La Stampa, 21 marzo 2014 Vestivamo all'elettrotecnica. La vita ai tempi dell'Avogadro
C’è un tempo per creare ricordi e un tempo per ricordare, un tempo per vivere esperienze memorabili e un tempo per farne tesoro. È tra queste due età della vita che si muove, con frequenti viaggi di andata e ritorno, il libro di Marco Aime, All’Avogadro si iniziava a ottobre è dunque, in primo luogo, un libro di ricordi giovanili, perché è durante l’adolescenza che si producono gli eventi destinati a marcare in maniera indelebile il resto dell’esistenza. Tra i tredici e i vent’anni ci troviamo per la prima volta nella condizione di fare scelte (riguardanti la . scuola, il lavoro, l’amore) che inevitabilmente verranno ricordate per tutta la vita.
Ma, soprattutto, quella dell’adole-scenza è l’età della partecipazione, l’età in cui il nostro vissuto individuale si fonde con quello della società e la nostra memoria personale incontra quella collettiva. Ed è questo passaggio dall’Io al Noi a costituire il nucleo centrale del libro. Le memorie scolastiche di Aime assomigliano, per certi versi, a quelle dei ragazzi di oggi: amicizia, speranza, scherzi ai professori, piccole e grandi crudeltà, ma, sotto altri profili, sono ancorate a un tempo e a uno spazio che conferiscono loro unicità e rilevanza storica. Il tempo è quello che va dal 1970 al 1975, anni in cui «partecipazione» diventa sinonimo di impegno, di appartenenza politica, di volontà trasformatrice, ed è probabilmente in questo che i ricordi di Aime testimoniano la differenza tra ieri e oggi, tra la nostra generazione e quella dei nostri figli.
Ma cos’è una generazione? Troppo spesso identifichiamo, erroneamente, la generazione con l’anno di nascita, con la «Leva» o con la «Coorte», come dicono gli antropologi. La generazione è un gruppo di persone che compie un itinerario comune e che, per questo, si trascina per tutta la vita un bagaglio di ricordi comune; incontrare uno di quei ricordi in un libro o in una trasmissione Tv è come incontrare un amico. E così, per quelli della generazione mia e di Marco Aime, le canzoni di Guccini, da suonare con il solito giro di do, i tram verdi, tornati ora in auge, i biglietti Bige e le audiocassette C90 diventano simboli di appartenenza, tessere di identificazione.
E poi c’è lo spazio delle memorie, l’Istituto Tecnico Industriale Avoga-dro di Torino, che il futuro antropologo Marco Aime frequenta appunto tra il 1970 e il 1975. Fino alla metà degli Anni 80, gli Itis hanno rappresentato, per le città industriali, il vero ascensore sociale; ci andavano i figli degli operai, nella speranza di diventare capi-reparto, tecnici specializzati, addirittura impiegati. Nelle ore di aggiustaggio (il lavoro con la lima) indossavamo la tuta blu sperando di diventare dei colletti bianchi. Contrariamente ai licei, che per noi erano il luogo dei predestinati, gli Itis erano le scuole di chi il futuro doveva ancora conquistarselo, e, in quello slancio di conquista, poteva capitare che il ruolo di capi-reparto cominciasse ad andarci stretto, poteva capitare che l’ascensore si aprisse, quasi per sbaglio, a un livello imprevisto e che ci trovassimo sullo stesso pianerottolo degli ingegneri, dei medici, o, come è accaduto a me, ad Aime e a molti altri, sul pianerottolo dei docenti universitari.
Nella rievocazione dei molti frammenti di vita scolastica, Marco Alme non cede mai alle tentazioni della nostalgia, né a quelle del «mala tempora currunt», tuttavia, un minimo di rammarico per il bloccarsi di quell’ascensore sociale si avverte; malgrado le lunghe ore che trascorrevamo in officina a saldare o a tornire, l’istituto tecnico ci dava, in quegli anni, la possibilità di guardare oltre i muri che chiudevano il ghetto della formazione professionale: oggi, quell’evasione è quasi impossibile. Di quel piccolo mondo, rigidamente maschile, Alme rievoca i riti di passaggio, le abitudini, i nomi e i soprannomi, gli scontri e le tensioni, come quelle tra studenti di varie specializzazioni: periti meccanici, contro periti chimici, elettronici contro elettrotecnici, malgrado sapessimo che, contrariamente a oggi, un posto di lavoro, con il diploma in mano, lo avremmo trovato tutti.
