip hop. Non insomma come tanti altri film che sono stati prodotti in mezzo – più che altro negli anni ’90 – in cui il Rap e più in generale l’hip hop non potevano essere ignorati ma non occupavano il centro della narrazione (su tutte, le pellicole ambientate nelle periferie metropolitane). Il mio libro arriva oggi anche per questo, perché siamo giunti al punto in cui un racconto più o meno fedele della vita di un rapper è una fiction quanto mai credibile. Il Rap e le altre discipline si sono talmente radicate a livello popolare che la loro narrazione è diventata universale. Non è più il racconto di un ambiente ristretto ma si tratta di storie di vita di più ampio respiro in cui il pubblico – non ovunque e non tutto, ma per lo più sì – si orienta, ha gli elementi per riconoscersi.
Cosa è cambiato?
La conoscenza del pubblico che di conseguenza ha fatto aumentare gli investimenti dei produttori in film con storie e ambientazioni simili. Certo, la generazione di Lee, Singleton, Van Peebles (figlio), dei fratelli Hughes ecc… in mezzo ha contribuito ad abbattere diverse barriere in questo senso. Ha fatto capire quanto il punto di vista afroamericano, dunque interno alla comunità più importante per l’hip hop, fosse valido, interessante e redditizio.
Come è nata l’idea di questo libro?
A parte quanto già detto, e aver studiato cinema e seguire il rap da tanti anni, hanno influito anche le polemiche che regolarmente scoppiano su quanto il rap sia “politicamente scorretto”, violento o diseducativo. Orelsan in Francia, dopo un pezzo in cui raccontava la frustrazione di un giovane lasciato da una ragazza e che, sotto i fumi dell’alcool, gliene diceva di tutti i colori, promettendole vari tipi di violenza, è stato fatto a pezzi dall’opinione pubblica. Lui si è appellato al fatto che si trattava di un racconto di finzione in cui descriveva, con il linguaggio diretto del rap, il dolore di un ragazzo senza punti di riferimento e cresciuto in questa società. Aggiungeva che il pubblico più giovane, che conosce bene il rap, di certo sa distinguere tra realtà e finzione, molto meglio delle generazioni precedenti.
Secondo te è un problema di linguaggio?
Andando oltre la questione “giusto o sbagliato” o “pericoloso o innocuo”, si potrebbe ammettere che il problema non è e non può essere il rap. È chiaro però che per capire appieno il linguaggio rap, e dunque accettarlo, bisogna passare anche da questi conflitti. È successo anche con altri generi musicali. In Italia su cantautori e rocker ormai quasi nessuno si pone più certi dubbi. Se uno di questi usa una parola come “puttana” (come ha fatto in più canzoni Lucio Dalla) non parte la crociata. Ti faccio un altro esempio: gli Zen Circus in Vecchi senza esperienza, cantano “Sembra che oramai vada di moda quello che prendevo solo schiaffi a farlo nel ’93, i pantaloni stretti eran da froci e non da fighi [...]”. Nessuno ha messo in dubbio che “froci” sia un termine scelto dal gruppo rock per disprezzare i gay. I più hanno colto che quel termine è messo in bocca a terze persone che ragionano secondo certi canoni.
Perché?
Il linguaggio rock ormai è radicato e dunque per lo più compreso. Al rap qui da noi molti ancora si rifiutano di attribuire licenze artistiche e si limitano a giudicarlo secondo canoni della nostra cultura ignorando che, anche se fatto da un italiano, il rap resta quello nato nel Bronx e lo sconfinamento non può annullarne le caratteristiche espressive. Anche il rock prodotto in Italia ha vari tratti imitativi del rock statunitense, no?
Quali film devono essere visti assolutamente da un estimatore di questa cultura?
Evitando di fare il copia/incolla della filmografia in calce al mio saggio, e restando sui film di finzione, ti dico che in qualche modo tutto parte con I guerrieri della notte e poi esplode con Fa’ la cosa giusta. Dunque questi due li metterei in cima alla lista, anche perché sono proprio dei film ben fatti e hanno un potenziale di coinvolgimento trasversale, non di nicchia. Però in realtà l’elenco sarebbe troppo lungo e in parte abbiamo già citato dei titoli importanti, che di certo gli appassionati conoscono. Se a qualcuno è sfuggito The Wire, consiglierei di recuperarlo perché sembra aprire un nuovo capitolo narrativo sui quartieri disagiati metropolitani. Essendo una serie tv con tanti personaggi e tanti ambienti messi in scena, la descrizione è più articolata rispetto a quella di un film che dura un’ora e mezzo. Già dice molto il fatto che Obama abbia eletto Omar Little suo personaggio preferito, perché si tratta sì di un uomo della strada cresciuto nel disagio ma anche di un criminale che di certo ha un codice etico ma che quando capisce che non gli resta che uccidere, lo fa, e, tanto per rivedere ulteriormente i cliché, è gay…
Al cinema meglio bibita e pop corn (o addirittura fumo libero come Vinz nell’Odio) o religioso silenzio?
Il “religioso silenzio” dovrebbe essere un presupposto scontato quando si va al cinema (ma anche a teatro, a certi concerti). Ma rispettarlo dipende anche da cultura a cultura. In Italia attualmente pare arduo vedere un film in una sala silenziosa. Riguardo ai pop corn, forse si potrebbero fare sale in cui non si possono introdurre alimenti e altre in cui è consentito. Però boh… in Italia il cinema già non se la passa bene, dunque temo potrebbe essere una mossa non del tutto intelligente.
Che ne pensi di The Art of Rap del quale è appena uscita la versione tradotta in italiano?
È un buon documento che spiega bene cos’è e come è inteso il concetto di stile nel rap e dà una visione unitaria della scena rap statunitense – specie quella più matura – che oscura un po’ l’immaginario popolare che vuole i rapper sempre in guerra tra fazioni.
Avrebbe senso un progetto del genere in Italia?
Dipende a chi ci si vuole rivolgere. Temo che qui da noi diamo troppo per scontato che teen-ager e neo ventenni siano del tutto sprovveduti, dunque spesso per questioni di mercato si strizza l’occhio alla parte più ingenua delle nuove generazioni o comunque si tende solo a circuirli. Ecco, in questo caso non credo avrebbe senso. A vedere The Art of Rap al cinema ho visto sia ragazzini (tanti) sia trentenni/ultratrentenni. Dunque un pubblico c’è. Ok, non credo abbia incassato molto, quindi magari converrebbe pensarlo per la tv, magari in due o tre parti e con trasmissione in streaming sul web, per arrivare a più gente.
Una canzone del Colle der Fomento è presente nella colonna sonora del film Jumper. Sei a conoscenza di altre curiosità?
Ci sono gli En Mi Casa che, anche grazie alla presenza di B Real dei Cypress Hill, hanno piazzato Street Code nella colonna sonora di Fast & Furious – Solo parti originali. Se penso all’Italia invece, nel saggio cito La prima volta, un film del 1999 con un punto di vista decisamente cattolico ambientato nelle periferie romane e in cui a un certo punto si vedono (e sentono) Neffa e Deda in azione sul palco del Testaccio Village a Roma. Ti assicuro che se vedi tutto il film, anche visto che loro compaiono verso il finale, fa uno strano effetto.
«I produttori musicali hip hop sin dagli inizi campionano il cinema, mentre i rapper citano nelle rime i personaggi dei loro film preferiti. Negli anni, i secondi sono passati anche dietro la macchina da presa», spiega Luca, precisando che: «D’altronde le vite dei rapper sono sceneggiature perfette contese dai produttori di Hollywood, come quella di Notorious B.I.G., da cui è stato realizzato un buon film».In America il rap è entrato nel cinema sia a livello di sceneggiature sia di attori, produttori e registi. Cosa significa?
