Salta al contenuto principale
Diversamente pusher
www.che-fare.com, 7 ottobre 2020Diversamente pusher, raccontare i battitori liberi dello spaccio
La Rodhákino era una piccola pesca greca dal gusto non facile, perché non piattamente dolce. La polpa era solida e al contempo succosa, da affondarci i denti con gusto, mentre la pelle, di un bianco sporco sfumato sul rosa, era sottile e leggermente coperta da una peluria che disperdeva nell’aria il suo aroma unico. Celebrata come “il seno di Afrodite”, questa pesca non esiste più, se non nelle memorie di Nadia Seremetakis – antropologa greca, newyorkese di adozione – che ne ricostruisce la scomparsa e analizza le sovrapposizioni tra il trauma micro-sensoriale dell’eclissi di un’esperienza (non solo) culinaria e le ragioni macro-sociali che lo hanno causano. L’antropologa non ha dubbi nel puntare il dito verso (quella che fu) la Comunità economica europea, colpevole di essersi fatta portatrice delle pressioni normalizzanti del mercato, impiegando il proprio armamentario normativo per imporre ai contadini greci (ai birrai tedeschi, ai caseifici francesi e così via) quali specialità locali coltivare ed esportare. Il potenziale economico di altre varietà di pesche (meno aspre e più facili da coltivare a ciclo continuo) ha avuto la meglio sulla peculiarità della Rodhákino, determinando quella che l’autrice descrive come una standardizzazione dei sapori e creando una faglia nelle memorie sensoriali sue e dei suoi cari. La scelta di iniziare con una ‘banale’ pesca per parlare di un libro su spacciatori freelance e sostanze stupefacenti è dovuta alla capacità dell’analisi di Seremetakis di introdurre uno dei primi insegnamenti di Diversamente pusher. Sebbene a partire dagli anni ’90, dopo “l’olocausto causato dell’eroina”, il mercato della droga si sia diversificato grazie all’introduzione di nuove sostanze (MDMA, ketamina, speed, NPS), a questo incremento dell’offerta è corrisposto una progressiva standardizzazione delle possibilità psicoattive, dovuto alla diminuzione della qualità e della varietà per ciascuna sostanza. Il libano rosso, libano giallo, le pasticche di mescalina, l’anfetamina pura come dentifricio e la ketamina luccicosa Fanno così capolino tra le pagine del libro “il libano rosso, libano giallo”, le pasticche di mescalina, l’anfetamina pura “come dentifricio” e la ketamina “luccicosa”; ricordi nostalgici come quelli dell’antropologa greca che mettono in scena una ricchezza di possibili esperienze, non solo psicotrope ma anche di gusto (nell’accezione più ampia di questo termine, dal livello sensoriale fatto di odori, sapori e via dicendo fino a quello sociologico tra imitazione e distinzione), di cui oggigiorno è possibile fantasticare soltanto scorrendo le immagini ad alta risoluzione postate nei mercati darknet. Proprio come per la Rodhákino l’eliminazione di queste “eccellenze artigianali” ha avuto un movente internazionale, ossia quei trattati e raccomandazioni che dal secondo dopoguerra in avanti hanno provocato a più riprese un inasprimento della normativa vigente, in favore di un proibizionismo coatto. Per la legge del 1954 (un periodo in cui erano pochissimi i consumatori di sostanze stupefacenti in Italia) e l’ossessione statunitense nei confronti della marijuana consiglio Marihuana: Uno scandalo internazionale di Guido Blumir, mentre sull’infatuazione di Bettino Craxi per la zero tolerance e la disastrosa Iervolino-Vassalli del 1990 si rimanda al volume collettaneo Lotta alla droga. I danni collaterali curato da Franco Corleone e Alessandro Margara. Possiamo però fare un passaggio ulteriore in merito alle strategie di controllo e alle relative pressioni normalizzanti, spostando – primo – il focus dalle droghe in sé a quei discorsi che sfidano apertamente le interpretazioni egemoniche in materia psicoattiva, e muovendoci – secondo – dall’ordine orwelliano della war on drugs a quello huxleyiano contemporaneo in cui il libro di Pablito el Drito è stato pubblicato. Questo testo non è stato vessato per il proprio contenuto come non è stato censurato perché dà voce ai ‘venditori di morte’, ma il suo destino – sperando di sbagliarmi – è quello di essere relegato al rango di letteratura minore, rumore di sfondo, privo di quella legittimità necessaria per ricevere l’attenzione dei media generalisti (ad eccezione, bisogna dirlo, de Il Manifesto). Eppure, non si può certo affermare che i temi trattati in Diversamente Pusher non siano rilevanti o che non vengano sollevate questioni spesso sottaciute, di cui è doveroso iniziare a discutere apertamente e pubblicamente, almeno tra coloro stanchi del semplicismo portato all’eccesso con cui in Italia sono trattate le sostanze stupefacenti. Anche per questa ragione cheFare mi ha dato la possibilità di condividere con voi alcuni spunti, su un libro importante all’interno della (sofferente) letteratura droghifera italiana. Diversamente pusher – I battitori liberi