Nella mia scuola, i periti elettronici, alla cui schiera io appartengo, indossavano, fuori dall’offìcina, un camice bianco e per questo venivano apostrofati dagli elettrotecnici (camice nero) con l’appellativo di «gelatai»; mi sia dunque consentito ricordare al perito elettrotecnico Marco Aime, che, antropologo o non antropologo, lui, per me, sarà sempre uno «spelafili». Perché i ricordi pesano.
di Alessandro PerissinottoMa, soprattutto, quella dell’adole-scenza è l’età della partecipazione, l’età in cui il nostro vissuto individuale si fonde con quello della società e la nostra memoria personale incontra quella collettiva. Ed è questo passaggio dall’Io al Noi a costituire il nucleo centrale del libro. Le memorie scolastiche di Aime assomigliano, per certi versi, a quelle dei ragazzi di oggi: amicizia, speranza, scherzi ai professori, piccole e grandi crudeltà, ma, sotto altri profili, sono ancorate a un tempo e a uno spazio che conferiscono loro unicità e rilevanza storica. Il tempo è quello che va dal 1970 al 1975, anni in cui «partecipazione» diventa sinonimo di impegno, di appartenenza politica, di volontà trasformatrice, ed è probabilmente in questo che i ricordi di Aime testimoniano la differenza tra ieri e oggi, tra la nostra generazione e quella dei nostri figli.
Ma cos’è una generazione? Troppo spesso identifichiamo, erroneamente, la generazione con l’anno di nascita, con la «Leva» o con la «Coorte», come dicono gli antropologi. La generazione è un gruppo di persone che compie un itinerario comune e che, per questo, si trascina per tutta la vita un bagaglio di ricordi comune; incontrare uno di quei ricordi in un libro o in una trasmissione Tv è come incontrare un amico. E così, per quelli della generazione mia e di Marco Aime, le canzoni di Guccini, da suonare con il solito giro di do, i tram verdi, tornati ora in auge, i biglietti Bige e le audiocassette C90 diventano simboli di appartenenza, tessere di identificazione.
E poi c’è lo spazio delle memorie, l’Istituto Tecnico Industriale Avoga-dro di Torino, che il futuro antropologo Marco Aime frequenta appunto tra il 1970 e il 1975. Fino alla metà degli Anni 80, gli Itis hanno rappresentato, per le città industriali, il vero ascensore sociale; ci andavano i figli degli operai, nella speranza di diventare capi-reparto, tecnici specializzati, addirittura impiegati. Nelle ore di aggiustaggio (il lavoro con la lima) indossavamo la tuta blu sperando di diventare dei colletti bianchi. Contrariamente ai licei, che per noi erano il luogo dei predestinati, gli Itis erano le scuole di chi il futuro doveva ancora conquistarselo, e, in quello slancio di conquista, poteva capitare che il ruolo di capi-reparto cominciasse ad andarci stretto, poteva capitare che l’ascensore si aprisse, quasi per sbaglio, a un livello imprevisto e che ci trovassimo sullo stesso pianerottolo degli ingegneri, dei medici, o, come è accaduto a me, ad Aime e a molti altri, sul pianerottolo dei docenti universitari.
Nella rievocazione dei molti frammenti di vita scolastica, Marco Alme non cede mai alle tentazioni della nostalgia, né a quelle del «mala tempora currunt», tuttavia, un minimo di rammarico per il bloccarsi di quell’ascensore sociale si avverte; malgrado le lunghe ore che trascorrevamo in officina a saldare o a tornire, l’istituto tecnico ci dava, in quegli anni, la possibilità di guardare oltre i muri che chiudevano il ghetto della formazione professionale: oggi, quell’evasione è quasi impossibile. Di quel piccolo mondo, rigidamente maschile, Alme rievoca i riti di passaggio, le abitudini, i nomi e i soprannomi, gli scontri e le tensioni, come quelle tra studenti di varie specializzazioni: periti meccanici, contro periti chimici, elettronici contro elettrotecnici, malgrado sapessimo che, contrariamente a oggi, un posto di lavoro, con il diploma in mano, lo avremmo trovato tutti.