È accaduto anche nel secondo mercato hip hop al mondo, la Francia. Oltralpe c’è JoeyStarr, voce degli NTM, che per esempio ormai è più noto come attore che come rapper, e i membri de La Rumeur, oltre a scrivere rime taglienti, sono anche sceneggiatori e registi di film. In Italia c’è stato qualche tentativo ma niente di più. A prescindere dalla nazione, la ragione prima del consolidamento di questo rapporto è il legame naturale che sia il cinema sia il rap hanno con la finzione. Nel mio saggio analizzo i rapporti tra Rap (in qualche caso, più in generale, hip hop) e cinema di finzione. L’hip hop nasce in un quartiere disagiato, il Bronx degli anni ‘70, e se c’è una dinamica classica in ogni periferia è quella di evadere dalla realtà vissuta. C’è chi riesce a evadere davvero, magari facendo carriera in uno sport, ma anche chi non ce la fa o non può proprio staccarsi da quegli ambienti e allora evade con le dipendenze (droga, alcol ecc…). Spesso però si evade anche calandosi in un personaggio.
In che senso?
Quegli appartamenti stretti e magari inospitali – proprio quelli che si vedono nei film – ti portano a stare in giro, per strada. Lì, oltre ad arrangiarti per mantenerti, ammazzi il tempo con i tuoi compagni di quartiere e per emergere, per convincerti di non essere come chi ha già il destino segnato, devi atteggiarti. Magari facendo il verso all’eroe di turno che, sul piccolo o, ancora meglio, sul grande schermo, hai visto prendersi la sua rivincita con la società, fare i soldi, conquistare potere ecc… Non importa come. Se quello per il borghese medio è il cattivo, dunque l’antieroe che alla fine del film difficilmente se la cava, per te che non te la passi bene resta un mito, un eroe, che almeno per un po’ se l’è goduta. Allora perché non immaginare di essere lui? Non costa niente e magari su qualcuno puoi pure esercitare una buona dose di fascino. Il cinema conserverà sempre questa dote di arrivare a tutti, di raccontare storie al popolo e suggestionarlo come nessuna altra forma artistica riesce a fare. O almeno non con lo stesso grado di fruibilità.
Per quello che riguarda l’Italia, invece, molti dicono che l’hip hop sia stato introdotto dal film Flashdance. Come al solito siamo un Paese che funziona al contrario?
Beh, a suo modo lo dice anche Gruff nel suo pezzo Dj Gruff hip hop Storia: “flashati per via di Flashdance”. E la sua è una voce quanto mai autorevole…
Sinceramente non la vedo come una cosa negativa. Flashdance è un film con una sceneggiatura sfilacciata, ok, ma non si può ignorare che è stato concepito come film di intrattenimento, dunque si rivolge a tutti. Non a caso è stato campione d’incassi in vari paesi. Credo di aver avuto nove anni quando anch’io sono andato a vederlo al cinema. Se quella banale scena di raccordo con i breaker della Rock Steady Crew in azione, ai più non ha detto nulla ma ha incuriosito una minoranza, direi che va dato atto a chi ha deciso di inserirla che è stato anche coraggioso. All’epoca non c’era internet e le riviste (magari con le foto, ok) o i racconti di chi era stato a NY, non bastavano a far capire cos’era quel fenomeno in ascesa (mi riferisco sempre all’hip hop, chiaramente). Le immagini in movimento che raccontavano storie hanno assolto dunque una funzione informativa importante.
Qual è la situazione nel resto dell’Europa?
Tra i paesi che non abbiamo citato credo che il più importante sia l’Inghilterra, dove si producono anche film come StreetDance, che io nel saggio includo in questo filone che chiamo “urban teen movie”. Lo cito perché si riallaccia bene al discorso su Flashdance. Gli elementi cardine sono danza, storia d’amore e spirito di competizione (che da quando spopolano i talent show ha ancora più presa sul grande pubblico). Anche qui si tratta di puro intrattenimento. Preso atto di ciò, se il ragazzino o la ragazzina di turno in quelle coreografie, in certi brani della colonna sonora (dove figura anche Wiley, per esempio) o ancora nel look ci vede qualcosa che lo incuriosisce e lo porta a fare una ricerca sul web e scoprire altro, è solo positivo. Poi in Inghilterra c’è anche una forte tradizione d’autore che per esempio porta a caratterizzare la protagonista di Fish Tank come un’adolescente di periferia che si rifugia nella cosiddetta “danza hip hop” per riflettere, sfogarsi e rilassarsi. Tutt’altra storia, tutt’altro punto di vista.
E riguardo ad Ali G?
Credo non vada dimenticato perché è un film che ironizza in maniera talmente sbracata sull’ambiente, che, per quanto si prendano sul serio certi adepti di questa cultura, potrebbe quasi essere terapeutico. È demenziale quanto Sballati al college ma scopre dei punti nevralgici per chi sente di appartenere all’hip hop. Per esempio mette in risalto uno degli aspetti da cui parte la mia tesi: il rapper non è solo incazzato o impegnato ma è anche un attore, spesso e volentieri cazzone. O magari è tutto insieme, perché di rapper conscious che poi dal vivo ti mettono in piedi uno show teatrale o che in pubblico hanno movenze e pose non proprio naturali, ce ne sono eccome.
Quest’anno Wild Style compie trent’anni. Che significato ha quel film oggi e cosa è cambiato rispetto alla filmografia odierna?
I film di quella prima ondata, tra cui appunto il capostipite Wild Style, sono molto didascalici riguardo alla messa in scena dell’hip hop. Come se la paura di non venir capiti o di venir travisati, abbia inciso molto sulle scelte di sceneggiatori e registi. Il loro valore storico è innegabile: certi ambienti vengono mostrati con un piglio documentaristico. Insomma, per chi non le ha vissute – ma a quanto pare anche per chi le ha vissute – le atmosfere dell’epoca sono ben restituite. Wild Style per quanto mi riguarda è il più riuscito di quelle prime rappresentazioni. Rispetto a Beat Street, Breakdance, Krush Groove o Rappin’, lo trovo più genuino; inoltre ha un’estetica da film indipendente/sperimentale che lo salva da quella fotografia anni ’80 che sì, dice molto di quel decennio, ma è anche un po’ stucchevole. Il difetto più evidente di questi film comunque è la recitazione. In questo senso Krush Groove vince perché il regista, Michael Schultz, non era e non è proprio un signor nessuno.
A cosa si potrebbe paragonare oggi un lavoro del genere?
Oggi, se vogliamo trovare degli equivalenti, potremmo fare un paragone con i biopic, dunque 8 Mile, Get Rich or Die Tryin’ o Notorious. Equivalenti perché il fulcro del racconto ha a che vedere in continuazione con l’hip hop. Non insomma come tanti altri film che sono stati prodotti in mezzo – più che altro negli anni ’90 – in cui il Rap e più in generale l’hip hop non potevano essere ignorati ma non occupavano il centro della narrazione (su tutte, le pellicole ambientate nelle periferie metropolitane). Il mio libro arriva oggi anche per questo, perché siamo giunti al punto in cui un racconto più o meno fedele della vita di un rapper è una fiction quanto mai credibile. Il Rap e le altre discipline si sono talmente radicate a livello popolare che la loro narrazione è diventata universale. Non è più il racconto di un ambiente ristretto ma si tratta di storie di vita di più ampio respiro in cui il pubblico – non ovunque e non tutto, ma per lo più sì – si orienta, ha gli elementi per riconoscersi.
Cosa è cambiato?
La conoscenza del pubblico che di conseguenza ha fatto aumentare gli investimenti dei produttori in film con storie e ambientazioni simili. Certo, la generazione di Lee, Singleton, Van Peebles (figlio), dei fratelli Hughes ecc… in mezzo ha contribuito ad abbattere diverse barriere in questo senso. Ha fatto capire quanto il punto di vista afroamericano, dunque interno alla comunità più importante per l’hip hop, fosse valido, interessante e redditizio.
Come è nata l’idea di questo libro?
A parte quanto già detto, e aver studiato cinema e seguire il rap da tanti anni, hanno influito anche le polemiche che regolarmente scoppiano su quanto il rap sia “politicamente scorretto”, violento o diseducativo. Orelsan in Francia, dopo un pezzo in cui raccontava la frustrazione di un giovane lasciato da una ragazza e che, sotto i fumi dell’alcool, gliene diceva di tutti i colori, promettendole vari tipi di violenza, è stato fatto a pezzi dall’opinione pubblica. Lui si è appellato al fatto che si trattava di un racconto di finzione in cui descriveva, con il linguaggio diretto del rap, il dolore di un ragazzo senza punti di riferimento e cresciuto in questa società. Aggiungeva che il pubblico più giovane, che conosce bene il rap, di certo sa distinguere tra realtà e finzione, molto meglio delle generazioni precedenti.