dello spaccio si raccontano è un’opera corale sapientemente diretta da Pablito el Drito, il quale raccoglie e orchestra 12 racconti – quelle che in sociologia sono chiamate storie di vita – di altrettanti venditori di sostanze stupefacenti, accomunati dall’aver scelto una strategia commerciale specifica: non affidarsi alla grande distribuzione della criminalità organizzata, fondata sulla massimizzazione del profitto (e della violenza) a discapito della qualità del prodotto e della relazione con il cliente, ma spinti da motivazioni etico-controculturali sviluppare le proprie reti alternativi, di acquisto diretto da produttori e fornitori. Il libro (fortunatamente) non è né un saggio di consumo etico al tempo del narcocapitalismo né un trattato di microeconomia delle reti alternative del narcotraffico, ma prende la forma di una storia orale sulla sperimentazione, l’uso e l’abuso, la vendita e il controllo di droghe nell’Italia degli ultimi 40 anni, dalle prime canne della generazione post-contestazione alle NPS comprate sul web. Una traiettoria storica in cui non sono mutate solo le sostanze ma anche gli spazi della vendita e del consumo, in quello che ha tutta l’aria di essere uno sfaldamento delle possibilità di contatto diretto e di trasmissioni dei saperi faccia a faccia, perché stando alle parole di questi battitori liberi dello spaccio non sembrano essere subentrati nuovi contesti collettivi ai parchetti di periferia e ai rave, ma è sempre più pressante una chiusura nel privato, alla netflix & chill. Una questione significativa da rimarcare è come questa storia sia raccontata da un punto di vista specifico, quello di pusher atipici che hanno attraversato e si sono formati all’interno delle diverse subculture giovanili dell’ultima fetta del Novecento. Oltre ad essere presentate le tre fasi tipiche di questa ‘carriera deviante’ (battezzate da Philip Lalander: imparare il gioco, essere in gioco e lasciare il gioco), emerge anche come lo smazzo per loro non abbia assunto semplicemente la funzione di sostentamento o facile guadagno, ma sia diventata l’occasione per attuare una qualche forma di ricerca personale, tra chi ha girato l’Italia o l’Europa e chi ha viaggiato nei k-hole, tra chi voleva “uscire dalla propria educazione e dai propri schemi mentali” e chi ha messo in scena la propria personale epopea da “eroe romantico” fuorilegge. Percorsi presentati senza fronzoli e, soprattutto, non edulcorati, dato che dopo l’esaltazione iniziale non sono omessi gli esiti più drammatici sia dell’infogno, con le sue conseguenze fisiche e psicologiche, sia della vendita di quantitativi sempre più ingenti di stupefacenti, con le intimidazioni dei clan, gli arresti e i periodi in carcere, fino ad arrivare al dolore provocato ai propri cari: “la cosa che mi ha spaventato di più è stato vedere come stava reagendo mia madre. Era a pezzi.” Per la prospettiva e le persone interpellate, questo testo si inserisce in maniera originale all’interno della letteratura italiana in materia. I cosiddetti alcohol and other drug studies hanno da sempre goduto di poca salute nel nostro paese, per l’atavica scarsità di fondi destinati alla ricerca, ma anche per una certa ritrosia nell’approcciare questo mondo complesso e multiforme andando oltre i due paradigmi dominanti, vale a dire quello medico e legale. Pertanto, il lavoro di un attivista e storico delle controculture come Pablito deve essere accolto con favore perché può diventare una fonte di spunti e riflessioni critiche. Focalizzandoci sulle pubblicazioni specifiche sul traffico di stupefacenti e le economie locali della droga, Diversamente pusher conferma i risultati di altre ricerche, come la divisione del mercato segnalata da Monica Massari tra un settore organizzato e chiuso perché coperto dalle mafie, relativo a sostanze ad alto rendimento economico (eroina e cocaina), e un altro disorganizzato e informale di sostanze di nicchia (MDMA, ketamina) in cui si muovono i pusher free-lance; mentre, invece, passano inosservati alcuni importanti cambiamenti in corso, come la normalizzazione dei pusher, un’attività compiuta sempre più da soggetti ‘normali’ senza esperienze criminali alle spalle o pretese controculturali (si guardi il report della ricerca di Letizia Paoli e colleghi) o l’affacciarsi sulla scena di nuove organizzazioni criminali d’importazione (si rimanda ad uno dei primi studi in materia, quello dei Vincenzo Ruggero sul marijuana business degli albanesi o al più recente I dannati della metropoli di Andrea Staid). In ogni caso, non può essere sottostimata l’unicità e la rilevanza di Diversamente pusher, perché per la prima volta è data voce agli spacciatori che ci mostrano questo mondo dal loro punto di vista. Un approccio che all’estero può contare su studi etnografici tanto rilevanti da essere diventati delle vere e proprie pietre miliari, come Cercando rispetto: drug economy e cultura di strada di Phillippe Bourgois – in