Nella mia scuola, i periti elettronici, alla cui schiera io appartengo, indossavano, fuori dall’offìcina, un camice bianco e per questo venivano apostrofati dagli elettrotecnici (camice nero) con l’appellativo di «gelatai»; mi sia dunque consentito ricordare al perito elettrotecnico Marco Aime, che, antropologo o non antropologo, lui, per me, sarà sempre uno «spelafili». Perché i ricordi pesano.
paolameinardi.blogspot.it, 21 marzo 2014 All’Avogadro si cominciava a ottobre
Io, all’Avo, non ci sono andata e nel 1970, a ottobre, avevo solo qualche mese ma il libro di Marco Aime che domani io e Mauro Rubella presentiamo alla libreria "La città del sole" l’ho letto e divorato come se in quella scuola ci fossi andata e come se fossi - ancor più di quanto sono - figlia degli anni ‘70.
All’Avogadro si cominciava a ottobre è un bel libro che parla di un passato da cui potremmo imparare tanto e che invece questa società ha seppellito sotto un futile consumismo esasperato che sembra non essere più in grado di arrestare.
L’Avo è un pretesto per ricordare, per raccontare un’epoca e quei suoi protagonisti silenziosi, quella sua quotidianità e il tempo che sembrava passare più lento e più denso di significato, anche quando lo si trascorreva spensieratamente.
Di questo libro ho amato molto alcune pagine che parlano di musica. Non solo perché condivido con l’autore alcuni gusti musicali ma soprattutto per aver saputo raccontare il peso che ha la musica in ogni aspetto della vita dei giovani. Poiché si parla di giovani, certo. Di giovani che vanno all’Itis in periodo storico difficile, di contrapposizioni continue, a partire da quelle in famiglia. Il genitore di allora non è quello di oggi: è un padre severo e lavoratore; è una mamma che non ti concede scuse o scappatoie e si aspetta sempre il massimo da te.
«Se il mondo dei grandi era quello, tu ti facevi il tuo, che era per forza alternativo, ma che alla fine si nutriva di quegli stessi valori che ti avevano trasmesso». Così scrive Aime e così è. E la scuola, in questa trasmissione di valori e in questa cornice di scontro continuo era fondamentale. La scuola aveva un ruolo importante, che oggi sembra essere passato in secondo piano. Forse perché nella scuola non si crede più e non si investe più: nella scuola così come nella cultura. E anche leggendo queste pagine si capisce che la strada imboccata non potrà che portare a un mondo più povero, non solo di intelligenze ma anche di valori e di significati.
Sono leggere e piacevoli le pagine di questo libro, che vi consiglio anche se all’Avo non ci siete andati. Sono leggere perché Aime usa tanta ironia nel raccontare e raccontarsi. «Lei era come credo fosse la maggior parte delle professoresse di matematica di quell’epoca. Acida, zitella, perennemente incattivita con il mondo, perchè ilo mondo odia la matematica. Figuriamoci gli studenti. E per di più matematica non era materia d’esame di maturità. Tié»
A me la matematica è sempre piaciuta. I Led Zeppelin anche. Anche io, fuori tempo di un decennio, portavo l’eskimo e la tascapane a scuola. Non sono cresciuta a Borgaretto ma qualche chilometro più in là, nella stessa seconda cintura di Torino e anche io andavo all’Impera a giocare a biliardo. È bello ricordare ma, lo dico sempre: ricordare non basta. Dalla storia e dal passato è necessario imparare.
di Paola MeinardiAll’Avogadro si cominciava a ottobre è un bel libro che parla di un passato da cui potremmo imparare tanto e che invece questa società ha seppellito sotto un futile consumismo esasperato che sembra non essere più in grado di arrestare.
L’Avo è un pretesto per ricordare, per raccontare un’epoca e quei suoi protagonisti silenziosi, quella sua quotidianità e il tempo che sembrava passare più lento e più denso di significato, anche quando lo si trascorreva spensieratamente.
Di questo libro ho amato molto alcune pagine che parlano di musica. Non solo perché condivido con l’autore alcuni gusti musicali ma soprattutto per aver saputo raccontare il peso che ha la musica in ogni aspetto della vita dei giovani. Poiché si parla di giovani, certo. Di giovani che vanno all’Itis in periodo storico difficile, di contrapposizioni continue, a partire da quelle in famiglia. Il genitore di allora non è quello di oggi: è un padre severo e lavoratore; è una mamma che non ti concede scuse o scappatoie e si aspetta sempre il massimo da te.