Secondo te è un problema di linguaggio?
Andando oltre la questione “giusto o sbagliato” o “pericoloso o innocuo”, si potrebbe ammettere che il problema non è e non può essere il rap. È chiaro però che per capire appieno il linguaggio rap, e dunque accettarlo, bisogna passare anche da questi conflitti. È successo anche con altri generi musicali. In Italia su cantautori e rocker ormai quasi nessuno si pone più certi dubbi. Se uno di questi usa una parola come “puttana” (come ha fatto in più canzoni Lucio Dalla) non parte la crociata. Ti faccio un altro esempio: gli Zen Circus in Vecchi senza esperienza, cantano “Sembra che oramai vada di moda quello che prendevo solo schiaffi a farlo nel ’93, i pantaloni stretti eran da froci e non da fighi [...]”. Nessuno ha messo in dubbio che “froci” sia un termine scelto dal gruppo rock per disprezzare i gay. I più hanno colto che quel termine è messo in bocca a terze persone che ragionano secondo certi canoni.
Perché?
Il linguaggio rock ormai è radicato e dunque per lo più compreso. Al rap qui da noi molti ancora si rifiutano di attribuire licenze artistiche e si limitano a giudicarlo secondo canoni della nostra cultura ignorando che, anche se fatto da un italiano, il rap resta quello nato nel Bronx e lo sconfinamento non può annullarne le caratteristiche espressive. Anche il rock prodotto in Italia ha vari tratti imitativi del rock statunitense, no?
Quali film devono essere visti assolutamente da un estimatore di questa cultura?
Evitando di fare il copia/incolla della filmografia in calce al mio saggio, e restando sui film di finzione, ti dico che in qualche modo tutto parte con I guerrieri della notte e poi esplode con Fa’ la cosa giusta. Dunque questi due li metterei in cima alla lista, anche perché sono proprio dei film ben fatti e hanno un potenziale di coinvolgimento trasversale, non di nicchia. Però in realtà l’elenco sarebbe troppo lungo e in parte abbiamo già citato dei titoli importanti, che di certo gli appassionati conoscono. Se a qualcuno è sfuggito The Wire, consiglierei di recuperarlo perché sembra aprire un nuovo capitolo narrativo sui quartieri disagiati metropolitani. Essendo una serie tv con tanti personaggi e tanti ambienti messi in scena, la descrizione è più articolata rispetto a quella di un film che dura un’ora e mezzo. Già dice molto il fatto che Obama abbia eletto Omar Little suo personaggio preferito, perché si tratta sì di un uomo della strada cresciuto nel disagio ma anche di un criminale che di certo ha un codice etico ma che quando capisce che non gli resta che uccidere, lo fa, e, tanto per rivedere ulteriormente i cliché, è gay…
Al cinema meglio bibita e pop corn (o addirittura fumo libero come Vinz nell’Odio) o religioso silenzio?
Il “religioso silenzio” dovrebbe essere un presupposto scontato quando si va al cinema (ma anche a teatro, a certi concerti). Ma rispettarlo dipende anche da cultura a cultura. In Italia attualmente pare arduo vedere un film in una sala silenziosa. Riguardo ai pop corn, forse si potrebbero fare sale in cui non si possono introdurre alimenti e altre in cui è consentito. Però boh… in Italia il cinema già non se la passa bene, dunque temo potrebbe essere una mossa non del tutto intelligente.
Che ne pensi di The Art of Rap del quale è appena uscita la versione tradotta in italiano?
È un buon documento che spiega bene cos’è e come è inteso il concetto di stile nel rap e dà una visione unitaria della scena rap statunitense – specie quella più matura – che oscura un po’ l’immaginario popolare che vuole i rapper sempre in guerra tra fazioni.
Avrebbe senso un progetto del genere in Italia?
Dipende a chi ci si vuole rivolgere. Temo che qui da noi diamo troppo per scontato che teen-ager e neo ventenni siano del tutto sprovveduti, dunque spesso per questioni di mercato si strizza l’occhio alla parte più ingenua delle nuove generazioni o comunque si tende solo a circuirli. Ecco, in questo caso non credo avrebbe senso. A vedere The Art of Rap al cinema ho visto sia ragazzini (tanti) sia trentenni/ultratrentenni. Dunque un pubblico c’è. Ok, non credo abbia incassato molto, quindi magari converrebbe pensarlo per la tv, magari in due o tre parti e con trasmissione in streaming sul web, per arrivare a più gente.
Una canzone del Colle der Fomento è presente nella colonna sonora del film Jumper. Sei a conoscenza di altre curiosità?
Ci sono gli En Mi Casa che, anche grazie alla presenza di B Real dei Cypress Hill, hanno piazzato Street Code nella colonna sonora di Fast & Furious – Solo parti originali. Se penso all’Italia invece, nel saggio cito La prima volta, un film del 1999 con un punto di vista decisamente cattolico ambientato nelle periferie romane e in cui a un certo punto si vedono (e sentono) Neffa e Deda in azione sul palco del Testaccio Village a Roma. Ti assicuro che se vedi tutto il film, anche visto che loro compaiono verso il finale, fa uno strano effetto.
wired, 6 novembre 2013 I 10 migliori ‘film rap’ della storia del cinema
Da Kassovitz a Spike Lee, passando per Jarmusch e i fratelli Manetti, ecco i dieci momenti che hanno segnato il rapporto tra cinema e cultura hip-hop.
“Per chi non viaggiava verso gli Stati Uniti, c’era prima di tutto il cinema. I racconti e le foto potevano aiutare ma il cinema da sempre permette di viaggiare restando seduti in poltrona: come altro si poteva scoprire, a costi così bassi, una realtà tanto lontana?” è questo uno dei molti modi attraverso i quali Luca Gricinella nel suo libro Cinema in rima. La messa in scena del rap (edito da Agenzia X a partire dal 6 novembre) introduce il lettore al profondo legame che tiene uniti rap e cinema, cultura hip hop e film: “ la prima si ciba del secondo in maniera assidua e da sempre. Rapper che prendono il nome dai film, altri che infilano mille citazioni nei loro testi fino ai dj producer che campionano parti di film” ci spiega riassumendo in poche parole il discorso che amplia nel suo saggio.
A lui abbiamo lasciato la scelta delle dieci scene di rap migliori mai viste al cinema che vi proponiamo condite da motivazioni e riflessioni estrapolate dal libro o dalla viva voce di Luca.
1. L’odio
“Forse il film con gli elementi hip hop meglio contestualizzati e non messi a caso è L’odio. Ha una delle scene più belle in assoluto in cui il cinema sfrutta l’hip hop, quella in cui Cut killer sta alla finestra mentre Kassovitz vola con la macchina da presa sulla citè e sembra che l’hip hop sia la fuga dalla realtà che è una delle funzioni che ha avuto e avrà sempre”.
2. Fa’ la cosa giusta
“Il cinema ad un certo punto ha dovuto fare i conti con la cultura hip hop e quindi con il rap, in questo di certo la generazione di cineasti come Spike Lee, che poi sono esplosi nei ‘90, ha contribuito a portare a galla la presenza di elementi hip hop nelle metropoli in una maniera mai vista prima. Da lì in poi qualsiasi tipo di regista che volesse ambientare la sua storia in una grande città doveva fare i conti con quell’estetica pur non conoscendola. Qui non c’è del rap fatto live ma lo stesso è una sequenza importantissima. Radio Raheem con la sua radio Ghetto Blaster e i Public Enemy con un pezzo commissionato apposta per il film dal regista che meglio ha raccontato l’hip hop al cinema”
3. Slam
“Il rap dal cibarsi di cinema ha assunto e amplificato in sè un carattere di finzione che fa parte delle radici della cultura afroamericana”.