cui la vita di piccoli venditori originari di Puerto-Rico è lo spunto per una riflessione gramsciana sul potenziale politico della street culture e i suoi limiti – o Sexed Work: Gender, Race and Resistance in a Brooklyn Drug Market di Lisa Maher – in cui è ribaltato il miserabilismo che vittimizza le donne all’interno del mercato della droga, aprendo gli occhi sulle loro scelte e motivazioni in contesti caratterizzati da povertà strutturale e molteplici forme di discriminazione – ma che nel nostro paese non ha ancora contributi tanto significativi. Sebbene l’opera di montaggio compiuta da Pablito abbia un forte potere evocativo e informativo, sembra però volersi limitare a descrivere la realtà, rimanendo sullo sfondo, come se questa storia si fosse costruita da sé. Dietro questa frase si nascondono due critiche: la prima più di natura stilistica/metodologica è la difficoltà nel capire dove finiscono le parole dei pusher e dove inizia il racconto dell’autore. Non si vuole certo accusare Pablito di strumentalizzazioni, ma piuttosto segnalare come il discorso risulti troppo raffinato, non nel senso comune del termine, ma come la farina, eccessivamente lavorata. Mancano, infatti, quelle idiosincrasie personali (nelle parole impiegate, nello sviluppo delle argomentazioni o nelle posizioni assunte) che avrebbero restituito maggiore personalità ad ognuno dei suoi interlocutori, come dimostrano altre oral history, ad esempio Addicts Who Survived: An Oral History of Narcotic Use in America before 1965 di Courtwright e colleghi. La seconda, relativa al contenuto, concerne quelle questioni accennate dai battitori liberi che avrebbero meritato molto più spazio. Mi riferisco sia agli attacchi rivolti a SerT (“il SerT rovina tanti”) e centri sociali (colpevoli di un “atteggiamento ambiguo” perché favorevoli all’antiproibizionismo, senza però “sporcarsi le mani per far circolare cose buone”, non provenienti dal mercato della mafia), sia ai nuovi scenari aperti per il futuro, come l’impiego del darkweb all’interno di una prospettiva di riduzione del danno o l’hackeraggio per la “realizzazione fai da te delle droghe” (a cui personalmente aggiungerei la necessità di guardare a quanto trans e xeno-femminismo hanno da insegnare sulla sovversione dei sistemi di controllo delle bio-tecnologie e sul loro potenziale micropolitico). Temi originali, meritevoli di essere integrati nell’introduzione o in una postfazione, in cui l’autore oltre a tirare le file dell’inchiesta e presentare la sua posizione, avrebbe potuto illustrare questi punti di vista alternativi, con l’obiettivo di favorirne la circolazione. Per concludere, sono passati molti anni ma l’immaginario e il trauma scatenato dall’eroina (o meglio: dalla risposta negligente con cui la società italiana ha affrontato il problema) sono ancora impiegati da buona parte della politica come dispositivo di consenso, scatenando e strumentalizzando i medesimi sentimenti collettivi di paura, nonostante il mondo della droga sia radicalmente mutato. Il mercato non è più dominato dall’eroina, dato che le sostanze si sono moltiplicate e hanno effetti/conseguenze molto diversi, così come sono differenti le conoscenze in materia e le caratteristiche dei consumatori, eppure si continua a riprodurre, da un lato, un terrorismo psicologico fondato sulla vittimizzazione del consumatore e sull’azione additiva e criminogena delle droghe, mentre dall’altro si risponde ai problemi droga-correlati con un proibizionismo che oltre a non risolvere la situazione, la esaspera in maniera colpevole perché, sintetizza Maurizio Cianchella, “è piuttosto uno dei fattori di maggiore disordine, un favore alla criminalità organizzata, una concausa del fenomeno della microcriminalità”. Se questa continua ad essere la situazione del nostro paese, è necessario insistere per abbattere la prospettiva dominante che banalizza ogni questione relativa alle sostanze stupefacenti in termini di dramma, colpa e punizione, per richiamare l’attenzione sull’eterogeneità delle droghe, dei contesti e dei consumatori. All’interno di questo spazio di complessità, un testo come Diversamente pusher oltre a presentarci la prospettiva unica di pusher free-lance, può servire per ripensare e ricostruire la rappresentazione sociale degli spacciatori e dei consumatori-spacciatori, in modo da superare la visione reazionaria del ‘venditore di morte’ (al riguardo consiglio il report del progetto Rethinking the “Drug Dealer). Oltre ad essere dei veri e propri esperti in materia, molti tra i battitori liberi intervistati da Pablito affermano di aver “sempre avuto una certa etica”, pertanto non stupisce come all’estero stiano aumentando (non senza difficoltà) i tentativi di coinvolgere anche i pusher in iniziative di riduzione del danno, perché possono diventare un ponte tra i servizi e quei consumatori più difficile da raggiungere (come spiegano numerosi esperti interpellati da Filter magazine).