«Se il mondo dei grandi era quello, tu ti facevi il tuo, che era per forza alternativo, ma che alla fine si nutriva di quegli stessi valori che ti avevano trasmesso». Così scrive Aime e così è. E la scuola, in questa trasmissione di valori e in questa cornice di scontro continuo era fondamentale. La scuola aveva un ruolo importante, che oggi sembra essere passato in secondo piano. Forse perché nella scuola non si crede più e non si investe più: nella scuola così come nella cultura. E anche leggendo queste pagine si capisce che la strada imboccata non potrà che portare a un mondo più povero, non solo di intelligenze ma anche di valori e di significati.
Sono leggere e piacevoli le pagine di questo libro, che vi consiglio anche se all’Avo non ci siete andati. Sono leggere perché Aime usa tanta ironia nel raccontare e raccontarsi. «Lei era come credo fosse la maggior parte delle professoresse di matematica di quell’epoca. Acida, zitella, perennemente incattivita con il mondo, perchè ilo mondo odia la matematica. Figuriamoci gli studenti. E per di più matematica non era materia d’esame di maturità. Tié»
A me la matematica è sempre piaciuta. I Led Zeppelin anche. Anche io, fuori tempo di un decennio, portavo l’eskimo e la tascapane a scuola. Non sono cresciuta a Borgaretto ma qualche chilometro più in là, nella stessa seconda cintura di Torino e anche io andavo all’Impera a giocare a biliardo. È bello ricordare ma, lo dico sempre: ricordare non basta. Dalla storia e dal passato è necessario imparare.
la Repubblica, 8 marzo 2014 Memorie di una scuola di vita dai banchi caldi dell’Avogadro
La Torino degli anni Settanta che non c’è più nel nuovo libro dell’antropologo Marco Aime: “Il mio ‘Avo’ dal 1970 al ‘75, un po’ caserma senza maschi, tra politica vista con disincanto retrospettivo e dosi massicce di musica.”
È andata così. Sbirciando una rubrica di segnalazioni librarie, mi cade l’occhio su un titolo: All’Avogadro si cominciava a ottobre. È l’istituto tecnico che ho frequentato dal 1971 al 1976. M’incuriosisco e approfondisco. Parla del quinquennio 1970/75. Scrivo istantaneamente un’email all’amico Marco Philopat di Agenzia X, editrice del volume: lo devo leggere. Mi arriva nel giro di qualche giorno e lo divoro in un pomeriggio. È un viaggio nel tempo! Cerco di saperne di più dell’autore, Marco Aime, e scopro – ignorante che sono... – trattarsi di un antropologo di fama, con cattedra all’Università di Genova. Niente a che vedere con la specializzazione in Elettrotecnica da lui conseguita nell’estate del 1975, la stessa ottenuta da me l’anno dopo: nessuno dei due ha fatto un mestiere imparentato con quel ciclo di studi.
Lo rintraccio al telefono e cominciamo a chiacchierare: non ci diamo del lei, viste la comune provenienza scolastica e la condizione di quasi coscritti.
Sembrava anche a te una caserma, l’Avogadro, con la sua popolazione esclusivamente maschile?
Sì, per certi versi c’era proprio un’atmosfera da caserma, molto mascolina, da un lato goliardica e dall’altro di vero e proprio nonnismo, con una gerarchia basata sull’anzianità, in cui i “primini” finivano per essere i capri espiatori.
La tradizione venne infranta l’anno in cui io presi il diploma: arrivò la prima donna (su 3mila iscritti). Marco non ebbe il privilegio di assistere alla caduta di quel muro... Era una specie di Politecnico da proletari, allora…
In effetti era così: uscire dall’Avogadro significava essere poco meno di un ingegnere, era una scuola austera e severa, funzionale a una città industriale: a quei tempi i tecnici erano una categoria forte.
Poi però il meccanismo si è inceppato, come dimostrano il tuo caso e il mio...
La settimana scorsa sono andato a cena con alcuni ex compagni di classe, quelli di cui parlo nel libro, e di otto che eravamo solo due sono rimasti nel settore: a parte me, c’è chi fa il primario di anestesia al Mauriziano e chi lavora nel commercio. Questo dice che da un lato le scelte fatte a quell’età non sempre sono azzeccate, e dall’altro che la realtà torinese è cambiata tantissimo.