4. 8 mile
“Esiste il rocker, che può anche restare chiuso nel garage o nella cantinetta a strimpellare e bere birra ed esiste la rockstar, rincorsa da fan e groupie nei backstage dei grandi palchi. Il rapper invece è sempre e comunque il rapper”.
5. House party
“C’è un bellissimo freestyle in questo film perchè mostra come se ne dicano di tutti i tipi, un po’ anche di personali, e poi alla fine si abbracciano”.
6. Hustle & Flow
“Nell’estate del 2012, in un’intervista al quotidiano Corse-Matin, Joeystarr, dai primi anni novanta fisso nella top 5 dei rapper più popolari di Francia, riflettendo sul parallelo tra cinema e hip hop disse: ‘Le similitudini sono parecchie. Che si tratti di musica o cinema, allo stesso modo siamo lì per raccontare delle storie’”.
7. Zora la vampira
“Il film dei fratelli Manetti aveva anche elementi contigui alla cultura hip hop al suo interno, come i papponi da blaxploitation o suggestioni da Blacula, mostrando degli intenti più consapevoli su quello che si andava a raccontare, per questo appare come uno dei tentativi italiani più genuini”.
8. Il segreto del giaguaro
“Lo stesso Piotta oggi lo definisce come un’occasione persa per fare qualcosa di più grande e completo, tuttavia lo stesso rispetto ai film italiani sul tema dei medesimi anni Il segreto del giaguaro è uno dei pochi a non rivolgersi solo ai fan dell’autore ma a cercare di mettere in scena molte diverse dimensioni della cultura hip hop”.
9. Ghost Dog
“La scena di rap più divertente di sempre in un film che ribalta il conflitto culturale e razziale di Fa’ la cosa giusta: non è più la comunità afroamericana a scagliarsi contro un italoamericano, ma esattamente il contrario”.
10. Krush groove
“Mi sembra che l’hip hop si sia cibato di cinema molto più di altre arti e perchè il cinema in un certo senso ha contribuito a diffondere l’hip hop quando non c’era internet”.
di Gabriele Niola“Per chi non viaggiava verso gli Stati Uniti, c’era prima di tutto il cinema. I racconti e le foto potevano aiutare ma il cinema da sempre permette di viaggiare restando seduti in poltrona: come altro si poteva scoprire, a costi così bassi, una realtà tanto lontana?” è questo uno dei molti modi attraverso i quali Luca Gricinella nel suo libro Cinema in rima. La messa in scena del rap (edito da Agenzia X a partire dal 6 novembre) introduce il lettore al profondo legame che tiene uniti rap e cinema, cultura hip hop e film: “ la prima si ciba del secondo in maniera assidua e da sempre. Rapper che prendono il nome dai film, altri che infilano mille citazioni nei loro testi fino ai dj producer che campionano parti di film” ci spiega riassumendo in poche parole il discorso che amplia nel suo saggio.
A lui abbiamo lasciato la scelta delle dieci scene di rap migliori mai viste al cinema che vi proponiamo condite da motivazioni e riflessioni estrapolate dal libro o dalla viva voce di Luca.
1. L’odio
“Forse il film con gli elementi hip hop meglio contestualizzati e non messi a caso è L’odio. Ha una delle scene più belle in assoluto in cui il cinema sfrutta l’hip hop, quella in cui Cut killer sta alla finestra mentre Kassovitz vola con la macchina da presa sulla citè e sembra che l’hip hop sia la fuga dalla realtà che è una delle funzioni che ha avuto e avrà sempre”.
2. Fa’ la cosa giusta
“Il cinema ad un certo punto ha dovuto fare i conti con la cultura hip hop e quindi con il rap, in questo di certo la generazione di cineasti come Spike Lee, che poi sono esplosi nei ‘90, ha contribuito a portare a galla la presenza di elementi hip hop nelle metropoli in una maniera mai vista prima. Da lì in poi qualsiasi tipo di regista che volesse ambientare la sua storia in una grande città doveva fare i conti con quell’estetica pur non conoscendola. Qui non c’è del rap fatto live ma lo stesso è una sequenza importantissima. Radio Raheem con la sua radio Ghetto Blaster e i Public Enemy con un pezzo commissionato apposta per il film dal regista che meglio ha raccontato l’hip hop al cinema”
3. Slam
“Il rap dal cibarsi di cinema ha assunto e amplificato in sè un carattere di finzione che fa parte delle radici della cultura afroamericana”.
4. 8 mile
“Esiste il rocker, che può anche restare chiuso nel garage o nella cantinetta a strimpellare e bere birra ed esiste la rockstar, rincorsa da fan e groupie nei backstage dei grandi palchi. Il rapper invece è sempre e comunque il rapper”.
5. House party
“C’è un bellissimo freestyle in questo film perchè mostra come se ne dicano di tutti i tipi, un po’ anche di personali, e poi alla fine si abbracciano”.
6. Hustle & Flow
“Nell’estate del 2012, in un’intervista al quotidiano Corse-Matin, Joeystarr, dai primi anni novanta fisso nella top 5 dei rapper più popolari di Francia, riflettendo sul parallelo tra cinema e hip hop disse: ‘Le similitudini sono parecchie. Che si tratti di musica o cinema, allo stesso modo siamo lì per raccontare delle storie’”.
7. Zora la vampira
“Il film dei fratelli Manetti aveva anche elementi contigui alla cultura hip hop al suo interno, come i papponi da blaxploitation o suggestioni da Blacula, mostrando degli intenti più consapevoli su quello che si andava a raccontare, per questo appare come uno dei tentativi italiani più genuini”.
8. Il segreto del giaguaro
“Lo stesso Piotta oggi lo definisce come un’occasione persa per fare qualcosa di più grande e completo, tuttavia lo stesso rispetto ai film italiani sul tema dei medesimi anni Il segreto del giaguaro è uno dei pochi a non rivolgersi solo ai fan dell’autore ma a cercare di mettere in scena molte diverse dimensioni della cultura hip hop”.
9. Ghost Dog
“La scena di rap più divertente di sempre in un film che ribalta il conflitto culturale e razziale di Fa’ la cosa giusta: non è più la comunità afroamericana a scagliarsi contro un italoamericano, ma esattamente il contrario”.
10. Krush groove
“Mi sembra che l’hip hop si sia cibato di cinema molto più di altre arti e perchè il cinema in un certo senso ha contribuito a diffondere l’hip hop quando non c’era internet”.
XL, novembre 2013 Cinema in rima
Voto: 7.4
Da Fa’ la cosa giusta di Spike Lee a L’odio di Mathieu Kassovitz c’è una miriade di pellicole che hanno preso in prestito la cultura hip hop in tutte le sue diramazioni per decifrare la realtà sociale. Non trascurando i fermenti vivi della cinematografia italiana sul tema, l’autore stabilisc un’inedita quanto intrigante relazione tra cinema e rap.
Da Fa’ la cosa giusta di Spike Lee a L’odio di Mathieu Kassovitz c’è una miriade di pellicole che hanno preso in prestito la cultura hip hop in tutte le sue diramazioni per decifrare la realtà sociale. Non trascurando i fermenti vivi della cinematografia italiana sul tema, l’autore stabilisc un’inedita quanto intrigante relazione tra cinema e rap.
www.sherwood.it, 4 novembre 2013 Dalla strada alla pellicola, la storia del rap dalla macchina da presa
Capita almeno, una volta nella vita, di sentir parlare di Spike Lee o dei suoi film, oppure, di incappare a tarda notte in una replica di alcuni film cult come I guerrieri della notte o L’odio. Più recentemente, magari, spinti dal torpore post pranzo domenicale, accendendo la tv, ci siamo invece ritrovati a guardare l’ennesimo sequel di Step Up o un riadattamento di Flashdance. Meno spesso però ci siamo resi conto che tutto l’insieme, dalla consciousness della produzione di Spike Lee fino ad arrivare all’ultimo freeze glitterato e ripreso, possa avere alle spalle un discorso comune. Ad indicarci una possibile traccia interviene Luca Gricinella, che ad un anno dalla pubblicazione di Rapropos, esce in questi giorni nelle librerie con Cinema in rima, la messa in scena del rap, sempre per i tipi di Agenzia X.