di Enrico Petrilli
il manifesto, 8 dicembre 2019 Voci e storie della cultura sotterranea dello spaccio
La vita di molte persone è caratterizzata dalla gestione dei sentimenti attraverso i farmaci, dalle pillole per dormire ai narcotici pesanti. La chimica è diventata parte di noi e non riusciamo a vedere quanto ci ha cambiato. Non siamo solo sottoposti ai poteri che decidono delle nostre vite, anche le nostre emozioni sono demandate alla stimolazione chimica. Eppure non capiamo perché le sostanze che assumiamo non siano in grado di liberarci dalla fatica e dalla depressione, dalla mancanza di desiderio che caratterizza la nostra condizione psicopolitica. Pablito el Drito nel suo originalissimo Diversamente pusher. I battitori liberi dello spaccio si raccontano (pp. 160, 14 euro) appena uscito per le edizioni Agenzia X, va oltre questa analisi raccontando un mondo che non è mai stato raccontato, quello dell'"autogestione" dello sballo, dai giri amichali al dark web. I protagonisti di Diversamente pusher sono donne e uomini che cercano di aggirare i sistemi mafiosi. Soggetti che preferiscono rapporti ispirati a modelli più umani, mutuati dalla prassi delle controculture e delle economie alternative. Esperienze interessanti anche perché si contrappongono all'immaginario creato e manovrato dalle grandi aziende dell'intrattenimento e del narcocapitalismo. È nota la contraddizione delle politiche proibizionistiche, che vietano la circolazione di determinate sostanze in favore di altre, nonostante il dichiarato proposito di tutelare la salute delle persone e di evitare comportamenti autolesionistici. È reso illegale il consumo delle "droghe" (suddivise in una rabberciata ripartizione tra "pesanti" e "leggere", o addirittura tutte confuse in un unico novero). Sono però legali alcolici, tabacco, videogiochi d'azzardo, psicofarmaci. Crea dipendenza fra l'altro anche la tecnologia che usiamo quotidianamente, È un po’ meno noto il fatto che il delta-9 tetraidrocannabilo, principio attivo della Cannabis, in numerose ricerche di ambito accademico, pubblicate in autorevoli riviste scientifiche, sta rivelandosi utile a fini terapeutici in una serie di patologie peraltro diverse tra loro. C'è chi utilizza la cannabis, dunque, non necessariamente fumandola, e non per forza per scopi "ludici". È poco conosciuto il fatto che già negli Stati Uniti, una delle misure adottate per annientare il Partito delle Pantere nere, è stato tollerare lo spaccio di sostanze stupefacenti, colpendo proprio il sottoproletariato afroamericano, che quell'organizzazione attraeva. Anche nell'Italia della fine degli anni Settanta, un periodo cruciale per i movimenti antagonisti, la diffusione dell'eroina ha falcidiato moltissimi giovani. Oggi lo spaccio continua e riguarda classi sociali e generazioni diverse, mediante un settore di mercato vero e proprio, non differente da molti altri per persone coinvolte e "volume d'affari". Nel nuovo contesto, i più poveri subiscono le conseguenze della fruizione di prodotti a bassissimo costo, poiché acquistano sostanze pericolosamente adulterate. La condizione di alcuni spacciatori che decidono deliberatamente di percorrere una strada che possa essere definita "etica" non era mai stata raccontata. Lavorano autonomamente dalle organizzazioni criminali. Respingono la logica dello spacciatore legato a gruppi mafiosi, che fornisce di proposito ai propri clienti "droga che svuota le tasche", perché li porterà alla dipendenza, "roba" che li condurrà presto o tardi alla morte. Selezionano innanzitutto il tipo di sostanze da vendere e scelgono le persone da cui rifornirsi (tenutari di piccolissimi laboratori): ciò implicherà non concorrere con "il giro" che intendono evitare: effettuano esami sui campioni di merce seguendo criteri in qualche modo scientifici, e spesso provandola per primi. Questi sono gli argomenti trattati in questo saggio, che distilla un segmento di storia mai scritta, con testimonianze dirette, corredate da una esaustiva introduzione, un repertorio di fonti specifiche e un glossario per decodificare una parte del gergo inevitabilmente prodotto da una cultura sotterranea e clandestina.