Già, la famosa trasformazione della città. A un certo punto scrivi che a quei tempi “Torino sapeva dov’era e dove doveva andare”: adesso, invece?
Allora la città aveva un’identità forte, e non lo dico in senso positivo: era la company town della Fiat, con un profilo nettamente operaio, mentre adesso è un luogo tipico della postmodernità, dove le identità sono plurali, e non ha più addosso quella cappa di compattezza che allo stesso tempo opprimeva e dava sicurezza, simboleggiata dalla garanzia del posto di lavoro fisso.
Morale: per ambedue, più che percorso di formazione tecnica, l’Avogadro è stata scuola di vita. Perciò il libro è animato da personaggi bizzarri (uno su tutti: Scozza), trasuda politica – vista però con disincanto retrospettivo – e contiene dosi massicce di musica. Ragion per cui non posso esimermi dal chiedere – a un docente che i ragazzi li frequenta per lavoro – la differenza fra ciò che la musica rappresentava allora e ciò che rappresenta adesso.
Paradossalmente, nell’epoca della condivisione digitale, mi pare che di musica si discuta molto meno: a quei tempi potevi trascorrere ore a parlarne, confrontando opinioni spesso divergenti, mentre adesso, anche se ne ascolta molta di più, non è un elemento centrale nella vita dei ragazzi.
Ma all’“Avo” ci sei mai più entrato dopo il diploma?
Ci sono andato tre/quattro mesi fa: stavamo cercando un’immagine per la copertina del libro e abbiamo incontrato il preside, per capire se esisteva un archivio fotografico, che però non c’è. È cambiata completamente: non mi ci ritrovavo più. Tutta la parte del Museo, lato via Gaudenzio Ferrari, adesso è chiusa e il resto è stato riverniciato: dà una sensazione di ordine e pulizia, col bar e la caffetteria, e sembra un altro mondo, anche molto più bello ma diverso da quello che conoscevo.
Ci tornerà il 4 aprile per presentare il libro agli studenti: magari ci si vede là.
di Alberto CampoÈ andata così. Sbirciando una rubrica di segnalazioni librarie, mi cade l’occhio su un titolo: All’Avogadro si cominciava a ottobre. È l’istituto tecnico che ho frequentato dal 1971 al 1976. M’incuriosisco e approfondisco. Parla del quinquennio 1970/75. Scrivo istantaneamente un’email all’amico Marco Philopat di Agenzia X, editrice del volume: lo devo leggere. Mi arriva nel giro di qualche giorno e lo divoro in un pomeriggio. È un viaggio nel tempo! Cerco di saperne di più dell’autore, Marco Aime, e scopro – ignorante che sono... – trattarsi di un antropologo di fama, con cattedra all’Università di Genova. Niente a che vedere con la specializzazione in Elettrotecnica da lui conseguita nell’estate del 1975, la stessa ottenuta da me l’anno dopo: nessuno dei due ha fatto un mestiere imparentato con quel ciclo di studi.
Lo rintraccio al telefono e cominciamo a chiacchierare: non ci diamo del lei, viste la comune provenienza scolastica e la condizione di quasi coscritti.
Sembrava anche a te una caserma, l’Avogadro, con la sua popolazione esclusivamente maschile?
Sì, per certi versi c’era proprio un’atmosfera da caserma, molto mascolina, da un lato goliardica e dall’altro di vero e proprio nonnismo, con una gerarchia basata sull’anzianità, in cui i “primini” finivano per essere i capri espiatori.
La tradizione venne infranta l’anno in cui io presi il diploma: arrivò la prima donna (su 3mila iscritti). Marco non ebbe il privilegio di assistere alla caduta di quel muro... Era una specie di Politecnico da proletari, allora…
In effetti era così: uscire dall’Avogadro significava essere poco meno di un ingegnere, era una scuola austera e severa, funzionale a una città industriale: a quei tempi i tecnici erano una categoria forte.
Poi però il meccanismo si è inceppato, come dimostrano il tuo caso e il mio...
La settimana scorsa sono andato a cena con alcuni ex compagni di classe, quelli di cui parlo nel libro, e di otto che eravamo solo due sono rimasti nel settore: a parte me, c’è chi fa il primario di anestesia al Mauriziano e chi lavora nel commercio. Questo dice che da un lato le scelte fatte a quell’età non sempre sono azzeccate, e dall’altro che la realtà torinese è cambiata tantissimo.