Il libro, fin dalle prime pagine, evita di trasformarsi in un bignami della cultura hip hop su video; ma, al contrario, cerca di sviluppare un solo e preciso discorso: registrare quelle zone d’incontro e scontro dove la cultura black, di cui l’hip hop è la rappresentazione più immediata e diretta, si è emancipata attraverso il connubio delle arti (in questo caso, musica e cinema). Le antesignane riprese di un Charlie Ahearn o di un Stan Lathan non partono da zero, ma sono l’effettivo volere di registrare e diffondere l’esplosione di un fenomeno culturale e sociale nuovo, e al tempo stesso sempre presente, come quello dell’hip hop di inizi anni Ottanta. Il cinema, grazie alla sua versatilità, diventa il collettore ideale per tutto ciò che attraversa e ruota intorno alla cultura black. Ecco quindi intrecciarsi le storie di personaggi come Tony Montana a quelle dei monaci shaolin, oppure quelle delle gang dei boroughs di New York con quelle dei giovani delle banlieu parigine. Il tutto mantenendo sempre quell’attitudine diretta e spesso problematica che ha caratterizzato l’hip hop, dalla sua nascita fino ai giorni nostri.
Luca Gricinella, ancora una volta, firma un lavoro preciso e accurato, provando ad aggiungere uno strumento in più per leggere (e si spera vivere) una realtà che spesso la celluloide rende se non distante, abbastanza costruita. La speranza che si fa avanti, leggendo questo libro, è quella di non smettere mai, con ogni mezzo necessario, a indagare con curiosità questo movimento, lasciando da parte i rumors troppo spesso al centro dell’attenzione.di Luigi Emilio Pischedda
Il libro, fin dalle prime pagine, evita di trasformarsi in un bignami della cultura hip hop su video; ma, al contrario, cerca di sviluppare un solo e preciso discorso: registrare quelle zone d’incontro e scontro dove la cultura black, di cui l’hip hop è la rappresentazione più immediata e diretta, si è emancipata attraverso il connubio delle arti (in questo caso, musica e cinema). Le antesignane riprese di un Charlie Ahearn o di un Stan Lathan non partono da zero, ma sono l’effettivo volere di registrare e diffondere l’esplosione di un fenomeno culturale e sociale nuovo, e al tempo stesso sempre presente, come quello dell’hip hop di inizi anni Ottanta. Il cinema, grazie alla sua versatilità, diventa il collettore ideale per tutto ciò che attraversa e ruota intorno alla cultura black. Ecco quindi intrecciarsi le storie di personaggi come Tony Montana a quelle dei monaci shaolin, oppure quelle delle gang dei boroughs di New York con quelle dei giovani delle banlieu parigine. Il tutto mantenendo sempre quell’attitudine diretta e spesso problematica che ha caratterizzato l’hip hop, dalla sua nascita fino ai giorni nostri.
Luca Gricinella, ancora una volta, firma un lavoro preciso e accurato, provando ad aggiungere uno strumento in più per leggere (e si spera vivere) una realtà che spesso la celluloide rende se non distante, abbastanza costruita. La speranza che si fa avanti, leggendo questo libro, è quella di non smettere mai, con ogni mezzo necessario, a indagare con curiosità questo movimento, lasciando da parte i rumors troppo spesso al centro dell’attenzione.di Luigi Emilio Pischedda
Rumore, novembre 2013 Il libro del mese: Cinema in rima
“Che si tratti di musica o cinema, allo stesso modo siamo lì per raccontare storie.”È un rapporto simbiotico a unire cinema e hip hop, questa la tesi. Fin dai ruoli: il rapper è sceneggiatore delle proprie storie, nonché attore permanente. Così l’indagine non può limitarsi ai film di genere, peraltro numerosi e in certi casi discussi, né alle comparse, più o meno frequenti, di MC e produttori sullo schermo o nelle colonne sonore: C’è dell’altro, eccome. Non solo negli Stati Uniti. Ed è un’ottima scelta quella di affidare all’introduzione di Piotta il ruolo di scivolo che porta dentro l’analisi mettendo subito a fuoco alcune caratteristiche salienti della psicologia di chi il rap lo fa in prima persona e si confronta con il cinema tutta la vita. Dall’attore citato per dare forza a una metafora, al momento in cui si affronta l’idea di passare dai 3’ di canzoni ai 90’ del film. L’equilibrio tra stile e contenuto è un punto di partenza anche per il grande schermo, dove rimbalza una questione che poco più di 20 anni fa fece vibrare la scena italiana. E che ancora oggi scalda la diatriba tra Spike Lee e Quentin Tarantino. Il percorso non può prescindere da snodi cruciali: Lola Darling, L’odio, New Jack City e il sottobosco gangster, Fa’ la cosa giusta e l’era del rap politico. Acute osservazioni punteggiano il resoconto: i b-boy italiani adorano Romanzo criminale, la cui colonna sonora è però priva di hip hop, e la nostra critica non perdona ai filma gangster rap cose che per altri filoni giustifica socialmente. Innarrivabile Ghost Dog , vale la pena di riflettere su Zora la vampira, con annessi backstage non male; uno degli ambiti in cui emerge nella narrazione Dj Gruff. Un capitolo è doverosamente dedicato alla competizione, dai pionieri di House Party a 8 Miles e Slam; un altro, quasi catartico, allo spostamento sul grande schermo del dibattito sull’hip hop. Con la Francia, a lungo vissuta e studiata dall’autore, efficace terzo polo nel confronto tra Usa e Italia. Brasile a parte, latita invece il sud del mondo. All’altezza, e non è poco, il ritmo della scrittura.
di Paolo Ferrarihotmc.rockit.it, 30 ottobre 2013 Cinema in rima. Intervista a Luca Gricinella
Luca Gricinella – giornalista e scrittore – era già stato ospitato su HotMC in occasione dell’uscita del suo libro precedente, Rapropos. Sempre per i tipi di Agenzia X, il prossimo 6 novembre uscirà in libreria Cinema in rima, opera che si prefigge di illustrare la reciproca contaminazione tra hip hop e celluloide. Dato l’argomento, sarebbe stato peccaminoso lasciarsi sfuggire un’intervista, ed ecco quindi il risultato di una chiaccherata piuttosto lunga con Luca, che ci aiuterà a trovare il fil rouge tra Melvin van Peebles e Jim Jarmusch, tra Dennis Hopper e Cam’Ron e tra Gabriele Salvatores e gli Articolo 31. Però non mi sembra il caso di spoilerare troppo; prima di lasciar spazio all’intervista, vi segnalo che la presentazione ufficiale del libro si terrà all’Ostello Bello il 24 di novembre. Nel frattempo, potete seguire Luca anche sul suo blog BlaLuca. Buona lettura.
Parto con una domanda tanto banale quanto necessaria: cosa ti ha spinto a scrivere un libro che si cimenta nell’impresa – non facile – di ricostruire i gradi di separazione tra hip hop e cinema?
Innanzitutto è una questione di interessi personali. Da un lato, infatti, seguo e ascolto rap più o meno dall’89/90, e dall’altro ho studiato alla Civica scuola di cinema; perciò mi è venuto spontaneo unire le due aree in cui ritengo di avere delle competenze. In secondo luogo, negli anni mi sono accorto di come nell’hip hop sia diventata quasi una consuetudine passare dall’ambito musicale a quello cinematografico: non mi riferisco solo agli Stati Uniti ma anche alle scene europee, specie le più evolute, prima fra esse la Francia, dove Joey Starr è ormai quasi più famoso come attore che come rapper. E non solo lui: penso ad Akhenaton o persino ai La Rumeur, che nonostante siano piuttosto underground sono comunque stati chiamati da Canal+ per scrivere e dirigere un lungometraggio che racconta la storia di una rapper (De l’encre, 2011). Individuata questa tendenza, per scrivere il libro ho intensificato le ricerche, trovando diversi spunti interessanti sulla materia e alcuni dei quali ho riproposto nel mio libro. Ce n’è uno in particolare che trovo rivelatore: citando la scena de L’odio in cui Vincent Cassel fa il verso a Travis Bickle, si spiega giustamente che non si tratta di citazionismo autoriale di Kassovitz, bensì di una rappresentazione di certe abitudini proprie dei giovani delle banlieues – più in generale, di ogni periferia urbana – che spesso e volentieri si nutrono di miti cinematografici e li reinterpretano nella vita di tutti i giorni per tentare una fuga dalla realtà. Anche tenendo presente che l’hip hop nasce proprio nei sobborghi (nell’accezione italiana), è un cerchio che si chiude: il cinema ha influenzato la cultura hip hop, la quale a sua volta lo reinserisce nel suo tipo di narrazione, che poi torna ad essere cinematografica.