di Rocco Marzulli
Vice.com, 25 novembre 2019 Chimici, studentesse e hacker: chi sono i battitori liberi dello spaccio
Di recente è stato pubblicato lo studio più esteso di sempre sul consumo di droghe a livello mondiale. Risultato: tra quelle misurate (la marijuana non rientra tra queste), in Italia la cocaina è la più usata, e nella zona di Milano negli ultimi sette anni il suo consumo è aumentato esponenzialmente. In fatto di sostanze ognuno ha le sue convinzioni, e non esistono droghe da buoni o da cattivi. Se c’è una cosa che sappiamo della coca, però, è che le narcomafie hanno il controllo quasi assoluto del mercato, dalla produzione alla distribuzione. E lo stesso vale per eroina e hashish. Ciò di cui invece si parla meno, è l'esistenza, oltre questo monopolio della criminalità organizzata, di un mercato sommerso, fatto di sostanze e regole del tutto differenti. Diversamente Pusher, i battitori liberi dello spaccio si raccontano, pubblicato recentemente dalla casa editrice milanese Agenzia X, è una raccolta di dodici interviste a spacciatori italiani che si muovono fuori dal mercato dei "big player". Senza idealizzazioni né toni epici alla Breaking Bad, Pablito el Drito, al suo terzo libro, fa parlare uno spacciatore-hacker che usa il deep web come piazza principale, chimici che si sono messi a produrre metanfetamine perché insoddisfatti dei fornitori, una studentessa che si è pagata l’università privata smazzando speed e ketamina, e molti altri. Tutte storie di soldi, vittorie, sconfitte e dipendenza, che fanno intravedere il passato e il presente dello spaccio in Italia e in Europa—da come è cambiato il mercato negli ultimi decenni ai rischi (grossi) del mestiere. Ho incontrato Pablito, aka Pablo Pistoiesi, per saperne di più.

Chi sono i battitori liberi?
Non credo ci sia una definizione bella e pronta, però posso darti la mia: un battitore libero è un anarchico dello spaccio. Di solito è una persona che si trova già nel milieu delle droghe, ne fa uso, trova un modo di approvvigionarsi al di fuori delle grandi organizzazioni mafiose. Quasi sempre si tratta di sostanze diverse rispetto a quelle della criminalità organizzata.

Ovvero?
Le grandi organizzazioni mafiose in Italia sono interessate a vendere droga a tutti: trattano quasi solo eroina, cocaina e fumo di bassa qualità. Le persone che ho intervistato trafficano principalmente sostanze sintetiche: non vendono eroina, pochissime trattano cocaina e per quanto riguarda il fumo lavorano su qualità molto più alte.

Hai usato un metodo preciso per fare le interviste?
Ci tengo a precisare che Diversamente pusher non è un libro con pretese scientifiche, ma un’inchiesta. Delle informazioni che mi sono state date, ho verificato il possibile usando altre fonti orali, conoscenze in comune con gli intervistati oppure cercando nella letteratura. C’è stato un moltiplicarsi di documentari, memoir e saggi negli ultimi anni come L’asfalto sulla pelle di Gennaro Shamano, oppure Operazione Blue Moon - Eroina di stato della Rai. La grossa difficoltà di questo lavoro è stata creare un rapporto di fiducia con gli intervistati: i pusher dovevano fidarsi di me per potermi parlare nel dettaglio della loro attività, senza temere conseguenze, io dovevo fidarmi di loro per assicurarmi che non dicessero cazzate.

So che devi mantenere l’anonimato, ma l’età media degli intervistati qual è?
Il più giovane ha 32-33 anni, il più vecchio 55.

E dove si collocano, geograficamente? Principalmente in città del centro nord e del nord Italia—più a sud, le organizzazioni mafiose hanno più potere. Le storie che parlano di contrabbando, invece, si svolgono anche oltre i confini nazionali: in Marocco per il fumo, in Spagna e Repubblica Ceca per l’oppio, in India per la charas, in Olanda e Paesi Baschi per le droghe sintetiche e in UK/India per la ketamina.

Le storie seguono più o meno tutte lo stesso schema. Hai fatto sempre le stesse domande?
Più o meno sì, mi interessava capire quando e come i protagonisti del libro sono entrati nel mondo delle droghe e come hanno iniziato a lavorarci. Un’altra domanda che ho fatto sempre era se agissero secondo un’etica. Ognuno mi ha dato una risposta diversa, da “svolgo un servizio alla comunità” a “non ho mai tagliato la droga, né truffato nessuno” fino a “non tratto certe droghe perché sono contrario.”

Qual è la storia a cui tieni di più?