Già, la famosa trasformazione della città. A un certo punto scrivi che a quei tempi “Torino sapeva dov’era e dove doveva andare”: adesso, invece?
Allora la città aveva un’identità forte, e non lo dico in senso positivo: era la company town della Fiat, con un profilo nettamente operaio, mentre adesso è un luogo tipico della postmodernità, dove le identità sono plurali, e non ha più addosso quella cappa di compattezza che allo stesso tempo opprimeva e dava sicurezza, simboleggiata dalla garanzia del posto di lavoro fisso.
Morale: per ambedue, più che percorso di formazione tecnica, l’Avogadro è stata scuola di vita. Perciò il libro è animato da personaggi bizzarri (uno su tutti: Scozza), trasuda politica – vista però con disincanto retrospettivo – e contiene dosi massicce di musica. Ragion per cui non posso esimermi dal chiedere – a un docente che i ragazzi li frequenta per lavoro – la differenza fra ciò che la musica rappresentava allora e ciò che rappresenta adesso.
Paradossalmente, nell’epoca della condivisione digitale, mi pare che di musica si discuta molto meno: a quei tempi potevi trascorrere ore a parlarne, confrontando opinioni spesso divergenti, mentre adesso, anche se ne ascolta molta di più, non è un elemento centrale nella vita dei ragazzi.
Ma all’“Avo” ci sei mai più entrato dopo il diploma?
Ci sono andato tre/quattro mesi fa: stavamo cercando un’immagine per la copertina del libro e abbiamo incontrato il preside, per capire se esisteva un archivio fotografico, che però non c’è. È cambiata completamente: non mi ci ritrovavo più. Tutta la parte del Museo, lato via Gaudenzio Ferrari, adesso è chiusa e il resto è stato riverniciato: dà una sensazione di ordine e pulizia, col bar e la caffetteria, e sembra un altro mondo, anche molto più bello ma diverso da quello che conoscevo.
Ci tornerà il 4 aprile per presentare il libro agli studenti: magari ci si vede là.
Internazionale, 21 febbraio 2014 All’Avogadro si cominciava a ottobre
L’istituto tecnico Avogadro di Torino tra il 1970 e il 1975. Un diario che racconta le contestazioni politiche, i conflitti generazionali, le trasgressioni e i sogni degli studenti.
www.milanox.eu, 10 febbraio 2014 Marco Aime. All’Avogadro si cominciava a ottobre
All’Avogadro si cominciava a ottobre è una sorta di diario ex post, in cui Marco Aime ci racconta il suo quinquennio di studente in uno storico istituto tecnico di Torino.
Una vita da provinciale tra tante, in una scuola per figli di operai, nella piccola Detroit d’Italia.
Un viaggio nei frammenti del suo passato che l’autore ricompone in ordine sparso, tassello su tassello, attraverso piccoli spunti ed episodi.
Pagina dopo pagina, ci racconta amicizie, complicità e scherzi, ma anche la sua grande passione per la musica rock, i viaggi e le bevute insieme agli amici.
Piccole storie, raccontate con un linguaggio semplice ma molto poetico.
Una narrazione costruita di tanti brevi capitoli che ci cala anche nella storia recente del nostro paese, attraversato in quegli anni dalle lotte operaie, dalla contestazione e da sincere speranze di cambiamento. Un libro particolare, scritto con grande maestria.
di Pablito el DritoUna vita da provinciale tra tante, in una scuola per figli di operai, nella piccola Detroit d’Italia.
Un viaggio nei frammenti del suo passato che l’autore ricompone in ordine sparso, tassello su tassello, attraverso piccoli spunti ed episodi.
Pagina dopo pagina, ci racconta amicizie, complicità e scherzi, ma anche la sua grande passione per la musica rock, i viaggi e le bevute insieme agli amici.
Piccole storie, raccontate con un linguaggio semplice ma molto poetico.
Una narrazione costruita di tanti brevi capitoli che ci cala anche nella storia recente del nostro paese, attraversato in quegli anni dalle lotte operaie, dalla contestazione e da sincere speranze di cambiamento. Un libro particolare, scritto con grande maestria.