Parlando appunto di reciproche influenze, a me sembra però che, tolta una breve parentesi a cavallo degli anni ’80 e ’90, quello che chiamiamo adesso “cinema hip hop” non abbia lasciato un marchio netto e ben definito. In altre parole, dopo pellicole fortemente identitarie come Fa’ la cosa giusta o Boyz ‘n’ the hood, mi sembra che un certo tipo d’identità si sia annacquata. E questo vale doppiamente per paesi con una cultura e tradizione cinematografica molto forti, come appunto la Francia.
In parte ti do ragione, e difatti – a costo di tirarmi la zappa sui piedi – parlare di “cinema hip hop” in senso stretto è sbagliato; è una definizione che possiamo usare per convenzione linguistica, ma nel libro spiego proprio che non si tratta di un filone. Ciò detto, è innegabile la forte influenza esercitata dall’hip hop nell’arco di trent’anni sulla maggioranza delle produzioni che abbiano a che fare con delle realtà urbane, per fare un esempio emblematico. Te ne faccio un altro specifico e differente: Ghost Dog non è un “film hip hop”, eppure i rimandi, le intuizioni e le provocazioni che ci infila Jim Jarmusch mostrano proprio quanto la società (non solo americana) abbia assimilato quel tipo di cultura ed estetica – vedi ad esempio la scena in cui il mafioso italoamericano fa il verso a Flavor Flav. Potrei fare una serie di altri esempi, ma il senso è che il marchio netto lo sta lasciando il rapporto tra rap e cultura popolare, in particolare tra rap e cinema e, andando ancora oltre, tra rap e finzione (o messa in scena, che dir si voglia).
Rispetto alla Blaxploitation, che era un vero filone con una forte componente culturale ed estetica sovversiva rispetto agli standard dell’epoca, ritieni quindi che l’influenza ci sia stata ma abbia agito in maniera più sotterranea?
Sì – più tra le righe. Teniamo conto che diverse pellicole della Blaxploitation sono state girate da registi bianchi, in sostanza culturalmente “esterni” alle realtà descritte nelle pellicole, al contrario di quanto è avvenuto con la generazione di filmmaker afroamericani di fine anni ’80 – a cui va dato atto di aver messo in luce una volta per tutte questo rapporto privilegiato tra arti. E questa differenza è significativa perché questi ultimi, diversamente dai primi, sono cresciuti in un contesto dove la cultura hip hop era di fatto onnipresente, ed era inevitabile che le loro opere la contenessero in maniera più sottile, o, se vogliamo, “integrata”, non solo a commento, e in maniera esteticamente esplicita.
Che, nella pratica, è ciò che scrivi in merito alla differenza che passa tra Colors e le opere di John Singleton o dei fratelli Hughes: si passa cioè da una narrazione esterna, quindi per certi versi anche stereotipata, ad una dall’interno e quindi solo apparentemente meno forte.
Esatto. In Colors la prospettiva cardine è quella di due poliziotti bianchi che si trovano ad agire sullo sfondo di una guerra tra gang nere e latine, mentre in un Menace II Society, per esempio, i protagonisti vivono in prima persona la guerra tra gang, sono degli interni. E questo è un punto di vista che Dennis Hopper, quand’anche avesse voluto restituirlo, non avrebbe comunque potuto rendere in maniera ugualmente realistica e forte.
Cosa che invece anni dopo hanno saputo fare gli sceneggiatori di The Wire, per dirne una.
Sì, una serie tv molto prossima al cinema, che cito infatti nella breve introduzione alla filmografia e le cui ambientazioni dimostrano che un’eredità culturale di quella stagione di filmmaker afroamericani c’è stata, eccome.
Tornando per un attimo alla generazione di registi di cui stavamo parlando – Spike Lee, John Singleton eccetera – è singolare quanto i film dell’epoca rispecchiassero in tempo reale i mutamenti in corso in ambito musicale, dall’afrocentrismo dei Native Tongues al gangsta rap di Ice Cube. Ora: alla luce del ruolo che ha (involontariamente?) giocato la musica e la cultura hip hop nella stesura di certe sceneggiature, e tenendo conto di quanto oggi il rap sia pop in senso lato, pensi che potrà esserci un nuovo ciclo di registi così “identitario”?
Condivido la tua osservazione sui mutamenti musicali. Aggiungerei banalmente che i tempi odierni sono ben differenti da quell’epoca che – di fatto – ha abbattuto dei muri. Del resto, oramai i produttori cinematografici puntano direttamente su film che contengono esplicitamente elementi hip hop. Vedi innanzitutto quel filone contemporaneo che definirei “teen urban movie”, che va da Save the last dance in giù, e in cui il canovaccio prevede immancabilmente l’incontro, se non proprio l’amore, tra una qualche danzatrice classica con una realtà di breaker o meglio – come ormai si è portati a definirli – di “ballerini hip hop”. Sulla cosiddetta danza hip hop a dirla tutta ci sarebbe da fare varie precisazioni perché resta un concetto abbastanza confuso, ma la natura di certe mosse e di certo look è evidente. Poi ci sono le biopic, come quella su Notorious B.I.G. o quella su 50 Cent; sono opere che hanno ovviamente a che vedere con l’hip hop, ma non è più quello il loro tratto distintivo, dato che raccontano prima di tutto una storia umana che in qualche modo trascende e mette in secondo piano la professione dei protagonisti. Per avere un nuovo ciclo di registi così “identitario”, come lo definisci tu, credo debba succedere qualcosa a livello sociale. Magari questa crisi sta facendo in modo che accada, e forse The wire sarà considerato un precursore di questo ipotetico nuovo ciclo, perché già la scelta di ambientarlo in una città complicata come Baltimora la dice lunga.
Quanto invece film ghettusi di serie Z, di cui non parli molto nel libro…
Tipo How high?
No, molto peggio: intendo i hood movies girati con la fotocamera del Nokia, tipo Baller Blockin’, Killa Season o Murda Muzik.
Alcuni – Murda Muzik, per dire – li menziono comunque nella filmografia dei film non citati, ma ho preferito non scriverne esaustivamente per una questione di linea editoriale. Volevo infatti proporre un libro che risultasse accessibile anche e magari soprattutto a chi non mastica hip hop e, di conseguenza, ho scelto dei macrotemi significativi e riconoscibili un po’ da chiunque; quindi era inevitabile fare una cernita di titoli e, tra quelli che rientrano nella definizione di hood movies, ho preferito piuttosto inserire titoli meno di nicchia e meno autocelebrativi e, soprattutto, che aggiungessero valore all’analisi, come Belly, per esempio. Lo stesso discorso di fruibilità vale anche per i film che a loro volta hanno influenzato la musica: mentre cito, che so, Scarface, ho preferito non inserire tutti i film di kung fu che si è guardato RZA, altrimenti sarebbe venuto fuori un libro molto diverso. Pur reputando impossibile fornire una visione completa su questa relazione tra rap e cinema, ci tengo però a precisare che ho evitato di concentrarmi solo su alcune tendenze, che magari reputo più valide, tralasciandone altre che, al di là dei miei gusti personali, sono oggettivamente altrettanto importanti. Vedi appunto i teen urban movies di cui parlavamo prima: non potevo ignorarli. Per cui, riassumendo, ho preferito accennare a una parte di questi sottogeneri in maniera più “generica” ma lasciando comunque degli indizi, cosicché chi lo volesse può comunque approfondire l’argomento. Non mi interessava fare un dizionario. Il primo proposito era quello di descrivere questo intenso rapporto tra due arti indagando sulle ragioni dello stesso.