Quella dei ventenni che, nel pieno boom delle droghe sintetiche degli anni Novanta, hanno improvvisato un laboratorio artigianale e si sono messi a produrre le metanfetamine grazie alle loro conoscenze scientifiche. Non lo facevano per venderle, erano degli idealisti: volevano sperimentare, ma in giro non trovavano la qualità che li soddisfaceva, allora se le producevano da soli.

Alcuni degli intervistati raccontano anche di arresti e incontri-scontri con le forze dell’ordine. Si definiscono tutti antiproibizionisti?
È naturale che lo siano: lavorano nel mercato delle droghe come piccoli imprenditori, mentre il proibizionismo crea di fatto un monopolio di ricchissime multinazionali mafiose, che spesso lasciano dietro di sé una lunga scia di sangue. Che sia chiaro, slogan tipo “droga per tutti” sono a loro volta sbagliati, è un discorso molto scivoloso e complesso. Il consumo di droghe non è mai privo di rischi. Ma il proibizionismo provoca anche ignoranza, e se la gente non viene informata sulle sostanze, compra cose che non sa cosa sono e come si usano.

Alcuni dei pusher che hai intervistato dicono di informare sempre la clientela sulla qualità del prodotto, e di vendere soltanto a nicchie di persone consapevoli, anche a costo di limitare il business. Dici che è vero?
Chi può lo fa. Alcuni le testano prima su se stessi, altri forniscono le analisi chimiche. Nel 2019 ci sono [anche] reti di utenti come ecstasydata.org create per scambiarsi informazioni sulle partite di droga tracciabili: pasticche e trip principalmente, ma anche altro. Lo spiega molto bene lo spacciatore-hacker che vende nel deep web.

Sì, una delle interviste— forse tra le più interessanti— ne parla nel dettaglio. Dici che il deep web è davvero il futuro dello spaccio?
Sì, secondo me è la nuova frontiera. Se ci pensi, lo spaccio DIY è iniziato con i carichi di hashish dal Marocco o dall’India negli anni Settanta e Ottanta, ma parliamo di due generazioni fa. Poi i paesi confinanti hanno aumentato i controlli, allora negli anni Novanta si è andati sulla rotta delle droghe chimiche prodotte in nord Europa. Ma anche in questo caso, sostanze che prima erano legali—come la ketamina—sono diventate illegali.

Chiaro. Ne parlavamo anche in rapporto ai rave, la tecnologia che si è sviluppata ultimamente è una variabile non da poco.
Eh sì, prima degli anni Novanta gli scambi avvenivano fisicamente nelle piazze delle città. Poi i cellulari e gli smartphone hanno cambiato tutto. Con l’automatizzazione dei bazar della darknet siamo a un livello ancora più avanzato, in cui valgono più le logiche hacker che quelle di strada. Ora la merce viaggia in pacchi postali anonimi.
di Antonella Di Biase
Zero.eu, 19 novembre 2019 Lo spaccio indipendente è etico
Comincio con un altro libro, Works di Vitaliano Trevisan, in cui l’autore racconta tutti i lavori che ha fatto dall’adolescenza alla maturità di scrittore (tenendo conto della frase conclusiva che recita: “tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto di invenzione”). Geometra, costruttore di barche a vela, lattoniere, magazziniere, e una sequenza incredibile di altri mestieri, tra cui lo spacciatore di acidi. “A chi si chiede cosa c’entrino gli acidi con il lavoro, dirò che, contrariamente a quanto si crede, spacciare è un lavoro a tutti gli effetti. […] È un lavoro come tanti altri, un commercio che obbedisce alle stesse fottute regole di mercato. Nel nostro Paese, e anche in molti altri, solo la profonda e inestirpabile ipocrisia di stampo cristiano-cattolico che, fin dalla più tenera età, sclerotizza i cervelli della maggioranza, fa sì che talune sostanze siano bandite dal mercato, e altre, altrettanto devastanti, liberamente vendute. Il mercato però ha sempre obbedito solo a se stesso. Proibire la vendita e l’uso di una qualsiasi sostanza non ottiene altro effetto che costringere all’illegalità un mercato che comunque continuerà a esistere, con tutte le conseguenze del caso”. Due o tre cocktail Martini ben fatti notoriamente producono una perdita di controllo più potente di due tiri di canna o di coca, ma il barista e il produttore di gin sono considerati persone normali o in certi casi piccoli eroi dello star system, mentre il pusher (o anche un coltivatore di maria in vaso) è il delinquente per antonomasia. Ovviamente in molti casi lo è, perché il proibizionismo alimenta il mercato controllato dalla criminalità organizzata. Ma esiste un milieu di pusher indipendenti, che vendono acidi, pasticche, ketamina, MDMA, speed, oppio ed eventualmente erba e fumo, che riesce a restare fuori dal traffico mafioso, concentrato soprattutto sul monopolio di eroina e cocaina. Pablito el Drito, storico attivista milanese autore di Once were ravers e Rave in Italy, ha dato voce a dodici storie di pusher appartenenti a questo universo variegato, fatto di sostanze, ambienti e mezzi in parte contigui, in parte completamente diversi tra loro, dagli ultimi sprazzi freak all’avanguardia hacker. Dal coltivatore diretto di erba che arriva a manipolare gli incroci genetici per produrre le specie con un preciso equilibrio di alcaloidi al Robin Hood dell’oppio che ruba i papaveri nei campi spagnoli o cechi destinati a rifornire grandi multinazionali farmaceutiche come la Bayer per rivendere la sostanza a prezzi onesti. Dal navigatore del darkweb, che compra in bitcoin e al tempo stesso diffida della parte capitalista dell’anarcocapitalismo, al piccolo dealer di speed che rifornisce una clientela composta soprattutto da medici e infermieri, passando dal piccolo chimico che impara a cucinare MDMA con l’olio di Sassofrasso. Quasi tutti hanno cominciato a vendere le sostanze che consumavano, non a fini di lucro, ma per coprire le spese dei propri esperimenti. Poi qualcuno ne ha fatto un vero e proprio lavoro, mentre altri, magari vivendo una vita di squat, rave o di ritiro agreste a basso consumo, ha continuato ad autoprodurre o a “muovere” piccolissime quantità di sostanze, il minimo indispensabile. Ed essendo quantità poco ingombranti, la logistica si semplifica: è facile muoverle imboscandole nei condotti di aereazione dei furgoncini, nelle lettere postali, ma anche ingoiandole o infilandosele su per il culo, un classico. Tutti rivendicano un alto standard etico, fondato su due elementi principali: il controllo sulla qualità della sostanza e la filiera produttiva e l’estraneità a circuiti violenti e mafiosi (qualche volta è possibile cogliere, in questa sorta di confessioni, persino una sfumatura razzista sui meridionali, simili ai messicani di Winslow ma in versione soft). “Il rifornimento di speed funziona in maniera diversa da quello della coca, in cui arrivano bancali di merce mossi da mafie internazionali, servizi segreti, militari. I laboratori sono piccoli, spesso vengono smontati e rimontati, le quantità che producono sono anche molto diverse”. Gli indipendenti hanno clienti-amici, aficionados, o compagni di rave e feste, non anonimi, quindi non tagliano – se non il necessario per scongiurare pericolosi eccessi di purezza -, non rubano sul peso, non tirano pacchi, vendono a prezzi onesti. “Posso dire di essere stato etico, gentile ed elegante. Certe volte, se le droghe erano troppo buone, per evitare di tagliarle, spiegavo ai clienti come usarle. A momenti gli davo il libretto di istruzioni!”. La piazza migliore in Italia è Milano: “il primo motivo è che c’è una richiesta di sostanze molto alta trasversale, sia nell’età che nelle categorie sociali. É una piazza molto più simile a Londra che a Napoli. Dagli avvocati ai muratori si fanno tutti le stesse droghe, più o meno”. Quindi anche su questo fronte la città è l’avanguardia di una società che, come dice Pablito nell’intro, è sempre più drogata, dove l’addiction è una norma più che l’eccezione: “C’è chi ogni giorno fuma due pacchetti di sigarette, ingurgita cinque o dieci caffè e tracanna con nonchalance quattro Negroni. Chi la mattina va di antidepressivi e la sera di benzodiazepine. Chi assume Viagra o Cialis per migliorare le proprie performance sessuali. Chi fatica tutto il giorno e non vede l’ora di buttarsi sul divano con un joint in bocca. Chi si bomba di steroidi o anabolizzanti per diventare più muscoloso. Ci sono insospettabili impiegati che usano eroina da anni. Aviatori che volano per trentasei ore filate usando pillole up e poi, rientrati alla base, pillole down. Manager, ma pure artigiani, cuochi e baristi (nella mia esperienza i più accaniti) che si fanno di coca fin dal mattino, lavorano in maniera ossessiva per dodici-sedici ore e poi spengono il cervello sovraeccitato a suon di anseolitici”. Il confine tra ciò che è più o meno dannoso, crea maggiore o minore dipendenza, è più o meno accettabile, è una delle cose più arbitrarie che esiste. Le leggi che regolano la materia, in aperta contraddizione con il buonsenso sociale ed economico, sono il frutto di battaglie simboliche e interessi non trasparenti. Urge una svolta antiproibizionista.