Infine, dedichi dello spazio anche al “cinema hip hop” del Belpaese, guardando – inevitabilmente – al passato: Zora la vampira, Torino boys, ma anche Sud di Salvatores. Stante la situazione attuale, secondo te potremo mai girare un film che sappia rappresentare in un qualche modo lo stato dell’hip hop in Italia?
Dipende da come lo s’intende. Premetto che, piaccia o non piaccia, oggi il rap italiano rappresenta nel bene e nel male quello che è il Paese, a prescindere da cosa è, potrebbe o “dovrebbe” essere il rap. Anche considerando che il rap, in vari modi che variano da nazione a nazione, è entrato quasi ovunque nell’immaginario popolare, se mai qualcuno vorrà mettere in piedi una produzione simile dovrà senz’altro fare i conti con il grande pubblico e con la sua conoscenza dell’hip hop. Non dico che bisognerà assecondarlo ma neanche peccare di presunzione. Alla fine non è detto che ci si ritrovi in mano con qualcosa come Sud, che pur in buona fede restituiva un’immagine distorta e incompleta del movimento dell’epoca e della cultura di riferimento, e nemmeno con un nuovo Senza filtro, che era oggettivamente scritto e pensato esclusivamente per i fan degli Articolo 31 di allora. Mi viene da dire che sarebbe interessante, e secondo me possibile, girare qualcosa che possa partire dal particolare per toccare temi più universali e di maggior interesse, un po’ come è stato fatto per esempio con Dogtown and Z-Boys, che è un documentario che cito spesso perché ha coinvolto anche gente a cui non frega un cazzo della cultura skate californiana degli anni ’70. Con la finzione magari è un po’ più difficile ma credo che storie italiane dal respiro universale in cui ci sia di mezzo il rap esistano. Per esempio, l’anno scorso, prima di vedere Alì ha gli occhi azzurri, una volta che sono venuto a conoscenza della storia mi aspettavo in qualche modo la presenza dell’hip hop, che invece non c’è… Non che questo incida sul valore del film, sia chiaro. Mi limito a notare che con quell’ambientazione poteva starci.
Qualcuno che lo possa realizzare in Italia, secondo te, c’è?
Beh, sì, certamente. Perché no? Se poi vuoi sapere se può essere un film che parta dall’interno della scena hip hop o in cui questa abbia un ruolo, ho qualche dubbio, soprattutto alla luce dell’approssimazione comunicativa dimostrata in seguito alle polemiche scoppiate nell’ultimo anno sui vari social network. La scena hip hop italiana, come è risaputo, spesso si protegge chiudendosi a riccio. Per carità, talvolta ha anche delle valide ragioni storiche e di attualità per farlo. Però, ecco, spero che la chiusura non serva in realtà a nascondere delle carenze culturali, perché così facendo ci si precluderebbero delle opportunità potenzialmente importanti. Allo stesso modo sta anche ai cineasti aprirsi senza pregiudizi: quelli che negli anni ’90 si sono avvicinati al rap ne condividevano dei tratti culturali la cui rilevanza per lo più è rientrata… se ora i cineasti italiani si sentono lontani dal nostro rap, direi che è il momento di avvicinarsi alla materia e approfondire. Anche in questo caso vanno solo trovati i canali giusti.
di ReiserParto con una domanda tanto banale quanto necessaria: cosa ti ha spinto a scrivere un libro che si cimenta nell’impresa – non facile – di ricostruire i gradi di separazione tra hip hop e cinema?
Innanzitutto è una questione di interessi personali. Da un lato, infatti, seguo e ascolto rap più o meno dall’89/90, e dall’altro ho studiato alla Civica scuola di cinema; perciò mi è venuto spontaneo unire le due aree in cui ritengo di avere delle competenze. In secondo luogo, negli anni mi sono accorto di come nell’hip hop sia diventata quasi una consuetudine passare dall’ambito musicale a quello cinematografico: non mi riferisco solo agli Stati Uniti ma anche alle scene europee, specie le più evolute, prima fra esse la Francia, dove Joey Starr è ormai quasi più famoso come attore che come rapper. E non solo lui: penso ad Akhenaton o persino ai La Rumeur, che nonostante siano piuttosto underground sono comunque stati chiamati da Canal+ per scrivere e dirigere un lungometraggio che racconta la storia di una rapper (De l’encre, 2011). Individuata questa tendenza, per scrivere il libro ho intensificato le ricerche, trovando diversi spunti interessanti sulla materia e alcuni dei quali ho riproposto nel mio libro. Ce n’è uno in particolare che trovo rivelatore: citando la scena de L’odio in cui Vincent Cassel fa il verso a Travis Bickle, si spiega giustamente che non si tratta di citazionismo autoriale di Kassovitz, bensì di una rappresentazione di certe abitudini proprie dei giovani delle banlieues – più in generale, di ogni periferia urbana – che spesso e volentieri si nutrono di miti cinematografici e li reinterpretano nella vita di tutti i giorni per tentare una fuga dalla realtà. Anche tenendo presente che l’hip hop nasce proprio nei sobborghi (nell’accezione italiana), è un cerchio che si chiude: il cinema ha influenzato la cultura hip hop, la quale a sua volta lo reinserisce nel suo tipo di narrazione, che poi torna ad essere cinematografica.
Parlando appunto di reciproche influenze, a me sembra però che, tolta una breve parentesi a cavallo degli anni ’80 e ’90, quello che chiamiamo adesso “cinema hip hop” non abbia lasciato un marchio netto e ben definito. In altre parole, dopo pellicole fortemente identitarie come Fa’ la cosa giusta o Boyz ‘n’ the hood, mi sembra che un certo tipo d’identità si sia annacquata. E questo vale doppiamente per paesi con una cultura e tradizione cinematografica molto forti, come appunto la Francia.
In parte ti do ragione, e difatti – a costo di tirarmi la zappa sui piedi – parlare di “cinema hip hop” in senso stretto è sbagliato; è una definizione che possiamo usare per convenzione linguistica, ma nel libro spiego proprio che non si tratta di un filone. Ciò detto, è innegabile la forte influenza esercitata dall’hip hop nell’arco di trent’anni sulla maggioranza delle produzioni che abbiano a che fare con delle realtà urbane, per fare un esempio emblematico. Te ne faccio un altro specifico e differente: Ghost Dog non è un “film hip hop”, eppure i rimandi, le intuizioni e le provocazioni che ci infila Jim Jarmusch mostrano proprio quanto la società (non solo americana) abbia assimilato quel tipo di cultura ed estetica – vedi ad esempio la scena in cui il mafioso italoamericano fa il verso a Flavor Flav. Potrei fare una serie di altri esempi, ma il senso è che il marchio netto lo sta lasciando il rapporto tra rap e cultura popolare, in particolare tra rap e cinema e, andando ancora oltre, tra rap e finzione (o messa in scena, che dir si voglia).
Rispetto alla Blaxploitation, che era un vero filone con una forte componente culturale ed estetica sovversiva rispetto agli standard dell’epoca, ritieni quindi che l’influenza ci sia stata ma abbia agito in maniera più sotterranea?
Sì – più tra le righe. Teniamo conto che diverse pellicole della Blaxploitation sono state girate da registi bianchi, in sostanza culturalmente “esterni” alle realtà descritte nelle pellicole, al contrario di quanto è avvenuto con la generazione di filmmaker afroamericani di fine anni ’80 – a cui va dato atto di aver messo in luce una volta per tutte questo rapporto privilegiato tra arti. E questa differenza è significativa perché questi ultimi, diversamente dai primi, sono cresciuti in un contesto dove la cultura hip hop era di fatto onnipresente, ed era inevitabile che le loro opere la contenessero in maniera più sottile, o, se vogliamo, “integrata”, non solo a commento, e in maniera esteticamente esplicita.