di Lucia Tozzi
Facebook, 18 novembre 2019 Diversamente pusher
Nel libro Diversamente pusher, Pablito el drito, già autore di Rave in Italy e Once were ravers. Cronaca di un vortice esistenziale, svela un mondo di piccoli spacciatori “anarchici”, legati ingenuamente agli ideali di pace, amore ed espansione della consapevolezza della controcultura all’opposto dei cliché abituali che lo accantonano al meglio alle multinazionali mafiose con i loro “soldati” criminali e al peggio al problema psichiatrico delle tossicodipendenze da droghe legali e illegali sempre più diffuse (secondo il XXI rapporto dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze attualmente il mercato della droga ha un valore di 24 miliardi di euro). “Sono le classi subalterne – scrive l’autore – a essere le principali vittime delle dipendenze dalle droghe pesanti, a causa di minor accesso all’istruzione, al reddito, all’assistenza sanitaria. I ricchi, anche se si drogano più dei poveri, consumano sostanze di miglior qualità, meno tagliate e quindi in teoria meno dannose. Inoltre avendo più risorse, sicuramente materiali ma spesso anche culturali, possono accedere a cure impensabili per le classi medie proletarizzate, per i lavoratori poveri, per i precari a vita.” Il libro Diversamente pusher, dando la voce ai “battitori liberi dello spaccio” e ai loro racconti s’inserisce nella ricerca etnografica sul campo e a una specie di mutazione che la porta su strade soggettiviste radicali: etnografi come David Hayano, proveniente dal mondo del gioco d’azzardo (Poker Face, Berkeley 1982), Carlos Castaneda con il suo primo libro del 1979 dedicato all’insegnamento ricevuto da uno stregone yaqui che lui chiama Don Juan, Tobias Schenebaum, pittore di professione che finisce con il diventare etnografo della tribù degli Akarama (Sono stato un cannibale, Longanesi, Milano 1978), Susan Krieger, attivista di una comunità femminista (The Mirror Dance, Philadelphia 1983), Philippe Bourgois, antropologo e ricercatore americano, che a metà degli anni novanta decise di vestire i panni dello spacciatore e di scendere nelle strade dei ghetti ispano-portoghesi di New York (Cercando rispetto, Drug economy e cultura di strada, DeriveApprodi, Roma 2005) sono tra i principali autori che si possono citare per illustrare la tendenza radicale della nuova etnografia. A differenza degli anacoreti della scienza che non utilizzano il proprio corpo e le proprie emozioni come strumento di ricerca, anche con la nuova etnografia a cui approda il libro Diversamente pusher di Pablito el Drito, attivista, storico delle controculture e dj, si produce un sensibile spostamento: invece di verificare delle ipotesi da dimostrare o respingere con esperimenti, si parte dall’esperienza vissuta per elaborare delle ipotesi. L’inchiesta, condotta “sul campo”, è una mina per la riflessione sulle disastrose condizioni demagogiche, repressive e spettacolari legate allo spaccio, all’acquisto, all’uso e al consumo delle droghe legali e illegali. L’imperativo auto-imposto di “diventare uno di loro” consente all’autore di produrre uno straordinario esempio di letteratura sociale.
di Gianni De Martino
tonyface.blogspot.com, 14 novembre 2019 Diversamente pusher
Un libro che affronta nel modo migliore un argomento particolarissimo: lo spaccio di sostanze curato dai "battitori liberi", lontani dal circuito mafioso, indipendenti, con un'etica personale non esclusivamente utilitaristica. I pusher (anonimamente, ovviamente) raccontano le tecniche, le modalità, le particolarità di un mondo di cui si parla il più delle volte a vanvera e per "sentito dire". Sono racconti di donne e uomini che hanno vissuto o vivono tuttora nel milieu della droga, consumandola ma soprattutto vendendola, cercando di hackerare o aggirare le regole del sistema mafioso. Testimonianze che palesano odio per la gerarchia, per le ipocrisie dei benpensanti, per il comando, lo sfruttamento, la violenza. Il tutto contestualizzato ad una SOCIETA' DROGATA che cerca disperatamente di aumentare le proprie performance, in uno scenario turbocapitalistico che impone di essere sempre "preso bene", attivo, positivo", "sul pezzo". Dove è necessario essere sempre connesso e iperveloce dove tutto funziona sette giorni su sette, 24 ore su 24 e dove è indispensabile riuscire a stare dietro ai tempi delle macchine. Sono le classi subalterne, così come è sempre stato, a essere le principali vittime delle dipendenze dalle droghe pesanti, a causa di un minor accesso all'istruzione, al reddito, all'assistenza sanitaria. I ricchi consumano sostanze di migliore qualità, i più abbienti possono accedere a cure impensabili per le classi medie ploretarizzate. Opera particolarissima e interessantissima.
di TonyFace

Questo sito utilizza i cookie per migliorare la tua esperienza. Cliccando su qualsiasi link in questa pagina, dai il tuo consenso al loro utilizzo.

Non usiamo analitici... Clicca per più informazioni