Che, nella pratica, è ciò che scrivi in merito alla differenza che passa tra Colors e le opere di John Singleton o dei fratelli Hughes: si passa cioè da una narrazione esterna, quindi per certi versi anche stereotipata, ad una dall’interno e quindi solo apparentemente meno forte.
Esatto. In Colors la prospettiva cardine è quella di due poliziotti bianchi che si trovano ad agire sullo sfondo di una guerra tra gang nere e latine, mentre in un Menace II Society, per esempio, i protagonisti vivono in prima persona la guerra tra gang, sono degli interni. E questo è un punto di vista che Dennis Hopper, quand’anche avesse voluto restituirlo, non avrebbe comunque potuto rendere in maniera ugualmente realistica e forte.
Cosa che invece anni dopo hanno saputo fare gli sceneggiatori di The Wire, per dirne una.
Sì, una serie tv molto prossima al cinema, che cito infatti nella breve introduzione alla filmografia e le cui ambientazioni dimostrano che un’eredità culturale di quella stagione di filmmaker afroamericani c’è stata, eccome.
Tornando per un attimo alla generazione di registi di cui stavamo parlando – Spike Lee, John Singleton eccetera – è singolare quanto i film dell’epoca rispecchiassero in tempo reale i mutamenti in corso in ambito musicale, dall’afrocentrismo dei Native Tongues al gangsta rap di Ice Cube. Ora: alla luce del ruolo che ha (involontariamente?) giocato la musica e la cultura hip hop nella stesura di certe sceneggiature, e tenendo conto di quanto oggi il rap sia pop in senso lato, pensi che potrà esserci un nuovo ciclo di registi così “identitario”?
Condivido la tua osservazione sui mutamenti musicali. Aggiungerei banalmente che i tempi odierni sono ben differenti da quell’epoca che – di fatto – ha abbattuto dei muri. Del resto, oramai i produttori cinematografici puntano direttamente su film che contengono esplicitamente elementi hip hop. Vedi innanzitutto quel filone contemporaneo che definirei “teen urban movie”, che va da Save the last dance in giù, e in cui il canovaccio prevede immancabilmente l’incontro, se non proprio l’amore, tra una qualche danzatrice classica con una realtà di breaker o meglio – come ormai si è portati a definirli – di “ballerini hip hop”. Sulla cosiddetta danza hip hop a dirla tutta ci sarebbe da fare varie precisazioni perché resta un concetto abbastanza confuso, ma la natura di certe mosse e di certo look è evidente. Poi ci sono le biopic, come quella su Notorious B.I.G. o quella su 50 Cent; sono opere che hanno ovviamente a che vedere con l’hip hop, ma non è più quello il loro tratto distintivo, dato che raccontano prima di tutto una storia umana che in qualche modo trascende e mette in secondo piano la professione dei protagonisti. Per avere un nuovo ciclo di registi così “identitario”, come lo definisci tu, credo debba succedere qualcosa a livello sociale. Magari questa crisi sta facendo in modo che accada, e forse The wire sarà considerato un precursore di questo ipotetico nuovo ciclo, perché già la scelta di ambientarlo in una città complicata come Baltimora la dice lunga.
Quanto invece film ghettusi di serie Z, di cui non parli molto nel libro…
Tipo How high?
No, molto peggio: intendo i hood movies girati con la fotocamera del Nokia, tipo Baller Blockin’, Killa Season o Murda Muzik.
Alcuni – Murda Muzik, per dire – li menziono comunque nella filmografia dei film non citati, ma ho preferito non scriverne esaustivamente per una questione di linea editoriale. Volevo infatti proporre un libro che risultasse accessibile anche e magari soprattutto a chi non mastica hip hop e, di conseguenza, ho scelto dei macrotemi significativi e riconoscibili un po’ da chiunque; quindi era inevitabile fare una cernita di titoli e, tra quelli che rientrano nella definizione di hood movies, ho preferito piuttosto inserire titoli meno di nicchia e meno autocelebrativi e, soprattutto, che aggiungessero valore all’analisi, come Belly, per esempio. Lo stesso discorso di fruibilità vale anche per i film che a loro volta hanno influenzato la musica: mentre cito, che so, Scarface, ho preferito non inserire tutti i film di kung fu che si è guardato RZA, altrimenti sarebbe venuto fuori un libro molto diverso. Pur reputando impossibile fornire una visione completa su questa relazione tra rap e cinema, ci tengo però a precisare che ho evitato di concentrarmi solo su alcune tendenze, che magari reputo più valide, tralasciandone altre che, al di là dei miei gusti personali, sono oggettivamente altrettanto importanti. Vedi appunto i teen urban movies di cui parlavamo prima: non potevo ignorarli. Per cui, riassumendo, ho preferito accennare a una parte di questi sottogeneri in maniera più “generica” ma lasciando comunque degli indizi, cosicché chi lo volesse può comunque approfondire l’argomento. Non mi interessava fare un dizionario. Il primo proposito era quello di descrivere questo intenso rapporto tra due arti indagando sulle ragioni dello stesso.
Infine, dedichi dello spazio anche al “cinema hip hop” del Belpaese, guardando – inevitabilmente – al passato: Zora la vampira, Torino boys, ma anche Sud di Salvatores. Stante la situazione attuale, secondo te potremo mai girare un film che sappia rappresentare in un qualche modo lo stato dell’hip hop in Italia?
Dipende da come lo s’intende. Premetto che, piaccia o non piaccia, oggi il rap italiano rappresenta nel bene e nel male quello che è il Paese, a prescindere da cosa è, potrebbe o “dovrebbe” essere il rap. Anche considerando che il rap, in vari modi che variano da nazione a nazione, è entrato quasi ovunque nell’immaginario popolare, se mai qualcuno vorrà mettere in piedi una produzione simile dovrà senz’altro fare i conti con il grande pubblico e con la sua conoscenza dell’hip hop. Non dico che bisognerà assecondarlo ma neanche peccare di presunzione. Alla fine non è detto che ci si ritrovi in mano con qualcosa come Sud, che pur in buona fede restituiva un’immagine distorta e incompleta del movimento dell’epoca e della cultura di riferimento, e nemmeno con un nuovo Senza filtro, che era oggettivamente scritto e pensato esclusivamente per i fan degli Articolo 31 di allora. Mi viene da dire che sarebbe interessante, e secondo me possibile, girare qualcosa che possa partire dal particolare per toccare temi più universali e di maggior interesse, un po’ come è stato fatto per esempio con Dogtown and Z-Boys, che è un documentario che cito spesso perché ha coinvolto anche gente a cui non frega un cazzo della cultura skate californiana degli anni ’70. Con la finzione magari è un po’ più difficile ma credo che storie italiane dal respiro universale in cui ci sia di mezzo il rap esistano. Per esempio, l’anno scorso, prima di vedere Alì ha gli occhi azzurri, una volta che sono venuto a conoscenza della storia mi aspettavo in qualche modo la presenza dell’hip hop, che invece non c’è… Non che questo incida sul valore del film, sia chiaro. Mi limito a notare che con quell’ambientazione poteva starci.
Qualcuno che lo possa realizzare in Italia, secondo te, c’è?
Beh, sì, certamente. Perché no? Se poi vuoi sapere se può essere un film che parta dall’interno della scena hip hop o in cui questa abbia un ruolo, ho qualche dubbio, soprattutto alla luce dell’approssimazione comunicativa dimostrata in seguito alle polemiche scoppiate nell’ultimo anno sui vari social network. La scena hip hop italiana, come è risaputo, spesso si protegge chiudendosi a riccio. Per carità, talvolta ha anche delle valide ragioni storiche e di attualità per farlo. Però, ecco, spero che la chiusura non serva in realtà a nascondere delle carenze culturali, perché così facendo ci si precluderebbero delle opportunità potenzialmente importanti. Allo stesso modo sta anche ai cineasti aprirsi senza pregiudizi: quelli che negli anni ’90 si sono avvicinati al rap ne condividevano dei tratti culturali la cui rilevanza per lo più è rientrata… se ora i cineasti italiani si sentono lontani dal nostro rap, direi che è il momento di avvicinarsi alla materia e approfondire. Anche in questo caso vanno solo trovati i canali giusti.